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Autore: Hoel    02/03/2021    4 recensioni
Nell’agosto del 1511, gli esploratori veneziani intercettano una lettera scritta dal governatore di Milano Gaston de Foix-Nemours e indirizzata al maresciallo Jacques de Chabannes de La Palice, in cui l’informa di come il Re di Francia Louis XII stia inviando rinforzi per aiutare l’Imperatore Maximilian I. von Habsburg nella sua “impresa di Treviso”, ovvero la conquista dell’ultimo ostinato baluardo veneto che separa la Lega di Cambrai dalla laguna di Venezia. Da ben due anni Treviso resiste irriducibile, così come la Serenissima, ripresasi in fretta dallo shock di Agnadello, ha ben dimostrato il suo fermo proposito di non lasciarsi cancellare tanto facilmente dalle pagine della Storia, rivelandosi un avversario più tenace di quanto prefiguratosi dai Collegati.
Su questo sfondo dell’assedio di Treviso si snoderanno le vicende di un giovane e misconosciuto patrizio veneziano, destinato però a diventare più grande di re e imperatori, di valenti condottieri e del Papa stesso.
[Vietati la riproduzione e il plagio; questa storia è tutelata]
Genere: Guerra, Introspettivo, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Epoca moderna (1492/1789), Rinascimento
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Vi auguro una buona lettura,

H.

Aggiornato il 17.12.2021

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Capitolo Ventisettesimo

25 settembre 1511

 

“Dicono che i migliori uomini sono impastati di difetti, e per lo più divengono buoni per esser stati un po’ cattivi”

 

(W. Shakespeare “Misura per Misura”, Atto V, I)

 

 

 

 

 

Seduto sul balconcino di Ca’ Querini dei Conti di Stampalia ed Amorgo, il consigliere ducale sier Batista Morexini “da Lisbona” studiava a guisa di gatto i grigi e arrabbiati cirri provenienti dall’entroterra ed avanzanti prepotenti in direzione della laguna. Anche quel giorno avrebbe diluviato.

Sua figlia la contessa vedova madona Maria l’aveva invitato a colazione a casa sua, assieme al fratello Carlo, per confermargli il felice esito della missione affidatale. Non che suo padre avesse nutrito alcun dubbio sulla sua scrupolosità e soprattutto sulle sue doti persuasive – era pur sempre degna figlia sua – ciononostante, aveva ascoltato piuttosto soddisfatto quanto l’altero sier Francesco Contarini “dai Scrigni” fosse capitolato dinanzi alla civettuola richiesta di Maria d’aggiungere, nella missiva al suo contatto in campo francese, quella piccola “ciancia” a prova della fiducia assoluta, che la Signoria nutriva nei suoi confronti. Un innocuo pettegolezzo che, se ascoltato dalle orecchie giuste, avrebbe creato una valanga di sospetti impossibile da arrestare, trasformandosi da una supposizione mista a bugia ad un’inconfutabile verità.

L’idea era venuta al Minor Consiglio durante una seduta dei Pregadi verta a discutere sui recenti dispacci da Padova, nonché sulla testimonianza di Zorzi Plam, un prigioniero rilasciato dall’Imperatore e ovviamente sulle lettere scritte dal Re di Francia in persona, il suo regio corriere intercettato e condotto a Venezia per essere esaminato.

Si era scoperto che il destinatario di tale missiva era proprio il maresciallo Jacques de Chabannes de La Palice, cui Louis XII confidava i propri timori e scetticismi sull’alleanza con l’Imperatore Maximilian, il quale, a sua detta, non stava facendo nulla per accelerare le operazioni militari, interessato soltanto ai propri interessi, leggasi la conquista della Patria del Friuli e del Cadore, già preparandosi per quest’ultima il comandante Wilhelm von Roggendorf. Il Re di Francia, tuttavia, aveva aggiunto che soltanto in nome dell’onore e della sua fedeltà al patto della pur (formalmente) estinta Lega, egli spronava La Palice a porre una volta per tutte sotto assedio Treviso ma, allo stesso tempo, l’ammoniva che se detto assedio si fosse protratto oltre quattro giorni, il maresciallo allora era da lui scusato e poteva ritirarsi in Lombardia senza se e senza ma, e che il Re dei Romani se la vedesse da solo.

Zorzi Plam, dal canto suo, aveva riferito i seguenti fatti: condotto davanti a Maximilian I. von Habsburg, questi gli aveva rivelato la sua intenzione di svernare in Cadore, una volta terminata la conquista del Friuli;  dopodiché, l’Imperatore aveva aggiunto come avesse intenzione di licenziare i francesi presenti sia dalla sua corte che dalle sue milizie, incominciando dal governatore di Cividal di Belluno Jean D’Aubigny, e come volesse far pace coi Veneziani, ma questo serbando naturalmente i territori a loro sottratti, sottolineando come l’inimicizia tra loro sarebbe continuata in eterno, finché Maximilian non avesse terminato la conquista di quelle terre, sue di diritto. Sicché, pigliato Zorzi Plam per la barba, gli aveva intimato feroce di rivelargli quanta gente ci fosse a Padova e in particolare a Treviso e poiché l’uomo in tutta onestà lo ignorava, esagerò i numeri della guarnigione trevigiana e il Re dei Romani, intimorito da tanta potenza, aveva commentato quanto la Signoria avesse dovuto ringraziare i suoi stradioti, ché senza di loro Maximilian già avrebbe vinto quella guerra.

A Gradisca d’Isonzo, pur resistendo gagliardamente all’assedio postagli dagli imperiali, la peste stava flagellando inclemente la città-fortezza e fra poco si sarebbe giunti alla scelta del male minore, se morire tra atroci tormenti o se arrendersi e vivere qualche giorno in più.

Infine, dispacci da sier Christofal Moro e sier Polo Capelo avevano avvertito la Signoria di un probabile ricongiungimento tra Federico Gonzaga, stanziato a Verona, col parente Giovanni Gonzaga, invece a Vicenza, per poi congiungersi a Treviso all’esercito di La Palice e lì incominciare l’assedio, i Collegati ringalluzziti dai rapidi successi dell’Imperatore in Friuli e certi della prossima capitolazione della capitale della Marca, ritenuta incapace di difendersi dinanzi ad un sì possente esercito, formato da veterani delle più aspre guerre d’Italia.

Treviso, di nuovo tutto convergeva e si riassumeva in Treviso, replicandosi le medesime condizioni dell’assedio di Padova ed era interessante notare come quella città da più d’un secolo dimenticata dall’alta politica italiana, d’un tratto fosse divenuta la più ambita grazie al suo granitico rifiuto di sottomettersi.

“Sior Pare, credete che il piano funzionerà? In fin dei conti, quelle messe in circolazione sono soltanto dicerie prive di ogni fondamento …”, azzardò Carlo ad esprimere quel suo dubbio al genitore, verbalizzando l’occhiata inquisitiva sul volto della sorella, la quale condivideva uguali pensieri.

Sier Batista terminò il suo latte caldo con miele, acquavite e cannella, cedendo la tazza di ceramica ad una fantesca. “Il veleno, una volta in corpo, non si può più espellere e poco a poco, lento e inesorabile, lo corrode dall’interno. Quel che ci serve, tuttavia, è un ulteriore indebolimento di detto organismo per migliorarne l’efficacia …”

Al che il giovane Morexini schioccò la lingua, comprendendo d’un tratto il ragionamento paterno. “Qualora Franza e Alemagna dovessero fallire a Trevixo, non perderebbero soltanto un assedio, ma anche la faccia e ciò quegli altezzosi dei Franzosi non riuscirebbe mai a sopportarlo. Dopo Napoli, Millan, Forlì, essere sconfitti da un’anonima città senza né arte né parte come Trevixo equivarrebbe alla peggiore umiliazione, dimostrando come non siano poi così invincibili come credono. E appunto perché la loro protervia li acceca”, aggiunse con malevolo gusto, “che cercheranno un capro espiatorio onde giustificare la loro sconfitta e la troveranno nell’Imperatore, ai loro occhi inaffidabile e traditore. E il piano della Signoria è di soffiare su questo fuocherello, trasformandolo in un incendio.”

Suo padre annuì gravemente.  “La Marca è una terra strana: gaudente, bonacciona e in generale tollerante, ma se punzecchiata la sua gente diventa improvvisamente ribelle, agguerrita e sanguinaria al limite del barbarico. In più occasioni ce l’ha dimostrato, come se provocata non guardi più in faccia nessuno: pensate al loro vescovo, domino Bernardo de' Rossi, consegnato alla Signoria su di un piatto d'argento, felicissimi di saperlo al confino.”

Di tutte le più importanti città venete, effettivamente Treviso era rimasta la più fedele all’antico spirito comunardo e di fatti, tutte le famiglie nobili ch’avevano tentato d’instaurare nella Marca una signoria, nell’arco di una generazione – vuoi per sommossa popolare, vuoi per una guerra esterna – erano state puntualmente deposte e il loro ricordo cancellato, anche fisicamente come la demolizione dei loro palazzi signorili.

Sporgendosi in avanti, Maria gli domandò allora sottovoce: “Ciononostante, non comprendo: in questo cosa c’entrano gli Sforza?”, perché lei non aveva questionato alcun punto delle direttive paterne da suggerire per vie traverse al Contarini; nondimeno, questo non l’aveva esonerata dal nutrire qualche legittimo dubbio, sul perché riesumare quell’ormai putrescente cadavere di casato. “Non appartengono al passato? Quale peso possono ancora avere?”

“In tutto c’entrano, fia mia, e niente è impossibile, finché ancora respirano”, replicò sibillino il consigliere ducale, appoggiando su due dita la tempia e sorridendo sulfureo.

Durante la lettura dei dispacci di sier Moro e sier Capello, nei quali elencavano i comandanti al seguito di Federico Gonzaga, tra di essi era figurato il contino di Melzo, Galeazzo Sforza, figlio naturale del fu Duca di Milano, Galeazzo Maria e della sua amante Lucia Marliani. Ciò aveva scatenato una rapida serie di associazioni nella mente del “da Lisbona”: Galeazzo Sforza era nipote del fu Ludovico il Moro, i cui figli Ercole Massimiliano e Francesco si trovavano in esilio presso la corte dell’Imperatore, come a suo tempo in Alemagna s’erano rifugiati gli ultimi Scaligeri e Carraresi, cui era stato promesso supporto onde riconquistare lo Stato sottrattogli dalla Serenissima. Sier Batista aveva correlato gli eventi di allora a quelli attuali e li aveva piegati alla medesima logica, sostituendo gli Scaligeri e i Carraresi cogli Sforza e la Signoria con la Francia.

Era rimasto piacevolmente sorpreso nel constatare, quanto i suoi colleghi senatori avessero ragionato allo stesso modo e fossero all’unisono giunti a quella conclusione.

Francia e Impero, che tanto avevano sfruttato lo spirito fazioso dell’Italia per i loro interessi, a Dio piacendo sarebbero caduti nel medesimo errore e così sconfitti. Già la prima frattura nella Lega, dopo il suo formale scioglimento, l’avevano creata col Concilio di Pisa per eleggere un Antipapa e male avevano fatto a sottovalutare il sanguigno e volubile Giulio II, che come li aveva chiamati in Italia allo stesso modo poteva invocarne la scacciata. Alla Serenissima  rimaneva il facile compito di spingere la misericordia più a fondo, allargando la sottile crepa fino alla rottura definitiva.

Annusando a pieni polmoni l’aria pregna di quel sentore frizzante annunciante il temporale, il Morexini ripensò malinconicamente alle bonarie accuse di suo cognato il fu sier Anzolo Miani, il quale lo tacciava d’essere un pessimo perdente, non disdegnando il “da Lisbona” di barare sfacciatamente pur di darla sui corni all’avversario. Dunque, perché non convertire questo privato vizio in pubblico benefizio? Impero, Francia, Spagna, Roma, Mantova, Ferrara e Ungheria avevano loro per primi giocato sporco, in tanti contro uno e certissimi di una rapida vittoria, forti dei loro numeri.

Benissimo, avrebbero invece assaggiato la loro medesima medicina.

Più tardi, a discussione terminata e su direttiva del Senato, Missier il Doge Lunardo Loredan aveva approvato d’inviare missive a Roma, con duplice istruzione ai cardinali domini Domenego Grimani, Marco Corner e all’ambasciatore sier Hironimo Donado “dalle Rose” di mettere il Papa Giulio II alle strette così come dovevano pressare Don Jéronimo Vich y Valterra, oratore del Cattolico e l’arcivescovo di York Christopher Bainbridge, ambasciatore di Henry VIII Tudor d’Inghilterra.

E sempre a riguardo del regno d’oltremanica, si scrisse una lettera a sier Andrea Badoer, ambasciatore a Londra, per ottenere una risposta definitiva dal giovane e impetuoso re, il quale, malgrado le professioni d’amicizia verso Louis XII, scalpitava di mettersi militarmente alla prova. Fattore non trascurabile rimaneva che gli inglesi ancora possedevano Calais in Normandia e che la regina d’Inghilterra, Catalina d’Aragona, condivideva sotto-sotto il medesimo astio che suo padre, Fernando II, nutriva nei confronti dell’acerrimo rivale francese. Ora che il Cattolico aveva completato la conquista dei porti pugliesi, nulla gli impediva di puntare alla Navarra e i rafforzamenti delle fortezze catalane nel Rossiglione confermavano le sue intenzioni bellicose verso il suo attuale alleato nella Lega. Se re Fernando avesse dichiarato guerra a re Louis, la sua fedelissima figlia avrebbe onorato il patto d’alleanza tra Spagna e Inghilterra e avrebbe persuaso suo marito Henry a sbarcare in contemporanea a Calais per un doppio attacco, gli spagnoli a sud-ovest e gli inglesi a nord-est.

