Capitolo
III
Si
stava passando lentamente lo strigile sulle sue gambe. Uno dei pochi
aspetti
positivi di essere un combattente dell’arena era la
possibilità di lavarsi
spesso, con acqua calda e liscivia, nei casi più fortunati
con del sapone. Un
autentico lusso, poiché solo le persone più
abbienti delle diverse città si
potevano permettere un piccolo bagno privato. La maggior parte della
popolazione si doveva accontentare di lavarsi in rozze tinozze di
legno, una
volta alla settimana, ad essere fortunata; oppure al fiume, se ne
scorreva uno
nelle vicinanze dell’abitato. Si cosparse il corpo con olio
profumato; amava
prendersi cura di sé stesso in quel modo, non per
vanità o per narcisismo, ma
perché era conscio che l’unico modo, per
sopravvivere in quel mondo, fosse
curarsi e allenarsi costantemente. Indossò una tunica
leggera di lino grezzo e
si avviò verso la sua cella, era del tutto sicuro che il suo
schiavista lo
stesse aspettando lì. Infatti, lo trovò che
passeggiava nervosamente davanti al
suo tugurio. Proseguì noncurante, non era la prima volta che
lo vedeva in
quello stato; non sarebbe stata la prima volta che lo avrebbe
minacciato di
morte o di sottoporlo a chissà a quale tortura. Era avvezzo
al suo sbraitare
spropositato, alle sue grida piene di vuote minacce, al suo fingersi
padrone
della situazione, quando in realtà era solo ostaggio del
volere dei suoi
clienti. Notò che, nella sua mano destra, aveva il bastone
di legno che usava
per picchiarlo, quando era troppo svogliato durante gli allenamenti. Si
fermò.
Era inutile proseguire oltre, non glielo avrebbe permesso.
«Tu,
figlio di puttana, per colpa tua rischiavo di morire.»
«Respiri,
parli e la tua testa si trova ancora attaccata al corpo.»
«Sei
una macchina della morte! Tu devi uccidere in modo spettacolare e non
intrattenere il pubblico con un balletto improvvisato.»
«Io
faccio quello che mi pare e piace. Non quello che vuoi tu!»
«Lurido
schiavo, come osi rivolgerti al tuo padrone in questo modo? A quanto
pare non
ti ho inculcato abbastanza educazione.» Si
apprestò a colpirlo con la mazza.
Chiuse
gli occhi pronto a ricevere il colpo, ma non arrivò mai. Li
riaprì, una scena
strana gli si parò davanti. Uno sconosciuto tratteneva per
il polso il suo
padrone.
«Non
si tratta così un proprio sottoposto, specialmente dopo che
è uscito vincitore
da una faticosa battaglia.»
«E
tu chi sei? Come hai fatto ad entrare qui? E poi, non sono cazzi tuoi,
come
tratto i miei schiavi. Ci faccio quello che mi pare con loro.»
«Ah,
sì?» Ironizzò lo sconosciuto.
«Gli
ho dato cibo, un tetto, uno scopo. Hanno l’obbligo di fare
ciò che gli ordino.
Ho il diritto di trattarli come meglio credo.»
«Che
uomo caritatevole! Quanta magnanimità concentrata in un
corpo così piccolo.
Devo segnalarti al Re come miglior suddito
dell’anno.»
«Tieni
a freno il tuo sarcasmo. La schiavitù non è
proibita in questo regno, perciò
non faccio nulla di illecito.»
«E
avresti ragione, se tu lo avessi regolarmente comprato al mercato degli
schiavi. Ma non è così, vero?»
«Come
osi dire una cosa del genere? È ovvio che l’abbia
comprato al mercato.»
«Ah,
sì? Quale? E quando?»
«Mercato
di Laxos, quindici anni fa.»
«Laxos
eh? Pensi che sia uno sprovveduto? Il mercato degli schiavi non
è più attivo da
oltre vent’anni lì, da quando un terribile
maremoto ha distrutto la città.
Pensavi forse, che nominare una città, la quale si trova a
migliaia di leghe da
qui, ti avrebbe salvato? Stolto!»
