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Autore: SusanTheGentle    28/02/2021    6 recensioni
Questa storia fa parte della serie "CHRONICLES OF QUEEN"

Il loro sogno si è avverato.
Tornati a Narnia, Caspian e Susan si apprestano ad iniziare una nuova vita insieme: una famiglia, tanti amici, e due splendidi figli da amare e proteggere da ogni cosa.
Ma quando la felicità e la pace sembrano regnare sovrane, qualcosa accade...
"E' solo un attimo, al sorgere e al tramontar del sole, attimo in cui riescono a malapena a sfiorarsi....
Sempre insieme, eternamente divisi"

SEGUITO DI "Queen of my Heart", ispirato al libro de "La sedia d'agento" e al film "Ladyhawke".
Genere: Avventura, Fantasy, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Caspian, Susan Pevensie
Note: Otherverse | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Chronicles of Queen'
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Capitolo 37. Nella tana del nemico
 
 

La Strega scese nella cripta un’ora dopo che Mullughuterum se ne fu andato. Non era riuscita ad spettare un minuto di più, e non c’erano motivi per farlo. La Sedia d’Argento poteva attendere per una volta, i bambini non ne avevano un bisogno così urgente. Negli ultimi giorni erano apparsi molto più tranquilli, proprio come li aveva sempre voluti. Forse, presto sarebbero stati completamente soggiogati al suo volere e non sarebbe più stato necessario usare il congegno magico.
L’adrenalina scorreva come un fiume di elettricità nelle sue vene. In mano reggeva la sua bacchetta magica, scintillante d’oro nella luce rossastra della lanterna che teneva nell’altra e illuminava infinite rampe di scale che scendevano sempre più giù, sempre più giù.
Quand’ era arrivata nel sottosuolo a cercar rifugio, dopo la sconfitta nell'Oceano Orientale, il Castello delle Tenebre non esisteva. Al suo posto, la Strega aveva trovato le macerie di un'antica dimora. Gli abitanti l’avevano lasciata così in memoria di qualche re che ancora veneravano, vissuto centinaia d’anni prima. Ma la cripta, situata a un livello ancora più profondo delle fondamenta abbattute, era intatta.
Le catacombe si estendevano per centinaia di metri. Là sotto erano state sepolte generazioni di regnanti e nobili guerrieri del Mondodisotto, situati ognuno nella sua nicchia tra le fredde pareti di pietra. I defunti riposavano laggiù, ormai consumati e ridotti a mucchi d'ossa, alcune simili a quelle umane, altre appartenute a creature mai viste.
Ed ora, in mezzo ad essi, disteso su un monumento di pietra scura, c’era Edmund.
Tra i copri ormai decomposti, quello di un ragazzo ancora in possesso delle sue fattezze stonava come un gioiello in mezzo a un mucchio di sassi.
Jadis pensò a come sarebbe stato appagante scendere là sotto ogni giorno e vederlo decomporsi lentamente. Provò un piacere crudele mentre lo immaginava, misto a un lieve rammarico che i suoi fratelli non fossero lì a vederlo divenire il suo fantoccio più prezioso. Sarebbe stato delizioso osservare le diverse reazioni degli altri.
Jadis si sentiva libera ogni qualvolta rimandava il pensiero ai suoi nemici privi di vita, come se per tutti quei secoli avesse portato un fardello pesantissimo legato sulle spalle, ed ora se ne fosse liberata.
Si portò accanto al corpo del ragazzo, osservandolo per qualche minuto. Averlo alla sua mercé era un invito ad affondargli nel costato la punta della sua bacchetta, come già una volta aveva fatto, quando ancora non era il Giusto.
Ma non ancora. Più tardi di certo, per uno scopo diametralmente opposto.
Edmund era stato il fallimento che l'aveva segnata nell'orgoglio. Nemmeno la distruzione del regno di Charn l'aveva turbata tanto; e neanche quando Digory Kirke le era sfuggito, dopo che lei aveva tentato di persuaderlo a mangiare il frutto dell’immortalità; o ancora, quando non era riuscita a prendere il sangue del giovane Principe Caspian per tornare in vita. Niente di tutto ciò l'aveva fatta infuriare come il tradimento di Edmund Pevensie.
Ora era morto, e lei avrebbe dovuto gioirne e lasciarlo li a consumarsi in balia dei vermi. Eppure, no. E se all’inizio progettava di farne una perfetta esca per fratelli e amici, adesso che questi ultimi erano passati a miglior vita, egli poteva ugualmente darle soddisfazione strisciando al suo comando. Sarebbe stato altamente divertente osservarlo eseguire gli omicidi più atroci ch’ella gli avrebbe comandato.
Inoltre, oltre a Rilian e Myra, aggiungeva un altro membro della gerarchia reale di Narnia alla sua collezione, e al quale Cair Paravel non avrebbe mai negato di sedere su uno dei suoi troni.
La Strega posò sul pavimento la lanterna, per poter stringere la bacchetta magica con tutte e due le mani. Tese le braccia in alto, portandola proprio sopra il cuore del ragazzo. Chiuse gli occhi, rilassando i nervi, allargando i sensi. Immediatamente percepì nell’aria presenze invisibili solo a ei note, mentre iniziava a tessere una trama di incantesimi uno dietro l’altro, a bassa voce, come se temesse di spaventare le presenze. Ad ogni parola, uno strano sussurrare saliva di intensità dalle profondità ignote. Spettri di nero nulla iniziarono a volteggiare intorno, andando ad ammassarsi ai suoi piedi come cani fedeli. I sussurri venivano da questi, voci che incontravano quella della Strega, amplificandola, facendo rimbalzare il suono contro le pareti della cripta in una tetra eco mortale.
Il corpo di Edmund ebbe appena uno spasmo, ma Jadis non lo vide perché teneva ancora gli occhi chiusi.
Intenta nella sua arte, la Strega staccò una mano dalla bacchetta, andando a stringerla sulla punta affilata, contro la quale si provocò volutamente un taglio obliquo sul palmo. Con la mano ferita afferrò il braccio del giovane, e le due ferite vennero in contatto. Quella di Edmund divenne subito calda, già infiammata dall’oscurità penetratavi in precedenza.