Ultimo ma non meno importante, furono le direttive a sier Alvixe Arimondi, ambasciatore a Costantinopoli, onde tener impegnato il Sultano, le cui truppe scorazzanti ai confini ungheresi stavano creando notevoli danni al Re d’Ungheria, lasciando a Wladyslaw Jagiellończyk  l’onore di trarre le sue conclusioni, quale fosse la sua priorità, se sottrarre alla Serenissima la Dalmazia o fronteggiare gli Ottomani alle porte di Buda. Stando poi a sier Piero Pasqualigo, oratore in Ungheria, il re Wladyslaw aveva inviato già un ambasciatore presso il Sultano per negoziare, ma, non tornando questi, ne aveva mandato un altro senza tuttavia alcun successo e dubitava fortemente in un aiuto dell’Imperatore e del Re di Francia, malgrado questi lo spronassero nella sua ostilità contro la Signoria, garantendogli il loro soccorso per conquistare la Dalmazia.

I Collegati della Lega di Cambrai aveva voluto la guerra e guerra avrebbero ottenuto, una guerra però totale, su tutti i fronti.

Venezia si sarebbe trasformata in una polveriera e avrebbe fatto saltare in aria l’Europa intera, trascinando con sé, se necessario, tutti i suoi nemici nell’abisso.

 

***

 

Seguendo l’eco delle campane cittadine annuncianti l’ora tredicesima del mattino, Fra’ Anselmo si ritagliò quei pochi istanti per una preghiera personale davanti alla preziosissima reliquia della Santa Croce, nella cappella detta appunto di S. Croce dell’Ospedale di Santa Maria dei Battuti. Accanto a lui, in ginocchio, orava un cupo Thomà, indossante abiti a lui più confacenti e dalla zazzera bionda accorciata, avendogli tagliato madona Maria Malipiero Gradenigo, durante lo disinfestazione dei pidocchi, le ciocche più impicciate e impossibili da pettinare.

Il benedettino, anche per tener fede alla promessa, aveva tenuto presso sé il fantolino, arruolandolo ad aiutare coi malati e gli stradioti feriti di ritorno dalle esplorazioni, nonché di rinsegnarli qualche preghiera in latino comprensibile o almanco in veneziano, in modo da distrarre il fanciullo dall’unico pensiero che lo tormentava.

Oramai, ammise tra sé e sé Fra’ Anselmo, erano trascorsi due giorni dal loro rocambolesco arrivo a Treviso; come di dovere, il frate aveva conferito con il podestà sier Andrea Donado “dalle Rose” e sier Zuam Paulo Gradenigo, riferendo loro come all’Abbazia si morisse di fame e che la mala compagnia dei franco-imperiali l’aveva spronato a fuggire. [1] Aveva aggiunto come il ponte fosse in mano agli imperiali e che da Conegliano, Oderzo e Collalto arrivassero nuovi rifornimenti al campo nemico, che tuttavia seguitava a patire ogni stento, in primis la pestilenza che falciava soldati in gran numero. Il frate s’era offerto poi volontario d’aiutare all’ospedale, giacché si sentiva sia un poco indegno di rientrare presso i suoi confratelli a Venezia (avendo infatti infranto la Regola disobbedendo al suo Abate) sia perché percepiva come un dovere morale aiutare la sua gente, dopo aver curato volente o nolente il nemico. Madona Maria Malipiero Gradenigo, moglie del Provveditore, s’era rivelata una valente collega, decisa ed energica quanto il consorte, la quale aveva organizzato marzialmente l’ospedale, reclutando chiunque avesse buona volontà e soprattutto fosse rimasto senza un tetto sopra cui stare. Al che Fra’ Anselmo era riuscito a convincere alcuni suoi confratelli più altri monaci e monache, novizi, oblati e converse di altre congregazioni rimasti sfollati, invitandoli a dar una mano all’ospedale e così formando una piccola truppa efficiente. Nondimeno, si continuava a sollecitare la Signoria d’inviare medici e chirurghi in vista dell’assedio.

Sicché, costantemente impegnato, Fra’ Anselmo talora perdeva di vista Thomà, eppure sapeva benissimo dove il bambino si recasse: tra gli ammalati, i fuggitivi, alle porte cittadine, in cerca del suo padrone, nella disperata speranza di rincontrarlo. Ed era una pena vederlo tornare la sera abbattuto e fosco in viso, nonché udirlo singhiozzare silenziosamente la notte.

Ora, il benedettino per assurdo credeva fermamente nei miracoli, tuttavia il suo lato razionale gli suggeriva che, dopo due giorni dalla separazione, le possibilità che Hironimo Miani fosse stato ricatturato rimanevano assai alte e Dio soltanto sapeva a quale destino il suo vendicativo carceriere, Mercurio Bua, l’avesse sottoposto. Il monaco poteva soltanto pregare che il giovane ex-castellano seguitasse a vivere.

Dispersosi nell’aria l’ultimo eco della campana, si sostituì quello acuto di una tromba. La testa di Thomà guizzò d’istinto verso la sua direzione, la fronte corrugata.

“Tranquillo: è il cambio della guardia”, liquidò Fra’ Anselmo la questione, ritornando alle sue orazioni.

“No”, lo contraddisse sorprendentemente Thomà, ponendosi in piedi. “Xéa ciamada pel i stralioti a ussir di le mura: qualched’on xé vegnuo vizin a Trevixo et i van a controllar!”

Un concitato scalpiccio di zoccoli sui sanpietrini confermò la teoria del fanciullo: una compatta colonna di stradioti si diramò, dal loro quartiere generale a San Martino, lungo le vie della città, uscendo da Porta Altinia, Porta San Tomaso e Porta Santi Quaranta, quest’ultimi ricongiungendosi con la compagnia di Teodoro Paleologo, alloggiato nell’omonimo monastero.

Segnatosi in fretta, Fra’ Anselmo e Thomà uscirono dalla porta della cappella che dava sulla strada e il monaco rimase sinceramente impressionato dalla bravura del ragazzino, il quale da quasi un anno viveva tra i soldati e pertanto aveva imparato a distinguere ogni loro mezzo di comunicazione. Infatti, era stato uno dei pochi a non essersi preoccupato quando il provveditore Gradenigo, Renzo di Ceri e Vitello Vitelli avevano ordinato una serie di esercitazioni, appellando i soldati alle loro postazioni, come se ci fossero già i franco-imperiali sotto le mura. Li avevano fatti indossare delle fasce colorate al braccio e li avevano mescolati tra di loro nelle varie compagnie: in questo modo, tutti i soldati presenti a Treviso avevano finito per imparare le rispettive facce a memoria, impossibilitando la presenza di spie esterne o ogni possibilità di diserzione.

Nonostante i solidi preparativi per l’assedio, tuttavia nella città si respirava un’aria pesante, le notizie dell’inarrestabile avanzata tedesca nella Patria del Friuli esercitante un’ulteriore pressione sui suoi difensori, eppure la voglia di combattere aumentava esponenzialmente all’avvicinarsi dei Collegati.

“Fra’ Anselmo”, gli annunciò d’un tratto Thomà una sua decisione a lungo meditata, “mi vago coi bombardieri, a smissiar par eli ea polvare da sparo!”

La testa del benedettino scattò incredula nella sua direzione. “Matto!”, esclamò egli stupefatto. “Quali scempiaggini vai blaterando? Non ci troviamo mica a Quer, dove ogni creatura dotata di braccia e mani serviva, no sastu?”, lo rampognò severo, temendo che il piccoletto si cacciasse in qualche guaio nonché apprendesse il malcostume dei soldati. “Adesso rientriamo, ché mi devi aiutare coi malati ed i feriti!”

L’anziano monaco s’apprestò a pigliare il fanciullo per il braccio, sennonché questi gli scansò in uno schiaffo la mano, portandosi al centro della strada. “Mi no voggio ajudar ni  malai ni feridi! Mi voggio copar franzosi e todeschi! Mi voggio spedirli tuti a l’inferno, quei cancari di diaoli!”, pestò Thomà il piede per terra, testardissimo. “Li odio! Li odio tuti!”, gridò, correndo via in direzione degli squeri lesto come una lepre e il povero frate, rallentato dalla tonaca e dall’età, non riuscì né a riacchiapparlo né a stargli dietro, perdendolo facilmente.

Un bambino di dieci anni non dovrebbe proferire tali parole, si dolse Fra’ Anselmo, mentre cercava in affanno la nota testolina bionda tra il concitato viavai di soldati, guastatori, genieri e bastasi. In che razza di mondo stiamo scivolando, dove salvare una vita diviene meno importante di dare la morte?

Al porto, intanto, un mogio e livido Marco Contarini “dai Scrigni” s’apprestava a salire sul burchio, che l’avrebbe condotto a Venezia. Il suo viso lungo appariva doppiamente affilato dalla magrezza derivatagli dalla malattia, nonché un sottile strato di sudore gli rendeva la pelle pallidissima quasi trasparente, arrossata dal vento sferzante post-temporale. I cirri grigio fumo tuttavia seguitavano a rimanere ben ancorati in cielo, coprendo il sole, e i vogatori avevano fretta di partire, anticipando di qualche ora il secondo acquazzone.

Il ragazzo si stropicciò per l’ennesima volta gli occhi arrossati e brucianti, mentre l’altra mano si sorreggeva al braccio di Marco Miani. Dietro di loro, li seguivano silenziosi Nicolò Donado “dalle Rose”, cugino del Contarini ch’avrebbe viaggiato con lui, Donado Cimavin e madona Helena Spandolin Miani.

“Siete sicuro, di non voler portar seco le vostre robe?”, gli chiese il Miani per l’ennesima volta, alludendo al piccolo cassone che il “dai Scrigni” aveva lasciato a casa dei Cimavin.

Il patrizio più giovane annuì stancamente. “Ho viaggiato leggero e quelle poche mie cose potrebbero servire al Momolo”, aggiunse, alludendo ai vestiti e anche alla sua armatura. A parte la casacca nera sciallata sotto il mantello e la bereta da lui indossate, il Contarini cedeva ben volentieri quei suoi averi all’amico fraterno, nella speranza che questi fungessero da portafortuna, velocizzando la sua liberazione. “E’ il solo modo di contribuire che mi resta …”, mormorò amaro, maledicendo la febbre che gli ammorbava il corpo e lo rendeva inadatto a combattere. Fino all’ultimo aveva resistito e celato la sua malattia, purtroppo essa l’aveva sopraffatto al punto da stramazzarlo al suolo neanche un paio di giorni addietro, rivelando di conseguenza il suo segreto. Marco allora aveva compreso che non poteva più restare a Treviso, sia perché un’inutile zavorra sia perché avrebbe rischiato di contagiare i suoi compagni, assottigliando le fila di uomini a difesa della città.

Sussisteva un bene superiore alle sue egoistiche velleità di gloria e onore.

Cacciando via la malinconia alla menzione del fratello, Marco Miani appoggiò la mano sulla spalla del “dai Scrigni”, costringendolo a guardarlo in faccia: “Nessuno vi sta biasimando. Avrete altre occasioni e altri modi per servire la Signoria”, lo consolò bonario, fino a strappare nel ragazzo un sorrisetto assai tirato. Si era trasferito da Padova per unirsi alle truppe a Treviso per poter ricongiungersi  ad Hironimo, ché il Contarini non aveva mai dubitato di rivederlo libero. Con lui al suo fianco, egli non temeva nulla.

“Avrei tanto voluto riabbracciarlo …”, mormorò tra sé e sé il ventiduenne patrizio, stringendo convulsamente i lembi del mantello.

“Cosa?”, strabuzzò gli occhi il Miani, la fronte aggrottata.

“Dovessi rimettermi prima dell’assedio, non dubitate che ritornerò a Trevixo”, dichiarò solenne Marco, accettando la mano di suo cugino germano Nicolò, salito nel frattanto sul burchio. S’ingamberò un poco, le gambe instabili, aggrappandosi saldo al parente.

“E noi vi aspetteremo”, convenne Marco Miani. “Tranquilla sia l’onda e mite il vento. Fate buon viaggio”, gli augurò di cuore, sporgendosi in avanti abbastanza da stringere velocemente la mano tesa del Contarini.

“Se avete occasione di passare da mia sorella, madona Chiara Spandolin Trivixan, porgetele i nostri saluti e ditele, che sempre preghiamo la Despina Panaghia per la salute di suo marito”, si raccomandò Helena, preoccupata per la sorte del cognato sier Nicolò, anch’egli ripartito ammalato per Venezia.

“Non mancherò”, le promise Marco. “Grazie mille dell’ospitalità”, disse poi a Donado Cimavin, il quale si portò una mano al petto, chinando brevemente il capo e confermando implicitamente l’ultima disposizione del ragazzo, di cedere i suoi averi ad Hironimo. La siora Felicita già si trovava d’accordo di tenerli da conto, l’intera casa convinta di riabbracciare presto l’ex-castellano di Quero e orando incessantemente per lui.

Si levarono gli ormeggi, mentre il pope gridava secchi ordini agli sbuffanti rematori e il provier determinava la cadenza della vogata, girandosi pigramente il burchio, cullato dalla duplice corrente del Sile e del Cagnan. Le pale dei remi sferzavano e sollevavano sopra e sotto la superficie verde scuro in un continuo fruscio d’acqua, accompagnato dalle esclamazioni d’incitamento dei vogatori e l’imbarcazione, raddrizzatasi, acquisì propulsione e imboccò la giusta direzione per il suo lungo tragitto fino alla laguna. Lentamente, il molo e le mura circostanti si rimpicciolirono, così come Marco Miani, sua moglie Helena e Donado Cimavin si trasformarono in piavoletti, le braccia mulinanti in alto a mo’ di saluto, l’unico tratto distinguibile della loro identità.

