Vi auguro
una buona lettura,
H.
Aggiornato
il 17.12.2021
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Capitolo
Ventisettesimo
25
settembre 1511
“Dicono
che i migliori uomini sono impastati
di difetti, e per lo più divengono buoni per esser stati un
po’ cattivi”
(W.
Shakespeare “Misura per Misura”, Atto V,
I)
Seduto
sul balconcino di Ca’ Querini dei Conti di Stampalia ed
Amorgo, il consigliere ducale sier Batista Morexini “da
Lisbona” studiava a
guisa di gatto i grigi e arrabbiati cirri provenienti
dall’entroterra ed
avanzanti prepotenti in direzione della laguna. Anche quel giorno
avrebbe
diluviato.
Sua
figlia la contessa vedova madona Maria l’aveva invitato a
colazione a casa sua, assieme al fratello Carlo, per confermargli il
felice
esito della missione affidatale. Non che suo padre avesse nutrito alcun
dubbio
sulla sua scrupolosità e soprattutto sulle sue doti
persuasive – era pur sempre
degna figlia sua – ciononostante, aveva ascoltato piuttosto
soddisfatto quanto
l’altero sier Francesco Contarini “dai
Scrigni” fosse capitolato dinanzi alla
civettuola richiesta di Maria d’aggiungere, nella missiva al
suo contatto in
campo francese, quella piccola “ciancia” a prova
della fiducia assoluta, che la
Signoria nutriva nei suoi confronti. Un innocuo pettegolezzo che, se
ascoltato
dalle orecchie giuste, avrebbe creato una valanga di sospetti
impossibile da
arrestare, trasformandosi da una supposizione mista a bugia ad
un’inconfutabile
verità.
L’idea
era venuta al Minor Consiglio durante una seduta dei
Pregadi verta a discutere sui recenti dispacci da Padova,
nonché sulla
testimonianza di Zorzi Plam, un prigioniero rilasciato
dall’Imperatore e
ovviamente sulle lettere scritte dal Re di Francia in persona, il suo
regio
corriere intercettato e condotto a Venezia per essere esaminato.
Si era
scoperto che il destinatario di tale missiva era proprio il
maresciallo Jacques de Chabannes de La Palice, cui Louis XII confidava
i propri
timori e scetticismi sull’alleanza con l’Imperatore
Maximilian, il quale, a sua
detta, non stava facendo nulla per accelerare le operazioni militari,
interessato soltanto ai propri interessi, leggasi la conquista della
Patria del
Friuli e del Cadore, già preparandosi per
quest’ultima il comandante Wilhelm
von Roggendorf. Il Re di Francia, tuttavia, aveva aggiunto che soltanto
in nome
dell’onore e della sua fedeltà al patto della pur
(formalmente) estinta Lega,
egli spronava La Palice a porre una volta per tutte sotto assedio
Treviso ma,
allo stesso tempo, l’ammoniva che se detto assedio si fosse
protratto oltre
quattro giorni, il maresciallo allora era da lui scusato e poteva
ritirarsi in
Lombardia senza se e senza ma, e che il Re dei Romani se la vedesse da
solo.
Zorzi
Plam, dal canto suo, aveva riferito i seguenti fatti:
condotto davanti a Maximilian I. von Habsburg, questi gli aveva
rivelato la sua
intenzione di svernare in Cadore, una volta terminata la conquista del
Friuli; dopodiché, l’Imperatore
aveva aggiunto come avesse
intenzione di licenziare i francesi presenti sia dalla sua corte che
dalle sue
milizie, incominciando dal governatore di Cividal di Belluno Jean
D’Aubigny, e come
volesse far pace coi Veneziani, ma questo serbando naturalmente i
territori a
loro sottratti, sottolineando come l’inimicizia tra loro
sarebbe continuata in
eterno, finché Maximilian non avesse terminato la conquista
di quelle terre,
sue di diritto. Sicché, pigliato Zorzi Plam per la barba,
gli aveva intimato
feroce di rivelargli quanta gente ci fosse a Padova e in particolare a
Treviso
e poiché l’uomo in tutta onestà lo
ignorava, esagerò i numeri della guarnigione
trevigiana e il Re dei Romani, intimorito da tanta potenza, aveva
commentato
quanto la Signoria avesse dovuto ringraziare i suoi stradioti,
ché senza di
loro Maximilian già avrebbe vinto quella guerra.
A
Gradisca d’Isonzo, pur resistendo gagliardamente
all’assedio
postagli dagli imperiali, la peste stava flagellando inclemente la
città-fortezza e fra poco si sarebbe giunti alla scelta del
male minore, se
morire tra atroci tormenti o se arrendersi e vivere qualche giorno in
più.
Infine,
dispacci da sier Christofal Moro e sier Polo Capelo
avevano avvertito la Signoria di un probabile ricongiungimento tra
Federico
Gonzaga, stanziato a Verona, col parente Giovanni Gonzaga, invece a
Vicenza,
per poi congiungersi a Treviso all’esercito di La Palice e
lì incominciare
l’assedio, i Collegati ringalluzziti dai rapidi successi
dell’Imperatore in
Friuli e certi della prossima capitolazione della capitale della Marca,
ritenuta incapace di difendersi dinanzi ad un sì possente
esercito, formato da
veterani delle più aspre guerre d’Italia.
Treviso,
di nuovo tutto convergeva e si riassumeva in Treviso,
replicandosi le medesime condizioni dell’assedio di Padova ed
era interessante
notare come quella città da più d’un
secolo dimenticata dall’alta politica
italiana, d’un tratto fosse divenuta la più ambita
grazie al suo granitico
rifiuto di sottomettersi.
“Sior
Pare, credete che il piano funzionerà? In fin dei conti,
quelle messe in circolazione sono soltanto dicerie prive di ogni
fondamento …”,
azzardò Carlo ad esprimere quel suo dubbio al genitore,
verbalizzando
l’occhiata inquisitiva sul volto della sorella, la quale
condivideva uguali
pensieri.
Sier
Batista terminò il suo latte caldo con miele, acquavite e
cannella, cedendo la tazza di ceramica ad una fantesca. “Il
veleno, una volta
in corpo, non si può più espellere e poco a poco,
lento e inesorabile, lo
corrode dall’interno. Quel che ci serve, tuttavia,
è un ulteriore indebolimento
di detto organismo per migliorarne l’efficacia
…”
Al che il
giovane Morexini schioccò la lingua, comprendendo
d’un
tratto il ragionamento paterno. “Qualora Franza e Alemagna
dovessero fallire a
Trevixo, non perderebbero soltanto un assedio, ma anche la faccia e
ciò quegli
altezzosi dei Franzosi non riuscirebbe mai a sopportarlo. Dopo Napoli,
Millan,
Forlì, essere sconfitti da un’anonima
città senza né arte né parte come
Trevixo
equivarrebbe alla peggiore umiliazione, dimostrando come non siano poi
così
invincibili come credono. E appunto perché la loro protervia
li acceca”,
aggiunse con malevolo gusto, “che cercheranno un capro
espiatorio onde
giustificare la loro sconfitta e la troveranno
nell’Imperatore, ai loro occhi
inaffidabile e traditore. E il piano della Signoria è di
soffiare su questo
fuocherello, trasformandolo in un incendio.”
Suo padre
annuì gravemente. “La Marca
è una terra
strana: gaudente, bonacciona e in generale tollerante, ma se
punzecchiata la
sua gente diventa improvvisamente ribelle, agguerrita e sanguinaria al
limite
del barbarico. In più occasioni ce l’ha
dimostrato, come se provocata non
guardi più in faccia nessuno: pensate al loro vescovo,
domino Bernardo de'
Rossi, consegnato alla Signoria su di un piatto d'argento, felicissimi
di
saperlo al confino.”
Di tutte
le più importanti città venete, effettivamente
Treviso
era rimasta la più fedele all’antico spirito
comunardo e di fatti, tutte le
famiglie nobili ch’avevano tentato d’instaurare
nella Marca una signoria, nell’arco
di una generazione – vuoi per sommossa popolare, vuoi per una
guerra esterna –
erano state puntualmente deposte e il loro ricordo cancellato, anche
fisicamente come la demolizione dei loro palazzi signorili.
Sporgendosi
in avanti, Maria gli domandò allora sottovoce:
“Ciononostante, non comprendo: in questo cosa
c’entrano gli Sforza?”, perché
lei non aveva questionato alcun punto delle direttive paterne da
suggerire per
vie traverse al Contarini; nondimeno, questo non l’aveva
esonerata dal nutrire
qualche legittimo dubbio, sul perché riesumare
quell’ormai putrescente cadavere
di casato. “Non appartengono al passato? Quale peso possono
ancora avere?”
“In
tutto c’entrano, fia mia, e niente è impossibile,
finché
ancora respirano”, replicò sibillino il
consigliere ducale, appoggiando su due
dita la tempia e sorridendo sulfureo.
Durante
la lettura dei dispacci di sier Moro e sier Capello, nei
quali elencavano i comandanti al seguito di Federico Gonzaga, tra di
essi era
figurato il contino di Melzo, Galeazzo Sforza, figlio naturale del fu
Duca di
Milano, Galeazzo Maria e della sua amante Lucia Marliani.
Ciò aveva scatenato
una rapida serie di associazioni nella mente del “da
Lisbona”: Galeazzo Sforza
era nipote del fu Ludovico il Moro, i cui figli Ercole Massimiliano e
Francesco
si trovavano in esilio presso la corte dell’Imperatore, come
a suo tempo in
Alemagna s’erano rifugiati gli ultimi Scaligeri e Carraresi,
cui era stato
promesso supporto onde riconquistare lo Stato sottrattogli dalla
Serenissima.
Sier Batista aveva correlato gli eventi di allora a quelli attuali e li
aveva
piegati alla medesima logica, sostituendo gli Scaligeri e i Carraresi
cogli
Sforza e la Signoria con la Francia.
Era
rimasto piacevolmente sorpreso nel constatare, quanto i suoi
colleghi senatori avessero ragionato allo stesso modo e fossero
all’unisono
giunti a quella conclusione.
Francia e
Impero, che tanto avevano sfruttato lo spirito fazioso
dell’Italia per i loro interessi, a Dio piacendo sarebbero
caduti nel medesimo
errore e così sconfitti. Già la prima frattura
nella Lega, dopo il suo formale
scioglimento, l’avevano creata col Concilio di Pisa per
eleggere un Antipapa e
male avevano fatto a sottovalutare il sanguigno e volubile Giulio II,
che come
li aveva chiamati in Italia allo stesso modo poteva invocarne la
scacciata.
Alla Serenissima rimaneva il facile compito di
spingere la
misericordia più a fondo, allargando la sottile crepa fino
alla rottura
definitiva.
Annusando
a pieni polmoni l’aria pregna di quel sentore frizzante
annunciante il temporale, il Morexini ripensò
malinconicamente alle bonarie
accuse di suo cognato il fu sier Anzolo Miani, il quale lo tacciava
d’essere un
pessimo perdente, non disdegnando il “da Lisbona”
di barare sfacciatamente pur
di darla sui corni all’avversario. Dunque, perché
non convertire questo privato
vizio in pubblico benefizio? Impero, Francia, Spagna, Roma, Mantova,
Ferrara e
Ungheria avevano loro per primi giocato sporco, in tanti contro uno e
certissimi di una rapida vittoria, forti dei loro numeri.
Benissimo,
avrebbero invece assaggiato la loro medesima medicina.
Più
tardi, a discussione terminata e su direttiva del Senato,
Missier il Doge Lunardo Loredan aveva approvato d’inviare
missive a Roma, con
duplice istruzione ai cardinali domini Domenego Grimani, Marco Corner e
all’ambasciatore
sier Hironimo Donado “dalle Rose” di mettere il
Papa Giulio II alle strette
così come dovevano pressare Don Jéronimo Vich y
Valterra, oratore del Cattolico
e l’arcivescovo di York Christopher Bainbridge, ambasciatore
di Henry VIII
Tudor d’Inghilterra.
E sempre
a riguardo del regno d’oltremanica, si scrisse una
lettera a sier Andrea Badoer, ambasciatore a Londra, per ottenere una
risposta
definitiva dal giovane e impetuoso re, il quale, malgrado le
professioni
d’amicizia verso Louis XII, scalpitava di mettersi
militarmente alla prova.
Fattore non trascurabile rimaneva che gli inglesi ancora possedevano
Calais in
Normandia e che la regina d’Inghilterra, Catalina
d’Aragona, condivideva
sotto-sotto il medesimo astio che suo padre, Fernando II, nutriva nei
confronti
dell’acerrimo rivale francese. Ora che il Cattolico aveva
completato la
conquista dei porti pugliesi, nulla gli impediva di puntare alla
Navarra e i
rafforzamenti delle fortezze catalane nel Rossiglione confermavano le
sue
intenzioni bellicose verso il suo attuale alleato nella Lega. Se re
Fernando
avesse dichiarato guerra a re Louis, la sua fedelissima figlia avrebbe
onorato
il patto d’alleanza tra Spagna e Inghilterra e avrebbe
persuaso suo marito
Henry a sbarcare in contemporanea a Calais per un doppio attacco, gli
spagnoli
a sud-ovest e gli inglesi a nord-est.
Ultimo ma
non meno importante, furono le direttive a sier Alvixe
Arimondi, ambasciatore a Costantinopoli, onde tener impegnato il
Sultano, le
cui truppe scorazzanti ai confini ungheresi stavano creando notevoli
danni al
Re d’Ungheria, lasciando a Wladyslaw
Jagiellończyk l’onore di trarre
le sue conclusioni, quale fosse la sua priorità, se
sottrarre alla Serenissima
la Dalmazia o fronteggiare gli Ottomani alle porte di Buda. Stando poi
a sier
Piero Pasqualigo, oratore in Ungheria, il re Wladyslaw aveva inviato
già un
ambasciatore presso il Sultano per negoziare, ma, non tornando questi,
ne aveva
mandato un altro senza tuttavia alcun successo e dubitava fortemente in
un
aiuto dell’Imperatore e del Re di Francia, malgrado questi lo
spronassero nella
sua ostilità contro la Signoria, garantendogli il loro
soccorso per conquistare
la Dalmazia.