La voce di Jadis si alzò di un tono ed ella riaprì gli occhi. Occhi di ghiaccio che si tinsero di un nero d’inchiostro.
Ora poteva vedere le forme vagare nell’etere, creature ombrate con volti di bestie che emettevano grugniti e ansimi, aspettando di avere un nuovo compagno tra le loro fila. Sentivano la magia e la Strega le invitò a lasciare ogni nicchia della cripta, chiamandole tutte a sé.
La bacchetta magica vibrò tra le sue dita, e la donna seppe che era il momento. Chiamò le ombre, ed esse risposero, innalzandosi da terra per attorcigliandosi come serpenti alla sua veste, sul dorso, sulle braccia, arrivando alla bacchetta magica. Vennero risucchiate in essa, tingendola di una non-luce violacea.
Adesso doveva affondare la punta nel cuore di Edmund, imprimendo all’organo, ora immobile, di tronare a battere, per poi svuotarsi completamente il corpo da ogni sentimento e volontà, e lei sarebbe stata in grado di controllarlo.
Calò la lama sul corpo del giovane, ma qualcosa di inaspettato accadde.
Edmund spalancò gli occhi all’improvviso, con gli arti intorpiditi ma con la mente perfettamente sveglia e vigile.
Per un millesimo di secondo, il ragazzo e la Strega si trovarono a fissarsi, e nello stesso secondo, in un riflesso fulmineo, lui alzò le braccia per fermare quelle di lei. La donna era molto più forte di lui, soprattutto in quel momento, così Edmund rotolò di lato, liberando anche il braccio dalla morsa dell’altra mano di lei. Scivolò giù dal monumento sul quale era disteso, trovandosi a terra dietro di esso, nascoso alla sua vista.
La bacchetta magica colpì la pietra invece del corpo, e il rituale si interruppe bruscamente. Le ombre scivolarono fuori dalla bacchetta con un lamento, disperdendosi, tornando rabbiose ad occupare il loro posto nella cripta.
Edmund si rialzò con una certa fatica, i muscoli ancora induriti dalla bevanda della morte. Non capiva cosa succedeva, il perché si trovava lì invece che con i compagni.
Ma il suo stupore non era nulla confronto a quello della Strega.
Il viso di lei era una maschera di stupore e collera. Tutto si era aspettata, tranne questo. Il ragazzo si era risvegliato prima che l’incantesimo fosse finito. Come?
Il rituale serviva a destare i defunti, perciò c’era una sola spiegazione: era stata ingannata, e per tutto il tempo, Edmund non era mai stato nemmeno lontanamente vicino alla morte.
Jadis non seppe spiegarsi in che modo avessero attuato quell’inganno, ma non le ci volle nulla per capire che se Edmund era vivo, lo erano anche gli altri.
Con passo sicuro, senza tradire la collera che ribolliva in lei, Jadis aggirò il monumento di pietra, avanzando minacciosa verso il ragazzo.
“Non riesco a spiegarmi ciò che ho davanti” disse. “Dovresti essere morto”.
“Ti è andata male”. Edmund indietreggiò d’istinto, sbattendo contro una delle numerose tombe. Il braccio ferito mandò una fitta terrificante.
Gli occhi della Strega, tornati color ghiaccio, saettarono in quella direzione. Ella vide attraverso la stoffa strappata della camicia che, nonostante il rito incompleto, il suo sangue a qualcosa era servito. L’oscurità rispondeva alla magia appena evocata. Edmund poteva ancora essere suo, anche se non come avrebbe voluto. Avrebbe dovuto costringerlo con mezzi diversi.
“Non credo, dopotutto, che sia andata così male”.
 “Io so chi sei veramente” disse lui, per prendere tempo, mentre pensava come uscire da quel luogo che puzzava di morte, e da lei.
“Davvero?” lo schernì la donna. “In effetti, ci siamo già incontrati sul Ponte dei Giganti, qualche settimana fa”.
Edmund scosse il capo. “Sai cosa voglio dire”.
La Signora strinse i gelidi occhi, bloccandolo con lo sguardo nel punto in cui si trovava. Lui bluffava. Non poteva sapere veramente. Nessuno sapeva… a meno che Lord Erton non avesse raccontato anche questo.
Jadis avanzò ancora. Il ragazzo le rimandò uno sguardo di sfida che la fece ridere.
“Non ostentare tanta sicurezza. Non sei convincente in quella posizione, rannicchiato come un topo contro una parete. Sei sempre stato un codardo, dopotutto”.
La collera montò dentro Edmund. Lui non era un codardo.
“Ammazzami se è quello che vuoi. Avanti!” la incitò, afferrando una corta spada arrugginita dal sepolcro che stava dietro di lui, sfilandola con un certo disgusto dalle dita consumate dello scheletro.
“Non ricordavo fossi così divertente, Edmund caro”.
Il Giusto rabbrividì. La sua voce… Poteva aver camuffato il proprio aspetto, tanto che anche adesso, di fronte a lui, ancora non riusciva a vedere il travestimento. Ma quella voce la riconosceva, e quel nomignolo odioso che aveva sempre usato su di lui, come a permettersi una confidenza che li metteva sullo stesso piano. 
“Smetti di affannarti. Non abbiamo tempo per i combattimenti”.
Gli occhi di Edmund saettarono verso la bacchetta magica, poi ancora su di lei.
“Oh, no, non ho alcuna intenzione di ucciderti con questa” disse Jadis, alzando la sua arma.
“E allora cosa vorresti farci?”.
“Stavo recitando un complicatissimo incantesimo, poco prima che ti svegliassi e rovinassi tutto. Avrebbe funzionato alla perfezione se solo fossi stato morto. Purtroppo, adesso sarà molto più doloroso”.
Lei balzò in avanti più veloce del fulmine. Edmund indietreggiò di nuovo, brandendo la spada. Ma la Strega la scansò e gli fu addosso, afferrandolo al collo con una mano, sbattendolo contro la parete.
Edmund, il fiato mozzo, alzò le mani ad afferrarle i polsi. Avrebbe potuto spezzargli il collo in un istante.
