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Autore: sacrogral    28/02/2021    8 recensioni
Introduzione pesante.
Questa storia è un antefatto. Non compaiono (ancora) personaggi di madame Ikeda, eccetto il dottore, che io ho chiamato Lassone e ormai resta così (ma ci siamo capiti) e al quale ho dato una personalità tutta di mio pugno, come agli altri presenti. Ma l’atmosfera è di madame Ikeda, tutto è di madame Ikeda e io scrivo senza scopo di lucro, per puro divertimento. Se ne varrà la pena (ma ditemelo voi) arriveranno altri capitoli, ma come storie a sé, perché non riesco a gestire, appunto, un testo a capitoli.
Chi ha letto altre mie storie e conosce la “disperazione” capirà al volo, ma si può leggere lo stesso.
Il titolo è dantesco, ma - ve lo devo dire? – non c’entra con il contenuto della storia. Il “folle volo” è il mio.
Chiedo pazienza.
E che la Forza sia con voi.
Genere: Avventura, Dark | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altri
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: nessuno
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                                                                                                                                             Antefatto

In cui si pongono le basi di quello che accadrà in seguito, il boia rimpiangerà la Morte, il dottore si scoprirà credulo, l’oste sarà preda della disperazione, il prete avrà materiale per la vita, il pulcino saprà stare al suo posto e il poeta combatterà grandi battaglie.

 
La porta fu spalancata e il giovane poeta entrò, portandosi dietro la sua faccia storta da poeta, gli innumerevoli guai che lo assillavano, i sogni più strani e colorati.

Bonsoir, Gobemouche”  disse timido il ragazzotto che ormai, alla Disperazione, pareva viverci.

“Foret” rispose il poeta, con un inchino improvvisato, che non avrebbe sfigurato a un ballo di Corte, e gli lanciò la giacca che l’altro, prontamente, afferrò e provvide a riporre da qualche parte.

Era strana, la Disperazione, senza la folla dei disperati, pensò fra sé Gobemouche. Non più strana, certo, di quando Joss faceva uscire tutti con un’occhiata obliqua perché ospitava quei quattro gatti di rivoluzionari, con la bocca piena di parole e con tanta voglia di menare le mani, si disse; però, un’improvvisata di tal fatta, senza rivoluzionari, senza Bernard Chatelet a pontificare – quello, il cane di Robespierre, ma speriamo almeno che concludessero qualcosa, prima o poi, si augurò acido – senza nemmeno il pennivendolo a cercare di convincere tutti che si era tutti uguali – come se l’essere diversi fosse un male, si disse ancora, scrollando la testa, pensando che le parole sono importanti – insomma, alla fine era strano.

Joss,  dietro al bancone, aveva una faccia da funerale. Lavava e asciugava bicchieri che non ne avevano bisogno, registrò Gobemouche, come se quel posto andasse famoso per l’igiene e per la cura della pulizia, rise fra sé.

Ebbe un attimo di esitazione poi, quando intravide monsieur Sanson in fondo, al suo solito tavolo, e gli venne da fare un gesto apotropaico – e in particolare fece le corna con la mano toccando legno – e si domandò ancora come fosse possibile che, in un posto con tre persone dentro, regnasse quel silenzio di tomba. Lui chiacchierava anche coi sassi, come diceva sempre sua nonna, che Dio l’abbia in gloria.