Marco Contarini abbandonò in fretta la poppa, portandosi verso prua, incurante del vento più forte e una volta lì sollevò discreto un lembo del suo mantello, acciocché né il cugino Nicolò né il provier e la sentina potessero scorgervi le amare lacrime di delusione mescolarsi a quelle provocategli dalla malattia. Una piccola vertigine gli scombussolò l’equilibrio e fortunatamente il suo germano lo pigliò in tempio, ante che cascasse in acqua.

“Su, venite dentro”, lo condusse Nicolò per le spalle, costringendo il ragazzo a sedersi nell’accogliente ma affollato interno del burchio. “Vedrete che una volta a casa vostra, guarirete prima!”, tentò di consolarlo.

Avvolgendosi col mantello fin quasi all’orecchie, il “dai Scrigni” scrollò incurante le spalle, chiuse gli occhi e s’affidò alle cure lenitive del sonno, che lo strappassero per qualche ora dalle sue frustrazioni e dai rimpianti.

“Parlava come se il Momolo dovesse presentarsi a Trevixo da un giorno all’altro”, commentò atono Marco Miani, seguendo la sagoma scura e sempre più indefinita del burchio allontanarsi e poi svanire alla prima curva. S’avvolse il mantello a mo’ di toga fin sulla gola, rabbrividendo al contatto dell’armatura raffreddata dal vento settembrino. “Cosa sa ch’io invece ignoro?”, si domandò, sottolineando il pronome personale con malcelato livore, imbevendolo di quella sottile e irrazionale gelosia che gli scattava ogniqualvolta vedeva interagire il fratello col giovane Contarini, sentendosi infatti Marco spesso scalzato dal suo omonimo negli affetti del minore. Lui aveva visto crescere Hironimo, conosceva i suoi lati positivi quanto quelli negativi e ciononostante, il “dai Scrigni” sembrava sempre essere a due passi avanti di lui, quando si trattava di decifrare l’animo dell’amico.

Frustrante e fastidioso invero.

“Forse Marcolin semplicemente nutre più fiducia in nostro fratello, che riuscirà a trovare il modo di scappare”, gli confidò Helena, dirigendosi assieme al marito verso il suo cavallo, Aíthon. Perfino Eòo, chissà per quale capriccio nella sua testa equina, s’era rifiutato di lasciarsi cavalcare quella mattina, rimanendo testardo nelle stalle del Castello e manco per riposarsi o ruminare biada. Sicché Marco aveva dovuto riprendersi il suo destriero, nero e dalla muscolatura più possente rispetto all’agile corsiero bianco latte.

Il Miani era giunto direttamente dal Castello, non appena il suo turno di guardia era terminato, in modo da non perdersi la partenza del Contarini e d’accertarsi che la moglie non s’imbattesse in qualche birbo malnato: non che dubitasse della scorta di Donado Cimavin, ma la prudenza non era mai troppa, considerato che l’ultima volta che la greca se n’era andata in giro senza di lui, per poco non si faceva accoppare da quei ladri dei soldati del Bataja.

“Sono già trascorsi due giorni”, ribatté cupo Marco, accarezzando il muscoloso collo di  Aíthon, che fremette sotto il suo tocco. “Quel monaco, Fra’ Anselmo, m’ha raccontato di come si siano separati nel bosco del Montelo. A quest’ora, anche se Momolo si fosse perso, i nostri esploratori l’avrebbero in qualche modo recuperato. Invece …”, e il patrizio tacque, mordendosi l’interno della guancia. “Se soltanto Gradenigo m’avesse permesso d’andare in ricognizione quel giorno …”

“Dobbiamo soltanto attendere: vedrai che tornerà presto!”, gli pose Helena una mano sulla guancia ruvida d’un accenno di barba. “Non è morto”, reiterò inflessibile, guardandolo dritto negli occhi.

Digrignando i denti, Marco sibilò allora: “Perché dunque quelle sue parole? Perché mi ha parlato come uno che sa per certo di morire?”

“Hieronymos voleva soltanto riconciliarsi con te. Ambedue eravate in collera, non stavate ragionando e di sicuro nessuno di voi pensava veramente, ciò che vi siete urlati contro.”

“Abbiamo litigato a fine gennaio e per quasi due mesi l’ho ignorato”, precisò aspro Marco, sordo ad ogni tentativo della moglie d’acquietare i sensi di colpa. “Neanche mi sono presentato a salutarlo, quand’è partito per Castel Novo di Quer. E in quei cinque mesi, invece di tendergli una mano, invece di consigliarlo e magari aiutarlo, l’ho lasciato a sbrigarsela da solo, malgrado stesse commettendo una grossa sciocchezza a litigare coi soldati e i locali, arrivando perfino a denunciarli ai Dieci!” Sapeva che Hironimo non s’era comportato così aggressivamente per cattiveria, bensì perché Castelnuovo di Quero era stato devastato dagli scontri degli ultimi due anni e ogni giorno contava più dell’oro per riedificare e potenziare la fortezza. Solo, questa priorità egli l’aveva comunicata nel peggiore dei modi alla stremata e intimorita popolazione di Quero, Alano e Vas, da lui brutalmente precettata per i lavori di ricostruzione. “Avrei dovuto intervenire, portarlo a ragionare e invece che ho fatto? Sono stato a guardare e a compiacermi delle sue difficoltà. Non io, bensì sier Zuam Dolfin e sier Nicolò Balbi l’hanno aiutato.”

“Erano i podestà di Feltre e Cividal di Belluno, ovvio ch’erano i più indicati. Márkos”, lo interruppe decisa Helena, afferrandogli il volto con ambedue le mani e costringendolo a fissarla ben bene, “potremmo andare avanti così per tutto il giorno. A che pro fustigarsi? Il tempo non si riavvolge e, come sostiene il tuo avunculus, il passato è il passato e non possiamo sottrarci al futuro. Non hai soccorso allora tuo fratello, lo farai ora. Hieronymos non t’ha chiesto perdono allora, te l’ha chiesto adesso. I nostri errori non ci soffocheranno mai, fintanto che possiamo porvi rimedio. Ora l’occasione è giunta e su di essa ti devi focalizzare. La vita è troppo breve, per rimpiangere e pontificare su ciò che non possiamo più cambiare!”, dichiarò energica.

Non visto, protetti dai portici e dalle strette viuzze, Marco l’abbracciò forte, affondando il viso sul morbido incavo della sua spalla. “Megaleío. I zoí mou s’agapó”, mormorò piano e affranto, abbandonandosi al calore della dolcezza e comprensione d’Helena, delle quali, lo ammetteva, spesso si sentiva indegno per tutto il male fattole in passato. Non meritava d’avere una donna così al suo fianco, eppure Dio misericordioso gli aveva concesso una seconda possibilità. Avrebbe ripetuto il miracolo, permettendogli di porre rimedio ai suoi sbagli nei confronti del fratello minore?

“Forse avresti dovuto partire assieme a Marcolin per Veniexia. Il suo potrebbe oggi esser stato uno degli ultimi burchi a partire”, confidò di punto in bianco Marco ad Helena, rimanendo sempre avviluppato nell’abbraccio di lei. “Questo assedio potrebbe … ed io non sopporterei il saperti …” e non riuscì a definire a voce alta quei timori, che l’assillavano all’appropinquarsi delle truppe nemiche a Treviso. Di notte, infatti, l’ansia della sconfitta gli levava il sonno, presentandogli orridi scenari della città fluviale invasa dai Collegati, di massacri, di stupri, di devastazioni. Nello zenit di questi incubi, si vedeva raggiungere Helena e ucciderla di propria mano, piuttosto di saperla vergognata e schiava di quei cani stranieri.

“La Parthena Maria è qui per aiutarci”, ripeté ostinata la greca le medesime parole pronunciate dai Trevigiani a difesa dell’affresco miracoloso, salvato in extremis dalla loro bellicosa devozione. Il suo sguardo fiducioso contagiò un poco il marito, dissipandone i foschi dubbi. “Ti ricordi, come ci protesse e ci garantì la vittoria due anni addietro a Padova?”

Accidenti se il Miani se lo ricordava. In quei giorni febbrili e sanguinosi, una monaca si era presentata inaspettatamente a Palazzo della Ragione, chiedendo del provveditore sier Andrea Griti. Concessale udienza, ella gli aveva rivelato d’aver avuto una visione, nella quale la Madonna, apparsale, esortava d’inviare al suo santuario a Loreto un modellino d’argento di Padova del valore esatto di cento ducati, né più né meno. Soltanto così la città avrebbe trionfato contro i suoi nemici. Sier Griti – seguace del paradosso Credo quia absurdum – non aveva né dubitato né tentennato e di tasca propria aveva adempiuto a quel voto, informando subito Venezia del singolare accaduto. [2]

“L’anno addietro – ti ricordi? – i Tedeschi avevano tentato di sfondare la porta della chiesa di San Lorenzo a Feltre – là dove si trovava quell’antica immagine della Parthena Maria  - per saccheggiarne gli altari e uccidere quegli sfortunati, ch’ivi s’erano rifugiati. E invece, né le armi da fuoco sono riuscite a sfondare il portone né l’incendio a bruciare la chiesa!”, gli fece presente la greca, insistendo. “Sin dall’inizio di questa guerra, la Parthena Maria ci ha dimostrato che, malgrado tutto, anche la scomunica, Lei continua ad intercedere per noi presso Theos. Non ci abbandonerà. E vedrai che ci manderà un altro segno, a prova che Treviso non cadrà in mano dei Collegati!”

Un segno … Sì, ecco forse ciò che la città e i suoi abitanti aspettavano apprensivi: un segno, un qualsiasi cenno di favore di Dio e della Madonna verso di loro, la conferma di protezione contro la minaccia nemica. E non chiedevano nulla d’eclatante, anche una piccolezza ma comunque divina, inspiegabile se non tramite la fede. Avevano bisogno della certezza di non esser stati abbandonati, di combattere per una giusta causa.

Marco dischiuse le labbra per replicare, sennonché proferì tutt’altro: “E tu che ci fai qui?”, chiese accigliato alla figuretta comparsa quatta-quatta alle spalle della moglie.

Thomà si bloccò improvvisamente, come il gatto pizzicato a sottrarre il pesce dal banco del pescivendolo, anch’egli la bocca spalancata, un “Patron!” congelatosi in gola. Piegò a trombetta le labbra e, fatto dietrofront, s’apprestò a fuggir via, sennonché il Miani fu più lesto e l’acchiappò per il collo della casacca, costringendolo a fronteggiarlo. “Chi sei? E cosa vuoi da noialtri?”, l’apostrofò severo l’uomo, abituato già a Venezia alle ruberie di quei giovanissimi accattoni.

“Mi sun nissun, patron”, balbettò il fantolino, intimidito da quello sguardo inclemente e ciononostante sempre più famigliare. Infatti, per un istante aveva creduto … “No gh’ho fato gnente, mi. Gero qua a … a farme i fati mìi, patron, veo zuro su la Croxe Sancta!”

Aggrottando la fronte e studiando accorta i lineamenti del volto del fanciullo, madona Helena esclamò: “Oh, ma tu sei l’assistente di Fra’ Anselmo!” e rivolta al marito. “E’ giunto due giorni addietro, tra i fuggitivi, alloggia in ospedale assieme a noi. Che ci fai qui da solo? Non dovresti essere col tuo magister?”

Se il tono della greca appariva dolce e conciliante, quello di Marco al contrario suonava duro e accusatorio, così come la strizzata all’orecchio che si pigliò il ragazzino. “An, bravo ti! Mi menti pure! Varda a contarme la verità, o ti scuoto a testa ingiù finché non mi sputi le budella!”

“Márkos! Lo spaventi, povero pulcino!”

“Avanti, canta canarino!”

“Patron, per caritade, no me strupiate ea recia!”, pigolò Thomà, liberandosi dall’inflessibile stretta del patrizio, correndo a ripararsi dietro la più sicura sottana di Helena. “La patrona la gh’ha rason, mi sun vegnuo qua co la zente fuzita dil Montelo, perhò no vesto frate come el Fra’ Anselmo. Mi me ciamo Thomà di Feltre, fio dil Vitor El Marangon, et arlievo dil valentissimo Andrea Trepin di Vitor, bombardier, morto virilmente a Castel Novo di Quer” e mentre parlava, l’antica tracotanza riempì il corpicino del giovinetto, che si portò avanti, mettendosi in punta di piedi per sembrare più alto e importante. E tirando fuori il petto, annunciò solenne: “Et co’ no smissio polvare, mi me poxo anca vantar de ser el servidor dil mio patron, el magnifico sier Hironimo Miani dil nobeliximo cu-on-tam sier Anzolo, castelan de Quer, sença il qual ajudo, mi no saria qui a parlarve!” e detto questo tornò a rifugiarsi dietro madona Helena, poiché doveva aver in qualche oscura maniera offeso l’altro patrizio, se questi aveva assunto un’espressione terribile, allungando il braccio per acchiapparlo di nuovo.

“Oh!”, si coprì invece la bocca la greca, ricordandosi di quanto ascoltato dalle due contadine fuggite anche loro da Nervesa. “Tu sei il ragazzino che stava con lui, vero?”