I
Collegati della Lega di Cambrai aveva voluto la guerra e guerra
avrebbero ottenuto, una guerra però totale, su tutti i
fronti.
Venezia
si sarebbe trasformata in una polveriera e avrebbe fatto
saltare in aria l’Europa intera, trascinando con
sé, se necessario, tutti i
suoi nemici nell’abisso.
***
Seguendo
l’eco delle campane cittadine annuncianti l’ora
tredicesima del mattino, Fra’ Anselmo si ritagliò
quei pochi istanti per una
preghiera personale davanti alla preziosissima reliquia della Santa Croce, nella cappella detta appunto di S. Croce
dell’Ospedale di
Santa Maria dei Battuti. Accanto a lui, in ginocchio, orava un cupo
Thomà,
indossante abiti a lui più confacenti e dalla zazzera bionda
accorciata,
avendogli tagliato madona Maria Malipiero Gradenigo, durante lo
disinfestazione
dei pidocchi, le ciocche più impicciate e impossibili da
pettinare.
Il
benedettino, anche per tener fede alla promessa, aveva tenuto
presso sé il fantolino, arruolandolo ad aiutare coi malati e
gli stradioti
feriti di ritorno dalle esplorazioni, nonché di rinsegnarli
qualche preghiera
in latino comprensibile o almanco in veneziano, in modo da distrarre il
fanciullo
dall’unico pensiero che lo tormentava.
Oramai,
ammise tra sé e sé Fra’ Anselmo, erano
trascorsi due
giorni dal loro rocambolesco arrivo a Treviso; come di dovere, il frate
aveva
conferito con il podestà sier Andrea Donado “dalle
Rose” e sier Zuam Paulo
Gradenigo, riferendo loro come all’Abbazia si morisse di fame
e che la mala
compagnia dei franco-imperiali l’aveva spronato a fuggire.
[1] Aveva aggiunto
come il ponte fosse in mano agli imperiali e che da Conegliano, Oderzo
e
Collalto arrivassero nuovi rifornimenti al campo nemico, che tuttavia
seguitava
a patire ogni stento, in primis la pestilenza che falciava soldati in
gran
numero. Il frate s’era offerto poi volontario
d’aiutare all’ospedale, giacché
si sentiva sia un poco indegno di rientrare presso i suoi confratelli a
Venezia
(avendo infatti infranto la Regola disobbedendo al suo Abate) sia
perché
percepiva come un dovere morale aiutare la sua gente, dopo aver curato
volente
o nolente il nemico. Madona Maria Malipiero Gradenigo, moglie del
Provveditore,
s’era rivelata una valente collega, decisa ed energica quanto
il consorte, la
quale aveva organizzato marzialmente l’ospedale, reclutando
chiunque avesse
buona volontà e soprattutto fosse rimasto senza un tetto
sopra cui stare. Al
che Fra’ Anselmo era riuscito a convincere alcuni suoi
confratelli più altri
monaci e monache, novizi, oblati e converse di altre congregazioni
rimasti
sfollati, invitandoli a dar una mano all’ospedale e
così formando una piccola
truppa efficiente. Nondimeno, si continuava a sollecitare la Signoria
d’inviare
medici e chirurghi in vista dell’assedio.
Sicché,
costantemente impegnato, Fra’ Anselmo talora perdeva di
vista Thomà, eppure sapeva benissimo dove il bambino si
recasse: tra gli
ammalati, i fuggitivi, alle porte cittadine, in cerca del suo padrone,
nella disperata
speranza di rincontrarlo. Ed era una pena vederlo tornare la sera
abbattuto e
fosco in viso, nonché udirlo singhiozzare silenziosamente la
notte.
Ora, il
benedettino per assurdo credeva fermamente nei miracoli,
tuttavia il suo lato razionale gli suggeriva che, dopo due giorni dalla
separazione, le possibilità che Hironimo Miani fosse stato
ricatturato
rimanevano assai alte e Dio soltanto sapeva a quale destino il suo
vendicativo
carceriere, Mercurio Bua, l’avesse sottoposto. Il monaco
poteva soltanto
pregare che il giovane ex-castellano seguitasse a vivere.
Dispersosi
nell’aria l’ultimo eco della campana, si
sostituì
quello acuto di una tromba. La testa di Thomà
guizzò d’istinto verso la sua
direzione, la fronte corrugata.
“Tranquillo:
è il cambio della guardia”, liquidò
Fra’ Anselmo la
questione, ritornando alle sue orazioni.
“No”,
lo contraddisse sorprendentemente Thomà, ponendosi in piedi.
“Xéa ciamada pel i stralioti a ussir di le mura:
qualched’on xé vegnuo vizin a
Trevixo et i van a controllar!”
Un
concitato scalpiccio di zoccoli sui sanpietrini confermò la
teoria del fanciullo: una compatta colonna di stradioti si
diramò, dal loro
quartiere generale a San Martino, lungo le vie della città,
uscendo da Porta
Altinia, Porta San Tomaso e Porta Santi Quaranta,
quest’ultimi ricongiungendosi
con la compagnia di Teodoro Paleologo, alloggiato
nell’omonimo monastero.
Segnatosi
in fretta, Fra’ Anselmo e Thomà uscirono dalla
porta
della cappella che dava sulla strada e il monaco rimase sinceramente
impressionato
dalla bravura del ragazzino, il quale da quasi un anno viveva tra i
soldati e
pertanto aveva imparato a distinguere ogni loro mezzo di comunicazione.
Infatti, era stato uno dei pochi a non essersi preoccupato quando il
provveditore Gradenigo, Renzo di Ceri e Vitello Vitelli avevano
ordinato una
serie di esercitazioni, appellando i soldati alle loro postazioni, come
se ci
fossero già i franco-imperiali sotto le mura. Li avevano
fatti indossare delle
fasce colorate al braccio e li avevano mescolati tra di loro nelle
varie
compagnie: in questo modo, tutti i soldati presenti a Treviso avevano
finito
per imparare le rispettive facce a memoria, impossibilitando la
presenza di
spie esterne o ogni possibilità di diserzione.
Nonostante
i solidi preparativi per l’assedio, tuttavia nella
città si respirava un’aria pesante, le notizie
dell’inarrestabile avanzata
tedesca nella Patria del Friuli esercitante un’ulteriore
pressione sui suoi
difensori, eppure la voglia di combattere aumentava esponenzialmente
all’avvicinarsi
dei Collegati.
“Fra’
Anselmo”, gli annunciò d’un tratto
Thomà una sua decisione a
lungo meditata, “mi vago coi bombardieri, a smissiar par eli
ea polvare da
sparo!”
La testa
del benedettino scattò incredula nella sua direzione.
“Matto!”, esclamò egli stupefatto.
“Quali scempiaggini vai blaterando? Non ci
troviamo mica a Quer, dove ogni creatura dotata di braccia e mani
serviva, no
sastu?”, lo rampognò severo, temendo che il
piccoletto si cacciasse in qualche
guaio nonché apprendesse il malcostume dei soldati.
“Adesso rientriamo, ché mi
devi aiutare coi malati ed i feriti!”
L’anziano
monaco s’apprestò a pigliare il fanciullo per il
braccio, sennonché questi gli scansò in uno
schiaffo la mano, portandosi al
centro della strada. “Mi no voggio ajudar ni
malai ni feridi! Mi voggio copar franzosi e todeschi! Mi
voggio spedirli
tuti a l’inferno, quei cancari di diaoli!”,
pestò Thomà il piede per terra,
testardissimo. “Li odio! Li odio tuti!”,
gridò, correndo via in direzione degli
squeri lesto come una lepre e il povero frate, rallentato dalla tonaca
e
dall’età, non riuscì né a
riacchiapparlo né a stargli dietro, perdendolo
facilmente.
Un
bambino di dieci anni non dovrebbe proferire tali parole, si dolse
Fra’ Anselmo, mentre cercava in affanno la nota testolina
bionda tra il
concitato viavai di soldati, guastatori, genieri e bastasi. In
che
razza di mondo stiamo scivolando, dove salvare una vita diviene meno
importante
di dare la morte?
Al porto,
intanto, un mogio e livido Marco Contarini “dai
Scrigni”
s’apprestava a salire sul burchio, che l’avrebbe
condotto a Venezia. Il suo
viso lungo appariva doppiamente affilato dalla magrezza derivatagli
dalla
malattia, nonché un sottile strato di sudore gli rendeva la
pelle pallidissima
quasi trasparente, arrossata dal vento sferzante post-temporale. I
cirri grigio
fumo tuttavia seguitavano a rimanere ben ancorati in cielo, coprendo il
sole, e
i vogatori avevano fretta di partire, anticipando di qualche ora il
secondo
acquazzone.
Il
ragazzo si stropicciò per l’ennesima volta gli
occhi arrossati
e brucianti, mentre l’altra mano si sorreggeva al braccio di
Marco Miani.
Dietro di loro, li seguivano silenziosi Nicolò Donado
“dalle Rose”, cugino del
Contarini ch’avrebbe viaggiato con lui, Donado Cimavin e
madona Helena Spandolin
Miani.
“Siete
sicuro, di non voler portar seco le vostre robe?”, gli
chiese il Miani per l’ennesima volta, alludendo al piccolo
cassone che il “dai
Scrigni” aveva lasciato a casa dei Cimavin.
Il
patrizio più giovane annuì stancamente.
“Ho viaggiato leggero e
quelle poche mie cose potrebbero servire al Momolo”,
aggiunse, alludendo ai
vestiti e anche alla sua armatura. A parte la casacca nera sciallata
sotto il
mantello e la bereta da lui indossate, il Contarini cedeva ben
volentieri quei
suoi averi all’amico fraterno, nella speranza che questi
fungessero da
portafortuna, velocizzando la sua liberazione. “E’
il solo modo di contribuire
che mi resta …”, mormorò amaro,
maledicendo la febbre che gli ammorbava il
corpo e lo rendeva inadatto a combattere. Fino all’ultimo
aveva resistito e
celato la sua malattia, purtroppo essa l’aveva sopraffatto al
punto da
stramazzarlo al suolo neanche un paio di giorni addietro, rivelando di
conseguenza il suo segreto. Marco allora aveva compreso che non poteva
più
restare a Treviso, sia perché un’inutile zavorra
sia perché avrebbe rischiato
di contagiare i suoi compagni, assottigliando le fila di uomini a
difesa della
città.
Sussisteva
un bene superiore alle sue egoistiche velleità di
gloria e onore.
Cacciando
via la malinconia alla menzione del fratello, Marco
Miani appoggiò la mano sulla spalla del “dai
Scrigni”, costringendolo a
guardarlo in faccia: “Nessuno vi sta biasimando. Avrete altre
occasioni e altri
modi per servire la Signoria”, lo consolò bonario,
fino a strappare nel ragazzo
un sorrisetto assai tirato. Si era trasferito da Padova per unirsi alle
truppe
a Treviso per poter ricongiungersi ad Hironimo,
ché il Contarini non
aveva mai dubitato di rivederlo libero. Con lui al suo fianco, egli non
temeva
nulla.
“Avrei
tanto voluto riabbracciarlo …”, mormorò
tra sé e sé il
ventiduenne patrizio, stringendo convulsamente i lembi del mantello.
“Cosa?”,
strabuzzò gli occhi il Miani, la fronte aggrottata.
“Dovessi
rimettermi prima dell’assedio, non dubitate che
ritornerò
a Trevixo”, dichiarò solenne Marco, accettando la
mano di suo cugino germano
Nicolò, salito nel frattanto sul burchio.
S’ingamberò un poco, le gambe
instabili, aggrappandosi saldo al parente.
“E
noi vi aspetteremo”, convenne Marco Miani.
“Tranquilla sia
l’onda e mite il vento. Fate buon viaggio”, gli
augurò di cuore, sporgendosi in
avanti abbastanza da stringere velocemente la mano tesa del Contarini.
“Se
avete occasione di passare da mia sorella, madona Chiara
Spandolin Trivixan, porgetele i nostri saluti e ditele, che sempre
preghiamo la
Despina Panaghia per la salute di suo marito”, si
raccomandò Helena,
preoccupata per la sorte del cognato sier Nicolò,
anch’egli ripartito ammalato
per Venezia.
“Non
mancherò”, le promise Marco. “Grazie
mille dell’ospitalità”,
disse poi a Donado Cimavin, il quale si portò una mano al
petto, chinando brevemente
il capo e confermando implicitamente l’ultima disposizione
del ragazzo, di
cedere i suoi averi ad Hironimo. La siora Felicita già si
trovava d’accordo di tenerli
da conto, l’intera casa convinta di riabbracciare presto
l’ex-castellano di
Quero e orando incessantemente per lui.
Si
levarono gli ormeggi, mentre il pope gridava secchi ordini agli
sbuffanti rematori e il provier determinava la cadenza della vogata,
girandosi
pigramente il burchio, cullato dalla duplice corrente del Sile e del
Cagnan. Le
pale dei remi sferzavano e sollevavano sopra e sotto la superficie
verde scuro
in un continuo fruscio d’acqua, accompagnato dalle
esclamazioni d’incitamento
dei vogatori e l’imbarcazione, raddrizzatasi,
acquisì propulsione e imboccò la
giusta direzione per il suo lungo tragitto fino alla laguna.
Lentamente, il
molo e le mura circostanti si rimpicciolirono, così come
Marco Miani, sua
moglie Helena e Donado Cimavin si trasformarono in piavoletti, le
braccia
mulinanti in alto a mo’ di saluto, l’unico tratto
distinguibile della loro
identità.
Marco
Contarini abbandonò in fretta la poppa, portandosi verso
prua, incurante del vento più forte e una volta
lì sollevò discreto un lembo
del suo mantello, acciocché né il cugino
Nicolò né il provier e la sentina
potessero scorgervi le amare lacrime di delusione mescolarsi a quelle
provocategli dalla malattia. Una piccola vertigine gli
scombussolò l’equilibrio
e fortunatamente il suo germano lo pigliò in tempio, ante
che cascasse in
acqua.
“Su,
venite dentro”, lo condusse Nicolò per le spalle,
costringendo
il ragazzo a sedersi nell’accogliente ma affollato interno
del burchio.
