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Autore: Nadine_Rose    04/03/2021    2 recensioni
Sarah ed Hermann sono rispettivamente due tra le tante vittime e i tanti carnefici nell’ora più buia della storia dell’umanità. Il campo di Fossoli, anticamera dell’inferno nazista, sarà la loro comune e perenne prigione d’amore malato.
Matteo, un giovane pescatore, sarà colui che proverà a sciogliere il cuore di Sarah dalle catene del tenente Hermann, nello speranzoso e disperato scenario del dopoguerra napoletano.
[Capitolo 65: Un amore a Fossoli]
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Genere: Drammatico, Sentimentale, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Olocausto, Dopoguerra
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Capitolo 48

 

La strage degli innocenti

 

Seconda parte

 

- Quando l’amore gli smussò le asperità -

 

“Un giorno troverò qualcuno che ama

le parti più impresentabili di me,

i miei arcobaleni spezzati,

i lupi feroci che accudisco nel grembo,

i mostri a cui canto la ninna nanna,

le fantasie che non oso confessare

neppure a me stesso.

E quel giorno forse troverò la pace.”

Fabrizio Caramagna, Se mi guardi esisto

 

Campo di Fossoli, 12 luglio 1944

~ Giorno dell’Eccidio di Cibeno ~

 

Di sottecchi, attraverso lo specchio del comò, Hermann la guardava appallottolare nervosamente il grembiule bianco che teneva ancora indosso.

Il silenzio che, con minacce, era stato imposto ai venti prigionieri ebrei – i quali avevano scavato e ricoperto la fossa comune – gli impediva di credere che la ragione del malessere di Sarah fosse l’esecuzione dei sessantasette internati politici.

Stanco per la dura giornata di lavoro e agitato da quel che non sapeva ancora essere il tarlo del rimorso, rifiutò di perdersi in congetture e, ignorando i suoi occhi gonfi dal pianto e il respiro affannoso che le faceva palpitare visibilmente il petto, iniziò a spogliarsi, partendo dalla giacca. Era preoccupato per lei, ma di più gli premeva lasciarsi alle spalle quella brutta giornata mediante l’appagamento dei desideri carnali.

Egocentrico qual era, mentre sbottonava la camicia, volle ipotizzare che proprio l’essersi negato la sera precedente fosse la causa dello scontroso silenzio di Sarah – la quale neanche gli aveva chiesto il perché di quel labbro spaccato – e pensò a quanto sarebbe stato facile farsi perdonare.

Quando si volse con la camicia aperta sul torso nudo, muscoloso e i pantaloni slacciati a lasciar trasparire la zona pelvica, il suo aspetto aitante non sortì alcun effetto su di lei che, soltanto, provava rabbia e disgusto per la sua strafottenza, domandandosi come facesse a comportarsi come se nulla fosse accaduto. Certamente, non si aspettava di ritrovarlo tra i rimorsi della coscienza, ma quantomeno scosso per aver fatto uccidere degli esseri umani e gli rivolse uno sguardo dardeggiante.

Avvicinatosi, Hermann la chiamò per nome con tono rassicurante e protese le mani per carezzarla e lenire il suo malanimo. Una parte di sé ne aveva già riconosciuto la vera causa scatenante.

“Non mi toccare”, gli disse furente, scansandosi e mettendo i palmi in avanti. “Come puoi far finta di niente?”

Il silenzio diede voce allo stupore per l’inaspettata reazione. Poi, di nuovo, tentò invano un contatto fisico e, stavolta, non fece neanche in tempo a pronunciare il suo nome, zittito dal perentorio diniego: “No, Hermann!”

“Dopo il crimine che hai commesso”, riprese Sarah con maggior sdegno e la voce le s’incrinò nel trattenere le lacrime, mentre diceva: “Erano innocenti. Perché li hai uccisi?”

Lei conosceva la verità. Rimase spiazzato e, per la prima volta nella vita, non sapendo come comportarsi, tergiversò, riassumendo la tracotanza del comandante. “Chi te l’ha detto?”

“Neanche sotto tortura te lo direi”, rispose così solo per provocarlo, giacché, offuscata dalla nebbia del dolore, non si era prodigata nel vedere a chi appartenesse la voce udita al mattino, divulgatrice della straziante notizia.

