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Autore: Alarnis    28/02/2021    4 recensioni
"Quel giorno fu lei a restare ferita, solo ora se ne rendeva conto."
Genere: Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Quando Berta filava

 
Un tenerissimo e spontaneo abbraccio di Nicandro accolse l’arrivo di Lavinia nell’intimità delle stanze padronali, sorvolando sulla presenza del soldato Mavio che era con lei. Il soldato si limitò a augurare il buongiorno al giovane Montetardo che contraccambiò con un breve scambio di battute, informandosi sulla ferita che segnava il viso del soldato all’altezza dell’orecchio sinistro. Lavinia ospitò Nicandro sotto la sua ala protettiva in quella cornice dai toni rosso e oro, a cui Gregorio non aveva ancora fatto l’abitudine.
Per lui, dimorare nell’espugnata Rocca Lisia continuava a metterlo a disagio; a nulla era servito rimuovere e bruciare gli arredi strettamente personali dei Chiarofosco. “Non voglio più vedere un volto di Charofosco!” aveva aggredito i servi, mettendo in chiaro chi ormai li comandava. Il suo stesso braccio aveva provveduto ad alzare una torcia e attizzare il fuoco che li avrebbe estirpati.
Una fastidiosa sensazione gli guastava il volto, alzandogli una narice in una smorfia, quasi le mura fossero pregne dei sospiri degli antenati di Ludovico o forse era il solito disgusto per le smancerie dei propri congiunti.
Vide Mavio accostarsi alla porta, eclissando la propria presenza dai loro discorsi, fin tanto non venisse nuovamente richiesto un incarico.
Il calore profuso da Lavinia e Nicandro parve alleggerire l’aria di quella stanza composta e gradevole, in cui il fuoco brillava e crepitava con armonia nel camino; la cui grandezza riempiva l’intera parete in cui era collocato: parte incassato, parte di poco sporgente. Gli arredi erano pochi ma pregiati, di un gusto raffinato e probabilmente frutto di meticolosa ricerca tra gli abili artigiani: un lungo tavolo scuro levigato a specchio accoglieva in sé quattro sedie dal lungo schienale, accoppiate a due a due, parallelamente ai lati lunghi, invogliando la conversazione, sia erudita quanto frivola.
“Ho contato gli istanti dalla tua partenza.” confidò Nicandro a Lavinia, mentre lei lo accompagnava a prendere posto su una cassapanca, dallo schienale e dal piano addolcito da morbidi cuscini, negli stessi toni delle pareti dipinte a quadrettoni rossi su sfondo laccato color crema. Gli occhi acquamarina del ragazzino non si staccavano dal profilo del viso statuario di lei, come soggiogati. Lavinia, pur non eguagliando lo zotico cugino di Nicandro, era diventata come una sorella per il ragazzino: l’unica presenza in grado di attenuarne la solitudine a cui era costretto. Gregorio stesso l’ammirò: i bruni capelli lasciati ricadere sulle spalle, portati all’indietro lasciavano scoperte guance e fronte facendo risaltare gli occhi marroni, indecifrabili. Colse in lei una bellezza nuova, come se il suo sguardo serio avesse maturato in consapevolezza durante l’ultima missione e i suoi imprevisti, rendendola ancor più determinata di quanto già non dimostrasse solitamente. Mavio sembrava attribuirle ogni giorno di più autorità e più volte a Gregorio, al loro arrivo, era parso si fosse morso un labbro per non intervenire in appoggio al resoconto del suo comandante, Lavia, come la chiamavano i commilitoni.
Lavinia e Nicandro rimanevano seduti una di fronte all’altro, tenendosi vicendevolmente le mani, mentre la luce del tardo mattino entrava ovattata dalle finestre alte e strette dai vetri piombati in cerchi, come fondi di bottiglia. Affezionati oggi, come dal primo giorno.
“Non dovevi temere. Sono tornata!” accordò spavalda Lavinia, annuendo. “Sana e salva, ne dubitavi?” sorrise, con quell’aria composta che la faceva somigliare a una dea, le labbra sottili quasi imbronciate.
“Temevo, per voi.” si scusò Nicandro, la voce bassa, mortificata, guardando Lavinia e portando lo sguardo anche su Mavio.
“Il tuo consiglio mi è risultato prezioso.” confidò lei: le guance si alzarono in un sorriso quanto si ravvivò il colorito di Nicandro, imbarazzato di quella confessione che ne riconosceva il merito. “Siamo in dovere di ringraziarvi.” intervenne anche Mavio, sentendosi chiamare in causa: abbassò il viso con rispetto.
