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Autore: time_wings    28/02/2021    1 recensioni
[In revisione]
Da… un capitolo:
“Ci siamo trovati sotto un cielo – certo, era simulato, ma questo conta poco – e ti avrei raccontato la storia più bella del mondo, quella che nessuno si prende mai la briga di raccontare perché la tranquillità e la pace forse non fanno la fama. Peccato che, al crescere della gioia, cresceva la più complessa e particolare delle emozioni: la fiducia.
Questa storia è tragica e il mio più grande rimpianto resta quello di averci creduto.
Forse, semplicemente, per noi non c’era speranza."

Questa storia, come molte altre, parla di una grande amicizia, di un amore nascosto, di un fratello abbandonato, di difficili addii. Certe cose nascono alla stazione di un treno, altre finiscono nello stesso posto. Dove ci porteranno? Be', avanti.
O… la storia di come “alla fiera dell'angst per due soldi un malandrino mio padre comprò”.
Genere: Angst, Comico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: I Malandrini, Lily Evans, Marlene McKinnon, Regulus Black | Coppie: James/Lily, Remus/Sirius
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate | Contesto: Malandrini/I guerra magica, Primi anni ad Hogwarts/Libri 1-4
Capitoli:
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23. A un mondo di distanza






Qualche nuvola si attardava in cielo, aliti passeggeri di tranquillità soffiavano placidi nell’aria estiva.
Per la prima volta una notizia riguardante la famiglia di Sirius – ex famiglia, ci teneva a specificare James – non fu tragica. O meglio, non nell’accezione che assumeva generalmente quella parola.
Alphard Black, silenzioso e arcigno zio di Sirius, era venuto a mancare da qualche giorno. La sua morte, però, era stata tutt’altro che muta. Il suo clangore si era manifestato sotto forma di denaro. Sul letto di morte, l’ultimo fiato in gola e una sconcertante verità, tutto quello che aveva avuto non era passato nelle braccia forzatamente devastate della sua famiglia, ma aveva incontrato le mani di Sirius e di lui soltanto. Alphard, in vita grande esempio di integrità e fedeltà alla famiglia, aveva salutato la Morte chinando il capo e poi, in ginocchio, stanco e affaticato, aveva mandato a farsi fottere tutti quelli che si era lasciato alle spalle. La generosità elargita al traditore del sangue e ricompensata con l’esplosione della sua esistenza dall’arazzo di Walburga Black.
Era difficile credere che, al di fuori di tutto quel verde e quel caldo avviluppante, potesse crescere qualcosa di così cupo e meschino come una guerra.
Almeno lì, solo per qualche minuto, con la luce che superava le palpebre e le braccia dietro la testa, James pensò che potesse concedersi il lusso di non pensarci.
Prima che potesse pentirsene si addormenò al sole, tra i fili d’erba che gli pungevano la schiena e il terreno che gli inumidiva la maglietta.

“Fottuta stronza.”
Con uno sbadiglio, James si svegliò e alzò la testa, le mani ancora incollate dietro la nuca e una ciocca di capelli che gli ricadeva sugli occhi.
“Ladra infame.”
“Sirius?”
Lui si voltò, il sudore che gli colava ovunque e i capelli appiccicati alla faccia. “Che vuoi?”
James alzò un sopracciglio, l’azione gli provocò una fitta di dolore inaspettata, come se la pelle si fosse indurita fino a diventare di carta. “Che voglio?” domandò, mettendosi a sedere. La testa gli vorticò fastidiosamente per qualche attimo, la voce ancora raschiante, “ad esempio sapere cosa diavolo ci fa un pezzo di ferro nel giardino?”
“Piuttosto alzati e dammi una mano a trascinarla all’ombra.”
James indugiò con lo sguardo tra il suo amico e la cosa, poi si alzò con un sospiro e si avvicinò. “Puzzi da far schifo,” considerò, storcendo il naso.
“Vorrei vedere te, a trascinare questa cosa per mezza Londra” si difese Sirius, cercando un po’ di disperato refrigerio alzandosi i capelli.
James si allontanò cercando di respirare il meno possibile e lo aiutò a trascinare l’ammasso di ferro all’ombra di una quercia poco più in là. “La domanda facile: che cos’è questo schifo?”
Sirius si appoggiò esausto al tronco dell’albero e squadrò la cosa con profondo orgoglio. James aspettava di capire per quale ragione. “Questa bellezza, Jamie,” iniziò un sorriso furbo che strisciava già sul viso, immune allo scetticismo del suo amico, “è una fottuta motocicletta!”
Ora, era evidente che Sirius si aspettasse occhi spalancati, sguardi adoranti e cascate purissime di complimenti, ma da James ottenne solo un sopracciglio alzato e un’occhiata rapida alla presunta moto. “Okay…” iniziò piano lui, “okay, mamma dice spesso di stare attenti alle insolazioni, ma credevo lo dicesse per non farmi correre tutto il giorno in giardino. Questo è un fottuto abominio, Felpato.”
“A giudicare dalla tua faccia starei attento a parlare di abomini e insolazioni.”
James si tastò le guance e si accigliò quando le scoprì roventi. “Vuoi dirmi che diamine è?”
“Te l’ho detto, Ramoso, è una motocicletta. Un veicolo. Dueruote. Motociclo.”
“Questo è un ammasso di rottami. Il che ci porta alla domanda di media difficoltà: dove diavolo l’hai preso?”
Sirius sorrise, canini smaglianti spuntarono oltre il labbro superiore disteso, gli occhi luccicanti di chi non aspettava altro che raccontare una bella storia di cui era protagonista. Si piantò davanti all’aspirante motocicletta e cominciò a decantare: “Camminavo per Diagon Alley per gli acquisti dell’ultim’ora, un’afa allucinante e un disperato bisogno di un goccio d’acqua. Il sole ardeva inclemente sopra la mia testa, la spossatezza mi correva nelle ve…”
“Sirius.”
Il ragazzo alzò gli occhi al cielo, abbassò la mano alzata in una caricatura di un attore nato e cresciuto in un anfiteatro. “Sono uscito su una strada babbana e sono incappato in un garage. Un tizio la stava smontando per rottamarla. Gli ho chiesto quanto volesse. Mi ha guardato come se fossi venuto ad accompagnarlo nell’aldilà. Quando ha capito che facevo sul serio me l’ha regalata.”
James sospirò e si batté una mano sulla fronte. “Non ci credo.”
“Neanch’io! Da sballo, Jamie.”
“No, non credo a quanto sei stupido.”
Sirius alzò gli occhi al cielo e si avvicinò all’amico quel tanto che bastava per piantare due mani sulle sue spalle e fissarlo negli occhi con uno sguardo a metà tra l’eccitato e il folle. “Ora ho una figlia, amico, devi capire che ho delle responsabilità. E devi darmi una mano a rimetterla a nuovo. Vorrei anche farla volare.”
“Lo sai che è illegale?”
Sirius scrollò le spalle. “Ripetimelo quando ti spuntano le corna e gli zoccoli, signor Animagus Non Registrato.”