“Vedrete che una volta a casa vostra, guarirete
prima!”, tentò di consolarlo.
Avvolgendosi
col mantello fin quasi all’orecchie, il “dai
Scrigni”
scrollò incurante le spalle, chiuse gli occhi e
s’affidò alle cure lenitive del
sonno, che lo strappassero per qualche ora dalle sue frustrazioni e dai
rimpianti.
“Parlava
come se il Momolo dovesse presentarsi a Trevixo da un
giorno all’altro”, commentò atono Marco
Miani, seguendo la sagoma scura e
sempre più indefinita del burchio allontanarsi e poi svanire
alla prima curva.
S’avvolse il mantello a mo’ di toga fin sulla gola,
rabbrividendo al contatto
dell’armatura raffreddata dal vento settembrino.
“Cosa sa ch’io invece
ignoro?”, si domandò, sottolineando il pronome
personale con malcelato livore,
imbevendolo di quella sottile e irrazionale gelosia che gli scattava
ogniqualvolta vedeva interagire il fratello col giovane Contarini,
sentendosi
infatti Marco spesso scalzato dal suo omonimo negli affetti del minore.
Lui
aveva visto crescere Hironimo, conosceva i suoi lati positivi quanto
quelli
negativi e ciononostante, il “dai Scrigni” sembrava
sempre essere a due passi
avanti di lui, quando si trattava di decifrare l’animo
dell’amico.
Frustrante
e fastidioso invero.
“Forse
Marcolin semplicemente nutre più fiducia in nostro
fratello, che riuscirà a trovare il modo di
scappare”, gli confidò Helena,
dirigendosi assieme al marito verso il suo cavallo, Aíthon.
Perfino Eòo, chissà
per quale capriccio nella sua testa equina, s’era rifiutato
di lasciarsi
cavalcare quella mattina, rimanendo testardo nelle stalle del Castello
e manco
per riposarsi o ruminare biada. Sicché Marco aveva dovuto
riprendersi il suo
destriero, nero e dalla muscolatura più possente rispetto
all’agile corsiero
bianco latte.
Il Miani
era giunto direttamente dal Castello, non appena il suo
turno di guardia era terminato, in modo da non perdersi la partenza del
Contarini e d’accertarsi che la moglie non
s’imbattesse in qualche birbo malnato:
non che dubitasse della scorta di Donado Cimavin, ma la prudenza non
era mai
troppa, considerato che l’ultima volta che la greca se
n’era andata in giro
senza di lui, per poco non si faceva accoppare da quei ladri dei
soldati del
Bataja.
“Sono
già trascorsi due giorni”, ribatté cupo
Marco, accarezzando
il muscoloso collo di Aíthon, che
fremette sotto il suo tocco. “Quel
monaco, Fra’ Anselmo, m’ha raccontato di come si
siano separati nel bosco del
Montelo. A quest’ora, anche se Momolo si fosse perso, i
nostri esploratori
l’avrebbero in qualche modo recuperato. Invece
…”, e il patrizio tacque,
mordendosi l’interno della guancia. “Se soltanto
Gradenigo m’avesse permesso
d’andare in ricognizione quel giorno …”
“Dobbiamo
soltanto attendere: vedrai che tornerà presto!”,
gli
pose Helena una mano sulla guancia ruvida d’un accenno di
barba. “Non è morto”,
reiterò inflessibile, guardandolo dritto negli occhi.
Digrignando
i denti, Marco sibilò allora: “Perché
dunque quelle
sue parole? Perché mi ha parlato come uno che sa per certo
di morire?”
“Hieronymos
voleva soltanto riconciliarsi con te. Ambedue eravate
in collera, non stavate ragionando e di sicuro nessuno di voi pensava
veramente, ciò che vi siete urlati contro.”
“Abbiamo
litigato a fine gennaio e per quasi due mesi l’ho
ignorato”, precisò aspro Marco, sordo ad ogni
tentativo della moglie
d’acquietare i sensi di colpa. “Neanche mi sono
presentato a salutarlo, quand’è
partito per Castel Novo di Quer. E in quei cinque mesi, invece di
tendergli una
mano, invece di consigliarlo e magari aiutarlo, l’ho lasciato
a sbrigarsela da
solo, malgrado stesse commettendo una grossa sciocchezza a litigare coi
soldati
e i locali, arrivando perfino a denunciarli ai Dieci!” Sapeva
che Hironimo non
s’era comportato così aggressivamente per
cattiveria, bensì perché Castelnuovo
di Quero era stato devastato dagli scontri degli ultimi due anni e ogni
giorno
contava più dell’oro per riedificare e potenziare
la fortezza. Solo, questa
priorità egli l’aveva comunicata nel peggiore dei
modi alla stremata e
intimorita popolazione di Quero, Alano e Vas, da lui brutalmente
precettata per
i lavori di ricostruzione. “Avrei dovuto intervenire,
portarlo a ragionare e
invece che ho fatto? Sono stato a guardare e a compiacermi delle sue
difficoltà.
Non io, bensì sier Zuam Dolfin e sier Nicolò
Balbi l’hanno aiutato.”
“Erano
i podestà di Feltre e Cividal di Belluno, ovvio
ch’erano i
più indicati. Márkos”, lo interruppe
decisa Helena, afferrandogli il volto con
ambedue le mani e costringendolo a fissarla ben bene,
“potremmo andare avanti
così per tutto il giorno. A che pro fustigarsi? Il tempo non
si riavvolge e,
come sostiene il tuo avunculus, il passato è il passato e
non possiamo
sottrarci al futuro. Non hai soccorso allora tuo fratello, lo farai
ora.
Hieronymos non t’ha chiesto perdono allora, te l’ha
chiesto adesso. I nostri
errori non ci soffocheranno mai, fintanto che possiamo porvi rimedio.
Ora
l’occasione è giunta e su di essa ti devi
focalizzare. La vita è troppo breve,
per rimpiangere e pontificare su ciò che non possiamo
più cambiare!”, dichiarò
energica.
Non
visto, protetti dai portici e dalle strette viuzze, Marco
l’abbracciò forte, affondando il viso sul morbido
incavo della sua spalla.
“Megaleío. I zoí mou
s’agapó”, mormorò piano e
affranto, abbandonandosi al
calore della dolcezza e comprensione d’Helena, delle quali,
lo ammetteva,
spesso si sentiva indegno per tutto il male fattole in passato. Non
meritava
d’avere una donna così al suo fianco, eppure Dio
misericordioso gli aveva
concesso una seconda possibilità. Avrebbe ripetuto il
miracolo, permettendogli
di porre rimedio ai suoi sbagli nei confronti del fratello minore?
“Forse
avresti dovuto partire assieme a Marcolin per Veniexia. Il
suo potrebbe oggi esser stato uno degli ultimi burchi a
partire”, confidò di
punto in bianco Marco ad Helena, rimanendo sempre avviluppato
nell’abbraccio di
lei. “Questo assedio potrebbe … ed io non
sopporterei il saperti …” e non
riuscì a definire a voce alta quei timori, che
l’assillavano all’appropinquarsi
delle truppe nemiche a Treviso. Di notte, infatti, l’ansia
della sconfitta gli
levava il sonno, presentandogli orridi scenari della città
fluviale invasa dai
Collegati, di massacri, di stupri, di devastazioni. Nello zenit di
questi
incubi, si vedeva raggiungere Helena e ucciderla di propria mano,
piuttosto di
saperla vergognata e schiava di quei cani stranieri.
“La
Parthena Maria è qui per aiutarci”,
ripeté ostinata la greca
le medesime parole pronunciate dai Trevigiani a difesa
dell’affresco
miracoloso, salvato in extremis dalla loro bellicosa devozione. Il suo
sguardo
fiducioso contagiò un poco il marito, dissipandone i foschi
dubbi. “Ti ricordi,
come ci protesse e ci garantì la vittoria due anni addietro
a Padova?”
Accidenti
se il Miani se lo ricordava. In quei giorni febbrili e
sanguinosi, una monaca si era presentata inaspettatamente a Palazzo
della
Ragione, chiedendo del provveditore sier Andrea Griti. Concessale
udienza, ella
gli aveva rivelato d’aver avuto una visione, nella quale la
Madonna, apparsale,
esortava d’inviare al suo santuario a Loreto un modellino
d’argento di Padova
del valore esatto di cento ducati, né più
né meno. Soltanto così la città
avrebbe trionfato contro i suoi nemici. Sier Griti – seguace
del
paradosso Credo quia absurdum –
non aveva né dubitato né
tentennato e di tasca propria aveva adempiuto a quel voto, informando
subito
Venezia del singolare accaduto. [2]
“L’anno
addietro – ti ricordi? – i Tedeschi avevano tentato
di
sfondare la porta della chiesa di San Lorenzo a Feltre –
là dove si trovava
quell’antica immagine della Parthena
Maria - per saccheggiarne gli
altari e uccidere quegli sfortunati, ch’ivi s’erano
rifugiati. E invece, né le
armi da fuoco sono riuscite a sfondare il portone né
l’incendio a bruciare la chiesa!”,
gli fece presente la greca, insistendo. “Sin
dall’inizio di questa guerra, la
Parthena Maria ci ha dimostrato che, malgrado tutto, anche la
scomunica, Lei
continua ad intercedere per noi presso Theos. Non ci
abbandonerà. E vedrai che
ci manderà un altro segno, a prova che Treviso non
cadrà in mano dei
Collegati!”
Un segno
… Sì, ecco forse ciò che la
città e i suoi abitanti
aspettavano apprensivi: un segno, un qualsiasi cenno di favore di Dio e
della
Madonna verso di loro, la conferma di protezione contro la minaccia
nemica. E
non chiedevano nulla d’eclatante, anche una piccolezza ma
comunque divina,
inspiegabile se non tramite la fede. Avevano bisogno della certezza di
non
esser stati abbandonati, di combattere per una giusta causa.
Marco
dischiuse le labbra per replicare, sennonché
proferì
tutt’altro: “E tu che ci fai qui?”,
chiese accigliato alla figuretta comparsa
quatta-quatta alle spalle della moglie.
Thomà
si bloccò improvvisamente, come il gatto pizzicato a
sottrarre il pesce dal banco del pescivendolo, anch’egli la
bocca spalancata,
un “Patron!” congelatosi in gola. Piegò
a trombetta le labbra e, fatto
dietrofront, s’apprestò a fuggir via,
sennonché il Miani fu più lesto e
l’acchiappò per il collo della casacca,
costringendolo a fronteggiarlo. “Chi
sei? E cosa vuoi da noialtri?”,
l’apostrofò severo l’uomo, abituato
già a
Venezia alle ruberie di quei giovanissimi accattoni.
“Mi
sun nissun, patron”, balbettò il fantolino,
intimidito da
quello sguardo inclemente e ciononostante sempre più
famigliare. Infatti, per
un istante aveva creduto … “No gh’ho
fato gnente, mi. Gero qua a … a farme i
fati mìi, patron, veo zuro su la Croxe Sancta!”
Aggrottando
la fronte e studiando accorta i lineamenti del volto
del fanciullo, madona Helena esclamò: “Oh, ma tu
sei l’assistente di Fra’
Anselmo!” e rivolta al marito. “E’ giunto
due giorni addietro, tra i fuggitivi,
alloggia in ospedale assieme a noi. Che ci fai qui da solo? Non
dovresti essere
col tuo magister?”
Se il
tono della greca appariva dolce e conciliante, quello di Marco
al contrario suonava duro e accusatorio, così come la
strizzata all’orecchio
che si pigliò il ragazzino. “An, bravo ti! Mi
menti pure! Varda a contarme la
verità, o ti scuoto a testa ingiù
finché non mi sputi le budella!”
“Márkos!
Lo spaventi, povero pulcino!”
“Avanti,
canta canarino!”
“Patron,
per caritade, no me strupiate ea recia!”, pigolò
Thomà,
liberandosi dall’inflessibile stretta del patrizio, correndo
a ripararsi dietro
la più sicura sottana di Helena. “La patrona la
gh’ha rason, mi sun vegnuo qua co
la zente fuzita dil Montelo, perhò no vesto frate come el
Fra’ Anselmo. Mi me
ciamo Thomà di Feltre, fio dil Vitor El Marangon, et arlievo
dil valentissimo
Andrea Trepin di Vitor, bombardier, morto virilmente a Castel Novo di
Quer” e
mentre parlava, l’antica tracotanza riempì il
corpicino del giovinetto, che si
portò avanti, mettendosi in punta di piedi per sembrare
più alto e importante.
E tirando fuori il petto, annunciò solenne: “Et
co’ no smissio polvare, mi me
poxo anca vantar de ser el servidor dil mio patron, el magnifico sier
Hironimo
Miani dil nobeliximo cu-on-tam sier Anzolo, castelan de Quer,
sença il qual
ajudo, mi no saria qui a parlarve!” e detto questo
tornò a rifugiarsi dietro
madona Helena, poiché doveva aver in qualche oscura maniera
offeso l’altro
patrizio, se questi aveva assunto un’espressione terribile,
allungando il
braccio per acchiapparlo di nuovo.
“Oh!”,
si coprì invece la bocca la greca, ricordandosi di quanto
ascoltato dalle due contadine fuggite anche loro da Nervesa.
“Tu sei il
ragazzino che stava con lui, vero?”
“Patrona!”,
s’appellò supplice Thomà,
abbracciandole le ginocchia
e baciandole il bordo della gonna. “Mi sun stà
ladro, xé ver, perhò solo verso
i franzosi e todeschi, i quali no xéi cristiani. No ruberave
gnente a vuialtri.
Mi gh’ho visto el vuostro sior marido co i colori dil mio
patron e squasi el
muso igual. Xéli do zorni che mi gheo zerco, che mi gheo
speto: el patron me
gh’ha promesso de tornar a Trevixo e mi ghe credo,
perché senpre el gh’ha
mantegnuo le soe promesse!”
La
nobildonna scoccò al consorte una lunga e significativa
occhiata, imponendogli la calma e d’abbassare il braccio,
acciocché il fantolino
non temesse una sua reazione negativa e raccontasse indisturbato
l’intera
vicenda. “Thomà”, invitò il
fanciullo ad avvicinarsi a Marco, posandogli
incoraggiante due mani sull’esili spalle. “Nessuno
ti accusa di niente, anzi, è
naturale che tu abbia scambiato mio marito per il tuo padrone: sono
fratelli.”