“Dovere.” accordò Nicandro con voce sollevata e un respiro liberatorio mentre poneva le mani al petto, prima che Gregorio rompesse ironicamente quell’idillio sottolineando “E così noi dovremmo essere i cattivi.”. Lo disse accomodando verso l’orecchio un ricciolo bruno della sorella, raccogliendo l’attenzione dei presenti a cui volle togliere la scena.
“Credo Ludovico si avvantaggerà di questo pensiero!” convenne pragmatica Lavinia, chiara e diretta. Appena scesa da cavallo aveva informato della lealtà dei contadini a Ludovico.
Le iridi acquamarina di Nicandro si alzarono verso di lui, forse a giudicare la sua retorica, cui tuttavia non osò intervenire; del resto lo sbattere improvviso dello sgabello sul patibolo per dar aria alle gambe dei traditori non era testimonianza di magnanimità. Diciamo che Nicandro non aveva propriamente uno stomaco forte per certe visioni, rifletté divertito.
Lavinia proseguì argomentando “I contadini giudicano la bontà delle guerre solo in relazione ai raccolti.”: gli occhi fattisi sottili le corrugarono la fronte quasi trovasse difficile palesare un ragionamento tanto lampante.
Gregorio dondolò il capo, il mento alzato a ragionarci su.
“Anche tu la pensi così sui contadini, Nicandro? Dovresti conoscere il loro pensiero.” ironizzò sgradevole, mentre Nicandro si irrigidiva e sviava lo sguardo indirizzandolo a terra muto, sapendo fosse meglio incassare che ribattere; che lo fosse stato o che ne conoscesse sapeva fosse meglio tacere, come rinfacciare le stesse umili origini di Gregorio.
Di certo il ragazzino ne conosceva uno particolarmente caparbio.
“Sono dei codardi.” sentenziò Gregorio: le labbra pronunciate come se fosse cosa ovvia. Il riferimento a Moros era indubbio. Un’antipatia reciproca li aveva accomunati dal primo giorno, ma pur spavaldo, era stato costretto a fuggire: l’unico merito che gli si poteva attribuire. “Del resto è fuggito da solo...” cantilenò, facendo impallidire Nicandro per una ferita che ancora gli bruciava l’animo nel sentirsi abbandonato. La frase non fece in tempo a imbarazzare Mavio e freddare Lavinia, il cui voltò si tirò che Nicandro si alzò di scatto “Rapire un Montetardo, l’avrebbe condannato a morte. Del resto è questo che volevate ottenere… Bastiano non ci è riuscito, vero?”, mettendo in chiaro il legame stabilito da Guglielmo e quanto ancora confidasse in Moros. Non un sorriso spavaldo ma quasi un principio di lacrime.
Non ci mise due volte ad aggredirlo, colpendolo in viso e scaraventandolo a terra, mentre Lavinia interveniva frapponendosi tra loro “Non osare un gesto di più.” levò il dito aggressiva mentre Mavio si preoccupava di aiutare Nicandro a tornare in piedi.
Gregorio d’autorità smorzò il dito della sorella abbassandolo “Dovrebbe sapere di frenare la lingua, anche se sì, vedrei volentieri Moros sulla forca.” spiegò, mettendo in dubbio la lealtà di Lavinia “Vedo che per Nicandro sarebbe un problema, mi chiedo non lo sarebbe anche per te.”.
“No!” rispose secca Lavinia “Moros non è una mia priorità!” mise in chiaro: gli occhi freddi, sicuri di da che parte stare.
“Ho sottolineato l’evidenza.” concesse tregua a Nicandro, avvicinandosi per sistemargli la stoffa stropicciata del farsetto, che ricompose perfetto.
“Facciamo i buoni.” consigliò. Non solo per Moros aveva antipatia, era evidente.
Ludovico voleva giocare? Avrebbero giocato! Ma non avrebbe fatto lui la parte del cattivo. Era troppo banale rifletté Gregorio, sfiorando con l’indice il sottile e lungo baffetto che gli separava le labbra dal curato pizzetto che gli sagomava il mento poco sotto le guance, dello stesso colore biondo castano dei capelli; la fronte alta, resa ampia da una pronunciata stempiatura che tuttavia evidenziandone gli occhi verde smeraldo gli conferiva un fascino altero.
I contadini avevano paura degli orchi cattivi ma lui non avrebbe fatto quella parte e neppure il biondo Ludovico non sarebbe stato il bel principe azzurro.