“Patrona!”, s’appellò supplice Thomà, abbracciandole le ginocchia e baciandole il bordo della gonna. “Mi sun stà ladro, xé ver, perhò solo verso i franzosi e todeschi, i quali no xéi cristiani. No ruberave gnente a vuialtri. Mi gh’ho visto el vuostro sior marido co i colori dil mio patron e squasi el muso igual. Xéli do zorni che mi gheo zerco, che mi gheo speto: el patron me gh’ha promesso de tornar a Trevixo e mi ghe credo, perché senpre el gh’ha mantegnuo le soe promesse!”

La nobildonna scoccò al consorte una lunga e significativa occhiata, imponendogli la calma e d’abbassare il braccio, acciocché il fantolino non temesse una sua reazione negativa e raccontasse indisturbato l’intera vicenda. “Thomà”, invitò il fanciullo ad avvicinarsi a Marco, posandogli incoraggiante due mani sull’esili spalle. “Nessuno ti accusa di niente, anzi, è naturale che tu abbia scambiato mio marito per il tuo padrone: sono fratelli.”

“Fradeli?”, spalancò incredulo le fauci il giovinetto, manco si fosse trasformato in una Bocca di Leone. “Seu el magnifico sier …?”

“Marco Miani”, completò per lui il patrizio, cambiando impaziente peso da una gamba all’altra. Il cielo s’era chiuso nuovamente e la luce, malgrado l’ora mattutina, sparita manco fosse giunto in anticipo il crepuscolo, annunciante un secondo temporale. “Sicuramente il tuo padrone non avrà avuto tempo di …”

“… el mio patron me parlava di tre fradeli, perhò no cognossendove de fazza, donca no savevo dir chi - tra el Marco, el Carlo et el Lucha -  vuj geravate”, gli spiegò serissimo Thomà, interrompendolo. E ricordandosi improvvisamente delle buone maniere, il fantolino s’inchinò fin quasi a baciarsi le ginocchia, asserendo enfatico: “Lustrissimo a me rebuto a la vuostra clemenza!”

Marco venne colto da due sentimenti contrastanti, se roteare snervato gli occhi dinanzi a tanta pacchiana deferenza o se asciugarseli dalla subitanea commozione, d’esser stato nei pensieri d’Hironimo anche durante la prigionia, se quest’ultimo li aveva indirettamente presentati a quel piccoletto. E a proposito di quest’ultimo, stentava a credere che suo fratello si fosse preso a cuore la sua sorte, guadagnandosi una devozione quasi filiale da parte di Thomà, che lo descriveva alla stregua del miglior cavaliere del mondo, manco fosse uscito dal Roman de Troie.  

Onde tagliare la testa al toro e conservare asciutta la testa, il Miani optò saggiamente d’incamminarsi verso l’ospedale e lì proseguire la conversazione. “Seguici”, invitò spiccio il ragazzino, il quale si portò accanto a madona Helena, giudicandola più sicura del marito, anche perché avvezzo all’incostanza del caratteraccio miano. “Ti riporto da Fra’ Anselmo. Dopodiché tu mi racconterai per filo e per segno ogni cosa capitata a mio fratello. E non risparmiarmi alcun dettaglio! Capistu?”

“Siorsì!”, si mise quasi sull’attenti Thomà, felice di poter costì aiutare il suo benefattore, riferendo quanto visto e udito nell’accampamento e nell’Abbazia. Nessuno l’aveva interrogato perché mai si dava credito all’affidabilità delle parole dei bambini, eppure il fanciullo possedeva una memoria prodigiosa nell’enumerare i torti subiti.

Quanto a Marco, oltre che ad apprendere in quali condizioni si trovasse Hironimo l’ultima volta che lo si era visto vivo e vegeto, voleva conoscere esattamente a quali tormenti  Mercurio Bua l’aveva sottoposto, così da restituirglieli settanta volte sette al primo scontro.

 

***

 

Le bisbiglianti ombre, il loro tapetum lucidum e il loro sinuoso e frusciante scivolare lungo i muri, fin quasi a giungere a sfiorarlo, scomparvero tutti all’improvviso in sordi e rancorosi ringhi e Hironimo intuì che doveva esser ormai giunto il mattino e ch’era sopravvissuto ancora per qualche tempo a quella prigionia di buio totale e solitudine.

Rannicchiato seduto contro uno scomodo angolo, le ginocchia portate al mento, il giovane patrizio si guardò furtivamente attorno, gli occhi gonfi e pesanti dall’insonnia, la testa riempita di cotone da quanto gli pulsava. Appurò che gli unici rumori percepiti dalle sue orecchie – rumori tangibili, vivi, non sovrannaturali – corrispondevano alle gocce d’umidità filtrante dalle vecchie pareti, gli squittii dei delusi ratti lì pascolanti e il gorgoglio del suo rabbioso stomaco, preoccupatissimo di quella Quaresima anticipata.

Il Miani s’umettò a fatica le labbra secche e crostose dai morsi datisi, per forzarsi alla veglia e non lasciarsi sopraffare da quelle ombre spaventose. Ad ogni colpo di tosse la gola gli pizzicava, ricordandogli della sua disidratazione e di fatti egli non si sovveniva dell’ultima volta, ch’aveva bevuto dell’acqua. Lentamente, il giovane uomo staccò le mani gelide dai polpacci, arricciando le altrettanto fredde dita dei piedi divenutigli insensibili. Stiracchiò cauto una gamba, sentendo scrocchiare l’anca e poi l’altra. Aggrappandosi ad un’irregolarità del muro, Hironimo s’alzò incerto, tentando piccoli passi e stringendo i denti dal dolore ch’attraversava in un sol fascio l’intero suo corpo, denutrito, malmenato e intorpidito. Almeno, magra consolazione, i suoi occhi un poco s’erano abituati all’oscurità, sebbene non rendendogli per niente la sua cella meno spaventosa, al contrario, presentandogli i suoi sgraditi ospiti con maggior nitidezza.

Hironimo mosse il piede, avanzando di un passo verso la porta, là dove aveva intenzione di battere fino a scorticarsi la pelle, reclamando a viva voce dell’acqua. Volesse il Cielo, qualcuno forse avrebbe esaudito quella sua impellente necessità.

Invece, neanche avesse avuto un piede caprino, il giovane incespicò e cadde rovinosamente per terra, i suoi riflessi rallentati dalla malattia e dal digiuno forzato. Guaì sfinito all’impatto del suo ginocchio, della spalla e del braccio per terra, aggiungendosi alle altre costanti e lancinanti fitte. Spossato, neanche provò a rimettersi in piedi, accoccolandosi sul fianco e lasciando ch’accadesse quel che doveva accadere.

Quando il ragazzo riuscì ad aprire gli occhi, innanzitutto il suo corpo era pervaso da un dolore nuovo, bruciante, accompagnato da un fastidiosissimo prurito e mal di stomaco. In secondo luogo, il buio era scomparso, mitigato da una soffocante semioscurità: sopra di sé egli riconosceva un tetto di canne palustri, delle erbe appese e un grasso odore terroso gli riempì le nari, misto a paglia, latte, funghi, salumi, fumo …

Un viso olivastro gli si parò innanzi, contornato da riccioli scuri a malapena trattenuti da uno stretto velo bianco. “Resisti finché te pol”, lo istruì la donna e con delle pinze estrasse delle braci dal fuoco, che mise dentro un pitale pulito. Posizionò questi tra le due sedie sopra cui Hironimo era disteso senza camicia, lasciando la scia compatta di vescicole violacee lungo il dorso ben esposta al calore proveniente da sotto. “Ti te xé el puto pì corajoso, che mi cognossa!”, gli accarezzò la guancia la baba curandera, le sue dita scure e nodose più delle radici degli alberi e come tali odorose di humus e verzura. Dopodiché, inginocchiatasi, ella prese a soffiare sulle braci.

Momolo strinse i denti, tirando su col naso e s’irrigidì onde dar prova di virile audacia. Da giorni quelle bolle gli avevano provocato febbri, crampi allo stomaco, nonché una voglia matta di grattarsi e non vedeva l’ora di disfarsene, anche per poter ritornare a dormire in camera coi suoi fratelli o coi genitori, esiliato infatti in una stanzetta, onde non contagiare nessun’altro a Ca’ Miani.

“Resisti. El fogo va varirte: el va sugàr (asciugare, ndr.) le papule, che van farse en bronse!” (croste, ndr.)

Il pigolante fantolino annuì, il labbro inferiore che gli tremava violentemente dall’intima paura e, man mano che trascorreva il tempo, dal bruciore provocatogli dai bollenti vapori provenienti dalle braci. Avvertì le prime lacrime inumidirgli gli occhi, la pelle arrossarsi e i nervi pizzicargli imbizzarriti da quei dolorosi stimoli. Inconsciamente, prese ad anguillare via, sennonché la mano robusta della baba curandera lo bloccò, intimandogli di pazientare e di rimanere fermo.

Invece d’assuefarsi al calore, esso acuiva il malessere già provocatogli dalle gonfie vescicole, asciugandole e seccandole ma così anche scottando la carne sana lì accanto. La donna seguitava a soffiare imperterrita, la pelle color cannella resa ancora più scura dalle ombre gettatele dal caminetto alle sue spalle. La mente atterrita e sconvolta di Momolo la scambiò allora per una di quei diavoli bluastri, ch’aveva contemplato sul mosaico di Santa Maria dell’Assunta a Torcello e gli parve di soffrire la medesima pena dei condannati all’inferno, rosolati lentamente e a puntino per l’eternità.

Una vampata particolarmente bollente ruppe l’ultima fibra di resistenza in Momolo, il quale prese a scalciare e ad agitarsi, frignando dolorante e spaventato da tanto male. “Brucio! Brucio!”, gridò, mentre la baba curandera gli afferrava le caviglie, impedendogli che per azzardo mettesse il piede dentro le braci. “Tata! Tata! Mi fa male! Mi fa male! Tata!”, singhiozzò, allungando le braccia al cielo, aprendo e schiudendo i pugni, in attesa d’essere preso in braccio.

La mano grande e forte di Padre avvolse la sua piccolina, mentre la sua testa veniva appoggiata sul ginocchio paterno. “Sono qui”, lo rassicurò e la visuale di Momolo venne coperta solamente dal viso di Anzolo, seppur rovescio.

“Tata!”, aumentò il bambino la stretta, conficcandogli le unghie nella carne. “Tata, brucia tutto! Brucia come l’inferno!”

Suo padre scosse il capo. “No, non è l’inferno: questo è il dolore prima della guarigione. Resisti ancora un poco. Sei così bravo, così coraggioso …”

“Mi fa tanto, tanto male, Tata!”, pianse Momolo, rifugiandosi nella carezza paterna sulla guancia. “Mi sembra di bruciare vivo! Mi sembra … mi sembra d’essere una di quelle anime dannate a Torzelo!”

L’uomo lo guardò a lungo, scostandogli la frangia umida di sudore dalla fronte e dagli occhi umidi. “Pensa alla Madonna. Te la ricordi? Nel catino tutto dorato della basilica a Torzelo. Grande, maestosa, tutta bella avvolta dal maphorion blu.”

Il fantolino deglutì affranto, aggrottando la fronte e sforzandosi di ricordare l’immagine evocata dal genitore. Scandagliò nella sua memoria, s’impose di trovarla e quando la Vergine Odigitria gli riempì gli occhi, Momolo s’aggrappò alla vesta paterna quanto il Bambino a quella di sua Madre. “Sì!”, asserì trionfante. “Me La ricordo!”

“Concentrati su di Lei”, lo istruì Padre. “Odigitria, dal greco, vuol dire: Colei che conduce e che mostra la direzione. Lei ti guiderà sulla strada della guarigione, oggi, ma un domani, quando ti sentirai perduto o non saprai quale cammino intraprendere, pensa a Lei e a Lei soltanto e non ti perderai mai.”

Momolo prese un profondo respiro e, stringendo il braccio del genitore al petto, chiuse gli occhi e fermò l’immagine nella sua mente, serrando i denti allo scottante vapore. Quand’ecco che li riaprì interdetto, avvertendo l’arto di Anzolo farsi più inconsistente, scivolandogli via leggero. “Tata?”, inquisì disorientato, non comprendendo perché i contorni del viso di Padre si stessero muovendo e colorando di verde, quasi lo stesse contemplando da sott’acqua. “Tata?”, ripeté ansioso, cacciando fuori un urletto sorpreso dinanzi al balzo nervoso di una guizzante pinna, seguito dal sibilo di una freccia.

“Ha-ah! Te gh’ho ciapà, cancaro d’on pesse!”, giubilò trionfante Hironimo, appoggiando l’arco sul fondo basso della balotina e, tiratasi su la manica, issò rapido il pesce infilzato dalla sua freccia.

“Ma vardalo, come si vanta!”, lo canzonò Marco Contarini, appoggiandosi sul remo. Dietro di lui sghignazzarono i suoi fratelli gemelli Piero e Polo e anche Agustin Miani, biscugino d’Hironimo, coprì il suo risolino dietro la mano. “Dai, passami l’arco, prima che si deprima a furia d’esser scambiato per una lenza!”, non si trattenne il “dai Scrigni” e le gote del Miani si tinsero di rosso, pur ridendosela anch’egli.

“Puoah! Almanco io ho provveduto al pranzo!”

“Infatti l’ho sempre detto, come tu sia un eccellente pescatore!”

“Tasé-là! Od ancuò, rimani digiuno!”

Scambiandosi i posti, Marco a prua con l’arco e Hironimo dietro di lui, i ragazzi ripresero a vogare in sincronia perfetta e la balotina scivolò silenziosa tra i ghebi della laguna, aguzzando la vista in cerca di uccelli marini sostanti sulle barene.