Il boia lo salutò con un’alzata di sopracciglia. Joss disse: “Grunf”. Lui pensò che tutto sommato stavano bene, e si era a metà dell’opera. Ma restava il mistero di quella riunione così convocata – Foret gli aveva portato un biglietto quella mattina, e lo aveva scovato a Nord, oltre i confini di Parigi, a Montmatre, a contemplare il cielo e a declamare poesie ai rari passanti. Zona di vigneti, quella – si ripeteva – posto con un passato da nulla, ma con un gran futuro. Eppure il piccolo Foret, semplicione com’era, era riuscito a trovarlo pure lì, mentre di solito la mattina si aggirava per i mercati di Les Halles, a chiedere denaro in cambio di recite e a derubare – ma sì, che male c’era a ammetterlo, almeno con se stessi? A derubare dunque i buoni borghesi pingui che vi capitavano; ma mai le donne, chiosò soddisfatto di sé, mai le donne, a loro solo baci si potevano rubare – e dunque il piccolo Foret lo aveva trovato pure lì, a perdere il suo tempo, perdigiorno e flaneur com’era e come sempre gli ripeteva sua  sorella, quella minore, povera anima, e gli aveva consegnato con l’aria più seria del mondo quelle tre righe in grafia incerta, buttate certo giù da Joss con consulto del bourreau – fece di nuovo il gesto apotropaico – e pure con la raccomandazione di distruggere il messaggio. Si rivide sorridere, davanti a un Foret compìto, addirittura,  che si sentiva investito di una grande responsabilità e osservava a destra e a manca, come se tutta Parigi o giù di lì altro non pensasse che a loro, ai fatti di due disperati. Vabbé, si era detto, perché no? Tanto mica cambia niente. Ci son tutte le sere, alla Disperazione. Ci vado apposta per ridere in faccia alla Morte che mi ride in faccia e tanto alla fine vince lei, è chiaro, ma una soddisfazione un cristiano se la vorrà pure togliere… e allora vada per questo appuntamento strano, che non odorava certo di ciprie, né di profumi esotici, e neppure avrebbe permesso vanterie con gli amici o quello di più simile agli amici che aveva – non avrebbero discusso di qualche bella che, pensate, gente, si lavava pure , e si depilava, o come si dice, come madame de Pompadour, secondo le voci dei beninformati, quando le donne non lasciano fare alla natura ma ci mettono le mani, con coscienza – no, niente del genere. C’è del marcio in Danimarca. Sorrise. Ma certo che ci sarebbe stato. E Foret sparì correndo veloce come un gatto randagio, povera creatura, mentre il cielo che era una cappa si chinava su di lui a soffocarlo o a benedirlo, quello solo Dio lo sapeva. Un ritrovo, una tavola rotonda – perché no? – alla Disperazione: roba fina, da eletti. Certo che ci sarebbe andato. Qualcuno doveva pur essere il re del Carnevale.

Si era sbagliato, ma errore veniale. Erano in quattro, ad attenderlo. C’era anche fra Etienne che stava – ma devo specificare? – zitto a mormorare qualcosa solo con le labbra, col rosario in mano, e per quanto ne sapeva lui potevano essere preghiere ma pure bestemmie da portuale normanno, ma c’era anche lui, in un angolo buio – e non che ci fosse tanta luce, alla Disperazione,  Joss era famoso per non sprecare o, detta in altri termini, per essere così avaro che la metà sarebbe bastata, ma erano tempi duri per tutti, che ci vuoi fare? – e così c’era anche il prete, quella sottana che comunque sapeva il fatto suo e Gobemouche non avrebbe azzardato a fare scommesse con lui, né su chi reggeva di più il vino né tantomeno su Dio, che poi quello tirava sempre fuori un tal Pascal e quella storia che bisogna sempre scommettere sull’esistenza di Dio, che tanto non hai nulla da perdere, o robe così. E il bello era che, con fra Etienne, nemmeno c’era troppo da discutere o da imputargli, dal momento che, a parte l’indiscussa predilezione per la bottiglia e il vizio di far filosofia spicciola, era più povero dei poveri, e se gli capitava che qualcuno facesse una donazione o qualcosa di analogo, ecco che il giorno dopo si ritrovava messo peggio di prima, perché aveva donato tutto ai bisognosi, fossero questi cristiani o ebrei o zingari di chissà dove, per lui era uguale, tutte creature di Dio. E te lo vedevi a lavorar nell’orto quando non diceva messa, con la tonaca lisa e la barba sfatta che, pensava Gobemouche, che qualcosa del mondo sapeva, due parole a Giotto sul suo san Francesco sempre preciso e perfetto, due paroline ecco gliele avrebbe dette, come le aveva dette quella volta alla sua amante ricca e nobile che quelle illustrazioni gli aveva mostrato. Ma inutile rivangare. Era necessario aver chiaro il punto. Monsieur Sanson – le corna, ormai, erano di rito – Joss – e non c’era bisogno di dirlo –   Foret  – sempre lì, come un topo di cui non riesci a sbarazzarti, e ammazzarlo ti ripugna – fra Etienne – con il suo sguardo da pazzo o da santo devoto, il confine è labile – lui stesso – il fallito, il sognatore, il flaneur, il lussurioso, il poeta – e la Morte sull’affresco, di Caravaggio, o del Diavolo in persona che voleva farsi un bicchiere alla Disperazione con chissà che antenato di Joss; Lei che, alla fine, è la più democratica di tutti e non guarda in faccia nessuno, né ricchi né poveri, né buoni né cattivi, e livella tutti. Cinque presenti, uno con la falce. Sorrise, Gobemouche.