“C’era una volta…” ricordò la curiosità che innumerevoli volte aveva suscitato in lui quella frase, mentre la vecchia Berta filava nel tepore della cucina del castello di Raucelio. Eppure il giorno in cui Guglielmo aveva salvato Nicandro, non si era soffermato ad ascoltare le storie di quella vecchia, perché già sentiva descrivere ovunque Guglielmo, eroe; elogiato come esempio da imitare.
Era entrato correndo come una furia nella vaporosa cucina, dove gli aromi delle spezie, di cipolla, solleticavano il naso, curioso di dove fosse stato sistemato il fanciullo salvato.
Là non l’aveva trovato, pur cercandolo tra i giacigli dei servi, che aveva scoperto arrogante, sollevando le paglie che facevano da materasso.
Il pesante cinghiale arrostiva intanto sullo spiedo: già dipinto come un drago nel chiacchiericcio dei corridoi.
Berta aveva sollevato il viso dall’arcolaio per guardarne il colorito intenso delle guance che Gregorio sfoggiava dopo la corsa. Il perpetuo giro della grande ruota non era cessato, continuando ad imprimere una rapida e lunga rotazione alla canocchia, così da unire in un trefolo una buona quantità di filo di lana.
“Posso aiutare, mio giovane signore?” aveva detto Berta, con voce servile, rispondendo pacata ai suoi curiosi e altrettanto isterici ed insistenti “Dov’è? Dov’è?”, ignorando la confusione che il suo ingresso aveva provocato nell’evasione degli incarichi delle sguattere.
Lui, ben lontano dall’avvicinarsi al fuso per paura di pungersi, aveva allargato snervato le braccia impaziente “Il fanciullo. Dove l’avete messo?” e afferrato un grosso pezzo di pane, caldo e appena sfornato, lo aveva divorato, sbriciolandone in giro come suo solito. Dove l’avete messo? come fosse stato una cosa.
“Non è qui.” aveva risposto cortese Berta, da sotto la cuffia immacolata che le tratteneva i capelli grigi quasi sollevandolo di quella certezza: non è qui.
Ma… Il tuc tuc meccanico era rallentato fino a cessare, mentre la voce di Berta rivelava, come proveniente da uno specchio incantato, avverso e inclemente, quello che sembrava per lui, a tutti gli effetti, un infausto presagio “E’ nelle stanze del padrone.”: una voce così rispettosa, quanto impertinente.
Non aveva avuto dubbi! S’era recato nelle stanze di Guglielmo, perché là era il fanciullo, tra materassi di piume e lenzuola profumate.
Aveva dunque fatto capolino dalla porta: una porta pesante, dalle bordature di scuro ferro, quasi quella d’una caverna fatata che voleva trattenere i propri segreti.
E lì lo vide. Dormiva, nel biancore del latte delle lenzuola, come il personaggio d’una fiaba, protetto da luci e rumori dalla cornice del baldacchino da cui scendevano stole di tessuto, trattenute da cordoncini miele. Anche Guglielmo al capezzale s’era assopito.
Cauto, si era avvicinato: i piedi che si spostavano felpati per non fare alcun rumore. Fu come guardare un unicorno bellissimo tramutato in umano, del biancore della luna. Neppure i bendaggi alla spalla osavano offuscarne il fascino.
Neppure i sedativi inficiavano il respiro regolare che infondeva pace alla stanza.
Gregorio non aveva avuto il coraggio di disturbare finché non aveva notato il contatto tra quelle due mani… La grande mano di Guglielmo poggiata su quella più piccola del fanciullo.
Il subitaneo progetto di staccarle per puntiglio, per gelosia, non altro sentimento, perché non provava affetto per Guglielmo: un uomo che non avrebbe mai potuto sostituire un padre deceduto troppo presto.
Un farfugliare, tra le sottili labbra del colore di un tenero bocciolo di rosa, nel momento in cui procedeva a separare con cautela le loro mani.
“Nobile aquila.” mugugnò il fanciullo nell’involontaria stretta del suo protettore. Erano parole dettate da chissà quale arcano mistero, che Gregorio non poté far a meno di scolpire nel proprio animo, tanto erano curiose.
Accolte, ancor più, con sorpresa quando, medesime, erano state pronunciate da re Bressano come lode alla lealtà di Guglielmo nell’atto di attribuirgli quella stessa immagine simbolica: un’aquila.
Certo era che i contadini credevano nelle favole, nei buoni e nei cattivi, ma il punto era… il buono poteva essere lui?
   
 
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