Uno stormo li volò sopra nella nota formazione a “V”, rompendo le nubi chiare appena colorate dalla tenue tavolozza dell’alba. Il Contarini appoggiò appena il piede sul bordo della barchetta, tese l’arco, puntò la freccia dalla pallina d’argilla contro uno degli uccelli e il suo saettante sibilo s’unì al grido dell’animale, che cadde stordito in un tonfo in acqua. Rapidi i giovani ramarono onde raggiungerlo prima ch’affogasse, afferrando Marco la preda per il collo, torcendoglielo.

“In effetti”, ammise Piero Contarini, alimentando il fuoco con due ramoscelli, “se non fosse stato per Momolo, addio desinare!”

“Se tu avessi avuto la testa sulle spalle e non nell’Eneide”, gli ricordò velenoso suo fratello gemello Polo, “ti saresti ricordato l’arco e noi avremmo cacciato in tre!”

“Potevi ricordartelo tu!”

“Ero a preparare la balotina, sempio!”

“Poteva pensarci il Marcolin!”

“Il Marcolin è innamorato …”

“Di chi?”

“Di me!”

“Momolo, serra quella boccaccia!”

“Visto, Pierolin? Tutti hanno una scusa, tranne te! Ammetti che ti pesava troppo il culo, poltrone!”

Al che Piero elargì una linguaccia a Polo, l’unica argomentazione rimastagli, dirigendo la sua attenzione alla cottura dei pesci impalati nei bastoncini. I volatili uccisi erano stati legati e pronti per le cucine domestiche, mentre il resto della comitiva si riposava nel casoto, recintato da incannicci dove avevano attraccato.

“Toh, ciapa, Pierolin!”, aprì Agustin un piccolo fagottino di stoffa, cedendogli una fetta di polenta avanzata dalla sera precedente. Affamato, il minore dei Contarini “dai Scrigni” l’afferrò cupido, ficcandosela subito in bocca.

“Che si dice, Piero?”, lo rimbeccò accigliato suo fratello maggiore Marco.

“Grazie, Stin!”, sbiascicò il ragazzo e Agustin scrollò le spalle, addentando anch’egli la polenta dopo aver dato una fetta anche a Polo.

“Ma tu guarda, se alla sua età debbo ancora insegnargli l’educazione”, schioccò Marco la lingua, disapprovando appieno il comportamento talora un poco acerbo di Piero, così diverso da quello invece più socialmente spigliato del gemello. Appoggiando la testa sul suo grembo, Hironimo lo canzonò:

“L’hai proprio allevato male, mammina!”

“No, tu sei la mammina!”

“No!”

“Sì!”

“Bauco!”

“Macaco!”

E dopo gli insulti si fecero i due ragazzi un misto tra solletico e lotta libera, finendo a gambe all’aria per terra, tra grasse risate.

“Marcolin?”, ritornò d’un tratto serio Hironimo, approfittando della distrazione dei due minori, impegnati a controllare la rosolatura dei pesci.

“Dime.”

Puntellandosi sui gomiti, il giovane patrizio gli confidò un dubbio sortogli da molto tempo. “Secondo te, le persone possono seguitare ad essere giuste, anche se si sono allontanate da Dio?”

Il Contarini reclinò il capo, affievolendosi sul suo viso lungo e pallido l’ultima traccia d’ilarità. Qualcun altro avrebbe, forse, potuto scandalizzarsi dinanzi a tal impertinente e spinosa domanda; per fortuna del Miani, il suo amico possedeva il medesimo spirito inquisitore dell’intellettuale, ereditato dallo zio sier Hironimo, per il quale nessun argomento era troppo immorale da non esser sottoposto al vaglio della logica.

“Uhm … credo … credo si potrebbe definirle persone corrette, ma non esattamente giuste”, ci ragionò sopra il ragazzo, picchiettando pensoso l’indice sul mento.

“Perché corrette? Non possiede lo stesso significato di giusto?”

“Senza Dio come eterno riferimento e super partes, l’etica diventa soggettiva e interpretabile, anche qualora venisse istituzionalizzata in leggi. Morale  diventa ciò che è utile ad un dato scopo; similmente, amorale diventa ciò che può intralciarlo o danneggiarlo. Ma tutto questo, avviene in un dato tempo, in un dato luogo e talora anche per una data cerchia di persone rispetto ad altre. Non sono verità eterne e universali: per esempio, oggi è proibito uccidere i neonati che non si vogliono, magari un giorno invece lo sarà e nessuno si sentirà colpevole, perché verrà giudicato utile dunque giustificabile dunque morale. Ma è giusto? È sbagliato? Come lo sappiamo? Cosa ce lo conferma, quando il nostro intelletto al massimo ci aiuta a distinguere il vero dal falso, ma anche quello solo dopo molti anni d’esperienze di vita?”

“Quindi, anche se una cosa ci è per legge permessa ed è moralmente accetta, non è necessariamente giusta?”

“C’è ancora speranza per te, Momolo: ti ricordi la tua lectio paolina!”, sdrammatizzò Marco, avvertendo un certo disagio a parlare di tali argomenti, conscio di quanto l’amico saltasse su inviperito ad ogni accenno di religione, neanche lo stessero insultando. “Perché questa domanda?”, inquisì dolcemente.

Hironimo si tormentò una cuticola. “Volevo sapere se i meriti in terra veramente si rispecchiano nell’Aldilà. Si può essere stati in vita cittadini modello, eppure finire ugualmente all’inferno? Si può divenire grandi sovrani, grandi papi e portare il proprio imperio al massimo splendore, eppure finire ugualmente all’inferno, perché quella fama è stata costruita nel sangue e sulle ossa di popolazioni devastate dalla guerra?”, si chiese il giovane Miani, osservando sull’immensa parete la sezione di mosaico raffigurante i Superbi avvolti dalle fiamme, sospintivi dentro dagli Angeli e catturati dai diavoli.

Riconobbe Costantino Copronimo, Nestorio, Eudossia imperatrice, [3] a loro tempo famosi, potenti e forse pure motivati da valide ed etiche motivazioni, eppure niente dei propri meriti in terra li aveva salvati dalla dannazione eterna …  Avevano creduto d’aver operato nel giusto, invece sbagliando. Avevano creduto di fare la cosa giusta, quando al contrario avevano fatto la cosa in quel momento conveniente o concessali, in base al loro status sociale, alla loro cultura, all’essere membri di una data epoca e di una data società.

Hironimo si portò una mano alla gola, rendendosi soltanto ora conto del cerchio e della palla di cannone ritornati improvvisamente, il peso di quest’ultima ch’andava aumentando, fino a costringerlo in ginocchio a guardare la fascia inferiore del mosaico, il resto dell’inferno: i Lussuriosi …

Non si ricordava come la dama gli fosse letteralmente cascata tra le braccia: Hironimo, un poco alticcio e frastornato dai bagordi del Carnevale, s’era un attimo staccato dal rumoroso gruppo dei suoi altrettanti ebbri amici, quando lei, travestita da monaca, gli era inciampata addosso. La donna aveva riso allegra all’incidente, baciandolo in bocca senza manco scostarsi la maschera. “Quegli è mio marito”, indicò ella tramite un ampio gesto del braccio il gentiluomo travestito da frate, che stava scendendo i gradini del ponte, raggiungendoli. Hironimo s’esibì in un sardonico e ampolloso inchino. “A lui piace guardare”, gli sussurrò all’orecchia la dama, maliziosa, passandosi la punta rosea della lingua sui denti bianchissimi.

… gli Iracondi immersi nelle acque gelide ...

Lo schiaffo aveva martoriato la guancia incavata di quel carpentiere di Quero, prima ancora che il cervello d’Hironimo avesse elaborato in totum il messaggio dell’uomo.

“Non mi rifilare altre patetiche scuse del cazzo, per giustificare la tua pigrizia! Stanco? Tu sei stanco? Siamo in guerra – de diana! – se non lavori e non t’impegni alla ricostruzione della fortezza, ti darò io il riposo, quello eterno del cimitero! Parassita, pigro pane-perso, crapulone ingordo! Sempre pronto a chiedere, e mai a dare!”

“Se la mettete così, il castello ve lo ricostruite da solo, fazza-de-merda!”

Un pugno alla bocca dello stomaco chetò il ribelle e uno tra le scapole lo spedì a baciare la terra. Dopodiché Hironimo lo afferrò per i capelli, torcendogli indietro il collo.

“Ancora un insulto ed io ti lego una grossa balota di granito al piede, poi ti faccio buttare nella Piave! E vedremo, quanto ti divertirai ad insultare i pesci!”

Il carpentiere, ch’aveva anche moglie e figli appresso, scoppiò allora a piangere. “Sior castelan, de grassia, cercate di capirmi: siamo fuggiti da un saccheggio, abbiamo perso ogni nostro avere, sono settimane che dormiamo per terra, ridotti a mangiare erba! … Perfino alle bestie viene concesso un poco di riposo e di cibo, voi ci costringete a lavorare di giorno e di notte, senza tregua, lesinandoci anche le più basiche necessità! Trattate meglio i vostri asini di noialtri cristiani!”

Un piccolo spasimo sussultò nel cuore d’Hironimo, il quale si morse il labbro inferiore, ammettendo nel suo intimo d’essersi comportato ingiustamente nei confronti di quel poveraccio. In effetti, constatò, questi mostrava sul volto i segni di un’infinita spossatezza e denutrizione. I lavori potevano interrompersi per qualche ora, abbastanza per concedere un picciolo istante di tregua a quei disgraziati.

Ma si trattò d’un attimo di pietà.

“Appunto! Perché i somari sono più utili di te e di quel peso-morto della tua famiglia!”, gli diede un calcio sulle natiche, spintonandolo via. “Sei ti becco ancora a poltrire sul lavoro, o peggio a lavorare da culo”, gli puntò feroce contro l’indice, “ti rinchiudo dentro le stinche e spero che la tua pelle sia tanto dura quanto quella tua testaccia, perché stai certo che ti scuoierò vivo a furia di frustate!”

“Il vostro sior Pare – a chi Domeneddio perdoni! – non era così!”, commentò amaramente il carpentiere, dirigendosi zoppicante verso le impalcature.

Un sasso lo colpì alla spalla, rubandogli un sorpreso guaito di dolore.  

“Io sono meglio di mio padre!”, ruggì Hironimo, rivoltando in aria una seconda pietra e il viso trasfigurato in una maschera pressoché demoniaca. “Io ricostruirò in tempo questa fortezza e se salverete la vostra ingrata pellaccia, sarà unicamente per merito mio!”, ringhiò malevolo e lanciò il sasso in direzione degli attoniti operai. “Sempre a lamentarvi, voialtri! Dormire, mangiare, scopare … altro non riuscite a concepire dalla vita! Ecco perché vi ritrovate alla base della gerarchia! Non siete poveri a caso! C’è un motivo ed è la vostra invincibile stupidità! Sempre a borbottare alle spalle di chi si sbatte per voi! Incapaci di governarvi, pretendete di suggerirmi come farlo?! Siete buoni solo a nascondervi e ad invocare pietà, usando lo scudo trito e ritrito di Dio, la Verzene e tutta la Corte Trionfante! Beh, sapete che vi dico? Che se non vi date da fare, neanche Sen Michiel in persona vi salva dalla forca! Al lavoro, becchi fottuti! La scelta è vostra: se le picche dei lanzichenecchi o le mura ricostruite di Castel Novo! Al lavoro!”

Quella sera medesima Hironimo aveva informato il Consiglio dei Dieci dell’accaduto – assieme alla scoperta del passaggio di Scalon – e l’indomani aveva pubblicamente frustato un sodato perché, considerandosi quest’ultimo all’apice della saggezza, gli aveva consigliato di rallentare i ritmi serrati di ricostruzione del castello, ricordandogli della favola del cavallo e del somaro, dandogli infine sprezzante del “putachio imberbe, palorbo.”

“E tu che vuoi, pidocchio?”

Il biondino lo fissò tranquillissimo, aggiustandosi l’elmo in testa troppo grande per lui. “Non c’è vergogna nell’ammettere d’aver paura, patron”, gli confidò. “L’abbiamo tutti.”

Hironimo lo spintonò via, intimandogli d’andare alla malora.

… gli Invidiosi dai crani rosi dai vermi, come Hironimo s’era ognora roso di rabbia nel vedersi superato dagli altri in tutto: in bravura intellettuale, nelle amicizie, negli amori, nella ricchezza, nella popolarità, malgrado i suoi sforzi di migliorarsi, di primeggiare ad ogni costo.

… gli Accidiosi rappresentati come teschi ed ossa umane disperse. Perché invece d’ingegnarsi e non arrendersi dinanzi alle difficoltà, Hironimo s’era lasciato andare, una nave senza nocchiero, vivendo alla giornata, senza progetti, senza un futuro.

… i Golosi e gli Avari, gli ultimi con le teste ingioiellate. Tanto egli era stato ingordo nella sua ricerca di soddisfazione personale, da però risultare avaro d’amore e comprensione verso il suo prossimo, circoscrivendo l’intero universo ad io, me e me stesso, incurante di qualsiasi altra cosa esistesse fuori da esso, intrappolato nel culto pressoché idolatra dell’amor proprio.  

Hironimo ghermì la catena e provò a sollevarsi eretto, sennonché la palla aumentò di peso e dimensioni, ricostringendolo stavolta prono, faccia a terra.