“Non sono corna” chiarì James, più per abitudine, ma in fondo suppose che avesse ragione. Sospirò e squadrò il rottame a manubrio che aveva davanti. “Abbiamo due assi di rotazione. Uno al manubrio e uno alle ruote.” Il ragazzo sfiorò l’estremità superiore della moto. “Dobbiamo costruire il manubrio in modo da avere un effetto raddrizzante per contrastare l’attrito. Quindi ci occuperemo di misurare l’avancorsa, in rettilineo. Per il motore, invece, è un autentico casino.”
Sirius si guardò attorno perplesso, gli occhi sgranati e un’insolita certezza di non avere parole. “James…”
Lui lo guardò per un attimo, poi tornò con gli occhi sull’intruglio di ferri.
“Non ho capito un cazzo.”
“Se prendi una pietra sotto le ruote cadi, ma, se la costruiamo bene, la moto ti raddrizza.”
“Forte,” commentò Sirius, sorridendo. James non si curò di chiedergli dove diavolo si fosse procurato un cacciavite e un metro, quando li tirò fuori da una tasca, “e comunque è stata una bella mossa, forse se lo ripeti a Evans te la dà.”
“Cosa?”
“La…” Sirius gli lanciò il metro e sorrise sagace, “possibilità che desideri, ovviamente.”
Sorridendo altrettanto furbescamente, James si chinò e srotolò il metro alla base della ruota anteriore.
E così gli ultimi giorni d’estate si esaurirono tra gite a Londra per comperare pezzi mancanti della moto, ore passate a riflettere per integrare trucchi magici al funzionamento e tanto, tanto sudore e studio.

***

L’anno scolastico iniziò un mercoledì fatto di silenzi e pioggia, sotto il peso di un mantello e la consapevolezza delle possibilità che si stendevano tetre a ogni passo che compivano tra quelle mura. Il conto degli assassinii dei parenti di alcuni studenti si era esteso a sette. Il conto delle uccisioni in nome di un ideale distorto, invece, non era stato reso pubblico.
Quindi, quello che accadde il pomeriggio del 9 settembre 1976, non fu una sorpresa per Mary MacDonald, nè per nessuno di quelli che, in seguito, vennero a sapere della questione.
Camminava tranquilla per un corridoio scarsamente illuminato dalle lanterne incastonate alla parete, il soffio fresco del cielo grigio cupo che penetrava negli intagli sottili che facevano da finestra. Poi un ringhio, una risata e due figure ammantate alle sue spalle.
Mary percepì l’aria tremare, la pelle formicolare sotto i colori brillanti del suo mantello rosso, i capelli rizzarsi sulla nuca. Accelerò il passo con disinvoltura. In fondo non era successo niente, non ancora, la tensione giocava spesso brutti scherzi e la lucidità finiva sempre per pagarne le spese.
“Tu.”
Quello era Mulciber, senza ombra di dubbio.
Mary si congelò, voltandosi lentamente e sentendo le gambe diventare molli. Non c’era verso che le cose potessero mettersi bene. Ripensò a quella volta in cui si era ritrovata a combattere contro alcuni ragazzi Serpeverde nei corridoi della scuola. A Lily, che aveva lanciato incantesimi, a Marlene, che aveva preferito alzare le mani e a lei, che non aveva saputo cosa fare.
Lasciò scivolare una mano in basso, in cerca della sua bacchetta e ne afferrò l’impugnatura. La sua stretta era umida di sudore.
“No, MacDonald,” avvertì una seconda voce. Avery.
“Che volete?” udì se stessa domandare. Si maledì per il fremito nel tono, la paura che crepava il muro stretto della compostezza che avrebbe voluto fingere.
“Parlare soltanto.”
Expelliarmus,” chiamò Avery e la bacchetta di Mary atterrò con un ticchettio ripetuto alle sue spalle prima che potesse anche solo accorgersi di essere stata disarmata.
“Non mi pare che abbiate intenzione di…”
Impedimenta.
L’incantesimo costrinse le ginocchia di Mary a piegarsi, lasciandola in ginocchio alla mercé di Mulciber e Avery e qualunque cosa avessero in mente.
“Voi… siete solo dei mocciosi che giocano a fare la guerra” sputò fuori, lo sforzo nella voce mentre tentava con la sola forza di volontà di rompere i fili invisibili che la tenevano costretta carponi.
“Tu,” replicò Avery, la lingua affilata e lo scherno negli occhi, “sei solo un’inutile Sanguesporco.”
Mary trasalì, la consapevolezza del peso di un insulto simile in un momento simile che attecchiva. “Che volete farmi, quindi? Punirmi? Picchiarmi? Risucchiare la magia che mi scorre nelle vene?”
“Che insolente,” commentò Avery.
“Nelle tue vene c’è merda.”
“La stessa merda che scorre nelle vostre.”
Il volto di Mulciber si contorse dalla rabbia, i lineamenti distorti che si protendevano verso un incantesimo terribile, il peggiore che conoscesse, la punizione per un’onta che affondava le radici nell’onore del suo cognome.
“Dillo” sibilò Avery, la bacchetta puntata contro Mary, lo sguardo di ghiaccio.
“Dire cosa?”
“Di’ cosa sei. Che ti bruci la gola e ti soffochi.”
E Mary capì la parola che avrebbero voluto tirarle a forza dalla lingua. L’insulto peggiore, lettere accostate in una sinfonia dolorosa e che sapeva di ferro, di morte e, purtroppo, di futuro.
Sanguesporco.
Volevano che fosse lei a pronunciarlo.
“Dillo.”
“No.”
Mulciber sollevò la bacchetta. “Everte Statim!”
Mary fu scagliata indietro, la schiena impattò contro la pietra alle sue spalle e la violenza del colpo la costrinse a gemere. La bacchetta era troppo lontana perché il suo corpo ancora paralizzato potesse allungarsi a recuperarla.
“DILLO!”
La testa le ciondolava in avanti, assieme alla tentazione di arrendersi prima che le cose si mettessero troppo male. I corridoi erano così vuoti da permettere ai due di gridare minacce senza un solo timore al mondo.
“Ho detto che devi…”
Expelliarmus, Locomotor mortis!”
Mary si voltò di scatto, gli occhi sgranati dalla rapidità con cui la persona che l’aveva salvata scagliava formule.
“Lily.”
Lei le sorrise, mormorò un incantesimo e la liberò dalle corde invisibili di quello che adesso teneva paralizzati Avery e Mulciber.
“S-stavamo solo scherzando,” si difese Avery e Mulciber alzò gli occhi al cielo. Se avesse potuto, avrebbe senza dubbio dato una gomitata al suo compagno di merende.
“Sì, anch’io.” Lily sorrise angelica, poi scrollò le spalle. “Quanto siete bravi a liberarvi dagli incantesimi in poco tempo? Sono di ronda su questo corridoio, stasera, e il coprifuoco scatta tra cinque minuti.” La ragazza lanciò un’occhiata ai suoi piedi e inclinò il capo su un lato. “Riuscirete a tornare in tempo ai sotterranei?”
“Sporca…”
“Risparmiatelo, Mulciber,” Lily alzò una mano come a zittirlo, “io ho ancora la mia bacchetta in mano e tu sei a terra e incapace di muoverti.” Spinse gentilmente Mary e cominciò a incamminarsi verso la Torre di Grifondoro, “Potete sempre strisciare!”
Poi le due ragazze scomparvero nel buio.
 