E naturalmente non poteva sapere quanto fosse vero il suo pensiero, perché Sanson, la Morte, se la portava appreso da una vita e alla Disperazione sembrava starci bene, Lei, maledetta cagna, con gli occhi sfumati, tanto che nemmeno lui avrebbe saputo dire che colore avessero. Ogni tanto, Charles Henri Sanson,  quando guardava le sue mani, le vedeva sporche di sangue, e nonostante le lavasse e rilavasse il sangue non spariva, e poi guardava i suoi figli, ragazzini, che comunque ridevano, e pensava se fosse davvero giusto tramandare loro il suo stesso mestiere, ma di qualcosa bisognava pur vivere – si diceva -  e qualcuno lo doveva pur fare. Vita infame, costretto a essere una macchina di morte, a togliere la vita a persone che andava ogni giorno a visitare e ad ascoltare nella loro ultima notte, a pregare con quelli che non volevano vedere fra Etienne nemmeno da lontano, ma nessuno rifiuta il boia, chissà perché poi. Forse perché la morte ripugna ma attrae, come il vuoto, come l’ansia della fine. E così monsieur Sanson sedeva al suo tavolo isolato, distante da ogni tempo e spazio, sempre solo, la sua maledizione; stupito, quella sera, di esser solo davvero, che la Morte, cagna fottuta, non si era presentata, proprio stasera che, per qualche motivo incomprensibile ancora, la cercava, l’avrebbe voluta accanto, perché fiutava nell’aria con l’istinto della fiera l’odore dei problemi e delle difficoltà, quello nero, che lui riconosceva a distanza e che adesso si aspettava di ricevere addosso, da Joss che non aveva detto una parola – ma dov’era la novità? – e forse dal piccolo Foret, che come un topolino si nascondeva e riappariva. La Morte, vecchia lupa, che sempre più spesso pensava fosse la vera donna della sua vita, più presente della sua Marie Anne, l’unica ragazza tanto pazza da prendersi il boia di Parigi per marito. L’unica tanto sola.

E fu quando entrò anche il dottor Lassone, con la sua faccia stanca e la valigia coi ferri del mestiere, segno che non era passato neppure da casa e forse aveva saltato la cena, che Joss si mosse e sprangò la porta, anche se quella sera nessun avventore si sarebbe azzardato, perché nessuno entra alla “Disperazione” quando non è aria, funziona così. Ma Joss sprangò lo stesso la porta, che non si sa mai, ci mettesse la coda il diavolo proprio quella sera, oppure quello scheletro di Morte danzante sull’affresco avesse voglia di giocare un brutto tiro.

Gobemouche rise nel silenzio e nella penombra, fece un saltello e un bell’inchino: “Buonasera, dottore, e benvenuto a questa veglia funebre. Oppure si tratta di un’altra cospirazione, senza Chatelet a infuocarci? Oppure è solo una festa? Il genetliaco di Joss da festeggiare/ grande bisboccia abbiam da fare/ giochiamo con gli anni e i malanni/ beviam senza far troppi danni!” e accennò un passo di danza.

Nessuno rise con lui.

“Piantala, buffone. Abbiamo un problema, boia d’un mondo!” gridò il prete, e poi “Abbiate pazienza, monsieur  Sanson, è solo un modo di dire” e baciò la croce.

Foret sgattaiolò fuori dal suo angolo, si sedette su una botte. Joss riprese posto dietro al bancone e tutti, dall’altra parte, si avvicinarono e avvicinarono le teste, immobili. La faccia mobile e storta di Gobemouche era passata in un istante alla sua espressione da tagliagole.

