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Autore: Yumessc    07/03/2021    0 recensioni
Chi conosce 19 days sa che a un certo punto Jian Yi è scomparso e Zhan Zhengxi non sa che fine abbia fatto. Questo breve racconto parla di quel che immagino possa aver provato e fatto Zhan Zhengxi quando il suo amico è svanito nel nulla.
Genere: Angst, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Jian Yi, Zhan Zheng Xi
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Ti ho cercato.
Non sai quanto.

Non hai idea dei chilometri che ho macinato a piedi, frugando in ogni angolo della città, in ogni viso in mezzo alla folla della metropolitana o per la strada. E quando mi sembrava di riconoscere la tua chioma bionda, la tua voce o il tuo sguardo, non puoi sapere quanto male facesse il cuore che sussultava di sollievo e si rattrappiva subito dopo, sempre più man mano che la speranza scivolava via.

Mi sono consumato gli occhi sul display del cellulare, notte e giorno, in attesa di un tuo messaggio, arrivando a maledire chiunque altro mi chiamasse o scrivesse perché non eri tu, a imparare a memoria tutto quello che ci eravamo scritti fino a quell’ultima, maledettissima, notte.
Ti ho aspettato sotto casa, ore e ore, dopo aver suonato senza risposta il campanello. Ho chiesto di te in ogni ospedale, temendo ti fosse accaduto qualcosa. Ho cercato tua madre, He Tian, suo fratello... Ma erano tutti spariti, come se non fossero mai esistiti, come se tu non fossi altro che il frutto della mia fantasia. Forse avrebbe fatto meno male, credere a una cosa del genere, piuttosto che pensare che tu semplicemente te ne fossi andato.

Il tuo banco è stato vuoto per un po’, anche quello faceva male; la tua assenza si faceva sentire, pesante e ingombrante come un macigno e quel pianale su cui avevi inciso le nostre inziali che io avevo coperto con uno scarabocchio, quella sedia orfana di te, erano lì a ricordarmi ogni santo giorno che tu non eri più al mio fianco. Poi una mattina ci ho visto sopra dei quaderni, su quel banco, e ho creduto fossi tornato; volevo insultarti, arrabbiarmi con te, picchiarti, perché mi avevi abbandonato dopo tutte le nostre promesse; volevo chiederti scusa, perché l’ultima volta che ci siamo parlati ti ho detto delle cose orribili, figlie della gelosia e della rabbia, della frustrazione e dei sensi di colpa. Perché ero stato io a chiederti di tenere la nostra storia nell’ombra, per proteggerci – ma forse era soltanto per proteggere me – e quando ti ho visto parlare tanto spesso con quell’altro, più bello, più divertente, più forte e sicuro di me, ho creduto che ti avrebbe portato via, che tu glielo avresti permesso. Quando ho visto i quaderni volevo dirti tutto questo. E volevo lo stesso picchiarti: non dovevi sparire, non ne avevi nessun diritto; io e te avevamo sempre risolto le cose, a modo nostro, non ci siamo mai separati per nessun motivo. Paralizzato, fissavo quei quaderni e ho capito che volevo soltanto sentire la tua voce pronunciare il mio nome mentre mi saltavi sulla schiena come avevi fatto altri milioni di volte. Ma non è successo. Non eri tu.

Quella notte ti ho scritto un messaggio disperato, l’ultimo: “Stronzo, torna. Devi tornare. Se non torni entro domani, non mi troverai a aspettarti.”. Non lo hai mai letto. Se lo avessi fatto avresti capito, lo so, che cosa nascondevano quelle parole e che non era vero che non ti avrei aspettato. Non ho mai smesso di farlo, anche se nel frattempo il mio cuore aveva smesso di sussultare a ogni piccolo barlume di speranza e i miei occhi hanno iniziato a fissare il pavimento, stanchi di cercarti tra la gente e incontrare soltanto volti anonimi e inutili. Eppure tornavo sempre lì, nei luoghi che ci hanno visti insieme: la panchina al parco, il belvedere dove abbiamo festeggiato il tuo compleanno, perfino il ramen bar dove ti ubriacavi ogni volta.

Ho continuato a cercarti dentro di me, nei ricordi che si sono fatti mano a mano meno nitidi, dei tuoi sorrisi e delle tue lacrime, delle tue parole e dei tuoi silenzi. Ti ho cercato nelle canzoni che ascoltavamo insieme, nelle foto di noi da bambini, nei messaggi scemi che mi lasciavi sui libri di scuola.

Mi sono consumato, incapace di rassegnarmi. Mi sono dato la colpa di non esser stato in grado di diventare abbastanza forte da proteggerti, come ti avevo promesso. Mi sono sentito solo. E poi non ho più sentito nulla, per tanto, tantissimo tempo. Se mi chiedessi cosa ho fatto, non saprei dirtelo. Sono andato avanti, in qualche modo, forse perché una parte di me, in qualche angolo remoto del mio cuore, non si è mai arresa all’idea di vivere senza di te e allora mi ha messo in stand by, perché nulla aveva senso di esser vissuto senza poterlo condividere con te.

Fino a oggi. Fino a quando ho sentito il campanello suonare e per un momento ho pensato di non andare nemmeno ad aprire: chiunque fosse stato, sarebbe tornato, se era importante. Ma non smetteva. Ho aperto senza guardare nemmeno dallo spioncino, perché tanto non poteva esserci nulla di interessante, lo sguardo sempre fisso al pavimento, la mente già pronta a cercare una scusa qualsiasi per liberarmi in fretta della seccatura in arrivo, perché solo di quello poteva trattarsi.

Il tempo si è fermato quando mi sono trovato a fissare un paio di scarpe familiari; con il cuore che sembrava essersi svegliato all’improvviso per rimbalzarmi in gola, ho fatto risalire lo sguardo, lentamente per timore di essermi sbagliato. Le gambe, la camicia – insanguinata – e infine il tuo viso. Anche quello sporco di sangue. Il tuo sguardo, il tuo sorriso. Sono loro anche sotto lo sporco e gli strati di dolore.

Li riconoscerei ovunque.

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