“Dimmi, Edmund caro: perché, se il mio servo vi ha portati al mio cospetto chiaramente senza vita, tu respiri, ti muovi, e puoi parlare?”. La voce di Jadis era calma, canzonatoria, mentre la sua collera veniva tutta scaricata nella stretta spasmodica sul collo del giovane.
“Gli avevo ordinato di uccidervi… non capisco, davvero. Lui mi ha assicurato di avervi uccisi. Forse lo avete ingannato, o devo pensare che mi abbia mentito? Può darsi vi siate messi d’accordo per ingannarmi tutti insieme”. Inclinò la testa di lato. “Allora, com’è andata veramente?”.
Edmund non rispose. Non avrebbe venduto Mullughuterum a quella donna, nemmeno sotto la peggior tortura, neanche se lei già sospettava la verità. Rimase a fissarla colmo d’odio, ansimante, le mani artigliate a quella di lei, dure come il granito, che lo teneva alzato da terra con una tal facilità come fosse privo del suo peso.
Jadis lo lasciò andare, soltanto perché sapeva era arrivato al limite della sopportazione. Edmund cadde sul pavimento tossendo, tenendosi la gola.
“Mi avete ingannata. Non ve lo perdonerò”.
La Strega era furiosa, i lineamenti del viso deformati dala furia repressa. Se non si fosse trattenuta sarebbe esplosa, devastante, tremenda. Ma non doveva, perché avrebbe solo sprecato energie, energie che le occorrevano per portare a termine il rituale.
Alzò la bacchetta, dalla quale partì un raggio di magia che colpì Edmund in pieno.
Il Giusto fu sbalzato all’indietro da una potente ondata di potere simile ad aria solida. Atterrò malamente sopra un’altra tomba, rotolando poi a terra. Aveva ancora in mano quella vecchia spada, e pensò di usarla.
 Si lanciò contro di lei, pronta a parare il primo colpo.
 Non si sarebbe lasciato sopraffare, nemmeno se il braccio gli doleva da morire, tanto che non fu in grado di reggere l’arma e dovette combattere con la sinistra. Fortunatamente, era sempre stato abile con entrambe le mani.
“Ti fa male, vero?” chiese lei, alludendo alla ferita.
“No”.
“Bugiardo. Non negare, lo so. Consideralo un regalo da parte mia”.
La Strega incastrò la bacchetta tra la lama tra l’elsa della spada, iniziando a farle roteare insieme, cerando di far indietreggiare di nuovo il ragazzo, metterlo alle strette. Mancò davvero poco a che non gli strappò l’arma dalle mani, ma il Giusto era altrettanto abile e conosceva quel genere di mosse. Edmund fece un balzo indietro prima che lei liberasse la bacchetta dall’incastro, così che con la sua forza potesse riuscire a farla volar via, disarmandolo.
“Tutto sarà molto più semplice se ti arrendi al dolore” disse lei. “La ferita che ti ha inflitto la mia creatura sta radicando l’oscurità dentro il tuo corpo”
“Avevamo ragione, allora. Sei stata tu a mandare quelle belve oscure”.
“Ti stupisce?”
“Un po’, ad essere sincero”. Edmund balzò in avanti, facendola inciampare nella lunga gonna smeraldina. La donna ebbe un attimo di esitazione e lui ne approfittò per spingerla contro un sepolcro. Le armi si incastrarono di nuovo, ma era il Giusto ad essere in vantaggio, ora.
Edmund la guardò dritta in viso, senza paura, prima di pronunciare queste parole: “Avrei dovuto immaginare che la Signora dalla Veste Verde e la Strega Bianca fossero la stssa persona”.
Jadis digrignò i denti, il suo viso si deformò. Spinse via il ragazzo, gridando, e ripartì all’attacco. 
Edmund di nuovo non rispose, cercò di sorridere per farla arrabbiare ancora di più, nonostante sapesse quanto poteva essere pericoloso farlo. E inaspettatamente, la colpì. Affondò la lama nella sua gamba, lei era troppo furiosa per essere stata scoperta, per essere stata presa in giro.
Jadis gridò di dolore, poiché quello lo poteva sentire. Alzò la mano libera, sfruttando la vicinanza con Edmund, colpendolo con un man rovescio che lo mandò a terra senza fatica.
Il ragazzo fu stordito da quel semplice colpo di mano, il labbro gonfio, il naso dolorante e sanguinante. Gli aveva quasi rotto la mascella. Poi vide Jadis rimettersi dritta, la veste macchiata di rosso. Non riuscì a rialzarsi stavolta e lei fu su di lui. Lo afferrò per il braccio ferito, facendolo gridare di dolore e lo spezzò come fosse un ramo secco.  
Le urla di Edmund si infransero contro le pareti della cripta, le ombre parvero ridere del suo dolore. Il ragazzo si accasciò a ridosso di una parete, reggendosi l’arto spezzato. La Strega torreggiava di nuovo su di lui.
“Tu sei mio, Edmund. Hai fatto il grave errore di ribellarti ad Aslan, una volta, e da quel momento sei di mia proprietà. Ricordalo per i brevi minuti che ti restano, perché tra poco sarai solo un guscio vuoto pronto ad obbedirmi ciecamente”
E Edmund lo fece. Decise che doveva lanciare tutta la sua rabbia contro quella donna una volta per tutte.
“Tornatene all’inferno da dove sei venuta, lurida bastarda!”
“Io sono l’inferno, Edmund caro”.
La Strega lo colpì così violentemente che ricadde a terra di lato. Un altro dolore, molto più intenso di tutti quelli provati finora, persino dell’osso rotto. Con il terrore negli occhi, Edmund osservò la punta della bacchetta magica di Jadis conficcata nella ferita inferta dalle belve oscure.
Un’ondata di panico lo travolse. 
Aveva capito cosa lei aveva intenzione di fare: il suo aspetto esteriore non sarebbe mutato, ma dentro sarebbe divenuto solo ombra.
Una volta, Jadis aveva voluto ucciderlo e forse, pensò, la morte poteva essere più dolce della consapevolezza di continuare a vivere senza una volontà.
Se non era stato immolato sulla tavola di Pietra, era stato solo grazie ad Aslan che aveva preso il suo posto. Edmund aveva contratto con il Leone un debito eterno che non sarebbe mai riuscito a estinguere, nemmeno con le azioni più nobili. 
E ora lei mi ha preso di nuovo.
La vista gli si annebbiò, si sentì intorpidito e poi il nulla.
 