La grossa finestra in Sala Comune lasciava passare gli ultimi aliti caldi di fine estate. Qualche libro aperto giaceva ignorato sul tavolo centrale e la maggior parte degli studenti Grifondoro stava abbandonando lentamente la stanza per raggiungere la Sala Grande per cena.
“Poi lo fai passare sotto… sì, così…” James stava mostrando a Marlene e Dorcas come eseguire quello che lui sosteneva essere un nodo da vero marinaio, ma Sirius sospettava che non sapesse neanche scrivere la parola ‘nodo’ senza sbagliare almeno tre volte. Peter, però, sembrava sinceramente impressionato dalla presunta abilità nascosta del suo amico e Remus, com’era giusto, aveva anche lui abbandonato il suo carico di studio di inizio anno in favore non di nodi da marinaio, ma di un meritato pisolino. Solo qualche ora lo separava da un’ennesima notte difficile.
Sirius spese qualche attimo paranoico ad assicurarsi che tutta l’attenzione del gruppo fosse rivolta a James, poi si voltò verso Remus e inclinò il viso su un lato, gli incisivi che affondavano nel labbro inferiore. Si sentiva un maniaco, a guardarlo dormire.
In realtà si sentiva patetico.
Lasciò scorrere lo sguardo sulla linea dritta del naso, scese sulla curva umida delle labbra. Se aguzzava le orecchie riusciva a sentire il respiro regolare che gli sfuggiva di bocca e sbatteva contro il braccio piegato su cui aveva appoggiato la testa. Serrò i pugni e resistette all’impulso di sfiorargli una guancia con un dito per il puro gusto di sentire la sua pelle contro i polpastrelli.
Era da pazzi, dannazione, da ossessionati.
L’aveva toccato praticamente ovunque, nei loro insignificanti incontri ravvicinati dell’anno precedente. Incontri ai quali erano seguite fughe segrete da qualunque bagno, stanzino, classe inutilizzata in cui si trovassero. Il pensiero gli cadde distrattamente su una possibilità ai limiti dell’assurdo in cui potesse effettivamente guardarlo dormire e svegliarlo con una carezza – una sua carezza.
“Sirius.”
“Sì” il ragazzo sobbalzò e si voltò verso James come se avesse voluto spezzarsi il collo, gli occhi un po’ sgranati dalla disperata necessità di dissimulare.
James aggrottò le sopracciglia e si morse un labbro, studiandolo. Se c’era uno sguardo da temere era decisamente quello di James. Spostò gli occhi su Remus per qualche secondo e il suo cipiglio si accentuò. “Che ne pensi del nodo?”
Sirius, che non aveva idea della ragione per cui si stesse comportando come un bambino sorpreso con le mani in un barattolo di crema al cioccolato, abbassò lo sguardo sull’ammasso di filo ingarbugliato che James teneva tra due dita e alzò le sopracciglia scettico. “Che fa schifo.”
Dorcas scoppiò a ridere e James alzò gli occhi al cielo, evidentemente poco meravigliato dal suo commento.
“Capisco la tua invidia” lo provocò “in fondo mentre io spiegavo il segreto per un nodo perfetto tu eri distratto a contemp…”
“Lily, Mary” Marlene interruppe il tornado disastroso che James avrebbe senza ombra di dubbio gettato inavvertitamente su Sirius. Si alzò in piedi, attenta, “che cosa è successo?”
James aveva già una battuta per stuzzicare Lily pronta sulla punta della lingua, ma si voltò di scatto, le sopracciglia aggrottate e lo smarrimento negli occhi. Marlene non aveva tutti i torti: Mary e Lily sembravano davvero scosse.
“Non siete ancora andati a cena?” domandò Mary, un sorriso forzato e debole le si aprì sulle labbra.
“James ci stava insegnando a fare i nodi da marinaio” si intromise Peter, l’idea di smorzare la tensione con la leggerezza gli parve improvvisamente poco pratica ed efficiente.
Nessuno rise.
Lily non prese in giro James per l’insolito passatempo. Abbozzò un sorriso e accennò col capo nella loro direzione: un saluto smunto. “Alice?”
Marlene si strinse nelle spalle. “Non è ancora tornata, forse si è già avviata a cena con Frank Paciock, anche se…”
Prima che Marlene potesse ipotizzare dove fosse finita la loro amica, il ritratto che consentiva l’accesso alla Sala Comune si fece da parte. I ragazzi si voltarono contemporaneamente a dare un’occhiata e Alice si fece strada all’interno della stanza, un sopracciglio alzato e una traccia di nervosismo. “Ciao” un tono interrogativo si affiancò al saluto.
James alzò una mano e accennò col capo nella sua direzione.
“Dove sei…”
“Lily,” Alice interruppe Mary prima che potesse concludere la domanda. Se fosse per urgenza o disagio, nessuno riuscì a decifrarlo. Tutta quella fretta di parlare si sciolse in una pausa tesa, “c’è Severus Piton qui fuori, chiede di vederti.”
James serrò i pugni, la voglia di scherzare su nodi e sguardi dissolta in cenere.
“Ho letteralmente appena varcato la soglia della Torre con Mary, è impossibile che non l’abbia visto.” Lily sollevò un sopracciglio, le labbra ridotte a una linea e una tensione familiare che le irrigidiva le spalle in un tremito.
“Fanatico” disse James sottovoce. Lily ricambiò il commento con un’occhiata in tralice, ma non lo riprese.
“Tu non hai nulla da dirgli.” Marlene poggiò una mano sulla spalla di Lily. Poteva percepire il suo nervosismo, ma non poteva trattenerla dal cercare di rimettere a posto le cose anche quando si sfasciavano irreparabilmente.
“Io ho un sacco di cose da dirgli” si intromise James e Lily si limitò ad alzare una mano e zittirlo.
“Non credi di aver già fatto abbastanza?”
Prima che James potesse ribattere che, no, assolutamente non aveva fatto abbastanza, il rumore infernale del tavolo della Sala Grande che strideva sul pavimento di legno si inserì nella conversazione. Sirius si stiracchiò platealmente e liberò il suo angolo di studio. Più che angolo di studio, era stato un angolo di torture. “Io...” articolò male, attraverso uno sbadiglio, “io ne ho abbastanza. Vado a farmi un giro” annunciò con un cenno a Marlene per avvertirla della sigaretta che le avrebbe rubato a momenti.
“Non ti immis…”
“Evans, non me ne frega un cazzo del tuo fidanzatino” biascicò Sirius con la sigaretta tra le labbra. Senza aggiungere altro, abbandonò la Sala Comune, straordinariamente silenzioso.
“Ma che gli prende?” domandò Mary, notevolmente sorpresa dal silenzio oltre la soglia.
“Per qualche ragione è nervoso” rispose James, in una spiegazione che non fu d’aiuto a nessuno.
Lily spezzò il silenzio con un sospiro. “Vado a parlare a Mocciosus.”
La sua risolutezza fu accolta da un’occhiata di disapprovazione di Marlene. Ma Lily non si guardò indietro neanche una volta e superò il ritratto della Signora Grassa come se quello fosse stato semplicemente un compito seccante da portare a termine.
 
