Anime & Manga > L'Attacco dei Giganti
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Autore: Ode To Joy    08/03/2021    4 recensioni
[Erwin x Levi]
[Kenny x Uri] [Jean x Eren]
”L’Umanità si divide in due categorie: quelli che vogliono cambiare il mondo e quelli con il potere di farlo.”
Paradis, 850.
Il Muro Maria è stato riconquistato ma a caro prezzo: solo otto soldati hanno fatto ritorno da Shiganshina.
Levi ed Eren non sono tra loro.
Erwin è sopravvissuto a costo della sua umanità e non si ritiene più degno di guidare le Ali della Libertà.
Marley.
Prigioniero sotto la custodia di Zeke Jeager, Levi cerca di tenere in vita se stesso ed Eren con la certezza che Erwin sia morto e che nessuno stia venendo a salvarli. Manipolare il fratello minore per renderlo suo complice, però, è solo una parte del piano di Zeke.
“Ora hai sia la volontà che il potere. Smettila di piangerti addosso, vinci questa guerra e riprenditi ciò che è tuo.”
Mytras, 819.
Catturato dopo aver cercato di uccidere il re, a Kenny Ackerman viene risparmiata la vita e promessa la libertà in cambio di qualcosa che lo legherà a doppio filo al principe Uri Reiss.
[Canon-Divergence] [Omegaverse]
Genere: Drammatico, Guerra, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Eren Jaeger, Erwin Smith, Jean Kirshtein, Kenny Ackerman, Levi Ackerman
Note: What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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Capitolo partecipante al Cow-T 11 di Lande di fandom. M4-Prompt: “Dieci” (*)




6
Eren







Fu l’assenza di suoni a svegliarlo.

Quando si rese conto che la voce del mare non lo cullava più, Eren aprì gli occhi.

L’infinità della volta celeste trapunta di stelle rispose al suo sguardo.

Non sapeva dov’era, ma non provava alcuna paura. Le lenzuola ruvide erano sparite, avevano lasciato il posto a un letto di sabbia fresca.

”Strange how we know each other…”

Il rumore delle onde che s’infrangevano ai piedi del promontorio era stato sostituito da una triste ninna nanna.

”Strange how I fit into you. There's a distance erased with the greatest of ease. Strange how you fit into me. A gentle warmth filling the deepest of need.”

Eren si sollevò a sedere lentamente, come se temesse che muovendosi avrebbe disturbato qualcuno.

”Strange how certain the journey. Time unfolds the petals for our eyes to see. Strange how this journey's hurting…”

“In ways we accept as part of fate's decree,” concluse Eren in un mormorio.

Conosceva quella canzone, ma non ricordava il perché. Nell’udirla, il suo cuore si fece pesante, come se la tristezza di chi la cantava fosse anche sua.

”So we just hold on fast. Acknowledge the past. As lessons exquisitely crafted. Painstakingly drafted. To carve us as instruments. That plays the music of life.”

Tremante, Eren dischiuse le labbra ed emise un sospiro tremante, quasi un singhiozzo. Le lacrime gli rigavano le guance, ma non sapeva spiegarne la ragione.

”For we don't realize. Our faith in the prize. Unless it's been somehow elusive. How swiftly we choose it.

“The sacred simplicity. Of you at my side,” cantò, con voce rotta dal pianto.







Poi il sogno si frantumò.







La prima immagine che Eren aveva del mare era quella disegnata a mano su di un libro che, secondo le leggi del mondo in cui era nato, non avrebbe mai dovuto leggere. Se volare più in alto delle Mura era un sogno che aveva maturato da sé fin da bambino, quello del mare era un regalo che gli aveva fatto Armin.

Senza volerlo, l’amico d’infanzia che amava come un fratello, aveva dato una forma alla sua corsa verso la libertà.

E ora il mare era la sola cosa che vedeva dalla sua finestra.

Quel giorno c’era il sole, le onde che s’infrangevano contro la scogliera sottostante non facevano paura come nei giorni di pioggia.

Era bellissimo.

Armin e Mikasa non lo avrebbero mai visto. E nemmeno Jean.

“Hai una famiglia qui, sai?”

Eren distolse lo sguardo dalle mille sfumature di blu in continuo movimento. “Eh?”

Seduto sul tappeto, il giovane uomo dai capelli biondi gli sorrise con dolcezza.

Zeke. Il primo figlio di Grisha. Suo fratello.

“La famiglia Jeager,” chiarì quello sconosciuto, che lo guardava col viso animato da espressioni che Eren aveva visto innumerevoli volte su quello di suo padre. “Non ci siamo solo io e te.” Sventolò un rettangolo di carta che avrebbe dovuto accendere il suo interesse.

Non funzionò. Era difficile dato che Eren non sentiva più nulla.

Aveva un fratello di sangue di cui non aveva saputo niente per quasi sedici anni di vita. Un giovane che non lo incolpava per essere venuto al mondo, per essere stato cresciuto dal padre che lo aveva abbandonato. Al contrario, Zeke sembrava stesse facendo di tutto per dimostrargli il suo affetto.

Eren sapeva che avrebbe dovuto provare qualcosa. Forse rabbia per suo padre, o interesse per quel suo primogenito di cui conosceva solo il nome e la maledizione di cui era portatore.

Invece, tutto ciò che aveva nel petto era un vuoto che non sarebbe mai riuscito a colmare. Poteva solo fingere.

“Che cosa sono?” Domandò, sedendosi davanti al caminetto acceso, gli occhi fissi sui rettangoli di carta che l’altro aveva portato con sé.

“Fotografie,” spiegò Zeke con entusiasmo. “Sono immagini reali che vengono impresse su di una carta speciale.” Ne porse una al fratello minore ed Eren l’accettò. “Riconosci qualcuno?”

Era una foto di famiglia: due bambini - un maschio più grande e una femmina più piccola - e due genitori. I piccoli sorridevano, gli adulti avevano lo sguardo di due condannati a morte.

Nonostante la sua apatia, Eren aggrottò la fronte, incredulo di fronte a ciò che stava guardando. “Questo bambino è papà.”

“Esatto,” confermò Zeke. “Loro sono i nostri nonni… Certo, sono passati molti anni, ora sono degli anziani. Non posso portarti da loro per ora, ma sono certo che sarebbero felici di conoscerti.”

“E la bambina?” Domandò Eren.

Il sorriso di Zeke scomparve, sostituito da un’espressione grave, simile a quella che oscurava il viso di Grisha Jeager, quando informava i familiari di un paziente che non c’era più nulla da fare. “Lei è Faye. Era la sorella minore di nostro padre.”

Gli occhi di Eren si accesero. “Era?”

Zeke cercò un’altra foto tra quelle sparse sul tappeto. “Un incidente se l’ha portata via da bambina. Nostro padre non si è mai ripreso del tutto da quel tragico evento.” Quando trovò la fotografia giusta, la mostrò al più giovane. “Le somigli, sai?”

Sì, Eren poteva vederlo da sé. I capelli erano più scuri, ma gli occhi erano grandi come i suoi. “Incidente è la parola in codice per cosa?”

Gli incidenti non accadevano davvero a famiglie come la loro. Se suo padre era rimasto segnato a vita dalla morte della sorellina, la verità che Zeke gli taceva doveva essere terribile.

Il modo repentino in cui suo fratello cambiò argomento glielo confermò. “Lei la riconosci?” Domandò, mostrandogli una terza foto. Era un altro ritratto di famiglia.

Eren riconobbe immediatamente suo padre e dedusse che il bambino biondo fosse Zeke. La donna coi corti capelli biondi non l’aveva mai vista, eppure la conosceva. “Si tratta di tua madre?”

“Dina.”

“So di non averla mai vista, ma la ricordo.”

Zeke annuì, comprensivo. “Sono i ricordi di nostro padre che tornano in superficie, man mano che prendi più consapevolezza del tuo potere e ti ritrovi faccia a faccia col suo passato.”

Eren osservò quella giovane donna con attenzione. Non faceva parte della sua storia, non gli aveva fatto alcun male, eppure si ritrovò a pensare che non fosse bella quanto Carla, sua madre. “Ecco perché sei biondo…”

Zeke rise. “Sì. E tua madre deve essere la ragione per cui sei bello.”

Eren ignorò la battuta fuori luogo e lasciò cadere tutte e tre le foto. “Mia madre è morta,” disse, sbirciando le altre con poco interesse. “Ha avuto un incidente anche lei.”

Zeke concluse che qualsiasi altro tentativo di rendere quella conversazione allegra poteva essere accantonato fin da subito. “Anche la mia.”

“Oh, quanti incidenti nella nostra famiglia,” commentò Eren con sarcasmo.

“Dina è stata tramutata in un mostro demente, lo stesso giorno in cui nostro padre ha rubato uno dei Nove Titani ed è fuggito,” raccontò Zeke.

“La mia è stata stritolata a morte e poi fatta a pezzi, un morso alla volta, da uno di quei mostri dementi. Reiner non te lo ha raccontato?” La voce di Eren era gelida, carica di una rabbia che non lasciava esplodere. Non era esattamente il ragazzo che Reiner gli aveva descritto. Se avesse pianto e gli avesse urlato contro, Zeke non avrebbe provato quel timore che gli faceva pesare ogni parola. “Mi dispiace…” Era sincero. “Non avete fotografie sull’isola, quindi immagino che tu non abbia una sua immagine per ricordarla.”