 
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Emeth, Miriel, Shanna e Pozzanghera vennero condotti verso il Castello delle Tenebre, dondolando dentro le reti in cui erano strettamente avvolti e che gli uomini del Mondodisotto trasportavano, due alla volta. Cercarono di capire dove fossero finiti Ombroso e Shira, senza trovare traccia dei due volatili sopra le loro teste. Meglio che fossero scappati, comunque, e che riuscissero a ricongiungersi con il resto della compagnia e avvertirli dell’accaduto.
Uno dei marinai con cui avevano attraversato il mare, bussò a un grosso portone. Si aprì uno spioncino, dal quale apparvero due occhietti neri incassati dentro un elmo: una guardia.
“Sì?”
“Vorremmo vedere la regina” disse il marinaio.
“Non è possibile. La regina ha ordinato di non essere disturbata, questa notte”.
“Ma noi abbiamo dei prigionieri”.
“La Signora ha detto per nessun motivo ”.
La guardia richiuse lo spioncino. Il marinaio bussò di nuovo e quella si riaprì.
“Ho detto che non potete entrare!”
“La Signora ha sempre ordinato che chiunque di sospetto fosse arrivato in città, dovevamo catturarlo e portarlo da lei”.
La guardia si grattò il mento. “Lo so che lo ha ordinato…Però stasera non potete vederla. Metteteli in cella e ripresentatevi domani”.
Il marinaio grugnì la sua delusione, facendo cenno agli altri uomini di seguirlo. Tornarono indietro e imbucarono una via scendendo verso quelli che dovevano essere i bassifondi della città. Non c’era anima viva, solo qualche animale. Continuarono lungo un piazzale presieduto da un corpo di guardia, attraverso un portone di legno massiccio, dentro la prigione. L’ingresso era squallido spoglio, una sola guardia seduta su uno sgabello era intenta a rosicchiare una coscia di pollo. Diede un’occhiata distratta alle figure che si divincolavano dentro le reti, sputò un pezzo d’osso e in tono svogliato disse: “Giù di sotto”.
Il marinaio e gli altri uomini lasciarono i prigionieri nelle mani delle guardie, tornando da dove erano venuti. Le reti venero tagliate e, al loro posto, Miriel, Emeth, Shanna e Pozzanghera, si ritrovarono un paio di pesanti catene di ferro ai polsi. I quattro furono condotti dai soldati per una rampa di gradini bagnati e scivolosi. Giunti in fondo, si avviarono verso un corridoio alle cui pareti ardevano alcune torce, e sul quale si affacciavano una serie di robuste porte di ferro. Suoni e gemiti giungevano da dentro le celle. Strani e spaventosi volti consumati apparvero dagli spioncini per vedere chi si aggiungeva loro. Mani putride si sporsero dalle fessure per cercare di toccare qualcosa di ancora vivo, perché loro, là sotto, stavano morendo. Un temerario mise fuori tutto il braccio e artigliò quello di Shanna, la quale fece un balzo indietro, terrorizzata da quel tocco scheletrico e gelido. La guardia prese la lancia e ricacciò nella cella il braccio del detenuto.
Si fermarono davanti a una delle celle, una guardia prese una chiave e l’aprì, cacciando all’interno senza remore i quattro prigionieri. Un pungente, acre odore di marcio permeava l’ambiente. Sul pavimento di pietra sudicia era ammucchiata della paglia che doveva fungere da giaciglio.
Le guardie non lanciarono loro nemmeno un’occhiata, chiusero la porta e se ne andarono.
Nessuno parlò per lunghi minuti. Emeth e Pozzanghera rimasero in piedi nel buio. Miriel si aggirò lentamente per la cella, non per esaminarla ma solo per non restar ferma, o la disperazione l’avrebbe sopraffatta. Shanna sedette in un angolo e pianse in silenzio, avvilita, pervasa da un senso di impotenza e terribilmente preoccupata per Edmund. Non poteva aiutarlo rinchiusa lì dentro.
“Questi sono i momenti in cui è lecito disperare”.
“Pozzanghera, ti prego…” fece Emeth.
“Capirai che la situazione è tragica, amico mio. Ci rimangono si e no una decina di ore di vita, perché quando domani la Dama Verde saprà della nostra presenza qui…”. Pozzanghera tracciò un segno sulla propria gola. Lasciò ricadere le braccia e le catene tintinnarono.
“Dobbiamo pensare” disse Miriel, cercando di mantenere la calma. Non c’era neppure una finestra da cui spiare fuori e vedere cosa succedeva, anche se dubitava avrebbe visto granché a parte il cortile deserto. La luce delle torce in corridoio penetrava ben poco attraverso la finestrella della cella. “Shanna, puoi vedere dove sono Peter e gli altri?”
La Stella si asciugò il viso con le maniche del vestito e annuì. Rimase dov’era, nell’angolo più in ombra. Non voleva far sapere agli altri che aveva pianto. Lasciò vagare i sensi, disperdere le sensazioni, concentrando le emozioni sugli amici e allontanando la propria vista da quel luogo orribile. Un lampo dietro i suoi occhi, e poi un filamento di spazio invisibile si aprì per mostrarle una sensazione.
“Preoccupazione” scandì ad alta voce. “Inquietudine. Non sono insieme. Non hanno i talismani con loro. Non sono lontani da noi. Stanno bene”.
“È già qualcosa” commentò Emeth. “Dobbiamo ritrovarli in fretta”.
“Come, di grazia?” chiese Pozzanghera.
“Per prima cosa uscendo di qui. Ragazze, potete usare la vostra magia per fare qualcosa?”