Severus dava le spalle al dipinto d’accesso della Sala Comune Grifondoro. Non sapeva come sarebbe andata quella conversazione. Dannazione, non sapeva neanche se ci fossero possibilità che avvenisse! Non gli piaceva l’idea di passare troppo tempo lì davanti, non era saggio e non gli avrebbe portato altro che guai, ma era ora di cena, le probabilità che qualcuno passasse di lì erano praticamente nulle e lui aveva un disperato bisogno di fare un tentativo.
Aveva giurato a se stesso che non si sarebbe mai più azzardato a sperare né a considerare Lily parte della sua vita. L’aveva deciso quando lei gli aveva gridato di combattere, di dimostrarle che le avrebbe riservato lo stesso trattamento che lui e i suoi amici riservavano agli altri studenti Nati Babbani. Un conto era provarci, scappare da lei e da quello che significava, e un conto era farlo davvero, offenderla, ferirla.
Era quello che volevano entrambi, no? Una ragione per ignorarsi.
Ma Severus non aveva retto. Qualcosa dentro di lui si era rimescolata, un’emozione che avrebbe preferito disintegrare, uccidere, bruciare, fondere con l’efficacia certa di una pozione deteriorante. Un’emozione che non poteva permettersi di provare né di nominare.
Quando aveva capito che non poteva ucciderla, ci era sceso a patti. Non l’avrebbe rincorsa, l’avrebbe accontentata con delle scuse e l’avrebbe costretta a farsele bastare.
“Severus” il suono affilato come vetro della voce di Lily lo strappò alle spirali di incertezza in cui avrebbe preferito nascondersi. Si voltò a fronteggiarla, una maschera d’indifferenza che era e sarebbe sempre stata la sua salvezza e la sua rovina. Quel sentimento mutilato alzò la testa e provò a prendere controllo del suo corpo: gli occhi di Lily sembravano evocarlo. “Non ho molto tempo, è quasi ora di cena.”
Lui annuì e abbassò lo sguardo, le redini di se stesso sempre più scivolose. “Volevo chiederti scusa… per quello che ho detto quest’estate. Sai che non lo penso ero…”
“Lo so?” lo interruppe Lily, le braccia incrociate al petto.
Aveva veramente intenzione di ascoltarlo? Aveva, in fondo, bisogno di lui o il motivo che l’aveva spinto da lei non era che il riflesso egoista della luce che non riusciva a sfiorare?
“Lo so, che non lo pensi davvero?”
“Sì,” mormorò lui ed era una bugia che Lily non aveva bisogno di scoperchiare. “Mi dispiace.”
“Non è una formula di un incantesimo, però. Non basta a rimettere insieme i cocci.”
Severus si concesse di guardarla. Non conosceva l’esito di quella conversazione, ma conosceva il triste esito di quella storia – della loro storia. Pensò di godersi gli ultimi sguardi finché poteva concederseli. Osservò la luce fioca delle fiaccole alla parete colpire i suoi capelli in un contrasto brillante, un desiderio insano di passarci in mezzo le dita e sentirne il profumo gli arpionò la gola.
“Io non devo cambiarti, non è mio compito” proseguì lei e Severus percepì le crepe nella sua voce, “ma sappiamo entrambi come stanno precipitando le cose, come funzionano davvero e come finiranno e c’è un mondo di distanza tra me e te. Tu sei venuto a scusarti, Severus, non a riparare le cose.”
Fece davvero male, il modo in cui il suo petto si strinse a quelle parole. Fece così male che avrebbe voluto portarsi una mano al centro, stringere lì, tra le costole, strapparsi il cuore e metterglielo tra le mani.
Ma c’era un mondo di distanza tra loro e non importava quanto allungasse le braccia per raggiungerla, la voragine era impossibile da ignorare. Regalarle il suo cuore sarebbe equivalso a lanciarlo di sotto.
“È vero” ammise lui, il dolore pungente che non accennava a ritirarsi, “mi dispiace davvero, credimi Lily, da morire.”
C’era maturità, nei suoi lineamenti, la bozza tratteggiata di una grande donna che non sarebbe mai stata sua.
“Il tuo cuore è nel posto giusto, ne sono sicura” Lily gli sorrise. Fu la cosa più sincera e più triste su cui avesse mai posato gli occhi “ma non nel mondo giusto.”
Severus batté le palpebre solo una volta eppure, quando riaprì gli occhi, il ritratto della Signora Grassa si stava richiudendo dietro i capelli rossi di Lily. Diede le spalle alla Torre di Grifondoro e sperò che i suoi piedi trovassero da soli la strada per la Sala Grande.
Nel petto gli palpitavano i resti marci del sentimento più antico del mondo, l’unico che non avesse mai imparato a provare. Perché quando ci si dimentica di ricordare che forma ha la speranza, si disimpara ad amare.
 