“Non ne ho bisogno,” replicò Eren. “Ricordo tutto di lei,” lo sguardo gli cadde su una foto di Dina e Grisha nel giorno nel giorno del loro matrimonio - o almeno così dedusse dal modo in cui erano vestiti. “Quanti anni avevano?”

“Poco più di te,” rispose Zeke. “Poco meno di me. Grisha non aveva neanche vent’anni quando è divenuto padre.”

Per la prima volta dall’inizio di quel dialogo, Eren guardò suo fratello dritto negli occhi. “L’amava?”

Quella domanda colpì Zeke come una pallottola in testa. “Mi stai chiedendo se nostro padre amava mia madre?”

Eren annuì.

“Perché vuoi saperlo?”

“Perché io sono certo che mio padre ha amato mia madre,” spiegò Eren. “Forse più di quanto abbia mai amato me.”

Zeke non conosceva la risposta a quella domanda. Nei suoi ricordi, sua madre altro non era che la complice di suo padre nel piano che gli aveva rovinato la vita. Amorevole, sì. Quando la vita come recluta si era rivelata una tortura per lui, si era dimostrata sofferente in di fronte al suo dolore. Eppure, non aveva mai fatto niente per migliorare la sua condizione. Tutte le lacrime che aveva versato tra le sue braccia le avevano fatto male, certo, ma le aveva accettate come un male necessario.

“Io sono certo che mia madre amasse nostro padre,” rispose Zeke. “Ma sono dell’idea che Grisha Jeager non abbia mai amato nessuno.”

Gli occhi di Eren non tradirono alcuna emozione particolare nemmeno allora. “Hai ragione.”

Zeke sbatté le palpebre un paio di volte. “A che ti riferisci?”

“Assomiglio a mia madre.” Solo allora Eren permise a suo fratello di sbirciare sotto la maschera di gelo che si era costretto sul viso. Voltò lo sguardo verso quella finestra che dava sul mare e si asciugò una lacrima galeotta con il dorso della mano.

L’empatia che Zeke provò verso quel fanciullo era qualcosa che non aveva mai sperimentato. Avvertiva il dolore di Eren e non lo sopportava. “Deve essere bello…” Mormorò.

Eren tornò a guardarlo. “Che cosa?” Il colore dei suoi occhi era identico a quello di Grisha Jeager, ma Zeke non vedeva neanche l’ombra del demone di suo padre sul viso di suo fratello.

“Sapere di essere stato amato da chi ti ha messo al mondo.”

La rabbia e il dolore che animavano il viso di Eren si attenuarono in favore di un ben più spiccato senso di pietà. “Non ho mai avuto motivo di dubitarne prima di sapere la verità su papà.”

“Non ti ha mai fatto del male?”

“Non mi ha mai dato nemmeno uno schiaffo,” raccontò Eren. “Era mia madre quella più manesca, se così si può dire.” Avrebbe dato qualsiasi cosa per ricevere un altro ceffone dalle mani di Carla. “In compenso, papà mi ha lasciato in eredità la sua maledizione.”

“Ti ha dato il potere di sopravvivere,” replicò Zeke. “Quello di combattere. Non ha valore questo per te?”

“Mi ha condannato a morte,” disse Eren. “Ma non era un problema fintanto che quel potere serviva a salvare qualcuno.”

“Allora, in che modo Grisha ti ha fatto del male?”

Eren fu bravo a reggere lo sguardo di suo fratello. Non perse tempo a nascondere le lacrime, non erano quelle a mettere in discussione la sua forza. Zeke lo ammirò per la sincerità con cui pronunciò le parole che seguirono, senza crollare.

“Ho divorato papà,” disse Eren. “Ho fatto a lui quello che quei mostri hanno fatto alla mamma. Non posso perdonargli di avermi macchiato con un simile orrore.”

Quella fu l’ultima volta che si concesse di piangere per sua madre e suo padre.

Non pretendeva che Zeke lo stringesse tra le braccia e lo consolasse. Se suo fratello provava davvero pietà, affetto - forse amore - per lui o se lo stesse solo manipolando, non gli era dato saperlo. Francamente non gli importava.

Ciò che era rimasto della sua famiglia, era caduto in battaglia insieme alle Ali della Libertà.

Di quelle foto di famiglia non sapeva veramente che farsene.

“Le Ali della Libertà sono state spezzate,” aveva detto Reiner.

Sei rimasto solo. Era quello che intendeva suo fratello, quando lo ribadiva. Ma ora hai me.

Eren si era soffermato sulla prima parte. Eppure, non si era arreso.

Aveva valutato la sua situazione, studiato l’ambiente in cui lo avevano costretto e non aveva mai smesso di combattere, combattere, combattere…

Con una parola, con uno sguardo. Non aveva importanza.

Anche se, di fatto, non gli era rimasto altro che l’orgoglio e non sapeva che cosa il nemico volesse da lui, Eren stava resistendo.







E avrebbe continuato a resistere.







”C’era ancora la neve quando sei nato, sai?”

La mamma gli raccontava spesso la storia della sua nascita.

Era una cosa che faceva sentire felice lei e amato lui, sebbene fosse ancora troppo piccolo per capirlo davvero.

“Era stato un inverno lungo. Tuo padre era preoccupato perché sapeva che saresti nato durante un anno difficile.”

Un inverno crudele significava malattia, fame e morte.

Col senno di poi, non c’era da sorprendersi che fosse nato in un anno del genere.

“E tu, mamma?” Domandava. “Tu non avevi paura?” Lo faceva perché lei parlava di quei giorni con un sorriso a graziarle le labbra.

“Certo, che l’avevo… Ma non appena mi preoccupavo per qualcosa, tu mi tiravi un bel calcio e mi passava tutto.”

“Ti prendevo a calci?”

“È una cosa bella.”

“Non capisco, mamma.”

Lei sorrideva pazientemente. “La mattina in cui sei nato, i primi fiori di primavera sono sbocciati,” raccontava. “Ho pensato che fosse un segno. Quanto è prezioso un fiore che riesce a sbocciare anche quando è circondato dalla neve?”

Gli toccava il viso, lo amava in un modo che come figlio non poteva comprendere.

“Quanto è preziosa la vita che resiste quanto tutt’intorno c’è solo morte?”

Sua madre non aveva potuto dirlo in quella maniera: era solo un bambino.








-10 giorni dopo la battaglia di Shiganshina-







Anche quel giorno c’era il sole, ma tirava vento e faceva freddo.

Non era la giornata più adatta per fare una passeggiata sulla spiaggia, ma Zeke gli aveva concesso un’ora di libertà - a condizione che non si allontanasse dalla prigione e che una scorta lo accompagnasse - ed Eren non aveva pensato neanche per un istante di rinunciare.

“Hai freddo?” Domandò Reiner - l’unico che potesse accettare gli fargli la guardia.

“No,” rispose Eren, stringendosi di più le ginocchia contro il petto. Sedeva su di uno scoglio, abbastanza lontano dall’acqua per essere al sicuro da schizzi molesti e indesiderati. Poteva osservare da vicino le onde infrangersi con violenza contro la roccia, in un’eterna lotta che non avrebbe avuto vincitori.

Grazie al vento, non vi erano nuvole in cielo e l’orizzonte era libero, limpido.

Nemmeno sforzandosi, Eren riusciva a vedere le coste dell’isola di Paradis.

“Sei sicuro di non avere freddo?” Domandò di nuovo Reiner, rimasto in piedi su quel poco di spiaggia che il mare agitato non aveva divorato.

Eren sbuffò, esasperato. “Se sei tu quello ad avere freddo, torna in quel castello e non stressarmi!”

“Non posso,” replicò Reiner, laconico. “Lo sai.”

Eren inspirò profondamente dal naso. Lasciò che l’odore di salsedine - che mai aveva assaggiato in vita sua - fungesse da balsamo per i suoi nervi. “È molto lontana?”

Non c’era bisogno di chiarire a Reiner a cosa si stesse riferendo.

“No, non molto,” rispose il Guerriero.

Eren gli lanciò un’occhiata da sopra il colletto del cappotto troppo grande che indossava - era di Zeke. “Se mi trasformassi…” Lo provocò. “Potrei raggiungerla?”

Reiner alzò gli occhi al cielo, per nulla sorpreso da quelle parole. “Noi non lo abbiamo mai fatto,” rispose. “Se fossi nel pieno delle forze, non posso garantirti che riusciresti a tornare a casa.”

“E io non sono nel pieno delle forze.”

“No, Eren, non lo sei e ti sarei grato se non mi obbligassi ad ammazzarti.”

Eren non aveva alcuna voglia di avere un faccia a faccia con la parte umana e afflitta di Reiner, così cambiò argomento: “come sta Berthold?”

L’altro distolse lo sguardo dall’orizzonte. “Prego?”

“Non l’ho mai visto qui. Non è da nessuna parte,” disse Eren. “L’ho neutralizzato, so di averlo ferito, ma non gli ho inflitto nessun danno che giustifichi un’assenza tanto prolung-“

“Tu non sei la missione di Berthold,” lo interruppe Reiner, lapidario. “Sei la mia. Hai capito bene?”

Eccome se Eren lo aveva capito, era all’altro che sfuggivano le implicazioni della loro vicinanza. “Hai detto che non mi avresti più mentito.”

“Non lo sto facendo.”