“Non con le mani legate” rispose Miriel, avvicinandosi alla porta. “Se solo fosse stata di legno avrei potuto tentare qualcosa, ma il fuoco servirebbe a poco contro il ferro”.
“Neanch’io riuscirò fare molto” aggiunse Shanna. “Ma forse una cosa posso”.
La Stella cercò di muovere le mani come meglio poteva, concentrandosi al massimo. Era difficile compiere i giusti movimenti con le manette ai polsi, necessitava di maggior libertà, ma doveva accontentarsi. Era una magia complessa quella che stava tentando di evocare, suo padre aveva impiegato molto tempo per insegnargliela. La sentì fuoriuscire da sé, una scintilla sprizzò sul palmo della sua mano, il fantasma di una sfera iridescente delle dimensioni di un uovo.
“Questo è quello che noi stelle chiamiamo ‘messaggero’ ” iniziò a spiegare Shanna, le dita in movimento attorno alla sfera. “Posso inviarlo ovunque io desideri, per cercare e trovare qualcosa o qualcuno, mandare un avvertimento. La parte migliore e che è dotato di volontà propria”
“Somiglia a una piccola cometa” commentò Emeth, affascinato, osservando i filamenti di polvere luminosa che circondavano la sfera.
La piccola luce danzava adesso davanti a loro, rischiarando la cella di una luce bianco-perlacea. Svolazzò leggiadra ad esplorare il luogo, tornando poi accanto a Shanna, come un cucciolo ancora troppo insicuro per allontanarsi dalla protezione di chi aveva cura di lui.
“Sa già cosa deve fare”. Shanna portò la sfera verso lo spioncino intagliato nella porta, protendendo le mani all’esterno il più possibile.
Il messaggero stentò a distaccarsi dalla sua proprietaria, ma alla fine decise che poteva cavarsela. Ondeggiò nel vuoto per qualche secondo, poi volò via in una scia di luce bianca.
“Troverà gli altri, vero?” chiese Miriel.
“È quello che mi auguro”.
“Ma i soldati la vedranno!” esclamò allarmato Pozzanghera. “Come farà ad uscire dalla prigione?”
 “Non lo noteranno neppure, te lo garantisco”. Shanna sembrava molto sicura di sé. “Il messaggero ha una sua sorta di intelligenza primordiale, per cui riconosce i pericoli ed è in grado di evitarli. Come dici tu, è piccolo; saprà nascondersi meglio di come farebbe uno Paludrone alto quasi un metro e novanta”. La ragazza gli toccò un braccio con affetto.
Ma Pozzanghera non si era offeso. “Questo è poco ma sicuro” disse, prima di testare se il pagliericcio nell’angolo era meno sudicio di quel che pensava.
Rimasero nella cella a parlare per molto tempo, poiché era l’unica cosa che potevano fare. Non sapevano con certezza cosa aspettarsi una volta che il messaggero avesse intercettato gli amici, sempre che riuscisse nell’intento. Miriel aveva piena fiducia nell’amica, ma Pozzanghera e Emeth nutrivano qualche dubbio. Non perché non credessero in Shanna, era più il fatto di non avere la minima idea di quale fosse la sorte toccata al resto della compagnia. Poteva essere accaduto loro qualsiasi cosa, dopo che avevano seguito il guardiano del Mondodisotto e i suoi sgherri dentro la caverna. Emeth, Pozzanghera e le due ragazze non sapevano che Mullughuterum aveva aiutato i Sette Amici di Narnia a entrare nel Castello delle Tenebre, che avevano bevuto un filtro di morte apparente, e nemmeno che la Signora della Veste Verde era in realtà la Strega Bianca sotto mentite spoglie. Possedevano un’unica certezza: i Sette Amici avevano già raggiunto la Città delle Tenebre, certezza confermata da due fattori: il primo era la visione di Shanna; il secondo era il comportamento degli abitanti del luogo durante il loro arrivo.
“La Signora dalla Veste Verde avrà sparso la voce d’dappertutto che potevamo arrivare” dichiarò Pozzanghera. “Io so com’è andata, oh sì! Quella là ci sta tenendo d’occhio fin da quando l’abbiamo incontrata sul Ponte dei Giganti. Ha sentito puzza di guai, e una volta saputo dal re dei Giganti che il suo intendo di darci in pasto a loro era miseramente fallito, avrà capito che abbiamo scoperto tutto sul rapimento dei principi, e allora ha sguinzagliato chiunque per acciuffarci. Non è da escludere che anche gli altri siano rinchiusi da qualche parte in questa prigione”.
“Oh no, Pozzanghera, sarebbe terribile!” proruppe Miriel. “In questo modo solo Ombroso e Shira potrebbero aiutarci, ma da soli non ce la faranno mai!”
“Fleunor aveva detto che avremmo potuto chiamarlo, se avessi avuto bisogno di lui” ricordò improvvisamente Emeth. Il suo sguardo corse a Miriel, l’unica in grado di richiamarli con l’aiuto della Terra.
La Driade gli rimandò un’occhiata desolata. “Non mi sono ancora arrischiata ad avvertirlo”.
“Perché no?”.
“Ho paura per i Cavalli di Fuoco, Emeth! Se arrivassero fin qui e gli uomini del Mondodisotto catturassero anche loro? Non ci sarebbe più nessuno in grado di venire in nostro soccorso. Li chiamerò soltanto quando usciremo da qui”.
Emeth la guardò a labbra serrate. Fosse stato al suo posto, non avrebbe esitato.  Miriel era molto più riflessiva di lui e il soldato capiva che la Driade non voleva arrischiarsi a giocare l’ultima carta della salvezza. Agire calcolando male i tempi avrebbe prodotto effetti disastrosi sulla loro condizione.
“Non hai tutti i torti, Miriel” disse Pozzanghera. “Agiamo con cautela. I Cavalli di Fuoco sono probabilmente l’ultimo barlume delle nostre già pietose speranze”.
 