“Fradeli?”,
spalancò incredulo le fauci il giovinetto, manco si
fosse trasformato in una Bocca di Leone. “Seu el magnifico
sier …?”
“Marco
Miani”, completò per lui il patrizio, cambiando
impaziente
peso da una gamba all’altra. Il cielo s’era chiuso
nuovamente e la luce,
malgrado l’ora mattutina, sparita manco fosse giunto in
anticipo il crepuscolo,
annunciante un secondo temporale. “Sicuramente il tuo padrone
non avrà avuto
tempo di …”
“…
el mio patron me parlava di tre fradeli, perhò no
cognossendove
de fazza, donca no savevo dir chi - tra el Marco, el Carlo et el Lucha
- vuj geravate”, gli spiegò
serissimo Thomà, interrompendolo. E
ricordandosi improvvisamente delle buone maniere, il fantolino
s’inchinò fin
quasi a baciarsi le ginocchia, asserendo enfatico:
“Lustrissimo a me rebuto a
la vuostra clemenza!”
Marco
venne colto da due sentimenti contrastanti, se roteare
snervato gli occhi dinanzi a tanta pacchiana deferenza o se
asciugarseli dalla
subitanea commozione, d’esser stato nei pensieri
d’Hironimo anche durante la
prigionia, se quest’ultimo li aveva indirettamente presentati
a quel
piccoletto. E a proposito di quest’ultimo, stentava a credere
che suo fratello
si fosse preso a cuore la sua sorte, guadagnandosi una devozione quasi
filiale
da parte di Thomà, che lo descriveva alla stregua del
miglior cavaliere del
mondo, manco fosse uscito dal Roman de Troie.
Onde
tagliare la testa al toro e conservare asciutta la testa, il
Miani optò saggiamente d’incamminarsi verso
l’ospedale e lì proseguire la
conversazione. “Seguici”, invitò spiccio
il ragazzino, il quale si portò
accanto a madona Helena, giudicandola più sicura del marito,
anche perché
avvezzo all’incostanza del caratteraccio miano. “Ti
riporto da Fra’ Anselmo.
Dopodiché tu mi racconterai per filo e per segno ogni cosa
capitata a mio
fratello. E non risparmiarmi alcun dettaglio! Capistu?”
“Siorsì!”,
si mise quasi sull’attenti Thomà, felice di poter
costì
aiutare il suo benefattore, riferendo quanto visto e udito
nell’accampamento e
nell’Abbazia. Nessuno l’aveva interrogato
perché mai si dava credito
all’affidabilità delle parole dei bambini, eppure
il fanciullo possedeva una
memoria prodigiosa nell’enumerare i torti subiti.
Quanto a
Marco, oltre che ad apprendere in quali condizioni si
trovasse Hironimo l’ultima volta che lo si era visto vivo e
vegeto, voleva
conoscere esattamente a quali tormenti Mercurio Bua
l’aveva
sottoposto, così da restituirglieli settanta volte sette al
primo scontro.
***
Le
bisbiglianti ombre, il loro tapetum lucidum e il loro sinuoso e
frusciante scivolare lungo i muri, fin quasi a giungere a sfiorarlo,
scomparvero tutti all’improvviso in sordi e rancorosi ringhi
e Hironimo intuì
che doveva esser ormai giunto il mattino e ch’era
sopravvissuto ancora per
qualche tempo a quella prigionia di buio totale e solitudine.
Rannicchiato
seduto contro uno scomodo angolo, le ginocchia
portate al mento, il giovane patrizio si guardò furtivamente
attorno, gli occhi
gonfi e pesanti dall’insonnia, la testa riempita di cotone da
quanto gli
pulsava. Appurò che gli unici rumori percepiti dalle sue
orecchie – rumori
tangibili, vivi, non sovrannaturali – corrispondevano alle
gocce d’umidità
filtrante dalle vecchie pareti, gli squittii dei delusi ratti
lì pascolanti e
il gorgoglio del suo rabbioso stomaco, preoccupatissimo di quella
Quaresima
anticipata.
Il Miani
s’umettò a fatica le labbra secche e crostose dai
morsi
datisi, per forzarsi alla veglia e non lasciarsi sopraffare da quelle
ombre spaventose.
Ad ogni colpo di tosse la gola gli pizzicava, ricordandogli della sua
disidratazione e di fatti egli non si sovveniva dell’ultima
volta, ch’aveva
bevuto dell’acqua. Lentamente, il giovane uomo
staccò le mani gelide dai
polpacci, arricciando le altrettanto fredde dita dei piedi divenutigli
insensibili. Stiracchiò cauto una gamba, sentendo
scrocchiare l’anca e poi
l’altra. Aggrappandosi ad
un’irregolarità del muro, Hironimo
s’alzò incerto,
tentando piccoli passi e stringendo i denti dal dolore
ch’attraversava in un
sol fascio l’intero suo corpo, denutrito, malmenato e
intorpidito. Almeno,
magra consolazione, i suoi occhi un poco s’erano abituati
all’oscurità, sebbene
non rendendogli per niente la sua cella meno spaventosa, al contrario,
presentandogli i suoi sgraditi ospiti con maggior nitidezza.
Hironimo
mosse il piede, avanzando di un passo verso la porta, là
dove aveva intenzione di battere fino a scorticarsi la pelle,
reclamando a viva
voce dell’acqua. Volesse il Cielo, qualcuno forse avrebbe
esaudito quella sua
impellente necessità.
Invece,
neanche avesse avuto un piede caprino, il giovane
incespicò e cadde rovinosamente per terra, i suoi riflessi
rallentati dalla
malattia e dal digiuno forzato. Guaì sfinito
all’impatto del suo ginocchio,
della spalla e del braccio per terra, aggiungendosi alle altre costanti
e
lancinanti fitte. Spossato, neanche provò a rimettersi in
piedi, accoccolandosi
sul fianco e lasciando ch’accadesse quel che doveva accadere.
Quando il
ragazzo riuscì ad aprire gli occhi, innanzitutto il suo
corpo era pervaso da un dolore nuovo, bruciante, accompagnato da un
fastidiosissimo prurito e mal di stomaco. In secondo luogo, il buio era
scomparso, mitigato da una soffocante semioscurità: sopra di
sé egli
riconosceva un tetto di canne palustri, delle erbe appese e un grasso
odore
terroso gli riempì le nari, misto a paglia, latte, funghi,
salumi, fumo …
Un viso
olivastro gli si parò innanzi, contornato da riccioli
scuri a malapena trattenuti da uno stretto velo bianco.
“Resisti finché te
pol”, lo istruì la donna e con delle pinze
estrasse delle braci dal fuoco, che
mise dentro un pitale pulito. Posizionò questi tra le due
sedie sopra cui
Hironimo era disteso senza camicia, lasciando la scia compatta di
vescicole
violacee lungo il dorso ben esposta al calore proveniente da sotto.
“Ti te xé
el puto pì corajoso, che mi cognossa!”, gli
accarezzò la guancia la baba
curandera, le sue dita scure e nodose più delle radici degli
alberi e come tali
odorose di humus e verzura. Dopodiché, inginocchiatasi, ella
prese a soffiare
sulle braci.
Momolo
strinse i denti, tirando su col naso e s’irrigidì
onde dar
prova di virile audacia. Da giorni quelle bolle gli avevano provocato
febbri,
crampi allo stomaco, nonché una voglia matta di grattarsi e
non vedeva l’ora di
disfarsene, anche per poter ritornare a dormire in camera coi suoi
fratelli o
coi genitori, esiliato infatti in una stanzetta, onde non contagiare
nessun’altro a Ca’ Miani.
“Resisti.
El fogo va varirte: el va sugàr (asciugare, ndr.) le
papule, che van farse en bronse!” (croste, ndr.)
Il
pigolante fantolino annuì, il labbro inferiore che gli
tremava
violentemente dall’intima paura e, man mano che trascorreva
il tempo, dal
bruciore provocatogli dai bollenti vapori provenienti dalle braci.
Avvertì le prime
lacrime inumidirgli gli occhi, la pelle arrossarsi e i nervi
pizzicargli
imbizzarriti da quei dolorosi stimoli. Inconsciamente, prese ad
anguillare via,
sennonché la mano robusta della baba curandera lo
bloccò, intimandogli di
pazientare e di rimanere fermo.
Invece
d’assuefarsi al calore, esso acuiva il malessere
già
provocatogli dalle gonfie vescicole, asciugandole e seccandole ma
così anche
scottando la carne sana lì accanto. La donna seguitava a
soffiare imperterrita,
la pelle color cannella resa ancora più scura dalle ombre
gettatele dal
caminetto alle sue spalle. La mente atterrita e sconvolta di Momolo la
scambiò
allora per una di quei diavoli bluastri, ch’aveva contemplato
sul mosaico di
Santa Maria dell’Assunta a Torcello e gli parve di soffrire
la medesima pena
dei condannati all’inferno, rosolati lentamente e a puntino
per l’eternità.
Una
vampata particolarmente bollente ruppe l’ultima fibra di
resistenza in Momolo, il quale prese a scalciare e ad agitarsi,
frignando
dolorante e spaventato da tanto male. “Brucio!
Brucio!”, gridò, mentre la baba
curandera gli afferrava le caviglie, impedendogli che per azzardo
mettesse il
piede dentro le braci. “Tata! Tata! Mi fa male! Mi fa male!
Tata!”, singhiozzò,
allungando le braccia al cielo, aprendo e schiudendo i pugni, in attesa
d’essere preso in braccio.
La mano
grande e forte di Padre avvolse la sua piccolina, mentre
la sua testa veniva appoggiata sul ginocchio paterno. “Sono
qui”, lo rassicurò
e la visuale di Momolo venne coperta solamente dal viso di Anzolo,
seppur
rovescio.
“Tata!”,
aumentò il bambino la stretta, conficcandogli le unghie
nella carne. “Tata, brucia tutto! Brucia come
l’inferno!”
Suo padre
scosse il capo. “No, non è l’inferno:
questo è il dolore
prima della guarigione. Resisti ancora un poco. Sei così
bravo, così coraggioso
…”
“Mi
fa tanto, tanto male, Tata!”, pianse Momolo, rifugiandosi
nella carezza paterna sulla guancia. “Mi sembra di bruciare
vivo! Mi sembra …
mi sembra d’essere una di quelle anime dannate a
Torzelo!”
L’uomo
lo guardò a lungo, scostandogli la frangia umida di sudore
dalla fronte e dagli occhi umidi. “Pensa alla Madonna. Te la
ricordi? Nel
catino tutto dorato della basilica a Torzelo. Grande, maestosa, tutta
bella
avvolta dal maphorion blu.”
Il
fantolino deglutì affranto, aggrottando la fronte e
sforzandosi
di ricordare l’immagine evocata dal genitore.
Scandagliò nella sua memoria,
s’impose di trovarla e quando la Vergine Odigitria gli
riempì gli occhi, Momolo
s’aggrappò alla vesta paterna quanto il Bambino a
quella di sua Madre. “Sì!”,
asserì trionfante. “Me La ricordo!”
“Concentrati
su di Lei”, lo istruì Padre. “Odigitria,
dal greco,
vuol dire: Colei che conduce e che mostra la
direzione. Lei ti
guiderà sulla strada della guarigione, oggi, ma un domani,
quando ti sentirai
perduto o non saprai quale cammino intraprendere, pensa a Lei e a Lei
soltanto
e non ti perderai mai.”
Momolo
prese un profondo respiro e, stringendo il braccio del
genitore al petto, chiuse gli occhi e fermò
l’immagine nella sua mente,
serrando i denti allo scottante vapore. Quand’ecco che li
riaprì interdetto,
avvertendo l’arto di Anzolo farsi più
inconsistente, scivolandogli via leggero.
“Tata?”, inquisì disorientato, non
comprendendo perché i contorni del viso di
Padre si stessero muovendo e colorando di verde, quasi lo stesse
contemplando
da sott’acqua. “Tata?”, ripeté
ansioso, cacciando fuori un urletto sorpreso
dinanzi al balzo nervoso di una guizzante pinna, seguito dal sibilo di
una
freccia.
“Ha-ah!
Te gh’ho ciapà, cancaro d’on
pesse!”, giubilò trionfante
Hironimo, appoggiando l’arco sul fondo basso della balotina e,
tiratasi su la
manica, issò rapido il pesce infilzato dalla sua freccia.
“Ma
vardalo, come si vanta!”, lo canzonò Marco
Contarini,
appoggiandosi sul remo. Dietro di lui sghignazzarono i suoi fratelli
gemelli
Piero e Polo e anche Agustin Miani, biscugino d’Hironimo,
coprì il suo risolino
dietro la mano. “Dai, passami l’arco, prima che si
deprima a furia d’esser
scambiato per una lenza!”, non si trattenne il “dai
Scrigni” e le gote del
Miani si tinsero di rosso, pur ridendosela anch’egli.
“Puoah!
Almanco io ho provveduto al pranzo!”
“Infatti
l’ho sempre detto, come tu sia un eccellente pescatore!”
“Tasé-là!
Od ancuò, rimani digiuno!”
Scambiandosi
i posti, Marco a prua con l’arco e Hironimo dietro di
lui, i ragazzi ripresero a vogare in sincronia perfetta e la
balotina scivolò silenziosa tra i ghebi della laguna,
aguzzando la vista in
cerca di uccelli marini sostanti sulle barene.
Uno
stormo li volò sopra nella nota formazione a
“V”, rompendo le
nubi chiare appena colorate dalla tenue tavolozza dell’alba.
Il Contarini
appoggiò appena il piede sul bordo della barchetta, tese
l’arco, puntò la
freccia dalla pallina d’argilla contro uno degli uccelli e il
suo saettante
sibilo s’unì al grido dell’animale, che
cadde stordito in un tonfo in acqua.
Rapidi i giovani ramarono onde raggiungerlo prima
ch’affogasse, afferrando
Marco la preda per il collo, torcendoglielo.
“In
effetti”, ammise Piero Contarini, alimentando il fuoco con
due
ramoscelli, “se non fosse stato per Momolo, addio
desinare!”