“E allora non trattarmi da stupido dicendomi che Berthold semplicemente non è più parte di questa storia. Lo sarà sempre: le persone che ha ucciso, quelle che ha tradito non-“

“Falla finita!” Tuonò Reiner. “Stiamo pagando tutti un prezzo per i nostri peccati, Eren. Tutti! Dovresti cominciare a porre le domande giuste a tuo fratello!”

Eren si alzò in piedi e saltò giù dallo scoglio, quasi inciampando sull’orlo del cappotto troppo lungo. “Non mi fido di lui e tu mi hai dato la tua parola che-“

“Ricordo bene cosa ti ho promesso.”

“Allora dimmi che cosa è successo a Shiganshina!” Urlò Eren e la sua voce riecheggiò contro le pareti di pietra del promontorio. “Il mio passato, la verità sui Titani… Non m’interessa, Reiner! Non riesco a chiudere gli occhi senza vedere i loro cadaveri smembrati, i loro visi deformati dal terrore!”

Reiner lo guardò con sincera pietà. “E sapere come sono morti che cosa cambierà?”

Eren tirò su col naso e scosse la testa. “Deve… Deve esserci un rapporto, no?” Pensò ad alta voce. “In fin dei conti, il vostro è un corpo militare. Dovete fare rapporto a un Governo alla fine di ogni missione, no?”

“Svegliati, non troverai i nomi di Mikasa, Armin o Jean in quel rapporto!”

“No, ma troverò quello di Levi!” Ribatté Eren con forza. “Non era nelle retrovie con Hanji. Non stava combattendo contro di te o contro Berthold. Il Capitano Levi era all’esterno insieme al Comandante Erwin e l’unico Titano fuori dalle mura era Zeke!”

Reiner inspirò profondamente dal naso. “Abbiamo già fatto questo discorso…”

“Levi deve aver affrontato Zeke.”

“Ti stai raccontando storie, Eren.”

“Se pensi che accetterò l’ipotesi che il Capitano Levi sia caduto sul campo di battaglia sotto una pioggia di pietre, ti sbagli di grosso!”

Reiner allargò le braccia, esasperato. “Avanti, sfogati fino in fondo e raccontami la tua versione dei fatti.”

“Il Comandante gli ha ordinato di attaccarlo,” affermò Eren. “Era l’unica speranza di vittoria. Solo Levi poteva sconfiggere Zeke, e se ci fosse riuscito…”

“Ma così non è stato,” gli ricordò Reiner, senza rancore. “Che cosa vuoi fare? Non puoi chiederlo direttamente a Zeke perché non ti fidi di lui. Quindi? Continuerai a sbattere la testa contro il muro fino a che, sì, ti daremo ragione per esasperazione?”

Se il Guerriero non aveva alcuna voglia di essere arrabbiato col prigioniero di cui era divenuto la balia, Eren aveva deciso che la finta calma che mostrava a Zeke doveva pur avere una valvola di sfogo… E Reiner era lì, a portata di mano.

“Ti chiede di me, vero?”

“Chi?”

“Zeke. Tu mi conosci, lui no. Tu hai una gran voglia di correre a gambe levate ogni volta che mi vedi.”

“Non montarti la testa!”

“Zeke, invece, farebbe qualsiasi cosa per passare ogni minuto di ogni giorno con me.”

“Sei suo fratello, stupido. Ci tiene a te.”

“Armin era mio fratello,” replicò Eren. “Mikasa era mia sorella. Io non so chi sia Zeke Jeager.”

“E tu sei molto bravo a non fargli conoscere Eren Jeager,” ribatté Reiner. “Io gli parlo di un moccioso isterico, e tu te ne stai buono e zitto quando stai con lui.”

Le labbra di Eren si piegarono in un sorrisetto diabolico. “Ti sto facendo perdere credibilità?”

Reiner gli diede una spinta all’indietro, nulla di aggressivo, quasi per gioco. “Piantala,” gli disse, come se fossero tornati ai giorni dell’addestramento. “Torniamo indietro, la tua ora è finita.”

“Ho fame,” disse Eren, camminando al fianco del suo secondino. “Portami da mangiare.”

“Non sono il tuo schiavo,” rispose Reiner, per nulla intenzionato a litigare.

Eren scrollò le spalle. “Dimmi dove sono le cucine di quella specie di prigione e faccio da me.”

“Non puoi fare da te. Chiedi a uno dei soldati semplici che stanno di guardia al tuo appartamento.”

“Non posso. Se rivolgo loro la parola, smettono di respirare e cominciano a tremare.” Reiner aprì la bocca per dire qualcosa, si fermò, poi fece un secondo tentativo. Alla fine, Eren sorrise vittorioso e poté vedere a occhio nudo l’umore dell’altro farsi da cattivo a pessimo. Generazioni di storie dell’orrore avevano seminato in tutta Marley la paura degli Eldian oltreoceano, descrivendoli come i figli del Diavolo stesso e altre sciocchezze simili. Reiner gli aveva anche confessato di averci sinceramente creduto per tutta la sua infanzia ed Eren gli aveva riso in faccia.

Lo stava facendo anche in quel momento. In silenzio, certo, ma con la stessa espressione derisoria. Il potere scatenato dalla paura era uno dei capisaldi di quella guerra ed Eren aveva tutte le intenzione di sfruttarlo a suo vantaggio. Non contento, decise di dare il colpo di grazia all’orgoglio del ragazzo, che un tempo era stato suo amico.

“Se ti trovi in questa situazione, è solamente colpa tua, Reiner,” disse, passandogli tanto vicino da urlargli la spalla. “La tua missione era recuperare il Fondatore per la tua gente e non portare il Diavolo tra loro.”







La cucina della prigione era strana. Vi erano un sacco di mobili di troppo di cui Eren non comprendeva l’utilità e c’erano più superfici di metallo che di legno.

“Cos’è quello?” Domandò, sedendosi sul bordo di un tavolo - l’unico dettaglio della stanza che non era dissimile da quello a cui era abituato. “Perché c’è del ghiaccio in un armadio?” Aggiunse, sinceramente perplesso.

“È un frigorifero!” Esclamò Reiner, recuperando un paio di scatole dal ripiano più basso, per poi chiudere il portellone con il gomito. Le conoscenze di Marley differivano enormemente da quelle più limitate della gente di Paradis. Reiner se ne rendeva realmente conto solo ora che Eren gliele elencava una a una, man mano che veniva a contatto con quel mondo per lui tutto nuovo.

“Mantiene freddi i cibi,” Intuì il più giovane. “Quindi si conservano più a lungo.”

“Questo è il senso,” rispose Reiner distrattamente, cercando d’indovinare in quale cassetto fossero riposte le posate. Ci riuscì al primo colpo.

“Se avete la possibilità di mantenere il cibo così facilmente, immagino non soffriate la fame qui,” disse Eren.

Reiner prese due cucchiai e si voltò. “Non è così semplice, Eren.” Porse una scatola e una posata al più giovane.

“È gelida!” Si lamentò quest’ultimo, passandola velocemente da una mano all’altra. “Che diavolo è?”

Reiner tirò indietro la sedia su cui l’altro aveva appoggiato i piedi e vi si sedette. “Provalo,” lo sfidò.

Eren assottigliò gli occhi. “Hai deciso di rimediare al tuo fallimento avvelenandomi?”

“Non potrei avvelenarti neanche volendo e lo sai.”

“Touché…” Eren prese la scatola tra le mani e l’aprì con una scrollata di spalle. Al suo interno trovò una massa uniforme dallo strano colore rosato. Sorpreso e inquietato al contempo, sollevò lo sguardo sul ragazzo più grande.

Reiner lo prendeva in giro con un sorriso. “Prova…”

“Questa roba è congelata.”

“Deve esserlo, ma non troppo da impedirti di affondare il cucchiaio. Avanti… O hai paura?”

“Fottiti…” Eren affondò il cucchiaio nella massa e vi entrò abbastanza facilmente. “Sembra una crema… Ma solida come il ghiaccio.”

“Prova ti ho detto.”

Eren sbuffò e ne mandò giù un cucchiaio senza pensarci troppo. Il sapore di fragola che avvertì sulla lingua fu la prima cosa a mandarlo in panico - mai se lo sarebbe aspettato - poi il freddo di quello strano cibo risalì fino alla testa, costringendolo a chiudere gli occhi per l’emicrania.

Durò pochi istanti. Quando sollevò di nuovo le palpebre, Reiner se la rideva sotto i baffi. Eren lo odiò - di nuovo. “Tu, brutto-“

“Si chiama gelato.”

L’insulto rimase sospeso sulle labbra del più giovane, che memorizzò quella nuova parola velocemente. “Gelato,” ripeté. “Ha lo stesso sapore delle fragole.”

“Ha diversi sapori. Dipende da come lo si fa… Un po’ come le marmellate.”

“Non mi piacciono le fragole.”

“Arrangiati…” Reiner prese a mangiare la sua porzione, soddisfatto.

Eren lo guardò storto a provò a prendere un altro boccone di quello strano cibo. Il mal di testa tornò più forte di prima.

“Dovresti leccarlo,” spiegò Reiner.

Appena ripresosi, Eren gli mostrò il dito medio. “Col cazzo che mi metterò a leccare un cucchiaio di fronte a te!”

Reiner alzò gli occhi al cielo. “Come se me ne importasse qualcosa.”