“Abbiamo davvero un problema, Joss?” disse, in tutt’altro tono “Uno di quelli che si possono risolvere puliti o uno di quelli che ci fanno sporcare?”

Joss, la cui imperturbabilità era leggendaria quanto la sua bruttezza, esitò guardandoli uno a uno, e sembrava in difficoltà a trovare le parole, quelle stesse che dalla bocca di Gobemouche  sgorgavano con una facilità che per lui aveva dell’incredibile e chissà come faceva. Grugnì un paio di volte, guardò l’affresco, tolse con uno straccio della polvere che non c’era e alla fine buttò fuori:

“Il vino”

“Buona idea” esplose Gobemouche “Versa a piacere, oste, che di no mai si dice”

ma Joss sembrava sull’orlo del pianto, guardò fra Etienne quasi con disperazione e lui lo aiutò, stringendo la corona del rosario di legno più forte:

“Joss vuol dire che il problema è il vino. Gobemouche, questo vino è maledetto” e si fece il segno della croce.

Il poeta neanche trovò la forza di ridere. Joss allora fece uscire le parole come fiume in piena:

“Di me tutto si può dire, e la Disperazione ha le sue regole, che si tramandano di padre in figlio, e che il mio bisnonno ha lasciato a mio nonno, che le ha lasciate a mio padre, che le ha lasciate a me, e tutti nella mia famiglia le abbiamo sempre rispettate senza eccezione. Alla Disperazione  entra chi vuole, ma se io dico che qualcuno deve uscire, quello esce. Non si disprezzano i ladri, i truffatori, le puttane: si rispetta tutti, perché ogni disperato ha diritto al suo rispetto . Alla Disperazione non si ammazza, ci si vede fuori per quello. Alla Disperazione non si ruba, ma se ci scappa la rissa, chi perde paga pegno, e quando esce esce ripulito. L’affresco con la Morte è lì e lì resta: se a qualcuno non piace, se ne va via. Ma soprattutto – pausa –soprattutto – pausa – alla Disperazione si beve vino buono. Nessuno può dire che qui si beve vino scadente. E se qualcuno mi vuol vendere qualcosa da dare ai miei clienti che non sia buono, io non lo prendo. Perché ogni disperato ha diritto almeno a un po’ di vino buono, per affrontare quella fogna infame che è la sua vita!” e batté il pugno sul tavolo, come a ribadire una sentenza.

“Va bene, Joss” confermò Gobemouche, improvvisamente timido e che sembrava l’unico a non aver ben chiaro il problema e che, a onor del vero, alla Disperazione aveva pure buttato giù della bella risciacquatura di piatti che Joss chiamava “vino” con troppa indulgenza “Lo sappiamo tutti che è così e tutti ti rispettiamo. Se c’è da dir due parole a un produttore – inciampò sulla parola – di vino, a uno da cui ti servi, che ti ha imbrogliato, dormi su un letto di piume, basto io con un paio di uomini in gamba che…”

Ma Joss lo fermò con un gesto della mano. Fra Etienne aveva aggrottato le sopracciglia. Foret tremava.

“Non ha detto che il vino è cattivo” si inserì il dottor Lassone, pulendosi gli occhiali con un fazzoletto di seta – piccoli lussi che si permetteva, lui che curava i nobili a caro prezzo e i poveri gratis, e che vedeva la famiglia una volta quando capitava, tanto che una volta i vicini appena arrivati avevano domandato a sua moglie se fosse vedova – “Non ha detto che il vino è mediocre. Ha detto che è maledetto”.

Fra Etienne si era di nuovo fatto il segno della croce, mormorando qualcosa fra sé e sé – preghiera o bestemmia, non è dato sapere.

“Ma via” si irritò Gobemouche “Voi, dottore, un uomo di scienza!”