La prima cosa che Sirius sentì, mentre lasciava scorrere lo sguardo oltre i vetri luridi del bagno maschile, fu uno scalpiccio concitato. Aggrottò la fronte e voltò lo sguardo verso la fonte del rumore. I lavabi non erano visibili da dove si trovava.
Il rumore di un rubinetto che veniva aperto e l’acqua che schizzava lo costrinsero a prendere un ultimo tiro, lanciare il mozzicone della sigaretta oltre la finestra e saltare via dal davanzale. Si fece strada fino ai lavandini e per poco non gli venne un colpo quando riconobbe la succulenta occasione vestita di nero e olio per friggere.
Si appoggiò disinvolto al muro accanto a lui e si piantò un sorriso in faccia, brillante come il lato più esterno di un coltello affilato.
“Mocciosus.”
Fu meraviglioso l’eco che il bagno produsse e fu meravigliosa la sua faccia fradicia e sconcertata, quando si voltò a guardarlo.
“Allora a volte ti lavi.” Sirius accennò col capo all’acqua che ancora si infrangeva sulla ceramica. Osservò Piton mettere mano alla bacchetta, rapido come solo chi è distrutto sa essere. Ma Sirius alzò entrambe le mani, gli angoli della bocca che si sollevavano in un sorriso ancora più grande e che non riusciva proprio a raggiungere gli occhi. “Niente magia. Perderesti.”
Severus serrò la mascella e aggrottò la fronte. “Che vuoi fare, Black? Prendermi a pugni? Parlare?” Nell’ultima domanda concentrò abilmente il veleno che avrebbe voluto fargli trovare nel suo succo di zucca mattutino. “Sappiamo tutti che non è il tuo forte, dico bene? Forse preferisci… gridare?”
E, facile com’era apparso, il sorriso di Sirius svanì. “Scusami?”
Severus annuì soltanto. Una conferma di cui Sirius non aveva bisogno. Alzò gli occhi al soffitto, in cerca di una serenità che doveva mantenere. James gli diceva sempre di controllarsi e, per quanto sapesse che non si riferiva mai a Severus Piton, quando si lasciava andare a certi saggi suggerimenti, Sirius tenne a mente quale fosse il suo posto, quella sera. E non era in quel bagno, con Mocciosus, ma nella Foresta Proibita, a scorazzare liberamente con i suoi amici.
“Devi aver pianto, vero?” Sirius alzò entrambe le sopracciglia, il suo umore inalterato.
“Hai finito?”
“Implorato?” andò avanti Severus, altrettanto indifferente, “devi aver ceduto almeno un po’, eh? Esserti mostrato per quello che sei davvero.”
Il suo cervello si spense, la mente si annebbiò e il bianco acuto e accecante del ricordo gli rovinò addosso.

“Ti è chiaro, adesso?” La voce di sua madre era bassa, impenetrabile. Non sapeva cosa vi fosse dietro e non si preoccupò di indovinarlo. “Questo è un assaggio di quello che succederà a chi sceglierà di combattere. Considerala una lezione.” Lo osservò, la luce fievole della stanza tentava di donare riflessi al buio dei capelli di lei: non conquistò neanche un tenue bagliore. “Hai capito, adesso?” domandò ancora, paziente.
E Sirius, a dispetto del suo orgoglio e del suo coraggio, annuì.