“Sei un Alpha,” replicò Eren, continuando a mangiare quel gelato al sapore di fragole che non gli piaceva. “Agli Alpha importa sempre.”

Ancora una volta, Reiner si ritrovò impreparato a replicare. Avrebbe potuto negare l’evidenza e dire che era solo un’esagerazione imposta dai luoghi comuni, ma sapeva cosa aveva sopportato Eren nei giorni dell’addestramento.

Fin dal primo giorno, Eren Jeager aveva dovuto dimostrare a ragazzi che nulla avevano più di lui - a parte un’esagerata dose di stupidità - che essere un Omega non lo penalizzava in alcun modo. Per quel che Reiner ricordava, a Eren non era mai successo nulla di brutto - forse grazie alla presenza deterrente di Mikasa - ma i corpi armati delle Mura non erano esenti da storie spiacevoli con degli Omega come protagonisti.

A Marley era diverso. Nessun Eldian lì poteva avere il lusso di una storia spiacevole.

“Come funzionano le cose qui?” Domandò Eren, alla fine della sua confezione di gelato. Quando non ricevette risposta, sollevò lo sguardo sul suo secondino. “Reiner?”

L’altro scosse la testa. “Stai tranquillo,” lo rassicurò. “La tua seconda natura non farà alcuna differenza per te.”

Eren si umettò le labbra, assaporando le ultime tracce di fragola fresca. “Per me?” Ci rifletté. “Perché sono un Titano?”

Reiner annuì, gettando la confezione vuota sul tavolo. “Dovrei riportarti di sopra…” Si alzò.

“E se non fossi un Titano, che cosa mi accadrebbe?” Domandò Eren.

“La gente di Marley non si suddivide in Alpha, Beta e Omega. Si tratta di un’evoluzione che ha coinvolto solo i discendenti del Diavolo.”

“A casa, quelli come me sono oggetto di umiliazioni,” gli ricordò Eren. “Io sono stato fortunato. Mio padre mi ha preparato al mondo come poteva, ma non ho sofferto la differenza con Mikasa. Per me non è mai stato nulla di sbagliato.”

“Non credo affatto che lo sia,” intervenne Reiner.

“Già…” Lo sguardo di Eren si fece lontano, malinconico. “Per nessuno del centoquattresimo lo era,” accennò un sorriso. “Io sono stato fortunato.” Ripeté e si umettò le labbra. “Anche con Jean…”

Il peso di quelle tre parole gravò direttamente sul suo cuore.

Per Eren era facile fare i nomi di Mikasa e Armin. Ogni volta che li nominava, era come ricevere una pugnalata al cuore, ma era quello che Reiner si aspettava da lui - e di conseguenza anche Zeke. Era naturale che piangesse la sua famiglia, che si disperasse per il modo in cui erano morti e che questo alimentasse l’odio che provava verso chi l’aveva rapito.

Reiner sapeva che le lacrime di Eren erano per ogni compagno caduto.

Per Sasha e Connie.

E, sì, anche per Hanji, Erwin e Levi. Soprattutto Levi.

Ma pronunciare ad alta voce il nome di Jean e renderlo parte integrante del suo dolore, non era così semplice.

Negare l’evidenza era sempre stata la colonna portante del rapporto tra Eren e Jean. Anche se durante il giorno ogni scusa era buona per toccarsi, era impossibile non urlarsi contro. Non aveva importanza quanto tempo passassero a baciarsi, le labbra che si cercavano con desiderio un momento, erano le stesse che avevano pronunciato insulti irripetibili quello precedente.

Se ora Eren ammetteva che Jean faceva parte della sua storia quanto Mikasa e Armin, se lasciava che quel dolore lo avvolgesse insieme alla consapevolezza che non lo avrebbe baciato mai più…

Eren si accorse che Reiner si era spostato alle sue spalle. Sentiva la sua presenza immobile, silenziosa. Si arrabbiò. “Che cosa stai facendo?”

“Aspetto,” rispose il Guerriero. “Non c’è alcuna fretta.”

Perché non c’era ragione di mostrare alle guardie fuori da quella stanza che anche il Diavolo sapeva piangere. Era già abbastanza difficile per quello stesso Diavolo accettare il suo cuore spezzato.

A quel legame, Eren non avrebbe mai dato un nome - che senso aveva farlo ora che Jean non c’era più? - ma che attraverso la morte aveva trovato l’eternità nel suo cuore.







Era tutto più bello dopo il piacere.

“Stai bene?”

Sospirò irritato, ma non si mosse dall’abbraccio in cui era avvolto. “Perché me lo chiedi sempre?”

“Scusami se me ne frega qualcosa di te!” Fu la risposta irritata.

Sollevò la mano pigramente, premendo l’indice contro le sue labbra. “Zitto…”

In particolare, era il silenzio che seguiva il piacere a essere meraviglioso.

Non si sopportavano, eppure quando finivano ne godevano insieme.

Si toccavano pigramente anche dopo che l’eccitazione era finita e insieme, pur senza dirselo, speravano che quel momento si dilatasse all’infinito.

“Ehi, idiota?”

“Modera i termini, stronzetto.”

Sollevò la testa e lo guardò con un sorrisetto provocatorio. “Tu lo avresti il fegato di fare l’amore con me?”










Eren rimase chiuso nella sua stanza per il resto della giornata, da solo.

Reiner aveva esitato a lasciarlo, ma la follia non si era divorata il suo raziocinio al punto da fargli combattere una battaglia persa in partenza. Non gli aveva chiesto di restare, eppure era rimasto. Attraverso la fessura sotto la porta, con la testa appoggiata sul cuscino, Eren poteva vedere la sua ombra muoversi sul pianerottolo. Quanto lo odiava, quanto era insopportabile quella sua premura.

Reiner era un soldato, ma non era per un ordine che si prendeva cura di lui con tanta attenzione.

“Reiner...” Eren parlò a voce abbastanza alta perché l’altro potesse udirlo. L’ombra smise di muoversi. “Jean ti ha mai parlato di me?”

Per tutta risposta, la porta scricchiolò, ma non si aprì. Eren dedusse che Reiner vi si era seduto contro. “No,” fu la risposta di quest’ultimo.

Il più giovane non se ne era immaginata una diversa. “Ma tu lo sapevi.”

“Non posso parlare per gli altri, ma non era difficile vederlo, Eren,” ammise Reiner, quasi ridendo. “Solo che eravate troppo presi l’uno dall’altro per accorgervene.”

Eren fissò la porta. “Tu lo sapevi?”

Reiner non rispose immediatamente. “Ti ho appena detto-“

“Del mio potere,” chiarì Eren. “Quando siamo diventati amici, tu sapevi chi ero?”

Sentì Reiner sospirare. “Quando siamo diventati amici, io non ricordavo nemmeno quale decisione mi avesse portato a incrociare la tua strada,” rispose. “Non so dirti di Berthold. Annie è sempre stata più intelligente di entrambi, infatti sei uno dei pochi che ha avvicinato.”

“Annie conosceva Zeke?”

“Zeke è…” Reiner impiegò un lungo istante per andare avanti, ma Eren non gli fece pressioni: o stava cercando il modo più semplice per spiegargli le cose, oppure stava facendo una lista veloce delle informazioni che era meglio non confidargli.

“Zeke è per noi qualcosa di simile a quello che Levi era per voi.”

Eren inarcò le sopracciglia, dubbioso. “Un eroe acclamato dalle folle?”

Reiner rise. “No, non in quel senso. Zeke è il Capitano della mia generazione di Guerrieri… Possiamo dire anche della nostra, dato che tu ne fai parte.”

Eren ignorò la provocazione. “Un Capitano,” ripeté. “Un altro Capitano.”

Reiner fu svelto a bloccare il flusso dei suoi pensieri. “Non lanciarti in qualche altra riflessione assurda delle tue.”

Eren storse la bocca. “Non c’è alcun bisogno di riflettere. Qui è tutto assurdo e basta.”

“No, Eren, la vera assurdità era la convinzione che non vi fossero altre civiltà oltre le Mura.”

“Facile giudicare quando la memoria di un popolo viene cancellata e ogni traccia di storia diviene motivo di condanna a morte. Sai cosa è successo ai genitori di Armin, vero?”

“Quella… Quella non è colpa di Marley.”

“E chi ci ha rinchiusi dietro quelle Mura?” Urlò Eren, scattando a sedere. “Chi?”

Reiner non si alterò. “Dentro di te è custodita la memoria del mondo… Se decidiamo che la storia inizia con il primo Titano, intendo.”

Eren preferiva non pensarci. C’era già abbastanza caos nella sua testa senza prendere in considerazione l’idea che fosse letteralmente affollata da altre persone.

“Hai tutte le risposte, Eren,” aggiunse Reiner. “Non c’è nulla che tu non sappia già. Devi solo ricordarlo.”

“È questo che sta aspettando Zeke?” Domandò Eren, sospettoso. “Che ricordi?”

“Sono onesto, Eren, nemmeno io so cosa voglia Zeke da te.” Per la prima volta da quando quelle loro conversazioni erano cominciare, Eren seppe che Reiner era sincero. “So che sta facendo di tutto per tenerti in vita… E io lo sto aiutando come posso.”

Eren assottigliò gli occhi, fissando quella porta chiusa come se potesse vedervi attraverso. “Perché?”