“Io ho solo eseguito gli ordini”, si giustificò Hermann, ignorando la sua provocazione e senza mostrare alcun segno di cedimento nella voce e nello sguardo.

Gli occhi di Sarah, invece, si persero nel vuoto, mentre, come in un lamento, sussurrava: “Sessantasette vite umane. Persino un ragazzino di sedici anni. Come si può?”

Lei sembrava sconvolta dall’amarezza. Ancora una volta, provò a rassicurarla, sfiorando con la punta delle dita la nudità delle sue braccia e il suo animo con un’inflessione di voce più pacata, sussurrandone il nome quasi in un sospiro. Di rammarico per Sarah, ma non ancora di resa verso la propria coscienza per il delitto compiuto.

“Non mi toccare”, ripeté lei con maggior foga, ritraendosi prontamente e afferrando di fianco a sé un cuscino, arma bianca che, colpendolo, assieme a parole disperate, iniziò a smussare le sue asperità, “sei un assassino. Hai ucciso delle persone innocenti. Neanche di un ragazzino hai avuto pietà. Sei un assassino.”

“Devi calmarti, Sarah, o ti sentirà tutto il campo.” Hermann ritentò un approccio pacato, seppur deciso che, con uno spintone dalla forza inaspettata, fu respinto.

“Non mi faccio toccare da te. Sei un assassino”, insisté e la spinta inferta la indusse ad alzarsi, “io torno nella mia baracca.”

Il suo cuore era già andato via. All’ennesimo rifiuto, il desiderio d’amore si tramutò in istinto di prevaricazione. Un fuoco in lui s’accese e la trattenne, afferrandola violentemente per un braccio.

“Tu resti qui con me”, fece perentorio e la strattonò verso di sé.

Il dolore rimase celato dietro la rabbia che le contraeva il viso.

“No, lasciami”, si oppose lei, divincolandosi, “voglio tornare nella mia baracca.”

Incurante della sua richiesta, Hermann non lasciò la presa, anzi diede ad essa più forza, mentre ripeteva: “Tu resti qui con me”, fece una pausa, prima di concludere con parole di cui si sarebbe presto pentito, “è un ordine!”

Tre parole che zittirono e immobilizzarono entrambi per un tempuscolo che parve un’eternità.

L’ira smise di dardeggiare dai loro occhi e si guardarono l’un l’altra attraverso un rugiadoso velo di sbigottimento e tristezza. Hermann aveva compreso l’errore e allentato pian piano la stretta, fino a lasciarle il braccio e fu lei a rompere il silenzio.

“Ah… A questo siamo ritornati”, disse, trattenendo lacrime di risentimento, “allora, signor tenente, le comunico che non sono più disposta a sottostare ai suoi ordini.” Le parole si susseguivano in un crescendo di fermezza. “Aggiunga pure il mio nome alla prossima lista dei deportati, perché io non soddisferò più le sue necessità.”

 

Napoli, 20 aprile 1947

 

Mentre continuava ad appallottolare la giacchettina color panna che teneva poggiata sul grembo, ricordò che quella sera era andata via da lui, senza voltarsi indietro, senza remore, pur amandolo, nonostante odiasse il suo ruolo.

Da giovane prigioniera, non si era arresa e aveva combattuto per far valere la propria volontà e, adesso, da donna libera, restava seduta inerme a testa china.

Si distrasse dai ricordi e dai pensieri quando, d’improvviso, sentì ostruirsi una narice e vide una goccia di sangue, poi velocemente un’altra e un’altra ancora imbrattare la giacchetta. Frastornata, sollevò il capo e, portando la mano sotto il naso a raccogliere sul palmo altre due gocce di sangue, s’imbatté nello sguardo impassibile di suo marito. Questi non mostrò alcun segno di apprensione o pentimento, né lei versò una lacrima per se stessa o per la fine del loro amore.

 

“Tu, tu sai comprendere

questo silenzio che determina il confine fra i miei dubbi e la realtà.

Da qui all’eternità, tu non ti arrendere.

Portami via dai momenti,

da questi anni violenti.

Da ogni angolo di tempo dove io non trovo più energia,

amore mio, portami via.”

 

Fabrizio Moro, Portami via

 

 

   
 
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