Quant’era stato stupido e cieco, lasciandosi abbindolare dall’allettanti promesse dell’antropocentrismo! Cos’era l’uomo? Un minuscolo tassello del maestoso mosaico ch’era il mondo, creato e basato su leggi razionali e funzionanti, le quali s’infischiavano di ciò che l’uomo volesse o non volesse. Quante volte l’uomo aveva creduto d’aver domato la Natura e poi essa gli si ribellava e fagocitava ogni sua impresa? Quante volte aveva essa dimostrato di funzionare perfettamente senza l’ausilio umano? Similmente, quante volte l’uomo si vantava di conoscere Dio e invece non sapeva un bel niente di niente? Non era conoscenza, bensì interpretazione, spessissimo annacquata da esperienze e tornaconti personali. Si odiava Dio perché non si voleva odiare se stessi e i propri difetti e limitazioni; perché non si volevano accettare le personali sconfitte. Non si voleva ammettere l’impossibilità di governare il destino e il mondo, i quali andavano avanti per la loro strada, incuranti di progetti e desideri. Quante volte ci si gloriava dei propri successi, presentandoli come frutto dei meriti personali, dell’ingegno, della libertà umana? E invece, al primo sbaglio o vento contrario? Chi si biasimava immediatamente? Dio, quel Dio che, all’apice della gloria, s’era scartato, ritenendolo superfluo e ininfluente ma nelle miserie ecco che diveniva tiranno e vendicativo.

In realtà, ragionava Hironimo, in Lui si proiettavano le proprie frustrazioni, credendoLo una sorta di genio orientale, che tramite miracoli potesse risolvere ogni situazione così, a comando, con uno schiocco di dita. Se veramente esisti, fai questo … quest’altro … altrimenti a che servi? Mettendosi al centro dell’universo, s’era messo Dio in funzione delle necessità umane. O capricci? Hironimo aveva serbato livore contro Dio, perché aveva scambiato la durezza di cuore degli uomini per la Sua. Chi aveva condannato unanimemente Padre? Dio o la dottrina fatta istituzione? E da chi era composta e interpretata l’istituzione? Da uomini, ergo fallibili e limitati. Vero che la morte di Padre era stata ambigua e che soltanto lui sapeva cosa fosse esattamente successo quella maledetta mattina; ciononostante, la sua famiglia aveva dovuto agire con la vergogna dei colpevoli, elemosinando quasi un funerale cristiano e anche dopo Hironimo aveva vissuto l’ipocrita commiserazione e il giudizio negativo della gente, in primis di quella parte di clero a conoscenza della sordida vicenda. Non sapevano niente e avevano lo stesso condannato Padre, sostenendo di aver letto e capito ogni singola parola della Bibbia, di conoscerne alla perfezione il significato e quindi Padre ai loro occhi era necessariamente perduto, senza possibilità d’appello. Ma era davvero così?

... Orribil furon li peccati miei; ma la bontà infinita ha sì gran braccia, che prende ciò che si rivolge a lei ... E dunque non poteva Dio aver perdonato Padre, anche all’ultimo momento, scardinando la logica umana, rapida all’ira e lenta al perdono? Perché non aveva avuto fiducia nella Sua misericordia, piuttosto che in quella avara e saccente degli uomini?

Hironimo non aveva capito un bel nulla, troppo limitato dal suo rancore, dalla paura e dalla superbia che, aggiunti al suo modesto intelletto, avevano soffocato ogni speranza in Dio e di conseguenza la sua fede in Lui. Non aveva compreso che, così facendo, danneggiava se stesso, poiché s’era privato d’un punto fisso nella vita, della sua stella per navigare in quelle tempestose acque mortali. Aveva posto fiducia in ciò ch’era fallibile ed effimero. E di conseguenza, era divenuto insensibile e crudele; per difendere tale meschinità e non provare rimorso, aveva sminuito il suo prossimo al posto di guardarsi dentro e riflettere, più facile porsi su di un piedistallo e puntare gli indici. Maestro del nulla, aveva esaltato una vuota conoscenza, un’etica fondata sulla sua vanità. Che negli attuali tempi, mica era stupido farsi gli affari propri, ma … ma in quale persona s’era infine trasformato? Mediocre, inconcludente, antipatica.

Ed ecco ch’era giunto al termine della sua corsa – il patrizio lo percepiva nelle ossa. I maltrattamenti, la denutrizione, la febbre l’avevano minato nella salute e nel corpo e, per quanto possedesse una tempra e una volontà d’acciaio, egli non poteva competere contro l’imparziale falce dell’oscuro mietitore. Tergiversare, rallentarlo, magari, ma al suo appuntamento doveva presentarsi.

Oggettivamente, il giovane trovò la sua una fine piuttosto squallida. E la vide, quella baldracca, ghignargli dinanzi lugubre e golosa, assaporando la preda sicura e prossima. Almanco fosse morto virilmente, la spada in pugno e forse sbudellando La Palice e soprattutto Mercurio Bua … di certo avrebbe riscattato in quella sua morte eroica gli anni persi a correre dietro a fantasmi, sogni e chimere. Oh, beh, in molti muoiono esattamente come hanno vissuto e nel suo caso? Ingloriosamente, nel rancore, nella paura.

Strisciando, schiacciato infatti da quella gigantesca ballotta e dal bruciante calore attanagliargli le viscere, Hironimo si portò al centro del mosaico, là dove nella lunetta sotto la Psicostasia – soggetto nel suo caso quanto mai adeguato – si trovava la Madonna in posizione di orante. E non potendo sollevare né mani né braccia, il ragazzo s’accucciò in proskynesis e ripeté l’invocazione scritta sulla lunetta: Virgo Divinum Natum prece pulsa, terge reatum.

“O Vergine, prega il Divino Nato, purifica il peccato!” e che i demoni non riescano a pendere la bilancia di San Michele dalla loro parte, che i sacchi e le otri contenenti i miei peccati siano meno pesanti di quanto io so, che in realtà sono.

“Ignoro se queste mie parole saliranno fino a Te, perché sicuramente in questi orribili giorni starai ascoltando preghiere e suppliche provenienti da persone assai più meritevoli del sottoscritto.

Sono stato un ribelle, un indegno e un idiota, non il peggiore tra i peccatori, ma ugualmente ho perduto il senno e mi sono ostinato ad offendere a modo mio il Tuo Figlio. Non merito niente, io mi sono preparato questo letto ed è naturale che ora vi dorma sopra. Ho provato rancore nei Vostri confronti, perché Vi ho creduti lontani e indifferenti alla mia sorte e alla mia pena, quando al contrario Voi eravate sempre con me, nel mio cuore, mentre io mi assordavo volontariamente alla Vostra voce. Solo adesso mi rendo conto, quanto in realtà io sia stato protetto, scampando a punizioni ben peggiori per le mie malefatte, rispetto a  qualche pugno in faccia o una strigliata da parte dei miei parenti. Pretendevo amore e comprensione e non ho mai né amato né cercato di capire. Volevo, volevo, volevo e non davo niente. Ogni Vostro dono l’ho rifiutato, cieco, avido e stolto per apprezzarlo.

Dopo tante offese e ingratitudine, come posso sperare nel perdono?

Ciononostante, anche un cane può mendicare qualche briciola dal tavolo del padrone. E pertanto questo, o Madonna, io Ti chiedo, Ti supplico, Ti imploro: non permettere ch’io muoia in dannazione! Se la mia vita deve finire presto, che almeno io abbia la possibilità di mondarmi da ogni mio peccato mortale!

Provo un disgusto enorme verso me stesso, per le occasioni sprecate, per l’aver costruito il nulla, pur nato privilegiato, con mezzi e intelligenza a disposizione! Mi lamentavo della mia mediocrità, maledicendo di non possedere di più, quando non mi rendevo conto che Voi mi avevate munificato di ogni qualità per emergere, per agire e vivere glorificandoVi con la mia vita! Ho eguagliato il servo malvagio, ch’ha seppellito il talento donatogli per paura. Non ho fatto che compiacere me stesso e non ho amato nessuno al di fuori di me, crogiolandomi nel mio dolore senza affrontarlo, anzi, usandolo come scudo per giustificare la mia inettitudine e i miei fallimenti. Credendomi superiore, ho puntato il dito quando invece avrei dovuto puntarlo contro me stesso e migliorarmi. Non sapevo niente e mi vantavo di sapere tutto.

Che cosa posso offrire sulla bilancia di San Michele, se non il mio sincero pentimento? Mater Dei, non fare che i miei ultimi sentimenti mortali siano di paura: intercedi per me, ch’io possa morire nella speranza del perdono. Dammi un segno di grazia! Uno soltanto! Per amore di mia madre, che non mi sappia morto senza assoluzione! Per le lacrime che lei ha spento per me, per le sue preghiere di riportarmi sulla retta via, ch’io ho ignorato e dileggiato! Che non siano state invano! O Madonna! O Mater Dei! Un figlio t’implora! Un figlio ti supplica! Ho smarrito la via, Madonna Santa … Aiutami! Dammi un segno! Un segno! Se debbo morire, ch’io possa riconciliarmi …!”

Un possente colpo di tosse interruppe Hironimo, costringendolo a bocconi per terra e a vomitare bile e catarro. Puntellandosi a fatica sui gomiti, il patrizio si nettò il viso madido di sudore e di lacrime, bloccandosi d’un tratto.

S’era posto seduto facilmente e un buio pece l’avvolgeva. La sua mano anchilosata e infreddolita si portò all’altezza della gola, tastando e non vi trovò alcun cerchio né palla di cannone. E di sicuro, a giudicare dal puzzo indescrivibile di quella cella, egli non si trovava nella basilica di Santa Maria dell’Assunta a Torcello. S’asciugò le lacrime e si soffiò il naso col lembo della tonaca già di suo lercia, peggio di così tanto non poteva sporcarsi.

Hironimo si pizzicò il braccio, appurando il suo stato di veglia e, giusto per assicurarsi totalmente, si tirò anche i capelli. Sì, non dormiva. Non sognava. Ma veramente s’era trattato di un sogno, come la notte precedente? O di ricordi? O entrambi? O peggio, d’allucinazioni e visioni sovrannaturali, per tormentarlo più di quanto non stesse già soffrendo? Beh, un lato positivo in quell’infernal marasma esisteva: se era sveglio significava ch’era vivo, ergo che la sua ora non era giunta, non subito, non oggi.

Poteva ancora pregare. Rimediare.

L’unico inghippo rimaneva come: non allenata, la sua mente aveva scordato le orazioni insegnategli da Madre, da Crestina e da quel povero martire del suo precettore, il canonico del Monastero della Carità. Poco male, una tuttora se la ricordava a memoria, sebbene più per narcisismo letterario che religioso.

Affaticato e con la tesa che gli girava, Hironimo ritornò nella comoda posizione di proskynesis e, schiarendosi la gola, proferì lento e incerto quelle parole, come uno scolaretto alla sua prima declamazione pubblica: “Vergine Madre, figlia del tuo Figlio, umile e alta più che creatura, termine fisso d’etterno consiglio …”

E man mano che procedeva nella dantesca preghiera di San Bernardo alla Madonna, la sua lingua divenne più sciolta ed eloquente e il suo pensiero più stabile, svaniva la fatica dell’animo e una rara calma lo acquietava, aprendogli cuore e orecchie dopo anni di sordità volontaria. Il silenzio e il buio gl’incutevano meno paura, così come la solitudine, mitigata da una presenza forte e inafferrabile, per quanto indefinita. Se il corpo si stava indebolendo, lo spirito si rinforzava, temprandosi. Le ombre sparivano, sconfitte.

A questa nuova sensazione d’atarassia Hironimo s’abbandonò fiducioso, ripetendo l’orazione di nuovo e di nuovo, ininterrottamente, alternando versi, singhiozzi e invocazioni di pietà e soccorso.

… in gremio Matris iacet sapientia Patris …”

Il patrizio s’interruppe bruscamente: e quella da dove era saltata fuori? Di sicuro non apparteneva al canto dantesco né si sovveniva d’averla mai letta da qualche parte. Gli era balzata in testa così, spontaneamente, con la leggerezza di un pensiero banale e comune.

“Nel grembo della Madre giace la sapienza del Padre …”, ripeté egli interdetto la frase, studiandola e assaporandola sulla lingua. Da dove veniva? Non dal suo cervello, ché figurarsi se quel tordo concepiva concetti tanto complessi e di profondo significato … Da qualche trattato teologico? E quando mai aveva avuto tempo o voglia di leggerli? An, se avesse prestato un’ombra d’attenzione alle lezioni del canonico! “Nel grembo della Madre giace la sapienza del Padre … Nel grembo della Madre giace la sapienza del Padre … Nel grembo della Madre giace la sapienza del …”

La porta s’aprì in uno stridulo garrito di gabbiano barbaramente strangolato e la luce molesta d’una lanterna fendette l’offesissima oscurità e per un istante accecò Hironimo, costringendolo a schermarsi gli occhi dietro il dorso della mano.

“Che stai blaterando? Non ti sarai mica rincretinito?”, l’apostrofò acido un soldato, appoggiando di malagrazia per terra una ciotola ricolma d’acqua. “Christos, che tanfo!”, si coprì il naso all’interno del gomito e maledisse l’avverso fato, che l’aveva scelto per portare da bere al prigioniero, putente peggio del cadavere d’un ratto. “Beh, non la vuoi?”, gli avvicinò la scodella col piede, notando come il Miani se ne stesse lì imbambolato in ginocchio a contemplarlo incuriosito. “Tzé, il capitano ti ha proprio sconquassato il cervello!”, scosse il capo lo stradiota, chiudendo la porta dietro di sé e borbottando il suo malcontento lungo il corridoio, finché la sua voce non divenne un eco distante, scomparendo poi nell’aria mefitica.