Anche se non poteva, vide Reiner scrollare le spalle: “se ce la fai, trova la risposta anche a questa domanda…”

Eren inspirò profondamente dal naso e si lasciò ricadere sul cuscino. Nonostante la voce continuasse a uscire dalla sua gola, il nodo che la legava non si era allentato. Chiuse gli occhi, ma quando il primo volto a comparire nell’oscurità fu quello di Jean, si raggomitolò in posizione fetale aspettando che il dolore al petto passasse, come se non fosse altro che una fitta passeggera.

Non accadde.

Si rese conto di star trattenendo il respiro solo quando i polmoni gli urlarono di aver bisogno d’aria. Dischiuse le labbra e la ingoiò controvoglia, la gola gli bruciò.

La federa sotto la sua guancia era umida delle sue lacrime.

“Eren!” Quando Reiner gli toccò la spalla, Eren sobbalzò come se fosse scoppiata una bomba.

“Non mi rispondevi più,” si giustificò il Guerriero.

Eren ingoiò a vuoto e si asciugò il viso con il dorso della mano. “A Zeke hai detto anche di lui?”

Reiner aggrottò la fronte. “Lui?”

“Jean…” Eren odiò la sua voce spezzata mentre pronunciava il suo nome.

Reiner scosse la testa. “Non ve ne era motivo.”

“Però sa che sono un Omega.”

“Il governo ha voluto un rapporto dettagliato su di te,” raccontò Reiner.

Eren storse la bocca in un sorriso sarcastico, mentre appoggiava la schiena al muro di pietra. “Vogliono valutarmi?” Domandò. “Ora, da qualche parte, qualcuno sta decidendo se sono idoneo per far parte di questo schifo?”

“Esattamente,” confermò Reiner. “E io sono citato in quel rapporto come fonte principale.”

Eren ridacchiò. “Allora posso prepararmi al banchetto.”

“Smettila,” disse Reiner, ma con voce pacata. “Ti ho detto che è mia intenzione tenerti in vita e rendere il processo facile. Classificandoti come Omega, ti ho evitato un’ispezione che non ti sarebbe piaciuta affatto.”

Eren lo trafisse con lo sguardo. “Non ti ringrazierò.”

“Non me lo aspettavo.” Reiner si voltò: era tardi ed essere il guardiano del più giovane era sfinente da molti punti di vista.

“Ma grazie per non aver detto a Zeke di Jean.” Eren lo colse di sorpresa a un passo dalla porta.

“Non vi è nulla che valga la pena raccontare in quella parte della tua storia,” si giustificò Reiner.

“Già… È una parte talmente inutile che nemmeno io mi ricordo come è iniziata,” ammise Eren, e Reiner fu troppo codardo per voltarsi e vedere la tristezza che rendeva scuri i suoi occhi. “Ma l’ultima volta è sacra… L’ultimo bacio in strada…” (*)

Sì, l’ultimo, e la promessa di Jean di dargli molto di più.

“Posso farti una domanda, Eren?”

“Uhm…”

“Lo amavi?”

Eren sorrise con malinconia, voltando lo sguardo verso la finestra. Il cielo era scuro e il mare non si vedeva più, però lo sentiva. Quante volte Jean lo aveva deriso per quel suo sogno impossibile, prima di cambiare completamente tono e dissuaderlo dall’imboccare una strada che lo avrebbe ucciso di sicuro. Altrettante volte, Eren aveva replicato con fermezza: “vorrà dire che quando ci arriverò, guarderò l’orizzonte e penserò a te… A quell’idiota che non ci ha mai creduto!”

Almeno quella parte della storia era andata come nei suoi sogni: Eren guardava il mare e pensava a Jean.

Il dolore che gli bloccava il respiro nel processo era una cosa che non aveva previsto.

“Jean è sempre stato il più umano di tutti noi.” Non era quella la risposta alla domanda di Reiner, ma era l’unica cosa di cui il cuore di Eren era certo. “Non c’era alcuna ragione per lui di far parte di questa storia di mostri…”







“Per cosa è troppo tardi, Eren?”

Se non lo avesse conosciuto bene, avrebbe detto che quegli occhi dorati erano colmi di lacrime mentre lo guardavano.

Ma lo conosceva. Quell’idiota non avrebbe mai pianto per lui.

Dovevano essere le luci veloci dei fuochi d’artificio a ingannarlo.

“Per tutto…”

Era una risposta che significava tutto e niente. Ma era la verità.

Quello era il suo addio. Si voltò, ignorando il bruciore agli angoli degli occhi.

“E se avessi una ragione per farti restare?”

Si fermò. Non avrebbe dovuto.

Di promesse non ne voleva. Non poteva permettersele.

“Ne hai una?” Domandò e fu errore. Almeno, non si voltò.

Il silenzio che seguì tinse quell’addio di una delusione che non avrebbe voluto provare.

“Appunto…”






-12 giorni dopo la battaglia di Shiganshina-









“Non mi toccare!”

Le urla di Eren svegliarono Reiner nel cuore della notte. Non vide se stesso indossare gli stivali e correre su per le scale che conducevano alla torre.

“Ti ho detto che non devi toccarmi!”

Reiner riprese il controllo di sé solo quando si ritrovò di fronte alla porta aperta della camera di Eren: Zeke era a terra, il fratello lo fissava dall’alto in basso con lo sguardo ardente di un predatore che non conosce pietà.

Il viso di Eren era rigato dalle lacrime, ma il fuoco che illuminava quegli occhi dal colore impossibile avrebbe potuto bruciare il mondo intero.

Eccoti. Pensò Reiner. Sei in ritardo, Eren.

Il prigioniero si accorse in fretta della sua presenza. “Portalo lontano da me!” Gli ordinò, fissando Zeke.

“Eren…” Lo chiamò quest’ultimo, alzandosi in piedi lentamente. “Stavi piangendo nel sonno. Hai avuto un incubo, sei sconvolto.”

Eren rise e quel suono ebbe il potere di far venire la pelle d’oca a Reiner. No, il prigioniero non era affatto sconvolto - non nel modo in cui pensava il suo superiore.

Quella a cui entrambi stavano assistendo era una metamorfosi: il ragazzo che diveniva Demonio.

“Incubo…” Ripeté, inchiodando Zeke con lo sguardo. “Ci sono nato in un incubo. E non è sfortuna, non è la guerra… No, è il mio sangue a essere maledetto!”

Come contraddirlo?

“Non c’è mai stata speranza per me,” la voce di Eren era spezzata dal pianto e la disperazione nei suoi occhi era straziante, ma Reiner non pensò nemmeno per un istante che stesse per spezzarsi. “Anche se quella notte avessi deciso di dimenticare la vendetta, la rabbia… Non sarei mai potuto restare con lui, perché io un futuro non ce l’avevo.”

Reiner intuì la confusione di Zeke dal suo silenzio.

“Eren,” intervenne, portandosi un passo avanti al suo superiore. “Non sei stato tu a ucciderlo.”

Nel guardarlo, Eren sembrò recuperare parte del suo autocontrollo. “È stato tuo amico fino alla fine,” disse. “Lo hai detto tu. Se non lo fosse stato, ti avrebbe ucciso.”

Reiner annuì. “Eren, ascolta-“

“Ma non era mio amico.” Eren tremava da capo a piedi. “Perché ha scelto di seguirmi?”

“Perché ha visto quello che ha segnato anche te,” rispose Reiner. “Perché attraverso Marco lo abbiamo condannato, come cinque anni prima avevamo condannato te. Dopo Trost, anche lui è stato privato del suo futuro. Non c’era più una vita all’interno delle Mura per Jean.”

Eren singhiozzava con ogni respiro.

“Non lo hai ucciso tu,” ripeté Reiner. “Jean ha scelto di essere lì, ma non per te… Non per te…”

“Non m’importa di questo!” Urlò Eren. “Io voglio sapere perché è morto!”

Quella era l’agonia di un cuore spezzato.

“Perché sono morti tutti?”

La disperazione di un’anima frantumata.

“Avrei dato la vita per ognuno di loro…” Concluse, guardando Reiner dritto negli occhi.

“Lo so…” Fu la risposta dell’altro.

Eren si morse il labbro inferiore e portò lo sguardo su Zeke. “Ti piace tanto guardarmi e chiamarmi fratello... Mi dispiace che la tua famiglia non ti abbia amato, ma la mia lo ha fatto e tu me l’hai portata via.”

“È la guerra, Eren,” replicò Zeke, fingendo comprensione. “Non esistono innocenti o colpevoli.”

Eren rise, un suono intriso di sarcasmo e pietà. “Già… Sempre la stessa bella storia per ripulirsi la coscienza. Ho visto un eroe tra gli uomini abbassare lo sguardo, quando si è reso conto che i mostri che uccideva altro non erano che persone maledette. Ho saputo di un giovane soldato che non è riuscito a sparare al proprio nemico, sebbene questi lo stesse per colpire a morte. Questa è la verità, Zeke: siamo tutti colpevoli nel momento in cui ci sporchiamo le mani di sangue…” Si voltò verso la finestra che dava sul mare. “E diveniamo mostri quando quel sangue non ci disturba più.”







”Ehi, moccioso?”

“Sì, Capitano?”

“Credi che io sia crudele?”

Sarebbe stato meglio se gli avesse ordinato di calarsi le braghe e baciarsi il cu-

Scosse la testa.