“La scienza è una gran cosa” si inserì il prete, con quel viso abbronzato pure d’inverno e scavato tanto da vedere il teschio sotto “Una gran cosa, eh, chi dice nulla? Però ci son cose che travalicano la scienza e dovere della scienza è capire quali siano, e fare un passo indietro. E tu, ragazzo – Gobemouche si sentì arrossire, e non gli piacque – tu per primo, con quella tua anima da folle o da visionario, dovresti metterci un freno, a questo tuo chiacchierare a vanvera. Joss ha un problema col demonio e questa non è cosa da poco. Anzi, questo rischia di far bruciare la sua anima all’inferno. E qui bisogna dare una mano, altro che ricamare l’aria e pensare alla scienza, corpo di Cristo!” e qui fra Etienne baciò il rosario e si mise a mormorare litanie fra sé e sé.

“Non ho capito nulla” disse Gobemouche, con sincerità.

Il dottor Lassone, che si era rimesso gli occhiali, le occhiaie che sembravano affossarlo, si inserì:

“La causa e l’effetto son due categorie aristoteliche. L’una viene prima, l’altra dopo. L’accidente è ciò che non ha in sé la causa della propria esistenza. Riassumendo, Gobemouche, e te lo posso dire per esperienza: stanno aumentando malati e pazzi a Parigi, in particolare in questo quartiere. Senza motivo. E l’unico elemento comune è che i nuovi malati e i nuovi pazzi son tutti clienti della Disperazione e han bevuto il vino di Joss. Ho fatto un grafico per sintetizzare sintomi e conseguenze. Nessun altro elemento in comune, se non la Disperazione. Questo è un dato innegabile”.

Gobemouche non credeva alle sue orecchie.

“Io” disse il boia – era la prima volta che parlava, Gobemouche in fondo aveva paura anche della sua voce, superstizioso come tutti gli artisti, sotto la loro patina di ragione – “Io posso dire che le celle son piene di gente che conosco, di gente che avrei detto non potesse far male a una mosca. Me li ritrovo lì, che hanno ammazzato le mogli, trucidato i figli, e non sanno perché. E aspettano con impazienza di raggiungerli. E non sanno perché. Non è politica, Gobemouche, è solo morte”. Sanson, grosso come una montagna e con quelle mani fatte apposta per spaccare le noci e le ossa delle gente, guardò l’affresco con un’espressione che solo Gobemouche – ma guarda caso era lì – avrebbe potuto definire delicata.

“E io” mormorò fra Etienne “che Dio mi perdoni, ho bevuto quella roba, e lo sa Dio la fatica che ho dovuto fare per combattere il demonio dentro di me, che si presentava nelle forme immonde della violenza, del giudizio, della malvagità fine a se stessa. Ho stancato il corpo fino a cadere inerte come corpo morto cade e ho pregato con una furia da far impressionare la Vergine santissima, che Dio mi perdoni” e baciò il rosario, pieno di fervore.

“Tua sorella, quella minore, sta male, Gobemouche, e farà qualcosa di terribile se non le stiamo addosso” disse Joss, senza guardarlo.

Il poeta flaneur, suo malgrado con le labbra secche, si agitò: “Mia sorella sta male, è vero. Ma mia sorella non beve vino!”

“Lo dici tu” disse Joss, stavolta guardandolo dritto in faccia, senza preoccuparsi che il ragazzo gli vedesse scritto in viso quel debole che l’oste, repellente per ogni donna, aveva per la sorella minore del poeta, debole che non avrebbe mai avuto il coraggio di confessare nemmeno in confessione, appunto, neppure sotto tortura, neppure se ne fosse andato della sua anima.

“Per me, siete tutti pazzi” esclamò il poeta fallito, davanti a quei volti seri, austeri e che distingueva appena, in quel buio quasi totale di quell’osteria che trasudava disperazione e ora gli sembrava minacciosa, neanche ci fosse capitato come un cane randagio senza sapere cosa stesse in agguato, davvero, ad attenderlo.