“Se
tu avessi avuto la testa sulle spalle e non
nell’Eneide”, gli
ricordò velenoso suo fratello gemello Polo, “ti
saresti ricordato l’arco e noi
avremmo cacciato in tre!”
“Potevi
ricordartelo tu!”
“Ero
a preparare la balotina, sempio!”
“Poteva
pensarci il Marcolin!”
“Il
Marcolin è innamorato …”
“Di
chi?”
“Di
me!”
“Momolo,
serra quella boccaccia!”
“Visto,
Pierolin? Tutti hanno una scusa, tranne te! Ammetti che ti
pesava troppo il culo, poltrone!”
Al che
Piero elargì una linguaccia a Polo, l’unica
argomentazione
rimastagli, dirigendo la sua attenzione alla cottura dei pesci impalati
nei
bastoncini. I volatili uccisi erano stati legati e pronti per le cucine
domestiche, mentre il resto della comitiva si riposava nel casoto,
recintato da
incannicci dove avevano attraccato.
“Toh,
ciapa, Pierolin!”, aprì Agustin un piccolo
fagottino di
stoffa, cedendogli una fetta di polenta avanzata dalla sera precedente.
Affamato, il minore dei Contarini “dai Scrigni”
l’afferrò cupido, ficcandosela
subito in bocca.
“Che
si dice, Piero?”, lo rimbeccò accigliato suo
fratello
maggiore Marco.
“Grazie,
Stin!”, sbiascicò il ragazzo e Agustin
scrollò le spalle,
addentando anch’egli la polenta dopo aver dato una fetta
anche a Polo.
“Ma
tu guarda, se alla sua età debbo ancora insegnargli
l’educazione”, schioccò Marco la lingua,
disapprovando appieno il comportamento
talora un poco acerbo di Piero, così diverso da quello
invece più socialmente
spigliato del gemello. Appoggiando la testa sul suo grembo, Hironimo lo
canzonò:
“L’hai
proprio allevato male, mammina!”
“No,
tu sei la mammina!”
“No!”
“Sì!”
“Bauco!”
“Macaco!”
E dopo
gli insulti si fecero i due ragazzi un misto tra solletico
e lotta libera, finendo a gambe all’aria per terra, tra
grasse risate.
“Marcolin?”,
ritornò d’un tratto serio Hironimo, approfittando
della distrazione dei due minori, impegnati a controllare la rosolatura
dei
pesci.
“Dime.”
Puntellandosi
sui gomiti, il giovane patrizio gli confidò un
dubbio sortogli da molto tempo. “Secondo te, le persone
possono seguitare ad
essere giuste, anche se si sono allontanate da Dio?”
Il
Contarini reclinò il capo, affievolendosi sul suo viso lungo
e
pallido l’ultima traccia d’ilarità.
Qualcun altro avrebbe, forse, potuto
scandalizzarsi dinanzi a tal impertinente e spinosa domanda; per
fortuna del
Miani, il suo amico possedeva il medesimo spirito inquisitore
dell’intellettuale,
ereditato dallo zio sier Hironimo, per il quale nessun argomento era
troppo
immorale da non esser sottoposto al vaglio della logica.
“Uhm
… credo … credo si potrebbe definirle
persone corrette,
ma non esattamente giuste”, ci
ragionò sopra il ragazzo,
picchiettando pensoso l’indice sul mento.
“Perché corrette?
Non possiede lo stesso significato
di giusto?”
“Senza
Dio come eterno riferimento e super partes, l’etica diventa
soggettiva e interpretabile, anche qualora venisse istituzionalizzata
in leggi. Morale diventa
ciò che è utile ad un dato scopo;
similmente, amorale diventa
ciò che può intralciarlo o danneggiarlo. Ma tutto
questo, avviene in un dato
tempo, in un dato luogo e talora anche per una data cerchia di persone
rispetto
ad altre. Non sono verità eterne e universali: per esempio,
oggi è proibito
uccidere i neonati che non si vogliono, magari un giorno invece lo
sarà e
nessuno si sentirà colpevole, perché
verrà giudicato utile dunque
giustificabile dunque morale. Ma è giusto? È
sbagliato? Come lo sappiamo? Cosa
ce lo conferma, quando il nostro intelletto al massimo ci aiuta a
distinguere
il vero dal falso, ma anche quello solo dopo molti anni
d’esperienze di vita?”
“Quindi,
anche se una cosa ci è per legge permessa ed è
moralmente
accetta, non è necessariamente giusta?”
“C’è
ancora speranza per te, Momolo: ti ricordi la tua lectio
paolina!”, sdrammatizzò Marco, avvertendo un certo
disagio a parlare di tali
argomenti, conscio di quanto l’amico saltasse su inviperito
ad ogni accenno di
religione, neanche lo stessero insultando. “Perché
questa domanda?”, inquisì
dolcemente.
Hironimo
si tormentò una cuticola. “Volevo sapere se i
meriti in
terra veramente si rispecchiano nell’Aldilà. Si
può essere stati in vita
cittadini modello, eppure finire ugualmente all’inferno? Si
può divenire grandi
sovrani, grandi papi e portare il proprio imperio al massimo splendore,
eppure
finire ugualmente all’inferno, perché quella fama
è stata costruita nel sangue
e sulle ossa di popolazioni devastate dalla guerra?”, si
chiese il giovane
Miani, osservando sull’immensa parete la sezione di mosaico
raffigurante i
Superbi avvolti dalle fiamme, sospintivi dentro dagli Angeli e
catturati dai
diavoli.
Riconobbe
Costantino Copronimo, Nestorio, Eudossia imperatrice,
[3] a loro tempo famosi, potenti e forse pure motivati da valide ed
etiche
motivazioni, eppure niente dei propri meriti in terra li aveva salvati
dalla
dannazione eterna … Avevano creduto
d’aver operato nel giusto,
invece sbagliando. Avevano creduto di fare la cosa giusta, quando al
contrario
avevano fatto la cosa in quel momento conveniente o concessali,
in base al loro status sociale, alla loro cultura, all’essere
membri di una
data epoca e di una data società.
Hironimo
si portò una mano alla gola, rendendosi soltanto ora
conto del cerchio e della palla di cannone ritornati improvvisamente,
il peso
di quest’ultima ch’andava aumentando, fino a
costringerlo in ginocchio a
guardare la fascia inferiore del mosaico, il resto
dell’inferno: i Lussuriosi …
Non
si ricordava come la dama gli fosse letteralmente cascata tra
le braccia: Hironimo, un poco alticcio e frastornato dai bagordi del
Carnevale,
s’era un attimo staccato dal rumoroso gruppo dei suoi
altrettanti ebbri amici,
quando lei, travestita da monaca, gli era inciampata addosso. La donna
aveva
riso allegra all’incidente, baciandolo in bocca senza manco
scostarsi la
maschera. “Quegli è mio marito”,
indicò ella tramite un ampio gesto del braccio
il gentiluomo travestito da frate, che stava scendendo i gradini del
ponte,
raggiungendoli. Hironimo s’esibì in un sardonico e
ampolloso inchino. “A lui
piace guardare”, gli sussurrò
all’orecchia la dama, maliziosa, passandosi la
punta rosea della lingua sui denti bianchissimi.
…
gli Iracondi immersi nelle acque gelide ...
Lo
schiaffo aveva martoriato la guancia incavata di quel
carpentiere di Quero, prima ancora che il cervello d’Hironimo
avesse elaborato
in totum il messaggio dell’uomo.
“Non
mi rifilare altre patetiche scuse del cazzo, per giustificare
la tua pigrizia! Stanco? Tu sei stanco? Siamo in guerra – de
diana! – se non
lavori e non t’impegni alla ricostruzione della fortezza, ti
darò io il riposo,
quello eterno del cimitero! Parassita, pigro pane-perso, crapulone
ingordo!
Sempre pronto a chiedere, e mai a dare!”
“Se
la mettete così, il castello ve lo ricostruite da solo,
fazza-de-merda!”
Un
pugno alla bocca dello stomaco chetò il ribelle e uno tra le
scapole lo spedì a baciare la terra. Dopodiché
Hironimo lo afferrò per i
capelli, torcendogli indietro il collo.
“Ancora
un insulto ed io ti lego una grossa balota di granito al
piede, poi ti faccio buttare nella Piave! E vedremo, quanto ti
divertirai ad
insultare i pesci!”
Il
carpentiere, ch’aveva anche moglie e figli appresso,
scoppiò
allora a piangere. “Sior castelan, de grassia, cercate di
capirmi: siamo
fuggiti da un saccheggio, abbiamo perso ogni nostro avere, sono
settimane che
dormiamo per terra, ridotti a mangiare erba! … Perfino alle
bestie viene
concesso un poco di riposo e di cibo, voi ci costringete a lavorare di
giorno e
di notte, senza tregua, lesinandoci anche le più basiche
necessità! Trattate
meglio i vostri asini di noialtri cristiani!”
Un
piccolo spasimo sussultò nel cuore d’Hironimo, il
quale si
morse il labbro inferiore, ammettendo nel suo intimo
d’essersi comportato
ingiustamente nei confronti di quel poveraccio. In effetti,
constatò, questi
mostrava sul volto i segni di un’infinita spossatezza e
denutrizione. I lavori
potevano interrompersi per qualche ora, abbastanza per concedere un
picciolo
istante di tregua a quei disgraziati.
Ma
si trattò d’un attimo di pietà.
“Appunto!
Perché i somari sono più utili di te e di quel
peso-morto della tua famiglia!”, gli diede un calcio sulle
natiche,
spintonandolo via. “Sei ti becco ancora a poltrire sul
lavoro, o peggio a
lavorare da culo”, gli puntò feroce contro
l’indice, “ti rinchiudo dentro le
stinche e spero che la tua pelle sia tanto dura quanto quella tua
testaccia,
perché stai certo che ti scuoierò vivo a furia di
frustate!”
“Il
vostro sior Pare – a chi Domeneddio perdoni! – non
era così!”,
commentò amaramente il carpentiere, dirigendosi zoppicante
verso le
impalcature.
Un
sasso lo colpì alla spalla, rubandogli un sorpreso guaito di
dolore.
“Io
sono meglio di mio padre!”, ruggì Hironimo,
rivoltando in aria
una seconda pietra e il viso trasfigurato in una maschera
pressoché demoniaca.
“Io ricostruirò in tempo questa fortezza e se
salverete la vostra ingrata
pellaccia, sarà unicamente per merito mio!”,
ringhiò malevolo e lanciò il sasso
in direzione degli attoniti operai. “Sempre a lamentarvi,
voialtri! Dormire,
mangiare, scopare … altro non riuscite a concepire dalla
vita! Ecco perché vi
ritrovate alla base della gerarchia! Non siete poveri a caso!
C’è un motivo ed
è la vostra invincibile stupidità! Sempre a
borbottare alle spalle di chi si
sbatte per voi! Incapaci di governarvi, pretendete di suggerirmi come
farlo?!
Siete buoni solo a nascondervi e ad invocare pietà, usando
lo scudo trito e
ritrito di Dio, la Verzene e tutta la Corte Trionfante! Beh, sapete che
vi
dico? Che se non vi date da fare, neanche Sen Michiel in persona vi
salva dalla
forca! Al lavoro, becchi fottuti! La scelta è vostra: se le
picche dei
lanzichenecchi o le mura ricostruite di Castel Novo! Al
lavoro!”
Quella
sera medesima Hironimo aveva informato il Consiglio dei
Dieci dell’accaduto – assieme alla scoperta del
passaggio di Scalon – e
l’indomani aveva pubblicamente frustato un sodato
perché, considerandosi
quest’ultimo all’apice della saggezza, gli aveva
consigliato di rallentare i
ritmi serrati di ricostruzione del castello, ricordandogli della favola
del
cavallo e del somaro, dandogli infine sprezzante del
“putachio imberbe,
palorbo.”
“E
tu che vuoi, pidocchio?”
Il
biondino lo fissò tranquillissimo, aggiustandosi
l’elmo in
testa troppo grande per lui. “Non c’è
vergogna nell’ammettere d’aver paura,
patron”, gli confidò.
“L’abbiamo tutti.”
Hironimo
lo spintonò via, intimandogli d’andare alla malora.
…
gli Invidiosi dai crani rosi dai vermi, come Hironimo s’era
ognora roso di rabbia nel vedersi superato dagli altri in tutto: in
bravura
intellettuale, nelle amicizie, negli amori, nella ricchezza, nella
popolarità,
malgrado i suoi sforzi di migliorarsi, di primeggiare ad ogni costo.
…
gli Accidiosi rappresentati come teschi ed ossa umane disperse.
Perché invece d’ingegnarsi e non arrendersi
dinanzi alle difficoltà, Hironimo
s’era lasciato andare, una nave senza nocchiero, vivendo alla
giornata, senza
progetti, senza un futuro.
…
i Golosi e gli Avari, gli ultimi con le teste ingioiellate.
Tanto egli era stato ingordo nella sua ricerca di soddisfazione
personale, da
però risultare avaro d’amore e comprensione verso
il suo prossimo,
circoscrivendo l’intero universo ad io, me e me stesso,
incurante di qualsiasi
altra cosa esistesse fuori da esso, intrappolato nel culto
pressoché idolatra
dell’amor proprio.
Hironimo
ghermì la catena e provò a sollevarsi eretto,
sennonché
la palla aumentò di peso e dimensioni, ricostringendolo
stavolta prono, faccia
a terra.
Quant’era
stato stupido e cieco, lasciandosi abbindolare
dall’allettanti promesse dell’antropocentrismo!
Cos’era l’uomo? Un minuscolo
tassello del maestoso mosaico ch’era il mondo, creato e
basato su leggi
razionali e funzionanti, le quali s’infischiavano di
ciò che l’uomo volesse o
non volesse. Quante volte l’uomo aveva creduto
d’aver domato la Natura e poi
essa gli si ribellava e fagocitava ogni sua impresa? Quante volte aveva
essa
dimostrato di funzionare perfettamente senza l’ausilio umano?