“Non mi hai mai fatto sentire in colpa per la loro morte.”

Era la risposta più sincera che potesse dargli.

“Non gli hai uccisi tu, Eren.”

“Ma non sarebbero morti, se avessi scelto diversamente.”

Un calcio sullo stinco.

“Ahio!”

“Non essere tanto presuntuoso da pensare che una tua scelta differente avrebbe portato a un finale opposto. Non sei un dio.”

“Mi prendo le mie responsabilità, Capitano.”

“E allora cammina a testa alta e continua a combattere. Non puoi riportare in vita i morti, puoi solo onorare la loro caduta con le tue vittorie…”

“Sì, Capitano.”








-14 giorni dopo la battaglia di Shiganshina-









Dopo quella prima notte insonne, Eren decise che nessuno di loro avrebbe più dormito.

“Si può sapere cosa succede questa volta?”

Quando Reiner arrivò alla torre, tutti i soldati di guardia - ragazzini che non potevano essere più grandi di lui e di Eren - erano posti lungo le scale, bianchi in viso e tremanti.

Dal piano di sopra, le urla del prigioniero erano impossibili da non udire. Reiner cominciava rimpiangere i primi giorni, quando ancora teneva una condotta tranquilla, in totale contrasto con la sua vera natura.

“Il Diavolo si sta trasformando,” disse una delle guardie, il meno terrorizzato in un gruppo di adolescenti che era sul punto di scoppiare a piangere per la paura.

Reiner sospirò ed evitò di dire che se così fosse stato, tutti loro si sarebbero tramutati in cenere prima di accorgersene. “Il Capitano Jeager?”

Lo stesso che aveva parlato indicò la cima delle scale.

Quindi Eren stava urlando con Zeke. Non era decisamente un buon segno.

Diede ordine ai soldati di ritirarsi e salì i gradini di pietra due a due.

“Smettila di ripetermi che non sai di cosa sto parlando!”

“È la verità, Eren.” La voce di Zeke era pacata, forse un poco esasperata, ma chi poteva biasimarlo? Dieci minuti con Eren in quello stato e chiunque avrebbe sentito la necessità di strapparsi le orecchie - o di strappare la lingua a lui.

La porta della camera era aperta e Reiner vi si affacciò senza annunciarsi in alcun modo. Quanto la situazione fosse grave, lo capì dalla mappa strategica che Eren aveva appeso sopra il letto. Reiner non aveva idea di dove il prigioniero avesse trovato l’occorrente per scrivere, ma doveva ammettere che la sua schematizzazione del campo di battaglia di Shingashina era piuttosto buona.

“Tu eri qui!” Urlò Eren, in ginocchio tra le lenzuola in disordine, indicando un punto rosso oltre le mura. “Il Comandante e il Capitano erano con la Legione fuori dalla breccia che avevo appesa richiuso. La situazione all’interno delle Mura era stabile: Reiner era stato sconfitto da Mikasa e io stringevo il corpo privo di coscienza di Berthold.”

“Sì,” confermò Zeke, in piedi di fronte il caminetto acceso. “È a quel punto che ci siamo incontrati. Ho recuperato Reiner e Berthold, poi ho preso te.”

“Non ha alcun senso…” Fu allora che Eren si accorse della sua presenza. “Diglielo anche tu!”

“Prima dovrei sapere di cosa stai parlando,” ribatté Reiner.

“Di Levi!”

Certo, era impossibile pretendere che Eren lasciasse perdere una questione quando ne era ossessionato.

Reiner prese un respiro profondo. “Eren, ti ho già detto-“

“No!” Il prigioniero saltò giù dal letto. “Zeke dice di averli bombardati con delle pietre. Anche ammesso che fosse vero, dov’è Levi in tutto questo?”

“Ti ho raccontato che il Comandante si è lanciato contro di me insieme a tutti i suoi uomini,” ripeté Zeke con l’espressione di chi dice la stessa cosa per la centesima volta. “Una attacco inutile, forse dovuto alla disperazione della sconfitta imminente.”

“Già… Inutile,” concordò Eren. “Erwin Smith non era in grado di mettere insieme una piano di attacco inutile.”

Zeke scrollò le spalle. “Non puoi sottovalutare il potere che la promessa di una morte violenta può avere su un uomo.”

“Parli di un uomo che con quella promessa ha convissuto fin da quando aveva la mia età.” Eren non aveva alcuna intenzione di cedere. “Avevi schierato dei Titani.”

“Sì, credo di averlo fatto.”

Reiner appoggiò la spalla all’architrave della porta: non sarebbe stata una conversazione breve.

Eren annuì, poi diede le spalle a entrambi e guardò il suo schema. “Il Titano Bestia di fronte, altri Titani ai lati…” Pensò ad alta voce, poi scosse la testa. “Armin è più bravo di me in queste cose.”

Era,” lo corresse Reiner. Era necessario che il prigioniero venisse a patti con tutte le perdite che lo stavano tormentando. Solo così sarebbe andato avanti.

Eren lo guardò con odio ma non si lasciò distrarre. “Il Comandanta ha sferrato un attacco frontale… Un suicidio assicurato.”

“Ed è stato accontento,” aggiunse Zeke, sadico.

Reiner lo guardò con disgusto ma solo per un istante: non era nella posizione di giudicare nessuno.

“Li hai uccisi tutti, vero?” Eren chiese conferma.

“Fino all’ultimo…”

Il più giovane lanciò uno sguardo al fratello da sopra la spalla. “Lo dici con tanta sicurezza.”

“Perché me ne sono assicurato.”

“Assicurato…” Mormorò Eren, poi i suoi occhi s’illuminarono. “Stavi guardando solo di fronte a te.”

Segretamente, Reiner fu divertito dal silenzio di Zeke.

“Ecco perché l’ha fatto!” Eren saltò di nuovo sul letto, recuperando il pastello rosso con cui aveva disegnato il tutto. Gli altri due lo guardarono in silenzio, mentre aggiungeva altre linee al suo schema. Quando ebbe finito, Reiner vide che era stato aggiunto un tratto rosso che, disegnando in ellisse, univa le mura al Titano Bestia.

Soddisfatto della sua opera, Eren si piantò di fronte al fratello maggiore. “Il Comandante si è sacrificato insieme a tutti gli altri per fare da diversivo,” concluse. “Levi ha abbattuto i Titani che avevi schierato e ti ha attaccato alle spalle. Era la sola maniera per vincere.”

Reiner fissò Zeke, attese di vederlo giocare una delle sue carte meschine per mandare il fratello minore fuori strada. “Sei sei soddisfatto di questa tua ricostruzione, ora dovremmo andare tutti a dor-“

Eren si scagliò contro di lui con tutto il peso del corpo, costringendolo con le spalle al muro. “Non dirmi che non sai di cosa parlo!” Urlò. “Levi era lì e ti ha attaccato! Forse è morto nel tentativo di ucciderti, ma ha combattuto contro di te!”

Zeke avrebbe potuto liberarsi di Eren in fretta, ma Reiner preferì intervenire prima che accadesse. Afferrò il prigioniero sotto le braccia e lo tirò via. “Stai calmo,” gli intimò in un sussurro. “Eren, devi stare calmo.”

Il più giovane si liberò con una gomitata ma non tentò altre azioni ostili.

Zeke incrociò le braccia contro il petto. “Tu ti annoi…” Fu la sua brillante conclusione. “Non c’è da biasimarti, chiuso qui dentro tutto il giorno, chiunque farebbe viaggiare troppo i pensieri.”

Eren aggrottò la fronte. “Che cazzo stai dicendo?”

Reiner fissò il suo superiore in silenzio, non chiese nulla ma condivideva lo stesso sentimento del prigioniero.

“Anzi, eri da solo da prima di finire in questa torre,” aggiunse Zeke, sorridendo. “Non deve essere stato facile divenire l’Ultima Speranza, credere di essere l’unico a possedere il tuo potere e imparare a usarlo da solo, senza una guida.”

“Non sono mai stato da solo,” ribatté Eren, sollevando lo sguardo su Reiner. “Mai.”

“Ciò non toglie che fare nuove conoscenze non può che farti bene.” Zeke aveva un piano, ma nessuno degli altri due riusciva a capire quale. “Penso sia giunto il momento di farti conoscere gli altri.”







“Tu sei completamente pazzo…” Reiner sapeva di doversi astenere dal dare giudizi sulla sanità mentale altrui, ma se Eren era una mina vagante, suo fratello maggiore aveva tutte le intenzioni di tenere alto il buon nome di famiglia.

“Era una cosa a cui pensavo da un po’,” confessò Zeke, sedendosi dietro la sua scrivania. “Le nostre possibilità si sono esaurite. Se Eren metterà in discussione la sua posizione, non saremo io e te a fare la differenza.”

“Questo era chiaro fin dal principio,” ribatté Reiner. “Ma tu hai convinto il Governo che potevamo fare qualcosa, che Eren aveva le carte in regola per divenire il più forte dei Guerrieri… Bastava solo che lo rieducassi.”

Zeke indicò il soffitto di pietra. “Ci odia, Reiner.”

“Anche di questo eri perfettamente consapevole.” Non era nel carattere di Reiner rispondere per le rime a un suo superiore, ma quella tragedia familiare stava divenendo ridicola. “Pensavi davvero che si sarebbe buttato tra le tue braccia perché avete lo stesso padre?”