Nessuno fece una piega, eccetto Foret – il bambino eterno, il talismano, l’innocenza di tutti – che si rifugiò in fretta dietro Joss, dando a tutti l’impressione, all’oste per primo, che lo considerasse il padre che non lo avrebbe abbandonato mai. E fu così che Joss si voltò a dargli un’occhiata con occhi liquidi, e sembrò non dico piacevole ma meno sgradevole di sempre, e Foret capì quello che nessun altro avrebbe potuto capire, prese una bottiglia che chiunque avrebbe detto a caso e versò del vino rosso in un bicchiere che portava il nome di Legrande, uxoricida, che Sanson ricordava benissimo perché gli aveva tagliato la testa di netto e le sue ultime parole al boia, con sangue freddo ammirevole, erano state “Scusate se non mi alzo”, a mo’ di cortesia, e quindi versò del vino rosso in un bicchiere e lo avvicinò a Gobemouche, che lo fissò diffidente, e Joss disse, secco: “Bevi”.

“Bevo?” chiese Gobemouche, per la prima volta in vita sua incerto davanti a tal richiesta.

“Bevi” ribadì Joss, mentre Foret guardava fisso il poeta fallito, il flaneur, e tutte le altre paia d’occhi presenti alla Disperazione, comprese quelle dalle orbite vuote del teschio della Morte ridente, sembravano fissarlo, quasi avesse da prendere chissà quale decisione.

“Bevo” affermò Gobemouche risoluto, e infatti bevve. Ma figuriamoci – si disse – che mai poteva accadere. E poi erano ore che si sognava un bicchiere, con le tasche vuote e la mente piena, era stato uno di quei giorni in cui aveva pensato seriamente all’accattonaggio, ma a chiedere soldi in cambio di niente ci vuole un tipo di coraggio che lui non possedeva. Al primo sorso gli passò ogni dubbio: quella era roba da signori: denso, corposo, con un retrogusto un filo aspro, legnoso, ma che andava giù come un novello, lasciando una scia piacevole di fiammella leggera. Tracannò senza indugio.

“La miseria, Joss… un altro, subito. Ma che vino è? Nettare e ambrosia, vino degli dèi. Il nome, Joss, il nome!” rise entusiasta Gobemouche, già mezzo dimentico delle superstizioni da bifolchi.

Ma l’oste allontanò la bottiglia, lo fissava serio.

“Dovrebbe accadergli qualcosa” sentenziò il prete.

“A lui, subito” ribadì il medico “Una personalità eccitabile e incoerente come la sua possiede la sensibilità atta alla reazione immediata di fronte alla potenza del fascinum che il vino possiede”.

“Quello che sta prendendo possesso di me” canterellò il poeta “è una voglia irresistibile di ringraziarvi per il secondo bicchiere che Joss mi offrirà, e di abbracciare tutti voi, banda di picchiatelli, per questo esperimento cui volentieri faccio da cavia!” e stese il braccio col bicchiere vuoto, picchiettando allegramente con l’indice sul vetro.

“Magari ti fa male, Michel” disse piano Foret, lasciando sbucare solo la testa, dietro il corpo enorme di Joss.

“Ma vattene al diavolo, ritardato d’un mentecatto!” gridò Gobemouche, con voce non sua, nel silenzio della Disperazione che fece da eco, e i toni rimbalzarono sulle pareti e tornarono alle orecchie del poeta, nel tempo in cui Forert si era già ritirato come un carapace nel suo guscio, sparito come il topolino che era, e Gobemouche prima degli altri esclamò: “Cristo santo, cosa ho detto?”

Si scoprì impallidito e sudato – la regola prima e non scritta alla Disperazione era che nessuno toccava il ragazzo, nessuno lo offendeva, soprattutto nessuno diceva ad alta voce la palese verità che a Foret mancava senza dubbio qualche venerdì, a Foret che lo sapeva benissimo, perché stupido fino a quel punto non era – e se qualcuno mai alzava la voce con Foret, ecco che Joss alzava un sopracciglio, e se non si muovevano  Gobemouche  in persona o il padre di Hortense o anche fra Etienne, se passava da quelle parti – Bastiamo noi, dicevano i più lesti a levarsi, e di solito finiva lì, con  l’idiota di turno che capiva al volo, spariva e di lui si perdevano le tracce, e Foret chiedeva:  “Chi era, Joss?” e Joss:  “Un impoli, un maleducato, pulcino. Dimentica” e Foret dimenticava, eccetto il fatto che Joss lo aveva chiamato pulcino – ecco che, se nessuno si muoveva, ci pensava l’oste in persona, e allora davvero finiva lì.