Similmente,
quante volte l’uomo si vantava di conoscere Dio e invece non
sapeva un bel
niente di niente? Non era conoscenza, bensì interpretazione,
spessissimo
annacquata da esperienze e tornaconti personali. Si odiava Dio
perché non si
voleva odiare se stessi e i propri difetti e limitazioni;
perché non si
volevano accettare le personali sconfitte. Non si voleva ammettere
l’impossibilità di governare il destino e il
mondo, i quali andavano avanti per
la loro strada, incuranti di progetti e desideri. Quante volte ci si
gloriava dei
propri successi, presentandoli come frutto dei meriti personali,
dell’ingegno,
della libertà umana? E invece, al primo sbaglio o vento
contrario? Chi si
biasimava immediatamente? Dio, quel Dio che, all’apice della
gloria, s’era
scartato, ritenendolo superfluo e ininfluente ma nelle miserie ecco che
diveniva tiranno e vendicativo.
In
realtà, ragionava Hironimo, in Lui si proiettavano le
proprie
frustrazioni, credendoLo una sorta di genio orientale, che tramite
miracoli
potesse risolvere ogni situazione così, a comando, con uno
schiocco di dita. Se
veramente esisti, fai questo … quest’altro
… altrimenti a che servi? Mettendosi
al centro dell’universo, s’era messo Dio in
funzione delle necessità umane. O
capricci? Hironimo aveva serbato livore contro Dio, perché
aveva scambiato la
durezza di cuore degli uomini per la Sua. Chi aveva condannato
unanimemente
Padre? Dio o la dottrina fatta istituzione? E da chi era composta e
interpretata l’istituzione? Da uomini, ergo fallibili e
limitati. Vero che la
morte di Padre era stata ambigua e che soltanto lui sapeva cosa fosse
esattamente successo quella maledetta mattina; ciononostante, la sua
famiglia
aveva dovuto agire con la vergogna dei colpevoli, elemosinando quasi un
funerale cristiano e anche dopo Hironimo aveva vissuto
l’ipocrita
commiserazione e il giudizio negativo della gente, in primis di quella
parte di
clero a conoscenza della sordida vicenda. Non sapevano niente e avevano
lo
stesso condannato Padre, sostenendo di aver letto e capito ogni singola
parola
della Bibbia, di conoscerne alla perfezione il significato e quindi
Padre ai
loro occhi era necessariamente perduto, senza possibilità
d’appello. Ma era
davvero così?
...
Orribil furon li peccati miei; ma la bontà infinita ha
sì gran
braccia, che prende ciò che si rivolge a lei ... E dunque
non poteva Dio aver perdonato Padre, anche all’ultimo
momento, scardinando la
logica umana, rapida all’ira e lenta al perdono?
Perché non aveva avuto fiducia
nella Sua misericordia, piuttosto che in quella avara e saccente degli
uomini?
Hironimo
non aveva capito un bel nulla, troppo limitato dal suo
rancore, dalla paura e dalla superbia che, aggiunti al suo modesto
intelletto,
avevano soffocato ogni speranza in Dio e di conseguenza la sua fede in
Lui. Non
aveva compreso che, così facendo, danneggiava se stesso,
poiché s’era privato
d’un punto fisso nella vita, della sua stella per navigare in
quelle tempestose
acque mortali. Aveva posto fiducia in ciò ch’era
fallibile ed effimero. E di
conseguenza, era divenuto insensibile e crudele; per difendere tale
meschinità
e non provare rimorso, aveva sminuito il suo prossimo al posto di
guardarsi
dentro e riflettere, più facile porsi su di un piedistallo e
puntare gli
indici. Maestro del nulla, aveva esaltato una vuota conoscenza,
un’etica
fondata sulla sua vanità. Che negli attuali tempi, mica era
stupido farsi gli
affari propri, ma … ma in quale persona s’era
infine trasformato? Mediocre,
inconcludente, antipatica.
Ed ecco
ch’era giunto al termine della sua corsa – il
patrizio lo
percepiva nelle ossa. I maltrattamenti, la denutrizione, la febbre
l’avevano
minato nella salute e nel corpo e, per quanto possedesse una tempra e
una
volontà d’acciaio, egli non poteva competere
contro l’imparziale falce
dell’oscuro mietitore. Tergiversare, rallentarlo, magari, ma
al suo
appuntamento doveva presentarsi.
Oggettivamente,
il giovane trovò la sua una fine piuttosto
squallida. E la vide, quella baldracca, ghignargli dinanzi lugubre e
golosa,
assaporando la preda sicura e prossima. Almanco fosse morto virilmente,
la
spada in pugno e forse sbudellando La Palice e soprattutto Mercurio Bua
… di
certo avrebbe riscattato in quella sua morte eroica gli anni persi a
correre
dietro a fantasmi, sogni e chimere. Oh, beh, in molti muoiono
esattamente come
hanno vissuto e nel suo caso? Ingloriosamente, nel rancore, nella paura.
Strisciando,
schiacciato infatti da quella gigantesca ballotta e
dal bruciante calore attanagliargli le viscere, Hironimo si
portò al centro del
mosaico, là dove nella lunetta sotto la Psicostasia
– soggetto nel suo caso
quanto mai adeguato – si trovava la Madonna in posizione di
orante. E non
potendo sollevare né mani né braccia, il ragazzo
s’accucciò in proskynesis e
ripeté l’invocazione scritta sulla
lunetta: Virgo Divinum Natum prece pulsa,
terge reatum.
“O
Vergine, prega il Divino Nato, purifica il peccato!” e
che i demoni non riescano a pendere la bilancia di San Michele dalla
loro
parte, che i sacchi e le otri contenenti i miei peccati siano meno
pesanti di
quanto io so, che in realtà sono.
“Ignoro
se queste mie parole saliranno fino a Te, perché
sicuramente in questi orribili giorni starai ascoltando preghiere e
suppliche
provenienti da persone assai più meritevoli del sottoscritto.
Sono
stato un ribelle, un indegno e un idiota, non il peggiore tra
i peccatori, ma ugualmente ho perduto il senno e mi sono ostinato ad
offendere
a modo mio il Tuo Figlio. Non merito niente, io mi sono preparato
questo letto
ed è naturale che ora vi dorma sopra. Ho provato rancore nei
Vostri confronti,
perché Vi ho creduti lontani e indifferenti alla mia sorte e
alla mia pena, quando
al contrario Voi eravate sempre con me, nel mio cuore, mentre io mi
assordavo
volontariamente alla Vostra voce. Solo adesso mi rendo conto, quanto in
realtà
io sia stato protetto, scampando a punizioni ben peggiori per le mie
malefatte,
rispetto a qualche pugno in faccia o una strigliata
da parte dei
miei parenti. Pretendevo amore e comprensione e non ho mai
né amato né cercato
di capire. Volevo, volevo, volevo e non davo niente. Ogni Vostro dono
l’ho
rifiutato, cieco, avido e stolto per apprezzarlo.
Dopo
tante offese e ingratitudine, come posso sperare nel perdono?
Ciononostante,
anche un cane può mendicare qualche briciola dal
tavolo del padrone. E pertanto questo, o Madonna, io Ti chiedo, Ti
supplico, Ti
imploro: non permettere ch’io muoia in dannazione! Se la mia
vita deve finire
presto, che almeno io abbia la possibilità di mondarmi da
ogni mio peccato
mortale!
Provo un
disgusto enorme verso me stesso, per le occasioni
sprecate, per l’aver costruito il nulla, pur nato
privilegiato, con mezzi e
intelligenza a disposizione! Mi lamentavo della mia
mediocrità, maledicendo di
non possedere di più, quando non mi rendevo conto che Voi mi
avevate munificato
di ogni qualità per emergere, per agire e vivere
glorificandoVi con la mia
vita! Ho eguagliato il servo malvagio, ch’ha seppellito il
talento donatogli
per paura. Non ho fatto che compiacere me stesso e non ho amato nessuno
al di
fuori di me, crogiolandomi nel mio dolore senza affrontarlo, anzi,
usandolo
come scudo per giustificare la mia inettitudine e i miei fallimenti.
Credendomi
superiore, ho puntato il dito quando invece avrei dovuto puntarlo
contro me
stesso e migliorarmi. Non sapevo niente e mi vantavo di sapere tutto.
Che cosa
posso offrire sulla bilancia di San Michele, se non il
mio sincero pentimento? Mater Dei, non fare che i miei ultimi
sentimenti
mortali siano di paura: intercedi per me, ch’io possa morire
nella speranza del
perdono. Dammi un segno di grazia! Uno soltanto! Per amore di mia
madre, che
non mi sappia morto senza assoluzione! Per le lacrime che lei ha spento
per me,
per le sue preghiere di riportarmi sulla retta via, ch’io ho
ignorato e
dileggiato! Che non siano state invano! O Madonna! O Mater Dei! Un
figlio
t’implora! Un figlio ti supplica! Ho smarrito la via, Madonna
Santa … Aiutami!
Dammi un segno! Un segno! Se debbo morire, ch’io possa
riconciliarmi …!”
Un
possente colpo di tosse interruppe Hironimo, costringendolo a
bocconi per terra e a vomitare bile e catarro. Puntellandosi a fatica
sui
gomiti, il patrizio si nettò il viso madido di sudore e di
lacrime, bloccandosi
d’un tratto.
S’era
posto seduto facilmente e un buio pece l’avvolgeva. La sua
mano anchilosata e infreddolita si portò
all’altezza della gola, tastando e non
vi trovò alcun cerchio né palla di cannone. E di
sicuro, a giudicare dal puzzo
indescrivibile di quella cella, egli non si trovava nella basilica di
Santa
Maria dell’Assunta a Torcello. S’asciugò
le lacrime e si soffiò il naso col
lembo della tonaca già di suo lercia, peggio di
così tanto non poteva
sporcarsi.
Hironimo
si pizzicò il braccio, appurando il suo stato di veglia
e, giusto per assicurarsi totalmente, si tirò anche i
capelli. Sì, non dormiva.
Non sognava. Ma veramente s’era trattato di un sogno, come la
notte precedente?
O di ricordi? O entrambi? O peggio, d’allucinazioni e visioni
sovrannaturali,
per tormentarlo più di quanto non stesse già
soffrendo? Beh, un lato positivo
in quell’infernal marasma esisteva: se era sveglio
significava ch’era vivo,
ergo che la sua ora non era giunta, non subito, non oggi.
Poteva
ancora pregare. Rimediare.
L’unico
inghippo rimaneva come: non allenata, la sua mente aveva
scordato le orazioni insegnategli da Madre, da Crestina e da quel
povero
martire del suo precettore, il canonico del Monastero della
Carità. Poco male,
una tuttora se la ricordava a memoria, sebbene più per
narcisismo letterario
che religioso.
Affaticato
e con la tesa che gli girava, Hironimo ritornò nella
comoda posizione di proskynesis e, schiarendosi la gola,
proferì lento e
incerto quelle parole, come uno scolaretto alla sua prima declamazione
pubblica: “Vergine Madre, figlia del tuo Figlio,
umile e alta più che
creatura, termine fisso d’etterno consiglio …”
E man
mano che procedeva nella dantesca preghiera di San Bernardo
alla Madonna, la sua lingua divenne più sciolta ed eloquente
e il suo pensiero
più stabile, svaniva la fatica dell’animo e una
rara calma lo acquietava,
aprendogli cuore e orecchie dopo anni di sordità volontaria.
Il silenzio e il
buio gl’incutevano meno paura, così come la
solitudine, mitigata da una
presenza forte e inafferrabile, per quanto indefinita. Se il corpo si
stava
indebolendo, lo spirito si rinforzava, temprandosi. Le ombre sparivano,
sconfitte.
A questa
nuova sensazione d’atarassia Hironimo
s’abbandonò
fiducioso, ripetendo l’orazione di nuovo e di nuovo,
ininterrottamente,
alternando versi, singhiozzi e invocazioni di pietà e
soccorso.
“… in
gremio Matris iacet sapientia Patris …”
Il
patrizio s’interruppe bruscamente: e quella da dove era
saltata
fuori? Di sicuro non apparteneva al canto dantesco né si
sovveniva d’averla mai
letta da qualche parte. Gli era balzata in testa così,
spontaneamente, con la
leggerezza di un pensiero banale e comune.
“Nel
grembo della Madre giace la sapienza del Padre …”,
ripeté
egli interdetto la frase, studiandola e assaporandola sulla lingua. Da
dove
veniva? Non dal suo cervello, ché figurarsi se quel tordo
concepiva concetti
tanto complessi e di profondo significato … Da qualche
trattato teologico? E
quando mai aveva avuto tempo o voglia di leggerli? An, se avesse
prestato
un’ombra d’attenzione alle lezioni del canonico!
“Nel grembo della Madre giace
la sapienza del Padre … Nel grembo della Madre giace la
sapienza del Padre …
Nel grembo della Madre giace la sapienza del …”
La porta
s’aprì in uno stridulo garrito di gabbiano
barbaramente
strangolato e la luce molesta d’una lanterna fendette
l’offesissima oscurità e
per un istante accecò Hironimo, costringendolo a schermarsi
gli occhi dietro il
dorso della mano.
“Che
stai blaterando? Non ti sarai mica rincretinito?”,
l’apostrofò acido un soldato, appoggiando di
malagrazia per terra una ciotola
ricolma d’acqua. “Christos, che tanfo!”,
si coprì il naso all’interno del
gomito e maledisse l’avverso fato, che l’aveva
scelto per portare da bere al
prigioniero, putente peggio del cadavere d’un ratto.
“Beh, non la vuoi?”, gli
avvicinò la scodella col piede, notando come il Miani se ne
stesse lì
imbambolato in ginocchio a contemplarlo incuriosito.
“Tzé, il capitano ti ha
proprio sconquassato il cervello!”, scosse il capo lo
stradiota, chiudendo la
porta dietro di sé e borbottando il suo malcontento lungo il
corridoio, finché
la sua voce non divenne un eco distante, scomparendo poi
nell’aria mefitica.
Ripiombato
nell’oscurità, il giovane Miani
strabuzzò gli occhi,
riflettendo su quel rapido contatto umano, dopo giorni
d’isolamento forzato.
L’aveva visto, quel greco o albanese, non l’aveva
sognato. Apparteneva alla
realtà. Anche la ciotola, misera e contenente semplice acqua
– Hironimo vi
tuffò dentro la faccia, bevendo avido a guisa canina
– era solida, tangibile.