Zeke non rispose. Per evitare la domanda, fece finta di cercare qualcosa sulla scrivania e cambiò argomento. “Mi prenderò ogni responsabilità,” disse. “Organizzerò una giornata a Liberio. Pieck e Porko dovranno esserci.” Sollevò la cornetta del telefono, pronto a riferire le sue intenzioni ai piani alti.

Reiner poteva già immaginare la scena e con altrettanta certezza sapeva di non voler assistere. “E come facciamo con Berthold?”

Zeke lo guardò da sopra le lenti degli occhiali e, prima che chiunque rispondesse, rimise la cornetta al suo posto. “Pieck era lì…”

“E Porko ha letto il rapporto.”

“Dovranno essere preparati.”

Reiner si agitò, esasperato. “Hai visto cosa ha fatto Eren di sopra?” Quasi urlò. “Sembrava averlo letto anche lui il tuo rapporto. La sua ricostruzione dei fatti era perfetta. Basta che Pieck e, più probabilmente, Porko dicano una parola di troppo e ci scoprirà!”

Zeke lo trafisse con lo sguardo. “Allora è un tua responsabilità evitare che succeda.”

Reiner ispirò profondamente dal naso, costringendosi alla calma. “Sì, signore.” Ma decise di prendersi una piccola rivincita. “E come procede la rieducazione dell’altro prigioniero?” Indicò il pavimento con un eloquente cenno del capo.

La maschera di pietra sul viso di Zeke rimase salda al suo posto. “Tu preoccupati che il viaggio di Eren a Liberio vada come deve andare. Al resto penso io.”







“Quel moccioso ti sorrideva.”

Quando il Capitano lo sceglieva per assisterlo nelle sue mansioni giornaliere, ne era felice.

“Quale?”

“Quello che si occupa di registrare le entrate e le uscite dalla prigione.”

Quando il Capitano decideva che oltre a fare qualunque cosa fosse in programma, dovevano anche conversare, la faccenda si complicava.

“Non ci ho fatto caso.”

“Non ci fai mai caso, ma succede spesso.”

“Quando?”

“Quando chissà dove cazzo hai la testa…”

Spendeva qualche pensiero per quel genere di cose, ma non per tutti quelli che gli sorridevano. Anzi, quello a cui rivolgeva quei pensieri non gli sorrideva proprio!

“Se volessi, non ti farebbe male, sai?”

“Cosa?”

“Un po’ di normalità, Eren. Una scopata, uno scambio di saliva sotto le stelle… Che cazzo ne so cosa piace a voi giovani!”

Avvampò. Ne sapeva qualcosa di scambi di saliva e anche di più, ma… Non sapeva proprio tutto tutto. Ma non gli andava di scoprirlo con nessuno di quegli che gli sorrideva.

“Non mi piace… Non con uno a caso così… Non che ci sia nulla di male, ma io-“

“Già, non piace neanche a me.” Non lo derise, non lo giudicò. “Qualunque cosa tu decida di fare col tuo corpo, non permettere a nessuno di mancarti di rispetto perché sei un Omega. È un ordine, Eren.”

Quelle parole gli fecero piacere. “Sì, Capitano.”





-16 giorni dopo la battaglia di Shiganshina-









“Eren!”

Quando Eren aprì gli occhi, era sott’acqua.

Stupidamente, spalancò la bocca per urlare e sentì i polmoni esplodere per il bisogno d’aria.

“Tranquillo, sono qui.” Una mano scivolò sulla sua nuca aiutandolo a sollevare la testa. “Non sei solo, sono qui.”

Una volta in superficie, Eren ingoiò aria con disperazione e prese ad agitare le braccia e le gambe nel tentativo di restare a galla. Contro ogni logica, si rese conto che l’acqua era bassa e che poteva starsene comodamente seduto sul fondo.

“Ma che dia-?“

“Scusami, non volevo spaventarti.”

Eren sobbalzò, cercò di alzarsi ma cadde sulle ginocchia.

“Ti sei fatto male?”

Sì, ma non aveva importanza. Quella voce era gentile e parlava in modo pacato, quasi avesse paura di arrecargli disturbo.

Quando Eren sollevò lo sguardo, Uri Reiss gli sorrise con tutta la gratitudine del mondo. “Tranquillo, non è mia intenzione tormentarti,” gli disse.

“Conosco il tuo nome… Perché conosco il tuo nome?”

Il giovane uomo annuì. “Non è piacevole, lo so.”

Per combattere un brivido gelido, Eren si strinse le braccia intorno al corpo. Si guardò intorno: erano in riva a un lago. Non conosceva quel posto, ma le alte mura che si vedevano all’orizzonte, gli suggerivano che non doveva trovarsi molto lontano da casa.

“È un mio ricordo,” spiegò Uri. “Non credevo che ti avrei trascinato qui dentro. Volevo solo parlarti. Cerco di arrivare a te da tempo.”

Eren tornò a guardarlo. “La ninna nanna?”

Uri annuì. “Grazie per avermi ascoltato.”

“Credevo fosse un mio ricordo…” Eren affondò le dita nelle braccia. “Credevo che fosse qualcosa di mio.”

“Shhh…” Uri Reiss gli prese il viso tra le mani con dolcezza. “Lo so che fa male, ma non lasciare che il dolore degli altri divenga il tuo.”

“La tua ninna nanna mi dilaniava,” replicò Eren, accusatorio.

“Mi dispiace…”

“Non è vero!” Urlò il più giovane, prendendo le distanze da quel fantasma. “Lo dite tutti, ma non avete mai fatto nulla per evitarlo. Anche Frieda ne soffriva, ma lasciava che ci contorcessimo nell’ombra, rinchiusi dietro alte Mura di pietra.”

Nonostante il suo rifiuto e l’astio delle sue parole, Uri Reiss sollevò la mano e gli accarezzò la guancia. “Sei più libero di quanto credi, Eren,” disse. “Mi dispiace che tu debba soffrire per questa maledizione, ma al contempo sono felice che sia tu.”

Eren si strinse le ginocchia al petto, agitando l’acqua bassa intorno a loro. “Perché mi hai chiamato?”

Uri gli scostò i capelli dal viso con una carezza. “Perché non stai combattendo da solo.”

Eren aggrottò la fronte, scuotendo appena la testa. Non capiva.

“Ascoltami, Eren…” Gli occhi di Uri erano colmi di lacrime. “Lo devi trovare…”

“Chi?”

“Levi,” mormorò Uri con voce rotta. “La speranza siete voi due insieme.”

“Levi… Il Capitano ha attraversato il mare con me?”

“Devi salvarlo, Eren.” Uri piangeva. “Devi andare da lui… Levi non fa che urlare.”

Eren dischiuse le labbra per aggiungere qualcosa, chiedere di più.

“L’ho giurato a lui!”

Si premette le mani contro le orecchie per paura che i timpani gli esplodessero.

“Ti ucciderò!”

Strinse gli occhi. Non gli serviva guardare per sapere che Uri Reiss non era più lì.

“L’ho giurato a lui!”

“Basta…”

“Ti ucciderò!”

“Basta!”







“Eren!”

Non fu Reiner che gridava il suo nome a svegliarlo, ma la brezza fredda del mare che gli tirava i capelli all’indietro. La tempesta aveva mandato in frantumi la finestra?

Eren aprì gli occhi e si ritrovò di fronte a un orizzonte scuro, privo di mura o sbarre. Riprese coscienza di sé velocemente, abbassò lo sguardo e sotto di sé video il vuoto. In fondo, gli scogli e il mare in tempesta.

Era fuori dalla sua cella ma non ricordava di essere uscito.

“Eren!”

Cercò un appiglio, non lo trovò e i piedi scalzi scivolarono sull’erba bagnata, verso una caduta che non avrebbe lasciato scampo a qualunque essere umano.

Ma tu sei un mostro…

“Eren!” Riconobbe le mani di Reiner, quando lo afferrò per allontanarlo dal ciglio dello strapiombo. Quelle di Zeke intensificarono la presa. Nella frenesia del momento, nessuno dei tre arrivò lontano e caddero sul terreno fangoso.

Eren ingoiava aria come un naufrago e non riusciva a distogliere lo sguardo dal mare nero che lo avrebbe ingoiato, se i due carnefici che avevano fatto a pezzi il suo mondo non lo avessero salvato. Qualcuno gli posò un bacio tra i capelli - probabilmente Zeke - ma fu la mano di Reiner quella che cercò, insieme al suo sguardo.

“Che cosa è successo?” Domandò con voce tremante, spaventata.

Negli occhi di Reiner trovò il suo stesso smarrimento.

Il rombo di un tuono mise a tacere la voce del mare per una manciata di secondi. Le prime gocce di pioggia di un nuovo temporale cominciarono a cadere sulle loro teste.

Zeke sollevò il fratello di peso, sottraendolo dalle mani di Reiner. “Portiamolo dentro.”







Una volta immerso nell’acqua calda che riempiva la vasca, Eren chiuse gli occhi e riprese a respirare.

“Ti hanno aperto le guardie,” raccontò Zeke, era alle sue spalle e si muoveva come se stesse cercando qualcosa. “Urlavi. Hai ordinato loro di aprire la porta della cella e la paura ha avuto la meglio…”

Eren si strinse le ginocchia al petto. “Li punirai?”