Gobemouche li guardò uno ad uno, pallido e sudato – Cristo santo, cosa ho detto? – e cercava senza trovarlo il ragazzo che sembrava essersi volatilizzato, e lui se lo vedeva però davanti, con le lacrime agli occhi – Cristo santo, che cosa ho detto?

“Non è colpa tua, Gobemouche” disse fra Etienne, facendosi il segno della croce “Sei un bravo giovane, anche se sei un miscredente senzadio e senza rispetto. Come ti dicevamo, questa roba ha provocato ben altri danni. Ad te, Domine, levavi animam meam, veni” concluse.

“Pazzi, pazzi” disse ancora Gobemouche, che cercava Foret con un’ansia febbrile “Cosa mi avete dato? Era come aver dentro la testa mille ragni che parlavano tutti insieme e mi dicevano… mi dicevano…”

“Ti dicevano uccidi, distruggi, devasta, Michel. Ecco cosa ti dicevano” terminò il boia, cupo e imperscrutabile.

“Io, io… ho parlato così al piccolo Foret, che è come un fratello…” si disperava il poeta, e cercava aiuto nei bicchieri, nella luce scarsa delle poche candele, negli occhi vuoti della Morte che rideva di lui dall’affresco; e poi, preso dall’ira, spaccò il bicchiere dietro Joss che, se ricevette frammenti di vetro addosso, non fece comunque una piega, e si mise a piangere: “Che cosa mi avete dato?” piangeva, e rendeva la domanda sempre più colorita e disperata, perché lui lo sapeva che il senso di colpa dipende dalla gravità dell’intenzione, dalla crudeltà messa, dalla debolezza della persona cui è indirizzata.

Foret sbucò fuori dal nulla, timido: “Non piangere, Gobemouche”

“Vieni qui, vieni qui” disse il poeta, che lo abbrancò quasi come se gli potesse sparire davanti, e se lo abbracciò, gli scompigliò i capelli, mentre non finiva di dirgli: “Lo sai che sei il più intelligente di tutti, qua dentro, vero? Lo sai che hai la Luce? E lo sai che io sono un pazzo, uno sciocco, un giocoliere delle parole, e non dico mai nulla di cui non sia vero anche il contrario? Lo sai che sei come un gattino giocherellino e malandrino e io ho il pallino per il più piccino micino del vicino… ma guarda che cestino di capelli, questo gattino!” e glieli sfregava forte, mentre Foret rideva e gli diceva: “Piantala, Gobemouche, che madame Louise non mi ha levato ancora i pidocchi  e poi mi fai il solletico al cervello che ho nella testa… aiuto, Joss…” e rideva fino alle lacrime, come quelle che  Gobemouche aveva ancora sul viso, a rigarglielo, ma di nuove non ce n’erano.

E quando Foret ridolino gli sfuggì come una biscia e Joss se lo riprese con un solo movimento del braccio e se lo incollò al fianco, si sentì dire dall’oste: “T’è andata anche troppo bene. L’hai sentito, il boia? Un altro bicchiere e avresti fatto qualcosa di cui pentirti a vita. O ti saresti ammalato di male nero, come tua sorella”

“Già” confermò il dottor Lassone con la sua faccia stanca e priva di stupore.

Gobemouche alzò la testa e la sua espressione era mutata, adesso era quella di una statua di Augusto, il volto giovane e grave, le asimmetrie ricomposte: “Questa roba è pericolosa. Bisogna toglierla dalla circolazione, subito. E mia sorella…”

“Tua sorella deve riposare, bere tanta acqua, spurgare il veleno” disse sbrigativo il dottore “Sconsiglierei il salasso, ma se dovesse peggiorare, avere incubi, compiere gesti scomposti e perniciosi puoi chiamarmi in qualsiasi momento. Tua sorella maggiore la guarda a vista”

“Noi dobbiamo togliere di torno questa bevanda del demonio, cane di … “ e si fermò, fra Etienne, baciando la croce “Alla svelta e prima che ci vadano di mezzo altri innocenti, e prima che monsieur Sanson qui presente si ritrovi a dover lavorare la notte, a tagliare il collo come si fa coi polli a gente che non capisce nemmeno come sia andata!” e imprecò come un turco, poi pentendosi e baciando la croce.