 
 
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Peter e Eustace sgattaiolarono attraverso vicoli, tenendosi lontani dalle strade principali e maggiormente illuminate. Dopo aver superato un’enorme quantità di porticine e portoni di negozi e case, emersero all’ombra di un magazzino in prossimità di un molo. Si stupirono nello scoprire che vi era un mare nero come pece che lambiva la banchina, con le navi che andavano e venivano. La Città delle Tenebre era un grande formicaio, dove gli uomini lavoravano instancabili anche durante le ore notturne: fonderie, fabbriche magazzini, taverne, nonché sentinelle e drappelli di soldati in cotte di maglia e lance in resta che pattugliavano le strade e le piazze.
Mescolarsi agli abitanti del sottosuolo era un passo inevitabile se volevano recuperare un’arma e avvicinarsi all’entrata della fortezza. Tirarono i cappucci fin sopra gli occhi e a testa china uscirono allo scoperto, unendosi a un gruppo di mercanti che si allontanava dalla folla del molo. Sembrava che in quel posto la gente non dormisse mai ma lavorasse e basta. Andavano e venivano come formiche dentro un enorme formicaio, forse alternandosi tra giorno e notte per tenere la città sempre attiva.
Quando il gruppo si disperse per le vie, Peter e Eustace si allontanarono in fretta al riparo di un altro vicoletto. Imboccarono una strada secondaria alle spalle dei magazzini del porto, passando davanti a un uomo seduto fuori dalla sua bottega intento a battere con un martelletto su un ferro rovente. Accanto a lui, disposte in fila accanto al muro, stavano una decina di spade di varie dimensioni. Un altro gruppo di uomini del Mondodisotto passò di lì in quel momento, così Peter ne approfittò per sfilare da sotto il naso del fabbro un paio di quelle lame. Le infilò sotto il mantello, rimanendo impassibile. Seguì il gruppo di uomini, controllando se Eustace lo seguisse. Il cugino aveva continuato a camminare sull’alto lato della strada, come nulla fosse. Si riunirono a un incrocio di due nuove strade, procedendo ancor per un po’ insieme al gruppo di uomini del Mondodisotto, e  poi via di nuovo, verso l’ennesimo riparo.
“Tieni” mormorò Peter, infilando una delle spade tra le mani di Eustace. “Infilala nella cintura e nascondila bene con il mantello. Sembra che in questo posto nessuno, eccetto i soldati, possieda un’arma”.
“E che succederebbe, secondo te, se ci beccassero con una spada addosso?” chiese Eustace con sarcasmo.
“Faccio a meno di coprirlo”.
La faccia inespressiva di una donna del Mondodisotto apparve alla finestra di una casa, chiuse le imposte e spense le luci all’interno. Eustace e Peter rimasero immobili fino a esser certi che non sarebbe riapparsa. Si spostarono da sotto la finestra, all’ombra di una nicchia nel muro del vicolo.
“Edmund potrebbe essere ovunque” disse Eustace. “Nel castello, o più probabilmente in una prigione”.
Peter annuì. “Dobbiamo cercare di sapere qualcosa attraverso gli abitanti. Ma per farlo dovremo travestirci meglio di così. I vestiti che abbiamo indosso non bastano”.
Dietro la casa, diviso da un recinto, c’era un piccolo porcile e alcuni animai molto simili a rotondi maiali che grufavano ignari. Peter si avvicinò di soppiatto, adocchiando la finestra, nel caso la donna avesse lanciato un’occhiata di sotto. Infilò una mano tra le assi del recinto, afferrando una manciata di fango, spargendosela sul viso e sulle mani.
“Io passo, grazie” disse Eustace, un po’ disgustato. Il fango aveva un odore terribile.
“Se vuoi farti acchiappare alla prima occasione, fa pure”.
Eustace osservò il pantano con aria schizzinosa. Facendosi coraggio, imitò il cugino e sparse una buona manciata della fanghiglia puzzolente su di sé.
“Tranquillo, ce la toglieremo di dosso alla prima occasione” sogghignò Peter, “così potrai riabbracciare Jill senza che lei ti scambi per un verme gigante di palude”.
Anche attraverso lo strato di fango, il rossore di Eustace fu ben visibile fino alla punta dei capelli. Mise su un cipiglio permaloso, concedendo al Re Supremo un attimo per sorridere.
Sporchi e trasandati, potevano rassomigliare per due individui male in arnese. Decisero che, per sapere qualcosa sugli ultimi eventi di città, le taverne erano il luogo migliore. Ne trovarono una piccola ma molto affollata, dove poterono sedere in un angolo senza che nessuno badasse loro. Ascoltarono brandelli di conversazione mentre si spostavano tra i tavoli. I due cugini notarono molti uomini tenevano cappucci e cappelli calati sul viso mentre parlavano e bevevano, così anche il loro gesto di non voler mostrare il viso non risultò troppo strano. Furono costretti a ordinare una bevanda scura dal forte odore di benzina, ma che il gestore chiamò con orgoglio il miglior idromele del Mondodisotto. I due ragazzi non toccarono una goccia di quella brodaglia per paura di avvelenarsi.
“Avete sentito cos’è successo giù al porto?” disse un uomo al bancone. La sua voce era una cantilena monotona, come se stesse per raccontare una storiella di poco conto. “Dicono che è arrivato un gruppo di uomini del Mondodisopra”.
 “Qualche volta arriva qui gente dal mondo del sole” ribatté un altro uomo. “Sono amici della Signora dalla Veste Verde”.
“Questi no. Questi sono stati fatti prigionieri. Ero là, prima, e doveva essere appena success, tutti ne stavano ancora parlando”.
L’attenzione di tutta la taverna si focalizzò su quell’argomento. Peter e Eustace erano tutt’orecchi.
“C’era un marinaio, e stava raccontando di aver accompagnato qui dalle Spiagge Pallide uno strano gruppo di viandanti. Non erano dei nostri, si vedeva benissimo. Gli uomini del Mondodisopra che di solito vengono a trovare la regina sono persone illustri, dai ricchi abiti. Questi, invece, pare avessero addosso degli indumenti fin troppo consumati, come se avessero compiuto un lungo viaggio. Comunque, sapete tutti che la nostra regina ha ordinato di avvertirla se fosse giunto qualche individuo sospetto; così, i marinai del porto, insieme a quelli che li avevano guidati attraverso il mare, li hanno acciuffati e portati dalla regina”.
Un mormorio eccitato e spaventato si diffuse nel locale.
“E lei che cosa ha fatto? Li ha uccisi?” domandò un uomo raggrinzito, al pari di uno che chiede che tempo farà domani.
“Mh, no. Il marinaio ha detto di non essere riuscito a vedere la Signora, perciò non ha potuto avvertirla di aver catturato degli intrusi. A quanto pare, sua maestà sta facendo qualcosa di molto importante e non vuol essere disturbata, stasera”.