“No,” gli assicurò Zeke. “Sono il soldato con il grado più alto in questa prigione, e non è mia intenzione fare nulla che ti faccia star male.”

Eren gli lanciò un’occhiata da sopra la spalla: si era tirato le maniche della camicia fino al gomito, tra le mani aveva una bottiglia di sapone e una spugna.

“Perché ti farebbe star male sapere che quei ragazzi sono stati puniti, vero?”

“Sono in grado di farmi il bagno da solo,” gli rese noto Eren.

“Non ne dubito.” Zeke s’inginocchiò sul pavimento, accanto a lui. “Ma lascia che mi prenda cura di te.”

Eren alzò gli occhi al cielo. “Anche se fossi caduto nel vuoto, non sarei morto e lo sai.”

“Il cibo e l’acqua che ti diamo contengono droghe studiate per indebolirti. Non ho alcuna intenzione di vedere che effetti abbiano su di te.”

A quella confessione, il più giovane non riuscì a nascondere la sorpresa.

Zeke sorrise. “Per guadagnarmi la tua fiducia, devo prima darti qualcosa in cambio.”

“Coraggioso da parte tua pensare che tu abbia una qualche possibilità di ottenere la mia fiducia,” replicò Eren, velenoso.

“Per ora mi fa piacere conoscere il vero te.” Zeke immerse la spugna nell’acqua calda. “Reiner voleva restare,” aggiunse, passandola sulla schiena del fratello minore. “Gli ho detto di andare a dormire e di non preoccuparsi. Ha bisogno di una pausa. Da quando siamo tornati, non si è risparmiato un istante per stare con te.”

“È senso di colpa,” disse Eren, fissando l’acqua in movimento. “E paura. Non vedere cose che non sono reali.”

“Temo che quello non sia un problema mio.” Zeke non intendeva essere sgradevole con quelle parole, ma doveva capire che cosa aveva spinto il più giovane sul ciglio di quel dirupo.

Eren prese a dondolarsi. “Non so cosa sia successo.” Era la verità.

“Hai sognato qualcosa?” Zeke passò le dita umide tra i capelli dell’altro, tirandoli indietro.

“No,” mentì Eren. Non pensò nemmeno per un istante che essere sincero con quell’uomo avrebbe giovato a suo favore. Uri Reiss era un fantasma, ma il modo in cui aveva parlato di lui e di Levi lo persuadeva a considerarlo un suo alleato.

“Forse non lo ricordi,” ipotizzò Zeke. “Non c’è un momento in cui diviene facile convivere con i ricordi degli altri. Alcune volte, non riesci a tracciare il limite tra te e loro, altre ti dimentichi che esistano.”

“E quando arriva la parte in cui me ne dimentico?” Domandò Eren, stancamente.

Zeke non rispose, si versò un poco di sapone sul palmo della mancina e la sfregò contro la destra. “Nostro padre ti ha mai-“

“Smettila di parlare di lui, ti prego,” sibilò Eren, nascondendo il viso tra le ginocchia. “Io non sono il fantasma di Grisha Jeager. Io sono Eren.”

Zeke gli sorrise.

Eren ebbe l’impressione che quello fosse il primo sorriso sincero che gli rivolgeva. “Sono felice che tu non sia Grisha Jeager.” Si sporse verso il fratello minore e affondò le dita tra i suoi capelli, insaponandoli. “Hai tutti i muscoli tesi.”

“Io non sono felice che mio fratello abbia ucciso tutto ciò che mi era rimasto,” replicò Eren. La gola gli bruciava per lo sforzo di parlare. Voleva piangere di nuovo, ma non c’era nessuno che potesse abbracciarlo.

Il maggiore non disse più nulla per il tempo necessario a lavargli i capelli, poi versò altro sapone sulla spugna e la passò al fratello minore. Eren esitò, poi accettò l’offerta.

Zeke gli strinse la mano. “Mi basta essere tuo fratello.”

Eren si umettò le labbra. “Per te la morte di centinaia di persone è un evento collaterale e nulla più.”

“E questo fa di me un mostro ai tuoi occhi.”

“È il modo in cui elemosini il mio amore che non riesco a capire.”

Zeke poggiò il gomito al bordo della vasca, immergendo distrattamente le dita nell’acqua non più così calda. “Sono stato solo al mondo per molto tempo, Eren. Tu hai avuto Mikasa e Armin, non è così?”

Eren evitò la domanda. “Hai detto di avere dei nonni.”

“Un uomo e una donna morti da molti anni, ma ancora in grado di respirare. Tu, invece, che mi dici di questo Jean? Reiner non mi ha raccontato nulla di lui.”

Ancora una volta, Eren lo ascoltò solo a metà. Lui non aveva mai avuto dei nonni. I genitori di sua madre erano morti durante l’epidemia che aveva mietuto centinaia di vittime all’interno delle Mura. A quel tempo, se non fosse stato per le conoscenze mediche di suo padre, l’Umanità come lui la conosceva si sarebbe estinta senza l’aiuto dei Titani - o quasi. Eren ora sapeva che quella conoscenza era arrivata loro in dono dallo stesso popolo che combatteva per distruggerli. Era tutto così paradossale, come l’amore che Zeke provava per lui, che era la prova vivente del tradimento di Grisha Jeager.

“Annichilito…” Mormorò Eren.

Zeke inarcò le sopracciglia piegando le labbra in un sorriso sorpreso. “Parola difficile.”

“No, quello difficile sono io.” Eren appoggiò la guancia alle ginocchia. “Quello annichilito sei tu.”

“E perché lo sarei?”

“Perché io non credo che tu mi voglia bene,” disse Eren e quegli splendidi occhi divennero taglienti come le lame brandite dai portatori delle Ali della Libertà. “Hai sperato che avere un fratello avrebbe suscitato qualcosa in te, magari un’eco di umanità.”

Gli occhi di Zeke erano vuoti mentre lo guardava. Non c’era più nessun sorriso simulato a gettare un tenue barlume sul suo viso.

“Invece, io sono solo l’ennesima delusione, come papà prima di me,” aggiunse Eren. “Guardare me, guardare una distesa di cadaveri smembrati… In entrambi i casi provi la medesima cosa: nulla.”

A Zeke non restava che rimanere in silenzio.

“E per rispondere alle tue domande,” aggiunse Eren. “Mikasa e Armin sono le due persone a cui devo la mia vita, la famiglia che mi ha protetto,” piangeva, ma non gli importava più. “Jean è… Non lo so che cosa sia, ma mi mancherà per tutta la vita.”





Quando Zeke uscì dalla sala da bagno, Reiner - mezzo addormentato sul divano del piccolo salotto - sobbalzò. “È successo qualcosa?” Domandò, alzandosi in piedi alla svelta.

Zeke non si fermò a spiegargli nulla. “Si sta asciugando,” si limitò a dire. “Per favore, assicurati che vada a letto e ci resti.”

Uscì dalla torre chiudendo la porta con un po’ troppa irruenza.







Reiner aveva congedato le guardie, terrorizzate e inutilizzabili dopo l’ultimo attacco di rabbia di Eren. Nessuno vide Zeke Jeager scendere le scale dei sotterranei, dove l’accesso era vietato a chiunque, anche a Reiner. Il Capitano dei Guerrieri non temeva quelle tenebre, che erano divenute sue complici e assistenti nella creazione del suo più grande capolavoro.

Ciò che Eren non sarebbe mai potuto essere: la vita gli aveva fatto del male, ma non abbastanza perché Zeke potesse raggiungerlo. Lo avrebbe amato comunque, certo, ma doveva accettare la cruda realtà: non aveva alcun potere su di lui.

In quelle tenebre, invece…

Entrò nella cella in fondo al corridoio, quella più remota e più fredda, scavata nella nuda roccia del promontorio. La voce del mare riecheggiava senza pietà in quel luogo buio e umido.

Era notte fonda e il cielo era coperto, nemmeno la luce quieta della luna poteva nulla in quell’inferno.

Zeke non ne aveva bisogno. Gli occhi di ghiaccio del prigioniero furono su di lui non appena fece un passo nella sua direzione.

Non c’era davvero nulla che potesse brillare di luce propria come quelle iridi invernali - forse solo quelle dal colore impossibile di Eren.

“Chi ti ha calpestato?” Domandò il prigioniero. “Chiunque sia stato, ha tutta la mia stima.”

Zeke non aveva difficoltà a immaginare quanto orgoglio avrebbe provato nel sapere che quel chiunque era proprio Eren.

“L’ultima volta hai detto qualcosa sui bambini cresciuti nella paura,” disse Zeke. “Potresti ripeterla?”

Il prigioniero non esitò: “un bambino che vive perennemente nella paura, senza che nessuno lo protegga o gli insegni come difendersi da solo, forse sopravviverà ma diverrà un uomo annichilito dalla vita stessa.”

Una pausa.

“Sei sceso in questo buco di merda per sentirti dire questo?”

Zeke inspirò profondamente dal naso. “Qualcuno che conosco mi ha guardato e mi ha fatto un discorso simile.”

“Oh, allora qualcuno ti ha calpestato per davvero.”

“Se così si può dire…”

Il prigioniero si mise a sedere a fatica. “Bene, facci l’abitudine… Perché quando arriverà il mio turno, ti calpesterò un pezzo alla volta, Zeke.”

Il Titano Bestia sorrise. “È sempre un piacere parlare con te, Levi.”



 
   
 
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