Espirò, come se fosse stato calmo. Non si era mai sentito così lucido quando era fuori controllo.
“Non siamo tutti dei cagasotto inetti come te.”
“Oh, quindi ne vai fiero? La consideri una medaglia, un premio? Ti senti importante e realizzato perché tu e i tuoi amici scappate di notte a fare le vostre strane cose? Credi che io non me ne sia accorto?”
“Certo che te ne sei accorto, sempre col becco negli affari degli altri.”
“Non cerco di essere qualcuno che non sono.”
Sirius si morse l’interno della guancia, un sorriso scettico gli si dipinse in volto. “Fammi il piacere. Come ti fa sentire sapere che non metterai mai le mani nelle mutandine di Lily Evans?”
Severus digrignò i denti e Sirius giurò di poterli sentire stridere. “E a te come fa sentire andare in giro con quel reietto di Remus Lupin? Cos’è, ti fa pena perché è chiaramente malato? Il tuo grande gesto di ribellione?”
Sirius sentì decisamente anche i suoi denti stridere e la sensazione che ne derivò lo fece quasi ondeggiare nell’aria. Non gli importava di far sapere a Severus Piton che le sue parole non erano vere, che aveva degli amici perché era capace di provare amore e lealtà, che la vita se l’era guadagnata e che le sue erano scelte e non capricci. Gli importava solo di non essere lui, a crederci. Aveva annuito, in fondo, c’era stato un momento brevissimo in cui aveva dato ragione a sua madre, in cui si era tradito e tradire se stessi significava anche mentire a se stessi. Tutto ciò che riuscì a capire, in quel momento, fu soltanto che Severus Piton non aveva alcun diritto di sfiorare certe corde e pensò che dovesse pagarla cara e che si meritasse di conoscere la vera paura. “Muori dalla voglia di saperlo? Ti posso accontentare, Mocciosus, è il tuo giorno fortunato.”
Severus lo guardò. Erano vicini, un movimento e avrebbe potuto colpirlo, ma qualcosa nello sguardo di Sirius gli disse che non stava bluffando.
“Il Platano Picchiatore ha un nodo sul tronco che lo immobilizza. C’è un passaggio che porta alla Stamberga Strillante. Vieni a dare un’occhiata stanotte, dopo le dieci.” Gli diede le spalle, la porta del bagno gli sembrava lontana anni luce da lui, ma in qualche modo la raggiunse, si bloccò sulla soglia e disse: “Ricorda di portare un paio di mutande in più per quando te la farai sotto.”
Poi si lasciò alle spalle Severus Piton e le sue bugie.
 