“E quindi che facciamo?” chiese Gobemouche, pratico.

“E quindi chiediamo aiuto a chi è pagato per difenderci” rispose pronto Joss “Si va alla gendarmerie

“Ma chi, noi?” si stupì il poeta “Lo sai cosa pensano di quelli come noi. Ci rideranno in faccia”

“Conosco qualcuno che non pensa come gli altri” affermò secco il dottor Lassone.

“E nemmeno ride per le stesse cose” disse il boia, risoluto. La sua Dama Nera gli sorrideva accanto, adesso, e Foret le fece un inchino, di cui nessuno, tranne lui, capì il motivo.

“E chi sarebbe questa eccezione?” domandò ancora il poeta.

L’oste alzò un sopracciglio e Foret parlò.

“Io sono stato per un periodo insieme a madamigella Oscar nella di lei casa perché comandava le Guardie del Re e per cui monsieur Bernard Chatelet desiderava rubare la Corona, quando faceva il Cavaliere nero la notte. E madamigella Oscar quando ride ride poco ed è perché le cose son giuste e vanno come devono andare. E anche con André che pensa tanto son stato nella casa e a volte la fa ridere con delle storie che capiscono solo loro”.

La mascella di Gobemouche cadde.

“Fatemi capire – voi  volete andare da una donna che è il colonnello delle Guardie Reali?”

“Adesso è Generale di Brigata ed è al comando della Guardia metropolitana” specificò il dottor Lassone “Quello che accade a Parigi riguarda lei e la sua compagnia. E quella donna vale più di dieci uomini validi, ve lo dico io che l’ho vista crescere. Il generale Jarjayes ha fatto un lavoro notevole”.

“È bella” disse ancora Foret, come se questo mettesse fine alla discussione.

“Io sono il medico dei Jarjayes, e non posso andare a raccontare questa stoia a madamigella Oscar senza che mi prenda per pazzo. Fra Etienne è un prete, non è il più imparziale dei testimoni. È escluso che in questa situazione delicata si possa muovere un funzionario come monsieur  Sanson. Quindi, Gobemouche, ci andrete tu, Joss e Foret.  Cercate di essere convincenti e poi ci riferirete”.

“Io?” disse il poeta, smarrito “Ma scherzate? Quando vedo le guardie, scappo. C’è una lista lunga così di motivi per cui sbattermi in una cella e buttare la chiave nella Senna”.

“E tuttavia ci andrai” sentenziò Sanson “O dobbiamo farti buttare giù a forza un altro bicchiere di quella porcheria?”

“Non pensi a tua sorella, boia d’un Giuda?” tuonò fra Etienne e poi “Scusate, monsieur  Sanson, è solo un modo di dire” e baciò la croce.

“E se mi arrestano?” insistette Gobemouche.

“Via, poeta, artista dei cenci e dei sogni smarriti, non mi dirai ora che hai paura di una donna?” chiese il dottor Lassone, con tono diverso.

“Ah, questo no!” si insuperbì Gobemouche “Tutto mi fa paura, ma con le donne, io, ho molto da dire e da dare!”

“Allora è deciso” disse Joss, mettendo sul banco bicchieri e grappa “Il patto è sacro e domattina tutti e tre si va a trovare le forze dell’ordine. E poi, qui di corsa, a fare il punto”.

Se ci lasceranno tornare…” mormorò Gobemouche, ancora impensierito.

Maudit” sussurrò fra Etienne, da sopra il bicchiere di grappa.

“Padre, non è il caso, dicevo per scaramanzia”, si difese Gobemouche.

“Prima hai chiesto il nome del vino. Si chiama Maudit” specificò serio il prete, con gli occhi che mandavano lampi.

“Perfetto. Allora brindiamo alla buona sorte, e alla Signora con la falce – alzò il bicchiere in direzione dell’affresco –  che guardi da un’altra parte, e che Dio ce la mandi buona, a noi che siamo i Buoni”.

“Ai Buoni” disse Sanson.

“Ai Buoni!” ripeterono tutti insieme.

  
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