Lo
schiavista sbiancò.
«Nessuno
in questo Regno sa di questo avvenimento.»
«Allora, lo hai
acquistato o no?»
«Io…»
«Tu…»
«Non
sono affari tuoi! Questo è il mio schiavo. Ho un regolare
contratto che lo
dimostra!» Urlò, cercando di ritrovare la sua
solita baldanza.
«Un
regolare contratto, eh? Allora, diciamo che se fossi vagamente
interessato,
potresti vendermelo...»
Il
vecchio scoppiò a ridere.
«Tu
sei un pazzo, credi che potrei mai vendere il mio miglior combattente?
È una
macchina da soldi, non lo venderei per nessuna cifra al
mondo.»
«Neanche
per ventimila scudi d’oro?»
L’uomo
deglutì rumorosamente. Quello sconosciuto era veramente
disposto a spendere
così tanto? Non era possibile, bleffava.
«Cinquantamila.»
«Affare
fatto.» Rispose
prontamente.
Lo
schiavista ed il giovane combattente guardarono lo sconosciuto
basiti. Aveva appena dichiarato di
essere
disposto a spendere cinquantamila scudi, senza battere
ciglio; l’equivalente della rendita delle terre di un anno
del re. Chi era
costui per potersi permettere una cifra del genere? E perché
si era dimostrato
così interessato a Caesar? Lo schiavista lo
guardò diffidente. Non era affatto
convinto della bontà di quell’affermazione.
«Dimostrami
che hai cinquantamila scudi
d’oro.»
Lo
sconosciuto prese un campanellino dalla sua tasca e lo fece
suonare. Poco dopo, entrarono due uomini trasportando un forziere, che
aveva
l’aria di essere molto pesante. Lo depositarono davanti al vecchio incredulo e lo
aprirono. Conteneva una quantità
spropositata di monete d’oro.
«Abbastanza
convincente come prova?»
«Chiedo
venia per aver dubitato di voi, signore. Sono solo un
umile schiavista, abituato a misurare la vita in base alle esperienze che ha vissuto,
e non in base alla forza delle parole e del comportamento di una
persona.»
«Accetto
le scuse. Ora
il contratto.»
L’anziano
uomo richiamò un altro suo schiavo, il quale accorse
prontamente.
Lo fece avvicinare al suo orecchio,
dandogli delle istruzioni. Subito
dopo, lo vide arrivare con un volumen, che
consegnò direttamente al compratore, il quale
lo esaminò con interesse.
«Sembra tutto in regola. Il forziere
è
suo, mentre lo schiavo viene via con me. È stato un
piacere.»
«Oh,
il piacere è stato tutto mio. Se dovesse
essere interessato, ho altra
merce che le potrei
mostrare.»
«No,
grazie. Tutto ciò che mi serve è
già nelle mie mani.» Si voltò e prese
l’uscita, seguito
a ruota da Caesar e dai suoi servitori.
Durante
tutto il percorso, che portava verso l’esterno, nessuno disse una sola
parola. Il misterioso compratore
sembrava più interessato ai cicli di affreschi, che
decoravano il corridoio che
portava sia all’esterno dell’anfiteatro, che al
palco d’onore. Mentre, il
guerriero sembrava assorto nei suoi pensieri. Si chiedeva il motivo,
per il
quale quella persona ignota, avesse speso quella cifra spropositata per
acquistarlo. Era bravo, ma non valeva tutto quell’oro. Non
sarebbe mai riuscito
a fargli recuperare tutto quel denaro. Si grattò
nervosamente tra i capelli
rossi; usava farlo solo quando era particolarmente pensieroso o nervoso.
Tutta
quella fiumana di gente che camminava per strada lo
disorientava. Era abituato alla folla, ma di
solito era ben distante sugli spalti. Raramente gli capitava di
camminare in
pieno giorno tra le persone affaccendate. Per lo più, le sue
uscite avvenivano
di notte, quando la città dormiva, per godersi quei pochi
attimi di pace e
serenità, che gli erano concessi. Lo seguì a
fatica tra gli stretti vicoli
della città; per essere un uomo di una certa età
si destreggiava molto
abilmente tra la gente. Ad un certo punto, lo vide fermarsi in una
viuzza poco
frequentata. Con un gesto della mano lo invitava ad avvicinarsi, mentre
con
l’altra faceva suonare il campanellino.