La preghiera stava allontanando le allucinazioni, gli raddrizzava i
pensieri e
lo rendeva più lucido, presente. Gli allontanava la paura,
la fame, il dolore
fisico.
Ignorava
se fosse giorno o notte, elementi di poca importanza
ormai. L’unica certezza del giovane patrizio era che
seguitava a vivere. Di
più, si voleva ch’egli continuasse a vivere. O gli
avrebbero rifilato la triste
sorte del conte Ugolino della Gherardesca.
“Nel
grembo della Madre giace la sapienza del Padre …
Farò ammenda
… Sono in tempo … Farò ammenda
…”, ripeté tra sé e
sé Hironimo, ripigliando a
pregare e preparandosi ad un’altra lunga notte di veglia, a
fronteggiare
i suoi demoni interiori, il suo
io-assassino.
Forse
aveva capito la frase di Luzia: il demone gli aveva fatto
credere di non necessitare di Dio nella sua vita, allontanandolo da
Lui; adesso
che aveva bisogno di conforto, gli aveva impedito di ritenersi degno di
misericordia, dipingendo Dio come un giudice impietoso. Un trucco molto
efficace.
“In
gremio Matris iacet sapientia Patris … Virgo Divinum Natum
prece pulsa, terge reatum.”
***
All’oscuro
delle disposizioni regali, finite in mano della
Serenissima, il maresciallo Jacques de Chabannes de La Palice
aveva nel dubbio ordinato che fosse continuata la
guerra dei nervi.
Infastidito al limite dalla debacle di Musestre e dalla lentezza del
rientro
delle truppe imperiali dalla Patria del Friuli (il grosso impegnato
sotto le
mura di Gradisca) il generalissimo francese aveva inviato i suoi
capitani in
tutte le direzioni, fino al Barco, per confondere le spie veneziane e
dare
l’impressione di grande potenza. A tal scopo aveva perfino
ingigantito la
notizia dei rifornimenti provenienti dalla Patria, sia di cibo che di
cannoni.
Dopodiché, rientrate tutte le squadre e squadroni a Nervesa,
progettava di
levare in via definitiva il campo per un’avanzata frontale,
costeggiando la
Piave.
In
esecuzione a questi ordini, le compagnie francesi s’erano
presentate contemporaneamente a Porta Santi Quaranta, a Santa Bona, a
Fontanella, a Melma presso Treviso, costantemente fronteggiate e tenute
distanti dai vigilantissimi stradioti della Serenissima, in scontri
sempre più
violenti al che La Palice, notando come anche quella sera i suoi
gendarmi, cavalleggeri
e stradioti fossero rientrati a Nervesa malconci e abbattuti, si era
reso conto
che codeste scaramucce non gli portavano alcun vantaggio, semmai
ringalluzzivano l’avversario e lo privavano di uomini utili
all’assedio.
“Dobbiamo
capire dove poterci accampare, senza temere incursioni
notturne o peggio, bombardamenti notturni. Suppongo che i cannoni li
tengano
soltanto ai bastioni, giusto?”, ragionò ad alta
voce il maresciallo nei suoi
alloggi al Castello di Collalto di San Salvatore, avendo convocato il
resto dei
comandanti per un rapido consiglio d’aggiornamento.
Poiché
Mercurio Bua non pareva affatto incline a rispondere,
preferendo ascoltare impassibile, Leka Busicchio riferì al
posto suo: “Da lì
hanno sparato, quando abbiamo attaccato Treviso.”
“Il
tiro?”
“Un
miglio abbondante.”
“Bisognerà
giungere e posizionarsi nei loro punti ciechi”,
suggerì
pensoso Teodoro Trivulzio, studiando concentratissimo la cartina.
“Certamente
è da escludere Porta San Tomaso: lì si sono
difesi
assai bene”, commentò Soffrey du Molard.
“Ma
è anche vero, che si trattava di una trappola”,
puntualizzò
Giulio Sanseverino. “Ci stavano aspettando.”
“Ovunque
ci giriamo, quei dannati sbucano fuori peggio delle
talpe!”, sbuffò invece monseigneur Artus du Boisy,
snervato. “Noi li
depistiamo, tentiamo differenti manovre e non li ingaggiamo mai in
scontri
nello stesso luogo e ciononostante, ogni dannatissima volta, riescono
ad
anticiparci! Come diavolo fanno?”
“Appunto
per questo motivo dobbiamo fronteggiare les Vénitiens una volta per tutte”,
reiterò La
Palice. “Affinché non prendano coscienza della
propria forza, così da venire
loro da noi e non viceversa.”
“Se
finora non ci hanno attaccati”, suggerì Leka,
“significa che
non possiedono i numeri sufficienti per farlo. Altrimenti, conoscendo i
loro
comandanti, avrebbero osato una sortita più massiccia di una
qualche rapida
imboscata.”
“Cosa
ne dite voi, capitano Bua? Ultimamente ve ne state in gran silenzio,
non è da voi”, richiamò il Trivulzio
l’attenzione del greco-albanese, il quale
levò due dita dalla guancia, arcuando incurante un
sopracciglio.
“Non
ho nulla d’aggiungere, che il capitano Busicchio
già non
abbia eccellentemente delineato”, disse sincero e il suo
conterraneo lo fissò
stralunato, avendo creduto la sua un’acida battuta, a seguito
del loro recente
diverbio.
Al
contrario, il Bua appariva serissimo, ogni traccia di sarcasmo
e strafottenza svaniti dal viso tirato di chi non dormiva bene da
qualche
notte. La barba gli s’era un poco allungata e infoltita e al
braccio egli
teneva una banda nera, a lutto per la morte del suo fidato Zilio
Madalo. Dentro
di sé, tuttavia, il condottiero piangeva un altro tipo di
perdita, quella della
fiducia e del rispetto da parte di Caterina, da lui disprezzati e presi
per
scontati. E ora non aveva più niente, pur avendo tutto:
né i titoli
conferitigli dall’Imperatore né la gloria in
battaglia avrebbero potuto
restituirgli sua moglie, sua figlia, suo fratello e Zilio. Si sentiva
smarrito,
inutile negarlo. Doveva fare il punto della situazione.
“Forse
dovremmo inviare una squadra di stradioti in avanscoperta,
onde scovare il punto debole delle loro mura …”,
fu la proposta di Galeazzo
Pallavicino, riprendendo il discorso.
“Se
la vostra illustrissima signoria desidera mandare al macello
altri uomini”, sibilò a quel punto Mercurio, gli
occhi fissi su di un punto
indefinito davanti a sé, “può ben
inviare allo sbaraglio i suoi di
soldati. I miei domani rimarranno qui, a riposarsi. Hanno
già dato a
sufficienza.”
Il
marchese di Busseto s’imporporò piccato da quella
sferzante
replica, manco fosse l’ultimo dei paggi da sgridare.
“Queste informazioni sono
di vitale importanza, se vogliamo …!”
La Palice
interruppe l’offeso Pallavicino, annunciando gravemente:
“Domani prenderò tre squadroni e mi
presenterò di persona a Trévise.”
Un coro
d’esclamazioni contrarie accolse la sua inaspettata
decisione.
“C’est trop dangereux!”,
esclamò subito du Boisy, gli occhi fuori dalle orbite.
“Non possiamo rischiare
che vi catturino!”
“I
miei guasconi ed io possiamo recarci lì, se ne avete
bisogno,
ma non voi! E se vi sparassero dai bastioni? Quel satanasso di
Jean-Paul
Gradenigo è capace di tutto!”, insistette un
esagitato du Molard.
“Starò
a debita distanza e non m’apposterò presso i
bastioni!”,
dichiarò fermo il maresciallo. “Questa mia
spedizione sortirà il duplice scopo
d’intimidirli – sapendoci pressoché alle
loro porte – e di capire in quale
punto les
Vénitiens si
trovino
più scoperti. Perché rifiuto di crederli ovunque preparati.
Da
qualche parte saranno pur vulnerabili. E sarà lì
che li colpiremo!”, batté
insistente l’uomo il pugno sulla cartina. A furia di
pressionarli ed
intimidirli, i marciani avrebbero prima o poi commesso un passo falso
da sfruttare
a loro vantaggio.
Ad
oltre un miglio di distanza sarà difficile
stabilirlo, meditò
distrattamente Mercurio, appoggiando la schiena al muro. Però
è pur
sempre un inizio su cui lavorare. Domani ne sapremo di più.
“Nel
frattanto”, concluse La Palice, “stasera stessa
invierò un
ultimatum ai comandanti allemands rimasti sulla
sinistra della
Piave: convocazione qui a Nervesa entro, e non oltre, domani fino al
crepuscolo.”
“Mancheranno
sicuramente quelli impegnati a Gradisca e, forse, a
Marano”, puntualizzò du Molard.
“Costoro
li possiamo esonerare”, licenziò in fretta la
questione
il maresciallo francese. “Quanto agli altri, verranno
pubblicamente dichiarati
disertori e costì trattati, dovessimo imbatterci in
loro.”
“Mi
par equo”, convenne Artus du Boisy, felice nel suo intimo di
veder infine penzolare qualche tedesco ribelle.
Intanto
che il segretario di La Palice abbozzava la lettera da
inviare agli imperiali, Giulio Sanseverino avanzò un
ulteriore suggerimento:
“Maresciallo, forse potremmo sfruttare la vostra parata
dimostrativa per un
triplice scopo: incominciare lo sgombero del campo. Vedendoci quasi
sotto le
loro mura, i Veneziani si concentreranno su di voi e non avranno la
pronta
reazione di mandare esploratori al di là di Treviso. In
questo modo, ci
accamperemo in un luogo a loro sconosciuto.”
“Io
suggerirei a Torre di Maserada fino a San Giorgio”, propose
Galeazzo Pallavicino, ansioso di recuperare autorità dopo la
strigliata di
Mercurio Bua. “La prima si trova a cinque miglia da Treviso e
la seconda ad un
miglio da Ponte di Piave. Potremmo inoltre creare un blocco di barche,
impossibilitando ogni comunicazione da quel fiume.”
Il
maresciallo francese contemplò intensamente la cartina,
nello
specifico i luoghi indicatigli dal marchese di Busseto.
“C’est bien”, convenne
alla fine. “Incominceremo domani lo smantellamento, mentre
una squadra
avvertirà i nostri rimasti alla Badia del Pero a Monastier,
con appuntamento a
Torre di Maserada. Il resto delle truppe si sposterà sabato,
all’alba, e
brucerà ciò che resta del campo.”
Un
mormorio d’assenso si levò nell’aria.
Enfin, cette fois ça
commence pour de vrai, pensò La Palice, osservando uno ad uno
i comandanti uscire dai suoi alloggi. Si portò alla
finestra, terminando di
dettare la missiva al suo segretario, la mente persa tra quegli scuri
monti
risaltati all’orizzonte dal bluastro nascente della
sera. E questa
volta, mon Dieu, si vedrà da che parte stai, se dalla nostra
o quella dei
Vénitiens.
Fuori,
nel cortile del Castello, Leka Busicchio raggiunse Mercurio
Bua, il quale stava conducendo il suo baio turco fuori dalla stalla.
Impacciato, il capitano stradiota s’avvicinò al
greco-albanese, bofonchiando:
“Siamo … siamo a posto?”
Il Bua
reclinò lentamente in avanti il capo, in assenso.
“Siamo a
posto”, confermò, inforcando la staffa e issandosi
sopra la sua cavalcatura in
un fluido movimento. “Sebbene le mie scuse non potranno mai
riportarci indietro
Zilio”, aggiunse, accettando la torcia dal suo palafreniere.
“Così come una
magra consolazione sarà vincere
quest’assedio.”
Rapido,
Leka imitò il suo collega, balzando anch’egli in
sella e
allungando la torcia verso lo scudiero, onde accenderla.
“Almeno, combatteremo
in sua memoria.”
Mercurio
batté piano gli speroni sul suo destriero, iniziando una
lenta e regolare marcia. “Rimpiango di non essere stato
lì, anche solo per
seppellirlo con le mie mani. Vedi”, gli confidò
con voce un poco tremula,
“Zilio ed io abbiamo militato assieme, quando ancora ci
stavano crescendo i
primi peli sulle guance. Ne abbiamo vissute di cotte e di crude,
rendendomelo
più di un semplice luogotenente. Era un amico. Ed io non ho
neanche potuto
augurargli appropriatamente buon viaggio verso
l’Aldilà …”
“Zilio
è morto virilmente: saresti stato orgoglioso di
lui”, lo
confortò Leka, rivivendo nella mente l’immagine
dello stradiota colpito da un
colpo d’archibugio e cascato in seguito in acqua.
“Purtroppo, il fiume se l’è
portato via … Avremmo dovuto fermarci e ripescarlo,
però …”
“Hai
fatto ciò ch’era giusto”, lo interruppe
bruscamente il Bua.
“Non ti rimprovero di nulla.” Cacciò
fuori un grosso sospiro, levando in alto
il capo e permettendo all’aria fredda della notte
d’accarezzargli il volto.
“Talvolta mi pento d’aver abbandonato la mia
Morea.”
“Eh?”
Visto
ch’erano in vena di confidenze, tanto valeva esplicare
meglio al Busicchio quel suo intimo rimpianto. “Ti sei mai
chiesto come sarebbe
stata la tua vita, se tu non avessi mai abbandonato la tua terra? Io
sì. E non
sarebbe stata una brutta vita. Avrei vissuto a Napoli di Romania [4],
avrei
assunto il ruolo di mio padre di capo degli Albanesi di Grecia, avrei
combattuto gagliardamente contro quei cani dei Turchi e magari pure
riappropriandoci dei perduti territori in Morea e in Albania! Sarei
stato
acclamato come un eroe, un campione della cristianità, il
degno successore del
magnifico Gjergj Kastrioti Skënderbeu!”
“Ma
non avresti conosciuto Aikaterinī”, ridacchiò
Leka, provando a
scuotere il compatriota da quella sua malinconia.