Particelle di polvere fluttuavano nell’aria rarefatta della Stamberga Strillante, assieme a frammenti di tensione. James aggrottò la fronte e respirò quell’aria marcia come se avesse potuto fiutarne la fonte. Remus respirava pesantemente in un angolo: non era sicuro se tentasse di regolarizzare il battito o se sentisse dolore, ma sapeva che per il momento sarebbe stato meglio lasciarlo stare.
Era normale, ordinario, abitudinario.
Ma qualcosa non quadrava. Loro si divertivano, solitamente. Per James, Peter e Sirius quei momenti erano di preparazione al senso di libertà e all’aria pulita che sarebbe seguita.
Non quella sera, però. L’aria era pesante, la trepidazione assente, le mascelle serrate. Si lasciò travolgere solo per un attimo da quel nervosismo e gli venne voglia di mettersi a urlare.
La sua attenzione fu catturata da Remus, che con un grugnito si spogliò. James sapeva che la sensazione di essere a disagio nella sua stessa pelle tendeva a sopraffarlo, correndo in un formicolio snervante e facendogli provare un caldo infernale. Lanciò un’occhiata a Sirius. Fissava Remus come se avesse potuto attaccarli da un momento a un altro. “Ma che succede?”
Sirius aggrottò la fronte, ma non distolse lo sguardo. “Credo manchi poco” ribatté assente.
Remus scosse la testa, frenetico, prendendo a misurare la stanza con passi veloci e irregolari. “Non lo dite” la voce sanguinò in un ansito.
“Respira” lo incoraggiò Sirius, seduto sull’orlo di una sedia dalle gambe mangiucchiate dai tarli e dal tempo: era un miracolo che stesse in piedi.
La premura in genere non gli riusciva bene come la sfrontatezza, ma James notò la nota distante nel suggerimento. Aggrottò la fronte e cercò di ricordare in che altra occasione l’avesse visto così vuoto. James fu distratto da Remus, che batté un pugno contro un muro. Le tegole vibrarono sotto le sue dita. C’era da angosciarsi anche solo a guardarlo. Per completezza, James lanciò un’occhiata all’angolo più lontano della stanza: non c’era differenza tra il colorito di Peter e quello di un lenzuolo.
“Remus” Sirius alzò lo sguardo su di lui, fermo. “Respira.”
Ma James lo capiva. Eccome, se lo capiva. Non era sicuro neanche lui che nella stanza ci fosse ossigeno a sufficienza per tutti e quattro. Gli venne quasi voglia di trasformarsi e sperare che così il tempo scorresse più in fretta, che la Foresta fosse più vicina, la libertà più accessibile.
Manca poco, si ricordò. Un istinto poco scientifico, ma supportato da oltre un anno di abitudine.
Ma il suo istinto fallì, perché non mancava poco.
Remus alzò la testa di scatto e puntò gli occhi sulla porta, un fascio di nervi e preoccupazione. Increspò le sopracciglia e deglutì a vuoto. Sirius si alzò di scatto dalla sedia maciullata e trattenne il fiato per qualche secondo. “Che c’è?”
“Un rumore… un odore.”
Poi successe tutto in pochi secondi.
Remus si accasciò a terra e si lamentò. Un segnale che era sempre stato chiaro e semplice e in seguito al quale i ragazzi si trasformavano. Ma James attese qualche altro secondo, registrò la forma da roditore di Peter, ma incontrò gli occhi ancora molto umani di Sirius. Lui scosse la testa e aprì la bocca per parlare, ma rimase in silenzio.
James ricordò all’istante l’ultima volta che l’aveva visto così: al rovescio, a casa sua, mentre disfaceva i bagagli dopo l’ultima notte infernale a Grimmauld Place, le parole che si accavallavano in un’accozzaglia di insensatezze che James aveva ritenuto più giusto mettere a tacere.
Che le avesse imbottigliate?
“Che hai fatto?”
Sirius lanciò un’occhiata a Remus e non guardò James negli occhi quando rispose: “Era uno scherzo, io non pensavo...”
James percepì i secondi scrosciare e un suono più distinto al piano di sotto. “Che. Hai. Fatto?” scandì e l’ansia gli divorò i polmoni quando sentì le ossa di Remus spezzarsi.
“Mi dispiace.”
Se c’era una sola possibilità che quella notte non finisse in una tragedia, il merito era tutto della capacità d’analisi sotto pressione di James. “Okay, vattene.”
“Col cazzo.”
James lanciò un’altra occhiata a Remus e gli si rimescolarono gli organi interni. “Non era una domanda. Te ne devi andare adesso.”
Ma Sirius si limitò a guardarlo, qualcosa negli occhi che James non sapeva più leggere.
Ci furono dei secondi in cui James non pensò assolutamente nulla: né a cercare un modo per risolvere quella situazione, né alla pressante consapevolezza che mancassero venti secondi alla sua morte, né agli innumerevoli scenari possibili che avrebbero potuto verificarsi in seguito a un solo suo movimento.
E non pensò a nulla neanche quando lanciò un’occhiata a Remus – che non era più Remus – e la parte più istintiva di lui maledisse la sua condizione, le notti che avrebbero potuto passare a dormire, i mille attimi di pace che non si erano mai potuti concedere in nome di una luna che sorgeva e una maledizione che si compiva. La maledizione di Remus, sì, come no, anche la sua. Un pensiero nella forma appuntita e innocua di uno spillo, un fulmine dettato dalla rabbia, ma bastò a farlo sentire in colpa. Se ne pentì e si decise a mettere a posto le cose, il peso di un ruolo che forse non voleva più ricoprire.
Si fiondò oltre la porta e seguì i rumori sempre più vicini di uno scalpiccio, un respiro irregolare. Poi incontrò gli occhi del loro proprietario, iridi che aveva odiato per sei anni e che adesso lo guardavano allarmate e vagamente diffidenti.
Severus Piton.
“Potter, cosa sono questi…”
Una botta sulla porta ricordò a James che non c’erano chiavistelli e serrature all’esterno, che era una porta blindata solo se la si chiudeva. “Te ne devi andare adesso.”
Severus alzò un sopracciglio e allungò il collo su un lato. “Che state facendo?”
James lo ignorò, corse verso la porta e si piantò con la schiena contro di essa: non poteva mascherare l’odore a un lupo, ma poteva chiudergli la porta in faccia. Un altro colpo gli mostrò l’abisso che c’era tra le loro forze, la sua schiena lasciò il legno per qualche secondo. “Se non te ne vai moriamo entrambi, credimi.”
“Questo è un altro dei tuoi giochetti?” Severus – che fosse maledetto anche lui – l’aveva seguito.
No, Mocciosus, questo…”
E poi la possibilità che, se fossero entrambi sopravvissuti a quella notte, il segreto di Remus rimanesse al sicuro, sfumò quando un ululato squarciò la tensione. E l’amplificò.
Severus sgranò gli occhi, la realizzazione sparsa sui lineamenti. James si sporse in avanti per spingerlo il più lontano possibile e perse la presa già insufficiente sulla porta. Questa si spalancò con quello che nei ricordi di James si sarebbe trasformato in un boato.
Questa volta bastò una mano sul petto per convincere Severus a correre. James lo seguì, spingendolo via con una mano tra le scapole. Notò con la coda dell’occhio un cane e un topo cercare di trattenerlo, ma prestò decisamente più attenzione alle zanne del lupo. Abbandonarono la Stamberga Strillante e si infilarono nel passaggio stretto che portava al Platano Picchiatore. James lo afferrò per un polso e iniziò a trascinarlo in un buio che conosceva meglio di lui, lo schiocco di una mandibola che li seguiva a distanze ogni volta diverse.
Quando Severus si voltò a dare un’occhiata, inciampò in un arbusto. La presa di James gli impedì di cadere, ma non lo fermò dal perdere l’equilibrio. “Cosa diavolo…”
“Corri!”
Ma il lupo aveva guadagnato metri importanti. Scattò in avanti, un futuro fatto di sangue e arti mozzati si sovrappose alla visione di James. L’istinto su una scena disgustosa ebbe la meglio e, prima che potesse pensare all’avventatezza delle sue azioni, spazzò con un braccio l’aria davanti alla gola di Severus e impattò contro qualcosa di aguzzo.
Artigli, realizzò quando una fitta si irradiò come fuoco nell’avambraccio, sentì qualcosa di caldo colare sulla pelle.
James voltò le spalle al lupo e si trascinò Severus dietro. Affondò l’altra mano in una tasca e la strinse attorno alla sua bacchetta. “Impedimenta!” gridò alle sue spalle, il sangue rendeva la presa appiccicosa e mille volte più inquietante, ma l’incantesimo andò a segno. Il lupo rallentò fino a renderli più veloci.
Fuoriuscirono dal passaggio del Platano Picchiatore qualche secondo dopo, l’aria fresca della primavera in netto contrasto con il terrore e il sudore di qualche attimo prima. James sbatté il pugno contro il tronco dell’albero e una scossa gli attraversò di nuovo l’avambraccio, gli parve di sentirlo vibrare. Represse un gemito e osservò il Platano immobilizzarsi come se fosse sempre stato un albero dal carattere docile.
“Piton.”
Il ragazzo era pallido sotto la luce della luna. Più pallido del solito. James lasciò andare finalmente il suo polso e trasse un respiro profondo.
“Prova a raccontare a qualcuno quello che è successo stanotte e alla prossima luna piena ti ritrascino qui.” La voce stanca non intaccò l’efficacia della minaccia.
“Lui è…” Severus gesticolò alle loro spalle e James seguì il suo pollice con lo sguardo, “è un mostro! Perché tu eri lì?”
Un moto di rabbia gli arpionò lo stomaco all’insulto e c’era una possibilità che ad alimentarlo fosse l’idea che l’avesse pensato anche lui, solo per un secondo, quando le sue unghie gli avevano aperto uno squarcio sul braccio sinistro. “Fare domande ti ha letteralmente portato quasi a morire, davvero hai ancora la forza di farne?” sputò fuori, acido.
“Perché l’hai fatto?” domandò invece Severus, gli occhi che crollavano irritati sul suo braccio.
James si strinse nelle spalle. “Mi stai sul cazzo, ma l’idea di vederti divorato da un lupo mannaro mi fa un po’ senso.”
Severus distolse lo sguardo e mormorò una protesta sul fatto che l’avesse fatto solo per paura di venire espulso.
James alzò un sopracciglio e si chiese se non avesse commesso un errore a salvargli la vita, qualche minuto prima. “Come ti pare. Non so per quanto durerà l
effetto di quell’incantesimo su un lupo, quindi mi fai il piacere di smetterla di ficcanasare e te ne vai?”
Severus gli regalò un’occhiataccia ben piazzata. Notevole, in fondo, per uno che ci aveva quasi rimesso la pelle. Poi gli diede le spalle e iniziò a correre verso il castello di Hogwarts.
“E ricorda cosa succede se vengo a sapere che c’è qualcun altro che lo sa!”
Severus non si voltò mai indietro.
Con un sospiro, James alzò lo sguardo sulla luna e si figurò la forma di un cervo da qualche parte, nella sua testa. Sentì le sue percezioni cambiare, i colori smuoversi, il respiro diverso, una zampa anteriore inaffidabile. Lasciò spaziare per qualche altro secondo lo sguardo davanti a lui, poi un fruscio del Platano Picchiatore lo esortò a rientrare nel passaggio.
James ignorò il lupo che incrociò lungo la strada e trottò come se nulla fosse fino alla Stamberga Strillante. Individuò la porta di ferro, oltrepassò l’uscio e la chiuse con violenza con uno zoccolo. Poi tornò nella forma di un ragazzo – più comoda e adatta alla comunicazione – e iniziò a chiudere la metà di quei chiavistelli, dando le spalle al resto della stanza. Non aveva bisogno né degli occhiali né tantomeno degli occhi per capire che non era più il solo essere umano in quelle quattro mura.
“Peter dov’è?” domandò a Sirius, dandogli ancora le spalle.
“Da qualche parte lungo il passaggio.”
James annuì e il silenzio si intromise nell’aria tra di loro.
“Abbiamo cercato di trattenerlo, ma non ci ha dato retta, ho…”
“Avete fatto bene, ci ha salvato la vita.”
Il silenzio calò di nuovo, finché James non giudicò il numero lucchetti chiusi sufficiente, poi si voltò verso Sirius, che abbassò lo sguardo sul suo braccio e sgranò gli occhi.
“Ora però vattene.”
“Non è un morso, vero?”