Si fermò
a pochi passi da lui.
«Che
fai li impalato?»
«È
inappropriato che uno schiavo si avvicini al suo padrone.»
«Tu
non sei un mio schiavo!»
«Mi
ha comprato ed ha il contratto che mi lega a lei. Sono il suo schiavo.»
«Questo?»
disse tirando fuori il volumen
dalla sacca in cui lo aveva messo. «Non esiste
più.»
Strappò la pergamena in diversi pezzi e gettò i
resti in una pozzanghera di urina,
lì vicina. «Sei un
uomo libero.»
«Ma
cosa ha fatto?! Non potrò mai restituirle tutto quel
denaro.»
«Quale
denaro?»
«I
cinquantamila scudi d’oro che i suoi servi hanno dato al mio
ex-schiavista.» E si girò ad indicarli ma, con sua
sorpresa, questi erano
spariti. «Erano qui fino a qualche attimo fa»
mormorò.
Lo
sconosciuto scoppiò a ridere.
«Chi
stavi cercando?»
«I
due uomini che fino a poco fa erano con noi.»
«Oh,
loro due! Li ho
liberati
dall’ipnosi
qualche attimo
fa, quando ho suonato la campanella che ho con me. Non
male come trucco, eh?»
«Non
sono qui per parlare di trucchi da quattro soldi. Chi sei?
Perché hai pagato tutta quella cifra
per me? Come farò a ripagarti? Lo ripeto, non ho
nulla.»
«Hai
ragione. Sono proprio un gran maleducato!
Piacere, mi chiamo Davven e
provengo del Regno di
Atlas;
ti cercavo da tempo, Ioan.»
«Hai
sbagliato persona. Mi chiamo Caesar.»
«Nessun
errore! Sei tu quello che cercavo. Per
rispondere alle altre
domande, non preoccuparti, non ho speso tutta quella cifra per
riscattarti. Mai
avuta tutta quella somma in
vita mia!»
«Ah
sì? E tutti quegli scudi d’oro?»
«Un’illusione
creata dall’uso ipnotico del
campanellino, un trucco davvero
banale. Sono del
tutto sicuro che il suo effetto sia già svanito.
Ci conviene dirigerci il più velocemente possibile verso il
porto, prima che il
vecchio ci sguinzagli contro tutte le guardie della città.
Una nave sta
aspettando il nostro arrivo.» Cominciò ad
incamminarsi, ma riuscì a fare a malapena pochi passi,
poiché Caesar lo afferrò
per il polso, bloccandolo.
«Spunti
dal nulla, mi compri, mi liberi, dici di
provenire da un regno che
dista migliaia di leghe da
qui, affermi che il mio vero nome sia Ioan e
pretendi anche che io ti segua?»
Davven
sospirò. Il ragazzo aveva pienamente ragione.
Avrebbe
voluto dirgli di più, spiegargli come stavano davvero le
cose; raccontargli
perché ci aveva impiegato tanto per trovarlo,
ma il tempo stringeva. A convalidare quel presentimento ci penso la
campana
della guardia cittadina. Il trucco era stato scoperto prima del previsto. Lo schiavista aveva
mosso tutte le sue leve politiche per far
recuperare il suo prezioso combattente.
«Hai
perfettamente ragione!
Ti devo un sacco di spiegazioni. Ora, hai due
possibilità: fidarti di me, seguirmi e, una
volta giunti sulla nave, farmi tutte le domande del caso; oppure, rimanere qui e
ritornare alla tua vecchia vita.
Sai bene che le leggi di questo regno proteggono quei bastardi, che
mercanteggiano in vite umane. A te la decisione.» E si
incamminò.
Ioan
lo guardò allontanarsi. Poi,
lentamente, mosse il primo passo; successivamente, quei passi si
trasformarono in corsa, permettendogli di raggiungere il misterioso Davven.