“Per
lei, avrei assediato e riconquistato Durazzo, la patria di
sua madre. Le avrei presentato la testa del Pascià e dei
suoi figli su di un
piatto d’argento. Sarebbe ritornata ad essere una
principessa, al posto di
Contessa del Niente!”, ringhiò frustrato. Anche se
l’Imperatore gli aveva
infeudato Soave e Illasi, de facto Mercurio non aveva mai veramente
goduto dei
profitti di quelle terre, il loro dominio tanto vacillante quanto le
sorti di
quell’infinita guerra. “Sarei dovuto rimanere in
Grecia o al massimo trasferirmi
nell’Albania Veneta. Lì perlomeno la questione
è semplice: noi contro i Turchi.
E basta. Invece, quest’Italia …”, scosse
il capo, aspirando veemente l’aria.
“Tanto bella quanto crudele, marcia fino al midollo, che ti
ingoia pieno di
speranze e ottimismo per poi risputarti l’ombra di te
stesso. Se ti
risputa. Quante casate s’è pappata, quanti Stati
ha spolpato poco alla volta? È
una bestia feroce, meschina e assassina, che anche se in gabbia,
frustata e col
collare, non appena il domatore si gira, ecco che gli elargisce alle
spalle una
zampata. È una femmina malvagia per il cui possesso tutti si
scannano a vicenda
… Perdonami, Leka. Stasera proprio non sguazzo nel
buonumore!”, provò a
sdrammatizzare Mercurio, rendendosi conto di quanto avesse sparlato a
sproposito
e a ruota libera, sfogando il suo intimo malessere.
Busicchio
abbozzò ad un sorriso incoraggiante. “Sei stato
troppo
lontano dal campo di battaglia, amico mio. T’assicuro che
appena sentirai il
clangore delle armi e l’odore della polvere da sparo, ti si
rischiariranno le
idee e la malinconia prenderà il volo!”
“Ma
certo …”, convenne debolmente Mercurio, aguzzando
la vista e
intravedendo la sagoma scura dell’Abbazia di
Sant’Eustachio stagliarsi contro
il cielo brunito. Un istintuale moto di rabbia gli
scombussolò le viscere:
guardandola, gli ritornò alla mente il confronto avuto col
suo ostaggio
veneziano e la simbolica pugnalata allo stomaco ricevuta tramite le sue
rivelazioni. Era colpa di quel maledetto, se adesso il Bua si sentiva
smarrito,
demotivato.
Non
poteva ucciderlo, però poteva rendergli quanto
più amara
possibile la prigionia, così avrebbe imparato a mordersi
quella velenosa
lingua, l’ingrato.
***
Il conte
Guido Rangoni se ne stava dormendo beato nei suoi alloggi
a Padova, quando all’improvviso sier Ferigo Contarini irruppe
in camera sua,
seguito a ruota dai famigli del modenese, tutti rossi in viso e
contriti peggio
della Maddalena.
“Vostra
illustrissima signoria! Abbiamo tentato … Gli abbiamo
detto …!”, balbettavano terrorizzati da un
probabile castigo da parte del loro
padrone, il quale, tuttora intontito, si pose seduto, stropicciandosi
gli occhi
gonfi di sonno.
“Quale
villania, signor provveditore, vi ha condotto qui a
quest’ora di notte? Nella mia camera?”,
s’inviperì Guido, un poco imbarazzato
da quella palese violazione della sua intimità.
Ancora-ancora poteva tollerare
tale atteggiamento nel campo, ma a Padova? Nei suoi alloggi? Non
giovava al suo
scontento il ritrovarsi in camicione da notte davanti al patrizio,
vestito al
contrario di tutto punto.
Impunito,
Ferigo afferrò uno sgabello pieghevole e si sedette
sopra enfaticamente. “Ordini da parte dei provveditori Moro e
Capello e del
governatore Fortebracci”, gli spiegò sbrigativo.
“E
non potevate attendere il mattino?”
“No.”
Il
Rangoni sbuffò irritato, scendendo dal letto e indossando
alla
bell’e meglio una casacca, giusto per darsi una parvenza di
parità
conversazionale, dinanzi allo sguardo perplesso del provveditore.
“Dunque è un
vizio veneziano, quello d’entrare non invitati nelle stanze
altrui?”
Non
riusciva sul serio, il giovane conte, a capacitarsi del
disprezzo che i lagunari serbavano nei confronti della privatezza,
molto
probabilmente dovuta a quel loro vivere uno attaccato
all’altro, in quella
grande palafitta ch’era Venezia. Quando suo padre il fu conte
Niccolò Maria gli
aveva raccontato, di come i consiglieri ducali potessero entrare a loro
piacere
in camera del Doge e di come nessuna casa potesse rifiutarsi
d’aprire la porta
ai Signori di Notte, egli aveva giudicato quei resoconti dei
pettegolezzi o
favole da balia. Il risveglio invero non gli risultò
né piacevole né gradito,
costatandone l’autenticità.
Il
Contarini scrollò incurante le spalle. “Se non
avete nulla da
nascondere, dove scorgete il problema?”
“E
se mi fossi trovato – che so – in compagnia di una
donna?”,
ipotizzò Guido, porpora in volto al solo pensiero di venire
per davvero
pizzicato a braghe calate dal provveditore degli stradioti, il quale,
stranamente, scoppiò in una grassa risata e un barlume
d’antica spensierata
gioventù gl’illuminò il volto
solitamente serio e flemmatico:
“Oh-oh!
Meglio ancora!” e tossicchiò, asciugandosi una
ribelle ed
ilare lacrima, godendo un poco dell’imbarazzo del minore.
Quand’ecco,
ripresosi, riassunse la sua consueta espressione pragmatica.
“Voialtri, invece
di guardarci a bocca aperta alla stregua d’inutili pesci,
correte a chiamare le
loro signorie, i messeri Ludovico e Francesco!”
Il
codazzo di famigli gettarono un’occhiata perplessa al loro
padrone, che annuì veloce, approfittandone per vestirsi
appropriatamente,
mentre Ferigo si serviva d’un bicchiere d’acqua.
“Fate
come se foste a casa vostra!”, lo invitò ironico
il Rangoni,
passandosi una mano sui capelli in battaglia.
“Ma
io sono a casa mia”, gli fece presente ineffabile il
Contarini. “Ben svegliati, miei signori”,
salutò egli i fratelli minori del
conte, i quali entrarono circospetti nella stanza, chiedendo ansiosi
con lo
sguardo ulteriori informazioni al capofamiglia, giacché solo
brutte notizie
portavano le inaspettate visite notturne.
“Ebbene?”,
lo spronò Guido, una volta congedati i servi.
“I
nostri esploratori ci riferiscono, come Federico Gonzaga di
Bozzolo sia impegnato in continui andirivieni da Verona a Vicenza, dove
è
stazionato il suo parente, Giovanni Gonzaga.”
“Questo
già lo sappiamo: i due stanno rifornendo le truppe, per
poi partire alla volta di Treviso”, rimarcò il
Rangoni, accantonando imbarazzi
e sdegni, per concentrarsi e ragionare sulla prossima missione. Anche i
suoi
fratelli avevano assunto la medesima espressione attenta, prendendo
posto
accanto al maggiore.
“Ma
non che il Gonzaga di Bozzolo prende sempre la stessa via,
quella di Soave.”
“Che
si trova esattamente a metà strada tra Verona e
Vicenza”,
mormorò Ludovico Rangoni, illuminandoglisi il volto dalla
realizzazione. “Ed è
un “feudo” di Mercurio Bua, ergo un territorio
sicuro e alleato.”
“Se
lo catturassimo, quel Gonzaga ci frutterebbe parecchio!”,
esclamò deliziato Francesco Rangoni. Anche
perché, oltre ad appartenere ad un
casato illustre, Federico di Bozzolo era un valido condottiero, tra i
più
capaci della Lega. La sua cattura sarebbe corrisposta ad un duro colpo,
sia
materiale che morale. “Sarebbe una preda di gran
conto!”
“Nah,
i Gonzaga non pagano i riscatti: cambiano direttamente
bandiera! Guarda quel pluri-voltagabbana del Marchese di
Mantova!”, scherzò
Ludovico, contagiando il minore.
Sier
Ferigo Contarini concesse ai modenesi qualche istante per
sognare ad occhi aperti, trattenendo per sé il vero destino
che la Signoria
voleva riservare al Gonzaga di Bozzolo, che in quanto a ferocia contro
la
popolazione inerme non aveva nulla da invidiare ai franco-imperiali e
al
traditore Soncino Benzone. Inoltre, fonti sue certe confermavano il
sospetto
dei Dieci nei confronti di Francesco Gonzaga, la sua bugiarda
incostanza ormai
universalmente nota, e di fatti gli avevano accodato a sua insaputa
delle
vigili spie, cosicché, qualora tentasse una fuga per
riparare da quella sua
moglie “tutta franzosa”, lo facesse in mutande,
senza un soldo né un sol
soldato. Il giovane provveditore degli stradioti non concepiva come mai
i Dieci
fossero così riluttanti dallo strangolare il Marchese quando
l’avevano
imprigionato alla Torresella, magari nel sonno, o al campo mentre era
congiunto
a qualche puttana. Sarà anche stato l’eroe di
Fornovo, però quel merito
apparteneva ad un’altra epoca e ora come ora Ferigo non
provava né rispetto né
compassione verso quell’infida banderuola, che non si
meritava, a sua detta,
alcuna morte onorevole. Tanto più che a Mantova Francesco
Gonzaga contava
quanto un due di bastoni - lo sapevano tutti - lo
Stato retto dalla
Marchesa sua moglie a nome del figlio Federico, ostaggio alla corte di
Giulio
II. A quale pro, dunque, tenere in vita quell’inutile zavorra
mantovana, brava soltanto
a mangiare a sbavo, peggio d’un parassita? Avessero
compartito il medesimo
accampamento, al patrizio non sarebbe servito un granché per
spedirlo a marcire
sottoterra … Se soltanto a Casaloldo l'avesse trafitto con
la sua lancia ...
“Quindi
i provveditori e il governatore vogliono che attacchiamo
Soave?”, intuì Guido Rangoni le intenzioni dei
suoi superiori, distogliendo il
Contarini dai suoi cupi pensieri omicidi. “Tuttavia mi pare
un azzardo verso il
fato: Federico di Bozzolo potrebbe non trovarsi a Soave, o cambiare
improvvisamente percorso o aver riparato già a Vicenza e
lì stabilitosi in via
definitiva … Le varianti sono troppe per
una certa cattura.”
“In
ogni caso, riconquistare Soave significa erigere una barriera
tra Verona e Vicenza, interrompendo ogni comunicazione tra i due
Gonzaga”, gli
spiegò paziente il provveditore degli stradioti.
“La Palisse è stato chiaro: il
signor Giovanni deve raggiungerlo a Treviso, ma senza il supporto del
signor
Federico e tagliandogli la via dei rifornimenti da Verona, le sue
truppe ben
magro supporto potranno offrire ai franco-imperiali.”
“Sappiamo
chi è a guardia di Soave?”,
s’informò d’un tratto
Francesco, incuriosito.
Il
Contarini prese fiato, incominciando la conta sulle dita:
“Galeazzo Sforza, contino di Melzo e cognato
dell’Imperatore; Sebastiano d’Este
q. Nicolò, luogotenente di Federico di Bozzolo e germano del
Duca di Ferrara;
Manfredi Landriani di Milano; Benedetto de’ Rossi di Parma;
il conte Ferrante
dal Persico di Cremona e Jacomo Tristam, un manifesto ribelle
veronese.”
“Una
guarnigione totalmente italiana”, notò Ludovico.
“E’
un problema?”
“Per
niente.”
“Quanto
tempo abbiamo per prepararci?”, domandò Guido.
“Soltanto
domani: al calar della sera, partiamo alla volta di
Soave.”
Un
sorrisetto furbo s’arricciò sulle labbra del
giovane conte
modenese. “Suppongo dunque voi abbiate già un
piano, signor provveditore.”
Ferigo
eguagliò felino la sua espressione complice, estraendo
dalla scarsella un pezzo di carta e una sanguigna, delineando
puntigliosamente
ai tre fratelli Rangoni le dinamiche dell’attacco alla
città.
Continua
…
**************************************************************************************************************
Ed eccoci
ritornanti alle vicende del “presente”. Lo stallo
tra i
franco-imperiali e i veneziani sta per finire e se ne vedranno delle
belle, che
mi auguro rendere al meglio.
Spero che
questo capitolo vi sia piaciuto, alla prossima!
Un
po’ di noticine:
[1] Narra il Sanudo: “Come
in questa
matina è venuti do dil campo nemico, tra li altri uno frate,
era in la badia di
Narvesa, dove è alozato monsignor di la Peliza, el qual
è partito perchè el
moria da fame e havea mala compagnia, dize, francesi sono di qua di la
Piave e
todeschi di là, e che il ponte era in man di todeschi e pur
haveano comenzà a
vegnir vituarie in campo, e ogni zorno più, e pur ancora
haveano carestia, ma
Conejan, Uderzo, Colalto e quelle ville mandano assai vituarie
[…]”
Il frate
è il nostro Fra’ Anselmo (da noi ribattezzato
perché
Sanudo ha il vizietto di lasciare anonima la gente) e il secondo, visto
che non
si sa chi fosse, abbiamo deciso essere appunto Thomà! XD
[2] Narra il
Sanudo: “Item,
che una serva di Dio parlò a esso Griti dicendoli aver auto
in vision si 'l
feva vodo mandar una Padoa d'arzento a la Madona di Loreto di valuta di
ducati
100, e cussì Idio mantegniria Padoa. E fe' il voto. S'il par
a la Signoria
farlo, si no lui el pagerà e farà dil suo etc.”
[3] Costantino V Copronimo fu
uno dei più convinti iconoclasti ai tempi delle persecuzioni
di ogni immagine
sacra. Nestorio fu un noto
eresiarca ed Eudossia,
moglie dell'imperatore Arcadio, perseguitò San Giovanni
Crisostomo. Questi tre
personaggi storici sono quelli che si possono riconoscere tra i
Superbi, nel
mosaico della Basilica a Torcello.
[4]
Napoli di Romania = oggidì
è Nauplia,
nella regione del Peloponneso (noto all’epoca col nome di
Morea), nel sud-est
della Grecia.