Ripiombato nell’oscurità, il giovane Miani strabuzzò gli occhi, riflettendo su quel rapido contatto umano, dopo giorni d’isolamento forzato. L’aveva visto, quel greco o albanese, non l’aveva sognato. Apparteneva alla realtà. Anche la ciotola, misera e contenente semplice acqua – Hironimo vi tuffò dentro la faccia, bevendo avido a guisa canina – era solida, tangibile. La preghiera stava allontanando le allucinazioni, gli raddrizzava i pensieri e lo rendeva più lucido, presente. Gli allontanava la paura, la fame, il dolore fisico.

Ignorava se fosse giorno o notte, elementi di poca importanza ormai. L’unica certezza del giovane patrizio era che seguitava a vivere. Di più, si voleva ch’egli continuasse a vivere. O gli avrebbero rifilato la triste sorte del conte Ugolino della Gherardesca.

“Nel grembo della Madre giace la sapienza del Padre … Farò ammenda … Sono in tempo … Farò ammenda …”, ripeté tra sé e sé Hironimo, ripigliando a pregare e preparandosi ad un’altra lunga notte di veglia, a fronteggiare i suoi demoni interiori, il suo io-assassino.

Forse aveva capito la frase di Luzia: il demone gli aveva fatto credere di non necessitare di Dio nella sua vita, allontanandolo da Lui; adesso che aveva bisogno di conforto, gli aveva impedito di ritenersi degno di misericordia, dipingendo Dio come un giudice impietoso. Un trucco molto efficace.

“In gremio Matris iacet sapientia Patris … Virgo Divinum Natum prece pulsa, terge reatum.”

 

***

 

All’oscuro delle disposizioni regali, finite in mano della Serenissima, il maresciallo Jacques de Chabannes de La Palice aveva  nel dubbio ordinato che fosse continuata la guerra dei nervi. Infastidito al limite dalla debacle di Musestre e dalla lentezza del rientro delle truppe imperiali dalla Patria del Friuli (il grosso impegnato sotto le mura di Gradisca) il generalissimo francese aveva inviato i suoi capitani in tutte le direzioni, fino al Barco, per confondere le spie veneziane e dare l’impressione di grande potenza. A tal scopo aveva perfino ingigantito la notizia dei rifornimenti provenienti dalla Patria, sia di cibo che di cannoni. Dopodiché, rientrate tutte le squadre e squadroni a Nervesa, progettava di levare in via definitiva il campo per un’avanzata frontale, costeggiando la Piave.

In esecuzione a questi ordini, le compagnie francesi s’erano presentate contemporaneamente a Porta Santi Quaranta, a Santa Bona, a Fontanella, a Melma presso Treviso, costantemente fronteggiate e tenute distanti dai vigilantissimi stradioti della Serenissima, in scontri sempre più violenti al che La Palice, notando come anche quella sera i suoi gendarmi, cavalleggeri e stradioti fossero rientrati a Nervesa malconci e abbattuti, si era reso conto che codeste scaramucce non gli portavano alcun vantaggio, semmai ringalluzzivano l’avversario e lo privavano di uomini utili all’assedio.

“Dobbiamo capire dove poterci accampare, senza temere incursioni notturne o peggio, bombardamenti notturni. Suppongo che i cannoni li tengano soltanto ai bastioni, giusto?”, ragionò ad alta voce il maresciallo nei suoi alloggi al Castello di Collalto di San Salvatore, avendo convocato il resto dei comandanti per un rapido consiglio d’aggiornamento.

Poiché Mercurio Bua non pareva affatto incline a rispondere, preferendo ascoltare impassibile, Leka Busicchio riferì al posto suo: “Da lì hanno sparato, quando abbiamo attaccato Treviso.”

“Il tiro?”

“Un miglio abbondante.”

“Bisognerà giungere e posizionarsi nei loro punti ciechi”, suggerì pensoso Teodoro Trivulzio, studiando concentratissimo la cartina.

“Certamente è da escludere Porta San Tomaso: lì si sono difesi assai bene”, commentò Soffrey du Molard.

“Ma è anche vero, che si trattava di una trappola”, puntualizzò Giulio Sanseverino. “Ci stavano aspettando.”

“Ovunque ci giriamo, quei dannati sbucano fuori peggio delle talpe!”, sbuffò invece monseigneur Artus du Boisy, snervato. “Noi li depistiamo, tentiamo differenti manovre e non li ingaggiamo mai in scontri nello stesso luogo e ciononostante, ogni dannatissima volta, riescono ad anticiparci! Come diavolo fanno?”

“Appunto per questo motivo dobbiamo fronteggiare les Vénitiens una volta per tutte”, reiterò La Palice. “Affinché non prendano coscienza della propria forza, così da venire loro da noi e non viceversa.”

“Se finora non ci hanno attaccati”, suggerì Leka, “significa che non possiedono i numeri sufficienti per farlo. Altrimenti, conoscendo i loro comandanti, avrebbero osato una sortita più massiccia di una qualche rapida imboscata.”

“Cosa ne dite voi, capitano Bua? Ultimamente ve ne state in gran silenzio, non è da voi”, richiamò il Trivulzio l’attenzione del greco-albanese, il quale levò due dita dalla guancia, arcuando incurante un sopracciglio.

“Non ho nulla d’aggiungere, che il capitano Busicchio già non abbia eccellentemente delineato”, disse sincero e il suo conterraneo lo fissò stralunato, avendo creduto la sua un’acida battuta, a seguito del loro recente diverbio.

Al contrario, il Bua appariva serissimo, ogni traccia di sarcasmo e strafottenza svaniti dal viso tirato di chi non dormiva bene da qualche notte. La barba gli s’era un poco allungata e infoltita e al braccio egli teneva una banda nera, a lutto per la morte del suo fidato Zilio Madalo. Dentro di sé, tuttavia, il condottiero piangeva un altro tipo di perdita, quella della fiducia e del rispetto da parte di Caterina, da lui disprezzati e presi per scontati. E ora non aveva più niente, pur avendo tutto: né i titoli conferitigli dall’Imperatore né la gloria in battaglia avrebbero potuto restituirgli sua moglie, sua figlia, suo fratello e Zilio. Si sentiva smarrito, inutile negarlo. Doveva fare il punto della situazione.

“Forse dovremmo inviare una squadra di stradioti in avanscoperta, onde scovare il punto debole delle loro mura …”, fu la proposta di Galeazzo Pallavicino, riprendendo il discorso.

“Se la vostra illustrissima signoria desidera mandare al macello altri uomini”, sibilò a quel punto Mercurio, gli occhi fissi su di un punto indefinito davanti a sé, “può ben inviare allo sbaraglio i suoi di soldati. I miei domani rimarranno qui, a riposarsi. Hanno già dato a sufficienza.”

Il marchese di Busseto s’imporporò piccato da quella sferzante replica, manco fosse l’ultimo dei paggi da sgridare. “Queste informazioni sono di vitale importanza, se vogliamo …!”

La Palice interruppe l’offeso Pallavicino, annunciando gravemente: “Domani prenderò tre squadroni e mi presenterò di persona a Trévise.”

Un coro d’esclamazioni contrarie accolse la sua inaspettata decisione.

C’est trop dangereux!”, esclamò subito du Boisy, gli occhi fuori dalle orbite. “Non possiamo rischiare che vi catturino!”

“I miei guasconi ed io possiamo recarci lì, se ne avete bisogno, ma non voi! E se vi sparassero dai bastioni? Quel satanasso di Jean-Paul Gradenigo è capace di tutto!”, insistette un esagitato du Molard.

“Starò a debita distanza e non m’apposterò presso i bastioni!”, dichiarò fermo il maresciallo. “Questa mia spedizione sortirà il duplice scopo d’intimidirli – sapendoci pressoché alle loro porte – e di capire in quale punto les Vénitiens si trovino più scoperti. Perché rifiuto di crederli ovunque preparati. Da qualche parte saranno pur vulnerabili. E sarà lì che li colpiremo!”, batté insistente l’uomo il pugno sulla cartina. A furia di pressionarli ed intimidirli, i marciani avrebbero prima o poi commesso un passo falso da sfruttare a loro vantaggio.

Ad oltre un miglio di distanza sarà difficile stabilirlo,  meditò distrattamente Mercurio, appoggiando la schiena al muro. Però è pur sempre un inizio su cui lavorare. Domani ne sapremo di più.

“Nel frattanto”, concluse La Palice, “stasera stessa invierò un ultimatum ai comandanti  allemands rimasti sulla sinistra della Piave: convocazione qui a Nervesa entro, e non oltre, domani fino al crepuscolo.”

“Mancheranno sicuramente quelli impegnati a Gradisca e, forse, a Marano”, puntualizzò du Molard.

“Costoro li possiamo esonerare”, licenziò in fretta la questione il maresciallo francese. “Quanto agli altri, verranno pubblicamente dichiarati disertori e costì trattati, dovessimo imbatterci in loro.”

“Mi par equo”, convenne Artus du Boisy, felice nel suo intimo di veder infine penzolare qualche tedesco ribelle.

Intanto che il segretario di La Palice abbozzava la lettera da inviare agli imperiali, Giulio Sanseverino avanzò un ulteriore suggerimento: “Maresciallo, forse potremmo sfruttare la vostra parata dimostrativa per un triplice scopo: incominciare lo sgombero del campo. Vedendoci quasi sotto le loro mura, i Veneziani si concentreranno su di voi e non avranno la pronta reazione di mandare esploratori al di là di Treviso. In questo modo, ci accamperemo in un luogo a loro sconosciuto.”

“Io suggerirei a Torre di Maserada fino a San Giorgio”, propose Galeazzo Pallavicino, ansioso di recuperare autorità dopo la strigliata di Mercurio Bua. “La prima si trova a cinque miglia da Treviso e la seconda ad un miglio da Ponte di Piave. Potremmo inoltre creare un blocco di barche, impossibilitando ogni comunicazione da quel fiume.”

Il maresciallo francese contemplò intensamente la cartina, nello specifico i luoghi indicatigli dal marchese di Busseto. “C’est bien”, convenne alla fine. “Incominceremo domani lo smantellamento, mentre una squadra avvertirà i nostri rimasti alla Badia del Pero a Monastier, con appuntamento a Torre di Maserada. Il resto delle truppe si sposterà sabato, all’alba, e brucerà ciò che resta del campo.”

Un mormorio d’assenso si levò nell’aria.

Enfin, cette fois ça commence pour de vraipensò La Palice, osservando uno ad uno i comandanti uscire dai suoi alloggi. Si portò alla finestra, terminando di dettare la missiva al suo segretario, la mente persa tra quegli scuri monti risaltati all’orizzonte dal bluastro nascente della sera. E questa volta, mon Dieu, si vedrà da che parte stai, se dalla nostra o quella dei Vénitiens.

Fuori, nel cortile del Castello, Leka Busicchio raggiunse Mercurio Bua, il quale stava conducendo il suo baio turco fuori dalla stalla. Impacciato, il capitano stradiota s’avvicinò al greco-albanese, bofonchiando: “Siamo … siamo a posto?”

Il Bua reclinò lentamente in avanti il capo, in assenso. “Siamo a posto”, confermò, inforcando la staffa e issandosi sopra la sua cavalcatura in un fluido movimento. “Sebbene le mie scuse non potranno mai riportarci indietro Zilio”, aggiunse, accettando la torcia dal suo palafreniere. “Così come una magra consolazione sarà vincere quest’assedio.”

Rapido, Leka imitò il suo collega, balzando anch’egli in sella e allungando la torcia verso lo scudiero, onde accenderla. “Almeno, combatteremo in sua memoria.”

Mercurio batté piano gli speroni sul suo destriero, iniziando una lenta e regolare marcia. “Rimpiango di non essere stato lì, anche solo per seppellirlo con le mie mani. Vedi”, gli confidò con voce un poco tremula, “Zilio ed io abbiamo militato assieme, quando ancora ci stavano crescendo i primi peli sulle guance. Ne abbiamo vissute di cotte e di crude, rendendomelo più di un semplice luogotenente. Era un amico. Ed io non ho neanche potuto augurargli appropriatamente buon viaggio verso l’Aldilà …”

“Zilio è morto virilmente: saresti stato orgoglioso di lui”, lo confortò Leka, rivivendo nella mente l’immagine dello stradiota colpito da un colpo d’archibugio e cascato in seguito in acqua. “Purtroppo, il fiume se l’è portato via … Avremmo dovuto fermarci e ripescarlo, però …”

“Hai fatto ciò ch’era giusto”, lo interruppe bruscamente il Bua. “Non ti rimprovero di nulla.” Cacciò fuori un grosso sospiro, levando in alto il capo e permettendo all’aria fredda della notte d’accarezzargli il volto. “Talvolta mi pento d’aver abbandonato la mia Morea.”

“Eh?”

Visto ch’erano in vena di confidenze, tanto valeva esplicare meglio al Busicchio quel suo intimo rimpianto. “Ti sei mai chiesto come sarebbe stata la tua vita, se tu non avessi mai abbandonato la tua terra? Io sì. E non sarebbe stata una brutta vita. Avrei vissuto a Napoli di Romania [4], avrei assunto il ruolo di mio padre di capo degli Albanesi di Grecia, avrei combattuto gagliardamente contro quei cani dei Turchi e magari pure riappropriandoci dei perduti territori in Morea e in Albania! Sarei stato acclamato come un eroe, un campione della cristianità, il degno successore del magnifico Gjergj Kastrioti Skënderbeu!”

“Ma non avresti conosciuto Aikaterinī”, ridacchiò Leka, provando a scuotere il compatriota da quella sua malinconia.