Percorsero, nel modo
più veloce possibile, quell’intrico di strade e
viuzze, per giungere al
più presto al porto. Un
discreto numero di guardie era appostato sulla banchina portuale.
Sfuggire
sarebbe stato difficile, ma non impossibile.
«Perché
non ricorri ad uno dei tuoi trucchi?»
«Non
posso.»
«Cosa
vuol dire che non puoi?»
«Il
campanellino ha un’efficacia limitata nel tempo.»
«Che
razza di illusionista
da quattro soldi! Non sei
nemmeno capace di replicare i tuoi trucchi!?»
Davven
lo guardò di traverso. Nerboruto ed
insolente; avrebbe faticato ad
insegnargli le buone maniere.
«È
complicato,
ti darò tutte le
spiegazioni al momento giusto.»
«Quindi?»
«Quindi
useremo altre strategie.»
Prese un barattolo dalla sacca e lo aprì.
«Tieni, spalmati questo
colorante su quei capelli fulvi che ti ritrovi. Un altro tratto
somatico meno
appariscente no, eh?» Ioan lo guardò di traverso
ed eseguì, controvoglia,
l’ordine.
Gli
passò un altro contenitore, con una
diversa mistura.
«È polvere di carbone, mista a
grasso animale;
cospargila sul viso.»
«Perché
tutto questo?»
«Guardati
bene intorno. Abis è conosciuta per
essere una città con
una forte vocazione mineraria.
Quindi, non è raro
vedere minatori al porto, specialmente quelli di carbone; ti confonderai come se
fossi uno di loro.
Prendi
questo
mantello logoro, avvolgiti bene e cerca di coprire il più
possibile la tua
corporatura. Imita una camminata claudicante. Vedi quella nave con la
vela
quadrata rossa? È il nostro obiettivo. Ora va!»
«E
tu?»
«Non
ti preoccupare per me!
Inventerò
qualcosa. Sei tu quello che
cercano.»
Ioan
si avviò verso la nave,
non era a più di duecento metri dal punto in cui
si trovava. Normalmente,
avrebbe coperto quella distanza in pochissimi minuti, ma ora doveva
essere più
attento. Un passo falso, un’azione sospetta, avrebbe
attirato l’attenzione di tutte le guardie lì
presenti. Cominciò ad avanzare zoppicando vistosamente,
sperando che la sua
pantomima fosse credibile.
Era
a metà del suo percorso, quando si sentì
appellare da due
guardie.
«Hey
zoppo, fermati!
Dobbiamo identificarti!»
Accelerò
la sua andatura.
«Hey,
stiamo dicendo a te!
Fermati, o ti
riduciamo ad un puntaspilli!»
Si
bloccò, erano solo in due. Sarebbe riuscito a metterli fuori dai giochi in poco
tempo. Poi avrebbe dovuto
correre; la nave era vicina, le possibilità di riuscita non
erano scarse.
I
soldati erano quasi nelle
sue prossimità,
quando un boato si propagò per tutto il porto. Una densa
cortina di fumo bianco si alzò dal deposito merci, posto alla sua destra, a
centocinquanta metri circa. Le sentinelle
distolsero l’attenzione da lui, per cominciare ad accorrere
sul posto.
Approfittò di quel trambusto per dirigersi, il
più velocemente possibile, verso
la sua meta. Era quasi arrivato, quando si vide affiancato da Davven.
«Piaciuto
il diversivo?»
«Sei
stato tu?»
«Sarò
pur scarso come illusionista, ma sono un alchimista niente male! Quelle che hai appena visto
sono
due mie creazioni: una bomba esplosiva e
una fumogena. Carine, eh?»
Ioan
sorrise, quel tipo cominciava a stargli simpatico.
Salirono
sulla nave. Appena misero piede sul ponte, la ciurma
cominciò ad effettuare tutte le operazioni necessarie, per permettere alla nave di staccarsi
dalla banchina. Il
bastimento lasciò
tranquillamente il porto.
Respirò a pieni
polmoni l’aria di mare, profumava di libertà.