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Capitolo 48
La strage degli innocenti
Seconda parte
- Quando l’amore gli smussò le asperità -
“Un giorno troverò
qualcuno che ama
le parti più
impresentabili di me,
i miei arcobaleni
spezzati,
i lupi feroci che
accudisco nel grembo,
i mostri a cui canto la
ninna nanna,
le fantasie che non oso
confessare
neppure a me stesso.
E quel giorno forse
troverò la pace.”
Fabrizio Caramagna, Se
mi guardi esisto
Campo
di Fossoli, 12 luglio 1944
~ Giorno
dell’Eccidio di Cibeno ~
Di
sottecchi, attraverso lo specchio del comò, Hermann la guardava appallottolare
nervosamente il grembiule bianco che teneva ancora indosso.
Il
silenzio che, con minacce, era stato imposto ai venti prigionieri ebrei – i
quali avevano scavato e ricoperto la fossa comune – gli impediva di credere che
la ragione del malessere di Sarah fosse l’esecuzione dei sessantasette
internati politici.
Stanco
per la dura giornata di lavoro e agitato da quel che non sapeva ancora essere
il tarlo del rimorso, rifiutò di perdersi in congetture e, ignorando i suoi
occhi gonfi dal pianto e il respiro affannoso che le faceva palpitare
visibilmente il petto, iniziò a spogliarsi, partendo dalla giacca. Era
preoccupato per lei, ma di più gli premeva lasciarsi alle spalle quella brutta
giornata mediante l’appagamento dei desideri carnali.
Egocentrico
qual era, mentre sbottonava la camicia, volle ipotizzare che proprio l’essersi
negato la sera precedente fosse la causa dello scontroso silenzio di Sarah – la
quale neanche gli aveva chiesto il perché di quel labbro spaccato – e pensò a
quanto sarebbe stato facile farsi perdonare.
Quando
si volse con la camicia aperta sul torso nudo, muscoloso e i pantaloni
slacciati a lasciar trasparire la zona pelvica, il suo aspetto aitante non
sortì alcun effetto su di lei che, soltanto, provava rabbia e disgusto per la
sua strafottenza, domandandosi come facesse a comportarsi come se nulla fosse
accaduto. Certamente, non si aspettava di ritrovarlo tra i rimorsi della
coscienza, ma quantomeno scosso per aver fatto uccidere degli esseri umani e
gli rivolse uno sguardo dardeggiante.
Avvicinatosi,
Hermann la chiamò per nome con tono rassicurante e protese le mani per
carezzarla e lenire il suo malanimo. Una parte di sé ne aveva già riconosciuto
la vera causa scatenante.
“Non
mi toccare”, gli disse furente, scansandosi e mettendo i palmi in avanti. “Come
puoi far finta di niente?”
Il
silenzio diede voce allo stupore per l’inaspettata reazione. Poi, di nuovo,
tentò invano un contatto fisico e, stavolta, non fece neanche in tempo a
pronunciare il suo nome, zittito dal perentorio diniego: “No, Hermann!”
“Dopo
il crimine che hai commesso”, riprese Sarah con maggior sdegno e la voce le
s’incrinò nel trattenere le lacrime, mentre diceva: “Erano innocenti. Perché li
hai uccisi?”
Lei
conosceva la verità. Rimase spiazzato e, per la prima volta nella vita, non
sapendo come comportarsi, tergiversò, riassumendo la tracotanza del comandante.
“Chi te l’ha detto?”
“Neanche
sotto tortura te lo direi”, rispose così solo per provocarlo, giacché,
offuscata dalla nebbia del dolore, non si era prodigata nel vedere a chi
appartenesse la voce udita al mattino, divulgatrice della straziante notizia.
“Io
ho solo eseguito gli ordini”, si giustificò Hermann, ignorando la sua
provocazione e senza mostrare alcun segno di cedimento nella voce e nello
sguardo.
Gli
occhi di Sarah, invece, si persero nel vuoto, mentre, come in un lamento,
sussurrava: “Sessantasette vite umane. Persino un ragazzino di sedici anni.