“Per lei, avrei assediato e riconquistato Durazzo, la patria di sua madre. Le avrei presentato la testa del Pascià e dei suoi figli su di un piatto d’argento. Sarebbe ritornata ad essere una principessa, al posto di Contessa del Niente!”, ringhiò frustrato. Anche se l’Imperatore gli aveva infeudato Soave e Illasi, de facto Mercurio non aveva mai veramente goduto dei profitti di quelle terre, il loro dominio tanto vacillante quanto le sorti di quell’infinita guerra. “Sarei dovuto rimanere in Grecia o al massimo trasferirmi nell’Albania Veneta. Lì perlomeno la questione è semplice: noi contro i Turchi. E basta. Invece, quest’Italia …”, scosse il capo, aspirando veemente l’aria. “Tanto bella quanto crudele, marcia fino al midollo, che ti ingoia pieno di speranze e ottimismo per poi risputarti l’ombra di te stesso. Se ti risputa. Quante casate s’è pappata, quanti Stati ha spolpato poco alla volta? È una bestia feroce, meschina e assassina, che anche se in gabbia, frustata e col collare, non appena il domatore si gira, ecco che gli elargisce alle spalle una zampata. È una femmina malvagia per il cui possesso tutti si scannano a vicenda … Perdonami, Leka. Stasera proprio non sguazzo nel buonumore!”, provò a sdrammatizzare Mercurio, rendendosi conto di quanto avesse sparlato a sproposito e a ruota libera, sfogando il suo intimo malessere.

Busicchio abbozzò ad un sorriso incoraggiante. “Sei stato troppo lontano dal campo di battaglia, amico mio. T’assicuro che appena sentirai il clangore delle armi e l’odore della polvere da sparo, ti si rischiariranno le idee e la malinconia prenderà il volo!”

“Ma certo …”, convenne debolmente Mercurio, aguzzando la vista e intravedendo la sagoma scura dell’Abbazia di Sant’Eustachio stagliarsi contro il cielo brunito. Un istintuale moto di rabbia gli scombussolò le viscere: guardandola, gli ritornò alla mente il confronto avuto col suo ostaggio veneziano e la simbolica pugnalata allo stomaco ricevuta tramite le sue rivelazioni. Era colpa di quel maledetto, se adesso il Bua si sentiva smarrito, demotivato.

Non poteva ucciderlo, però poteva rendergli quanto più amara possibile la prigionia, così avrebbe imparato a mordersi quella velenosa lingua, l’ingrato.

 

***

 

Il conte Guido Rangoni se ne stava dormendo beato nei suoi alloggi a Padova, quando all’improvviso sier Ferigo Contarini irruppe in camera sua, seguito a ruota dai famigli del modenese, tutti rossi in viso e contriti peggio della Maddalena.

“Vostra illustrissima signoria! Abbiamo tentato … Gli abbiamo detto …!”, balbettavano terrorizzati da un probabile castigo da parte del loro padrone, il quale, tuttora intontito, si pose seduto, stropicciandosi gli occhi gonfi di sonno.

“Quale villania, signor provveditore, vi ha condotto qui a quest’ora di notte? Nella mia camera?”, s’inviperì Guido, un poco imbarazzato da quella palese violazione della sua intimità. Ancora-ancora poteva tollerare tale atteggiamento nel campo, ma a Padova? Nei suoi alloggi? Non giovava al suo scontento il ritrovarsi in camicione da notte davanti al patrizio, vestito al contrario di tutto punto.

Impunito, Ferigo afferrò uno sgabello pieghevole e si sedette sopra enfaticamente. “Ordini da parte dei provveditori Moro e Capello e del governatore Fortebracci”, gli spiegò sbrigativo.

“E non potevate attendere il mattino?”

“No.”

Il Rangoni sbuffò irritato, scendendo dal letto e indossando alla bell’e meglio una casacca, giusto per darsi una parvenza di parità conversazionale, dinanzi allo sguardo perplesso del provveditore. “Dunque è un vizio veneziano, quello d’entrare non invitati nelle stanze altrui?”

Non riusciva sul serio, il giovane conte, a capacitarsi del disprezzo che i lagunari serbavano nei confronti della privatezza, molto probabilmente dovuta a quel loro vivere uno attaccato all’altro, in quella grande palafitta ch’era Venezia. Quando suo padre il fu conte Niccolò Maria gli aveva raccontato, di come i consiglieri ducali potessero entrare a loro piacere in camera del Doge e di come nessuna casa potesse rifiutarsi d’aprire la porta ai Signori di Notte, egli aveva giudicato quei resoconti dei pettegolezzi o favole da balia. Il risveglio invero non gli risultò né piacevole né gradito, costatandone l’autenticità.

Il Contarini scrollò incurante le spalle. “Se non avete nulla da nascondere, dove scorgete il problema?”

“E se mi fossi trovato – che so – in compagnia di una donna?”, ipotizzò Guido, porpora in volto al solo pensiero di venire per davvero pizzicato a braghe calate dal provveditore degli stradioti, il quale, stranamente, scoppiò in una grassa risata e un barlume d’antica spensierata gioventù gl’illuminò il volto solitamente serio e flemmatico:

“Oh-oh! Meglio ancora!” e tossicchiò, asciugandosi una ribelle ed ilare lacrima, godendo un poco dell’imbarazzo del minore. Quand’ecco, ripresosi, riassunse la sua consueta espressione pragmatica. “Voialtri, invece di guardarci a bocca aperta alla stregua d’inutili pesci, correte a chiamare le loro signorie, i messeri Ludovico e Francesco!”

Il codazzo di famigli gettarono un’occhiata perplessa al loro padrone, che annuì veloce, approfittandone per vestirsi appropriatamente, mentre Ferigo si serviva d’un bicchiere d’acqua.

“Fate come se foste a casa vostra!”, lo invitò ironico il Rangoni, passandosi una mano sui capelli in battaglia.

“Ma io sono a casa mia”, gli fece presente ineffabile il Contarini. “Ben svegliati, miei signori”, salutò egli i fratelli minori del conte, i quali entrarono circospetti nella stanza, chiedendo ansiosi con lo sguardo ulteriori informazioni al capofamiglia, giacché solo brutte notizie portavano le inaspettate visite notturne.

“Ebbene?”, lo spronò Guido, una volta congedati i servi.

“I nostri esploratori ci riferiscono, come Federico Gonzaga di Bozzolo sia impegnato in continui andirivieni da Verona a Vicenza, dove è stazionato il suo parente, Giovanni Gonzaga.”

“Questo già lo sappiamo: i due stanno rifornendo le truppe, per poi partire alla volta di Treviso”, rimarcò il Rangoni, accantonando imbarazzi e sdegni, per concentrarsi e ragionare sulla prossima missione. Anche i suoi fratelli avevano assunto la medesima espressione attenta, prendendo posto accanto al maggiore.

“Ma non che il Gonzaga di Bozzolo prende sempre la stessa via, quella di Soave.”

“Che si trova esattamente a metà strada tra Verona e Vicenza”, mormorò Ludovico Rangoni, illuminandoglisi il volto dalla realizzazione. “Ed è un “feudo” di Mercurio Bua, ergo un territorio sicuro e alleato.”

“Se lo catturassimo, quel Gonzaga ci frutterebbe parecchio!”, esclamò deliziato Francesco Rangoni. Anche perché, oltre ad appartenere ad un casato illustre, Federico di Bozzolo era un valido condottiero, tra i più capaci della Lega. La sua cattura sarebbe corrisposta ad un duro colpo, sia materiale che morale. “Sarebbe una preda di gran conto!”

“Nah, i Gonzaga non pagano i riscatti: cambiano direttamente bandiera! Guarda quel pluri-voltagabbana del Marchese di Mantova!”, scherzò Ludovico, contagiando il minore.

Sier Ferigo Contarini concesse ai modenesi qualche istante per sognare ad occhi aperti, trattenendo per sé il vero destino che la Signoria voleva riservare al Gonzaga di Bozzolo, che in quanto a ferocia contro la popolazione inerme non aveva nulla da invidiare ai franco-imperiali e al traditore Soncino Benzone. Inoltre, fonti sue certe confermavano il sospetto dei Dieci nei confronti di Francesco Gonzaga, la sua bugiarda incostanza ormai universalmente nota, e di fatti gli avevano accodato a sua insaputa delle vigili spie, cosicché, qualora tentasse una fuga per riparare da quella sua moglie “tutta franzosa”, lo facesse in mutande, senza un soldo né un sol soldato. Il giovane provveditore degli stradioti non concepiva come mai i Dieci fossero così riluttanti dallo strangolare il Marchese quando l’avevano imprigionato alla Torresella, magari nel sonno, o al campo mentre era congiunto a qualche puttana. Sarà anche stato l’eroe di Fornovo, però quel merito apparteneva ad un’altra epoca e ora come ora Ferigo non provava né rispetto né compassione verso quell’infida banderuola, che non si meritava, a sua detta, alcuna morte onorevole. Tanto più che a Mantova Francesco Gonzaga contava quanto un due di bastoni - lo sapevano tutti -  lo Stato retto dalla Marchesa sua moglie a nome del figlio Federico, ostaggio alla corte di Giulio II. A quale pro, dunque, tenere in vita quell’inutile zavorra mantovana, brava soltanto a mangiare a sbavo, peggio d’un parassita? Avessero compartito il medesimo accampamento, al patrizio non sarebbe servito un granché per spedirlo a marcire sottoterra … Se soltanto a Casaloldo l'avesse trafitto con la sua lancia ...

“Quindi i provveditori e il governatore vogliono che attacchiamo Soave?”, intuì Guido Rangoni le intenzioni dei suoi superiori, distogliendo il Contarini dai suoi cupi pensieri omicidi. “Tuttavia mi pare un azzardo verso il fato: Federico di Bozzolo potrebbe non trovarsi a Soave, o cambiare improvvisamente percorso o aver riparato già a Vicenza e lì stabilitosi in via definitiva …  Le varianti sono troppe per una certa cattura.”

“In ogni caso, riconquistare Soave significa erigere una barriera tra Verona e Vicenza, interrompendo ogni comunicazione tra i due Gonzaga”, gli spiegò paziente il provveditore degli stradioti. “La Palisse è stato chiaro: il signor Giovanni deve raggiungerlo a Treviso, ma senza il supporto del signor Federico e tagliandogli la via dei rifornimenti da Verona, le sue truppe ben magro supporto potranno offrire ai franco-imperiali.”

“Sappiamo chi è a guardia di Soave?”, s’informò d’un tratto Francesco, incuriosito.

Il Contarini prese fiato, incominciando la conta sulle dita: “Galeazzo Sforza, contino di Melzo e cognato dell’Imperatore; Sebastiano d’Este q. Nicolò, luogotenente di Federico di Bozzolo e germano del Duca di Ferrara; Manfredi Landriani di Milano; Benedetto de’ Rossi di Parma; il conte Ferrante dal Persico di Cremona e Jacomo Tristam, un manifesto ribelle veronese.”

“Una guarnigione totalmente italiana”, notò Ludovico.

“E’ un problema?”

“Per niente.”

“Quanto tempo abbiamo per prepararci?”, domandò Guido.

“Soltanto domani: al calar della sera, partiamo alla volta di Soave.”

Un sorrisetto furbo s’arricciò sulle labbra del giovane conte modenese. “Suppongo dunque voi abbiate già un piano, signor provveditore.”

Ferigo eguagliò felino la sua espressione complice, estraendo dalla scarsella un pezzo di carta e una sanguigna, delineando puntigliosamente ai tre fratelli Rangoni le dinamiche dell’attacco alla città.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Continua …

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Ed eccoci ritornanti alle vicende del “presente”. Lo stallo tra i franco-imperiali e i veneziani sta per finire e se ne vedranno delle belle, che mi auguro rendere al meglio.

Spero che questo capitolo vi sia piaciuto, alla prossima!

 

Un po’ di noticine:

[1] Narra il Sanudo: “Come in questa matina è venuti do dil campo nemico, tra li altri uno frate, era in la badia di Narvesa, dove è alozato monsignor di la Peliza, el qual è partito perchè el moria da fame e havea mala compagnia, dize, francesi sono di qua di la Piave e todeschi di là, e che il ponte era in man di todeschi e pur haveano comenzà a vegnir vituarie in campo, e ogni zorno più, e pur ancora haveano carestia, ma Conejan, Uderzo, Colalto e quelle ville mandano assai vituarie […]”

Il frate è il nostro Fra’ Anselmo (da noi ribattezzato perché Sanudo ha il vizietto di lasciare anonima la gente) e il secondo, visto che non si sa chi fosse, abbiamo deciso essere appunto Thomà! XD

[2] Narra il Sanudo:  “Item, che una serva di Dio parlò a esso Griti dicendoli aver auto in vision si 'l feva vodo mandar una Padoa d'arzento a la Madona di Loreto di valuta di ducati 100, e cussì Idio mantegniria Padoa. E fe' il voto. S'il par a la Signoria farlo, si no lui el pagerà e farà dil suo etc.

[3] Costantino V Copronimo fu uno dei più convinti iconoclasti ai tempi delle persecuzioni di ogni immagine sacra. Nestorio fu un noto eresiarca ed Eudossia, moglie dell'imperatore Arcadio, perseguitò San Giovanni Crisostomo. Questi tre personaggi storici sono quelli che si possono riconoscere tra i Superbi, nel mosaico della Basilica a Torcello.

[4] Napoli di Romania =  oggidì è Nauplia, nella regione del Peloponneso (noto all’epoca col nome di Morea), nel sud-est della Grecia.

 

 

  
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