“Sirius, te ne devi andare.”
“So che ho fatto una...”

“Non te lo sto chiedendo!” gridò lui. Serrò i pugni e strinse i denti. “Sono a tanto così dal tirarti un pugno, quindi adesso apri questa porta, ti trasformi, vai da Madama Chips per quei graffi e se non stai morendo dissanguato torni a letto a dormire.”
Lui lo guardò per qualche secondo, una dignità miracolosamente intatta che a James fece salire il sangue al cervello.
“Sirius…”
“Ho capito, va bene.” Alzò entrambe le mani e superò James fino a raggiungere la porta, poi si mise a sferragliare con i pochi lucchetti che il suo amico aveva assicurato. Quando ebbe finito, si lanciò un’occhiata alle spalle e riconobbe gli occhi scuri e ostili di un cervo. Sospirò, cedette il passo alla sua forma canina e lasciò che James gli aprisse la porta con un corno che non era un corno.





 
Di Note El: Ciaaao, è ancora febbraio sono intoccabile!
Vorrei chiarire che studiare un po' di fisica non ti fa costruire una moto, purtroppo.
In questo capitolo ci sono BEN DUE battute sessiste (SCANDALO!) fatte da BEN DUE personaggi positivi (S C A N D A L O). Ho notato che questo è un tema che a quanto pare va chiarito e quindi vi dico che quello che dicono i personaggi in una storia NON rispecchia necessariamente i pensieri dell'autore e, in questo caso specifico, vi assicuro che non rispecchia i miei! Non ci dovrebbe essere motivo di dirlo e invece a quanto pare c'è, quindi pace. Tipico aneddoto senza il quale non riesco proprio a concludere un capitolo: James inizialmente veniva morso... Proprio l'apice della mia stupidità. Capite, l'aveva morso, un branco di lupacchiotti, volevo creare. Bene così, per fortuna me ne sono accorta e mi sono insultata. Benvenuti nella parte che più detesto di questa storia, ci sono stati momenti di pigrizia in cui la volevo proprio saltare, ma no, noi siamo sposati con questa storia e dunque "in salute e in malattia", ragazzi. Che Sirius abbia un autopilota idiota in testa non ci piove e io amo dire che è cretino perché è vero. Questa cosa però mah, io non l'ho mai capita, quindi ho cercato di renderla il più plausibile e IC possibile e spero che vi sia parsa fluida, non so se mi spiego, credibile. E questo è tutto, bella gente. Il motivo per cui 'sta cosa è successa non al quinto anno è che mi sembra cinquemila volte meglio per la coerenza della crescita di James e quindi mi sono aggrappata al cavillo "Sirius ha sedici anni quando succede".
That's all, scusate il ritardo, ma ero rimasta indietro con i capitoli, ho avuto ben due crisi esistenziali e ho passato varie sere a piangere anche il cervello appresso a un libro. Grazie millemilah per essere ancora qui, amici, è un piacere rubarvi tempo prezioso <3
A presto!

El.

 
   
 
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