Come si può?”
Lei
sembrava sconvolta dall’amarezza. Ancora una volta, provò a rassicurarla,
sfiorando con la punta delle dita la nudità delle sue braccia e il suo animo
con un’inflessione di voce più pacata, sussurrandone il nome quasi in un
sospiro. Di rammarico per Sarah, ma non ancora di resa verso la propria
coscienza per il delitto compiuto.
“Non
mi toccare”, ripeté lei con maggior foga, ritraendosi prontamente e afferrando
di fianco a sé un cuscino, arma bianca che, colpendolo, assieme a parole
disperate, iniziò a smussare le sue asperità, “sei un assassino. Hai ucciso
delle persone innocenti. Neanche di un ragazzino hai avuto pietà. Sei un
assassino.”
“Devi
calmarti, Sarah, o ti sentirà tutto il campo.” Hermann ritentò un approccio
pacato, seppur deciso che, con uno spintone dalla forza inaspettata, fu
respinto.
“Non
mi faccio toccare da te. Sei un assassino”, insisté e la spinta inferta la
indusse ad alzarsi, “io torno nella mia baracca.”
Il
suo cuore era già andato via. All’ennesimo rifiuto, il desiderio d’amore si
tramutò in istinto di prevaricazione. Un fuoco in lui s’accese e la trattenne,
afferrandola violentemente per un braccio.
“Tu
resti qui con me”, fece perentorio e la strattonò verso di sé.
Il
dolore rimase celato dietro la rabbia che le contraeva il viso.
“No,
lasciami”, si oppose lei, divincolandosi, “voglio tornare nella mia baracca.”
Incurante
della sua richiesta, Hermann non lasciò la presa, anzi diede ad essa più forza,
mentre ripeteva: “Tu resti qui con me”, fece una pausa, prima di concludere con
parole di cui si sarebbe presto pentito, “è un ordine!”
Tre
parole che zittirono e immobilizzarono entrambi per un tempuscolo che parve
un’eternità.
L’ira
smise di dardeggiare dai loro occhi e si guardarono l’un l’altra attraverso un
rugiadoso velo di sbigottimento e tristezza. Hermann aveva compreso l’errore e
allentato pian piano la stretta, fino a lasciarle il braccio e fu lei a rompere
il silenzio.
“Ah…
A questo siamo ritornati”, disse, trattenendo lacrime di risentimento, “allora,
signor tenente, le comunico che non sono più disposta a sottostare ai suoi
ordini.” Le parole si susseguivano in un crescendo di fermezza. “Aggiunga pure
il mio nome alla prossima lista dei deportati, perché io non soddisferò più le
sue necessità.”
Napoli, 20 aprile 1947
Mentre
continuava ad appallottolare la giacchettina color panna che teneva poggiata
sul grembo, ricordò che quella sera era andata via da lui, senza voltarsi
indietro, senza remore, pur amandolo, nonostante odiasse il suo ruolo.
Da
giovane prigioniera, non si era arresa e aveva combattuto per far valere la
propria volontà e, adesso, da donna libera, restava seduta inerme a testa
china.
Si
distrasse dai ricordi e dai pensieri quando, d’improvviso, sentì ostruirsi una
narice e vide una goccia di sangue, poi velocemente un’altra e un’altra ancora
imbrattare la giacchetta. Frastornata, sollevò il capo e, portando la mano
sotto il naso a raccogliere sul palmo altre due gocce di sangue, s’imbatté
nello sguardo impassibile di suo marito. Questi non mostrò alcun segno di
apprensione o pentimento, né lei versò una lacrima per se
stessa o per la fine del loro amore.
“Tu, tu sai comprendere
questo silenzio che determina il confine fra i
miei dubbi e la realtà.
Da qui all’eternità, tu non ti arrendere.
Portami via dai momenti,
da questi anni violenti.
Da ogni angolo di tempo dove io non trovo più
energia,
amore mio, portami via.”
Fabrizio Moro, Portami via