“Allora dove sono i prigionieri, adesso?” domandò qualcun altro.
“In carcere” rispose l’uomo al bancone. “Probabilmente li giustizieranno all’alba”.
“Ma cosa hanno fatto?” chiese una donna.
L’uomo al bancone non seppe rispondere. “Non ha molta importanza. Se la regina ritiene che gli intrusi vadano fermati, significa che sono pericolosi, quindi è giusto sbatterli in galera e poi impiccarli”.
Tutti annuirono, mormorando che la parola della loro sovrana era legge e non andava discussa.
“Che aspetto avevano? C’erano delle fanciulle?” chiese un giovane curioso. “Ho sentito che le donne del Mondodisopra sono molto belle”.
“Pare di si, belle come la nostra regina. In effetti, mi sembra che il marinaio abbia parlato di due fanciulle e di un uomo, e di una creatura strana. Quest’ultima non ha saputo descriverla; pare avesse la pelle verde, ma io non ci credo…”.
A Peter e Eustace non servì sapere altro.
La descrizione degli intrusi rinchiusi in prigione era niente meno che quella di Miriel, Shanna, Emeth e Pozzanghera, e se erano arrivati loro c’erano anche Ombroso e Shira. Non si chiesero dove fosse finito Lord Erton (poiché nessuno aveva nominato un vecchio), forse era stato proprio lui a consegnarli agli abitanti della città ed ora si trovava a colloquio con la dama Verde a ridere dell’imminente esecuzione. Ma far supposizioni sul Duca non era importante adesso.
Scivolarono fuori dalla taverna mentre la conversazione era ancora in atto. La Città delle Tenebre si aprì ancora una volta davanti a loro, piena di pericoli. Avvolti nei loro mantelli, sotto i quali tenevano ben strette le uniche armi a disposizione, Peter e Eustace si lanciarono in cerca della prigione.
Un atteggiamento sospetto avrebbe attirato l’attenzione, così non camminarono furtivamente, ma con calma e cautela. Cercarono le vie che sembravano meno frequentate, strette, scure, tutte uguali, tanto che più volte passarono nello stesso punto. Poi, ad un tratto, si aprì davanti a loro un piazzale governato da un corpo di guardia. Le sue luci ardevano nell’oscurità, gettando sulle mura ombre sinistre, le quali sembravano dire ai due ragazzi che non sarebbero mai passati oltre.
“Qui” disse Peter, indietreggiando nell’angolo della strada adiacente. “Ci siamo”.
“Come diavolo facciamo ad entrare? Guarda quanti soldati” disse Eustace, indicando la pattuglia della guardia notturna sfilare per la piazza.
Peter si ritrasse nel buio, poggiando la testa e la schiena alla parete. Non parlò per molto tempo, chiudendo gli occhi per attenuare momentaneamente la tensione. Miriel era a pochi metri da lui, e Shanna, Emeth, Pozzanghera, forse anche Edmund. Forse avevano catturato e rinchiuso anche lui insieme a gli altri. Il Magnifico ripeté più volte a sé stesso che un modo lo avrebbe trovato, ma la verità era che non aveva idea di cosa fare. Saltare fuori nella piazza voleva dire farsi catturare nel giro di due secondi.
“Peter…” lo chiamò Eustace, come da molto lontano.
Il Re Supremo fece un gran respiro e riaprì gli occhi. “Scusa. Avevo solo bisogno di un attimo per…”.
Peter dimenticò ciò che voleva dire, troppo sorpreso da quel che vide. Tra lui e Eustace volteggiava una piccola sfera di luce, che risaltava sullo sfondo scuro della squallida stradina in cui erano nascosti. La luce restò immobile a lasciarsi rimirare dai due ragazzi sbalorditi.
I cugini rimasero col fiato sospeso per alcuni istanti, aspettando che succedesse qualcosa. Non pensarono neppure per un secondo che potesse essere qualcosa da cui guardarsi. Senza spiegarsi come, percepivano in lei una sorta di rassicurante familiarità.
“Cosa credi che sia?” chiese Eustace.
“Non ne ho idea, però…”
La luce sembrò reagire alle loro voci, iniziando a muoversi in cerchio attorno ai due ragazzi. “Sembra una…”,  iniziò Eustace.
“… stella”, concluse Peter.
La comprensione prese forma sui loro volti mentre si fissavano. E a una sola voce mormorarono: “Shanna”.
In risposta, la luce schizzò via fino in fondo alla strada da cui erano venuti.
“Ehi! Ferma!”
Eustace e Peter le corsero appresso, cercando di afferrarla. Il globo di luce non diede segno di voler tornare verso la prigione, eppure loro dovevano andare da quella parte. Il Re Supremo cercò di afferrarla, ma fu come tentare di catturare l’aria. Le dita si chiusero attorno alla sfera, la quale si disgregò in una nuvola gassosa. Peter credette di aver combinato un guaio ma, dopo un attimo, le particelle di magia tornarono a consolidarsi e riunirsi tra loro.
“Cosa dobbiamo fare?” ansimò Eustace, stanco di correre avanti e indietro per le vie della città senza arrivare da nessuna parte.
“Credo che dovremmo seguirla”.
Eustace annuì. “Va bene, allora”.
La sfera pulsò come un faro nella notte, come se avesse capito le intenzioni dei due ragazzi e li portò nuovamente ad attraversare la città. I due cugini la seguirono senza posa, notando con stupore sempre crescente che la luce li conduceva dove non c’erano soldati, sapeva con esattezza il tempo in cui fermarsi e poi proseguire, imboccando vicoli quasi invisibili che non avevano notato in precedenza, sgombri da qualsiasi pericolo.
Infine, si arrestarono in un vicolo cieco.
Il Magnifico si accucciò a terra, per esaminare una grata sul terreno, accostata al muro di una palazzina. Dalle fitte sbarre saliva un filo d’aria, portatrice di odori malsani.
“Fognature? Vuoi scendere là sotto?” domandò Eustace con disgusto.
“Arrivano d’dappertutto. Senti…”. Peter afferrò la spalla del cugino. “Non sarà una passeggiata entrare nelle prigioni. I soldati saranno ovunque, le mura sorvegliate al massimo. Non potremo tener testa a tutti, non senza l’aiuto dei nostri Talismani. Dovremo combattere duramente con quello che abbiamo”, mise mano sulla spada che avevano sottratto al fabbro, “e se non verremo raggiunti in tempo dalle ragazze, dovremo farlo da soli”.
Eustace annuì vigorosamente, la determinazione negli occhi. “Io rimango qui. Nel caso non riuscissi a farcela, sarò qua fuori per darti una mano, cugino”.
Peter strinse di più la sua spalla, grato. Fu fiero di vedere quanto era diventato coraggioso il ragazzino che sul Veliero dell’Alba si era lamentato praticamente ogni giorno.
Infine, Peter tolse la grata. “Nasconditi qui vicino” disse prima di infilarsi dentro. “Ti rimanderò lei se avessi bisogno” guardò la piccola luce, la quale attendeva quasi immobile nell’aria. Poi si infilò nel condotto insieme ad essa.
Eustace richiuse il passaggio e sgattaiolò dentro lo spazio vuoto di un incrocio, ascoltando attentamente rumori che non vennero mai.
 
 
~˖~
 
 
Con passi cauti e lenti, Susan si muoveva per le vie introno al castello. Aveva già fatto il giro un paio di volte, tentando di captare un indizio, scorgere un punto qualsiasi per poter sgattaiolare all’interno. Una sola volta era stata fermata da un grosso uomo del Mondodisotto che le aveva chiesto dove fosse la sua arma. Susan non aveva alzato il viso per fronteggiarlo, chinando invece ancora di più la testa in segno remissivo. “L’ho persa” borbottò.
“Incapace” aveva sbottato l’altro. “Vai subito a rifornirti nel magazzino, se il capitano scopre che l’hai persa ti fa frustare certamente”.
Susan aveva annuito ed era andata verso la direzione indicatale, sempre con passo tranquillo e un’indifferenza tipica di quel mondo, ma che in quel momento non le apparteneva affatto. Tuttavia recitò bene. La sua andatura sicura, il mantello nero e il cappuccio alzato la facevano somigliare a una sentinella. Aveva notato che le guardie del palazzo portavano tutte questo tipo di abbigliamento e non aveva potuto credere alla fortuna di indossare abiti simili.
Il lupo non era con lei, non accanto almeno; l’animale si muoveva tra le ombre qualche metro più avanti, spianandole la strada dai potenziali pericoli.
Arrivò davanti a una porta a doppio battente, lasciata semi aperta. Infilò dentro la testa e vide una serie di spade, archi e lance appese a delle reticelle disposte lungo le mura dell’ampio magazzino. Un ometto basso e con lunghi baffoni era intento ad esaminare un lungo pugnale insieme a un'altra guardia.
“Prendi, prendi e vai. Sono impegnato” le disse con voce svogliata.
Susan afferrò una balestra e uscì di nuovo senza alcuna fretta. Aveva pensato di provare ad entrare nel castello tramite il magazzino, ma le era andata male.
A metà della strada da cui era venuta trasalì, quando suonò una campana. Fortunatamente non era quello che aveva creduto. Un frastuono alla sua sinistra la fece voltare e vide che il portone del palazzo stava venendo aperto per permettere il cambio della guardia.
Non ci sarebbe stata un’altra occasione come quella.
Emise un basso fischio e vide un’ombra muoversi da qualche parte. Si unì in coda alle creature che stavano attraversando il portone e dovette continuare a seguirle anche quando fu all’interno della sala d’ingresso. I passi degli uomini del Mondodisotto risuonavano come quelli di un esercito in marcia. Svoltarono lungo un corridoio a destra, verso un altro portone che conduceva in un cortile; ma Susan non lo scoprì mai. Appena ne ebbe l’occasione si mosse più silenziosa di un gatto – proprio come aveva promesso a Lucy – gettandosi all’ombra di un enorme braciere.
Attese e attese finché il gruppo con cui era entrata non sparì al di là del secondo portone, dal quale un altro gruppo di guardie era uscito per attraversare la sala d’ingresso e sostituire i compagni all’esterno. Le porte principali si richiusero e nel castello scese il silenzio.
Susan ascoltò per quasi un minuto il suono del suo respiro e quello delle fiamme che ardevano nel braciere. Poi si mosse furtiva, andando ad aprire uno spiraglio. Nessun stridio di cardini, nessun rumore, e questo fu più inquietante del se avesse cigolato almeno un po’. Emise di nuovo un basso fischio e il lupo apparve da un angolo. Lo riparò sotto il lembo del proprio mantello, tornando verso il braciere. Seppellì il viso nel pelo dell’animale, attirando a sé la sua determinazione e la sua forza di volontà per unirle alla propria, come uno strato protettivo per la mente, invocando la fermezza che le sarebbe servita per sopravvivere.
La verità era che Susan non aveva la minima idea di che cosa fare adesso, Né di dove andare. C’erano almeno tre corridoi che davano su quella sala, e scegliere uno si sarebbe rivelata la cosa più difficile di quanto avesse mai ammesso. Ci sarebbe stato uno scontro prima o poi, qualunque strada potesse scegliere. Le sarebbe piaciuto avere un’idea migliore dell’impresa che doveva compiere, perché questa volta il solo amore per i suoi figli non sarebbe riuscito a portarla sino a loro. Affidarsi solo all’istinto era fuori discussione. Forse…
Quando la sua mente finalmente si calmò, Susan lasciò andare il lupo, trovando la risposta nello sguardo profondo di lui. Immobile, splendido come lo era sempre stato in qualsiasi forma le si presentasse, era fermo ritto su tutte e quattro le zampe, in una postura di totale allerta. Ma niente l’avrebbe fermato. Lui sapeva che lì c’era qualcosa, qualcosa che gli apparteneva, Susan lo capì dalla luce che balenava nei suoi occhi. Non stava attento a quello che faceva lei, guardava altrove, non si era quasi mosso quando lo aveva abbracciato, il suo dorso era rimasto rigido nell’attesa di poter scattare. Caspian stava cercando una strada nel solo modo in cui un lupo poteva trovarla.
“Tu ricordi il loro odore” mormorò la Regina a bassa voce. Lui mosse appena il muso. “Tu lo sai, non è vero? Sai dove sono. Lo percepisci”. Affondò le dita nel suo manto. “Caspian…”
E fu allora che il lupo la guardò.
Susan gli prese il muso in una stretta gentile, posando la fronte su quella morbida di lui. “Portami da loro”.

 
 
 
 
Lo so, non ci credo nemmeno io ma alla fine ce l’ho fatta!
Non immaginate l’emozione di tronare a scrivere questa storia dopo tre anni che non la prendevo in mano. Com’è stato? Facilissimo. Nemmeno io me lo aspettavo dopo il lungo blocco che mi impediva di riavvicinarmi a questa storia. Non so dire cosa sia successo, forse mi serviva semplicemente del tempo e qualcosa di buono nella mia vita per darmi l’ultima spinta. È arrivata, piccola e insignificante per i più, ma per me è stato un faro nella notte…
Comunque, non sono qui per annoiarvi con elucubrazioni mentali ma col dirvi che spero con tutto il cuore che qualcuno dei vecchi lettori sia rimasto. Se sì, aspetto ovviamente un vostro segno (battete un colpo! xD)
 
Che dite, ce lo facciamo il solito…

Angolino delle anticipazioni? Ma sì, dai…
 
Allora, io non so cosa succederà adesso…cioè, lo so, ma non immagino il caos che avverrà nella storia. Ormai Susan e Caspian si avvicinano sempre di più ai loro figli e il fatto che la Strega sia occupata con il povero Edmund potrebbe essere un vantaggio nonostante tutto.
Peter e Eustace dovranno correre contro il tempo per salvare i compagni in prigione, e necessitano al più presto dell’aiuto di Lucy e Jill.
Nel prossimo capitolo partiremo con i Suspian, a cui ho dedicato poco spazio in questo, ma mi premeva descrivere bene la parte di Edmund e Jadis.
Rabadash lo lasciamo dov’è, ovvero a Cair Paravel. Ormai la sua ora è segnata. E Lord Erton? Occhi aperti, potrebbe riuscire a scappare dai Cavalli di Fuoco!

 
Le scorse volte mettevo sempre i ringraziamenti… non che questa volta non voglia farlo, ma penso che dopo tre anni il pubblico sia leggermente cambiato, perciò mi limito a dire grazie a chi c’è ancora e a chi ci sarà.
 
Un abbraccio grande, e spero a presto!
 
Susan
   
 
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