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Autore: storiedellasera    09/03/2021    2 recensioni
Estate del 1968.
Tom, Wyatt e Evelyn sono dei ragazzi di Louistown, una piccola e remota cittadina americana.
Le loro vite stanno per essere sconvolte da un mostro crudele... un mostro che adora uccidere le persone e che predilige i giovani.
Genere: Horror, Mistero, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
Capitoli:
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L'estate delle cicale

♦ Si nasconde nell'erba alta ♦

 





L’orrore ebbe inizio in un giorno qualunque dell’estate del ’68, ribattezzata da molte persone come la più calda degli ultimi cento anni.
Ma per il piccolo Tom Williams quella fu l’estate delle cicale.
Il motivo che spinse il giovane a creare un simile nomignolo era molto semplice: un impressionante numero di rumorosi insetti aveva invaso Louistown, in Arkansas, dove Tom era nato e cresciuto.
L’incessante, acuto frinire riempiva le roventi giornate. E di notte, anche se può sembrare assurdo, quel canto si faceva addirittura più forte.
“E’ innaturale” mormoravo gli abitanti di Louistown, di tanto in tanto costretti ad alzare la voce, durante le loro conversazioni, pur sovrastare il verso degli insetti.
< Ma come poteva essere innaturale? > Si chiedeva Tom. < Del resto… erano solo cicale. >


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“Sto uscendo!” Gridò allegramente Tom mentre spalancava la porta di casa.
Non attese alcuna risposta da parte dei suoi genitori. Temeva che sua madre, o suo padre, lo richiamassero per sbrigare delle noiose faccende domestiche. Faccende che avrebbero sottratto tempo prezioso agli svaghi di Tom. Non aveva alcuna voglia di riordinare la propria stanza o sparecchiare il tavolo dopo aver fatto merenda con un paio di sandwich.
Quel giorno erano stati preparati senza crosta, con burro d’arachidi e marmellata di lamponi.
Tom li adorava.
Superò il portico di legno e sorvolò i quattro gradini dell’ingresso con un sol balzo.
La luce e il calore del sole lo aggredirono all’instante. Tom ebbe l’impressione di non esser atterrato sul vialetto di casa sua... bensì sulla superficie di Mercurio. Per un paio di secondi gli mancò persino il respiro.
Alzò una mano sulla sua fronte mentre i suoi occhi si abituavano a tutto quel bagliore. In poco tempo riuscì a mettere a fuoco l’intera fattoria di famiglia che sorgeva di fronte a se.
I campi di granturco si estendevano fino all’orizzonte, seguendo le morbide e ondulate forme delle colline. In lontananza si intravedeva un vecchio mulino a vento imbrunito dalla ruggine.
Ovviamente, il frinire delle cicale era assordante.

Tom imboccò un sentiero di terra battuta che tagliava in due la piantagione di granturco.
Era un ragazzino di tredici anni, forse troppo mingherlino per uno della sua età. Le sue braccia e le sue gambette esili davano l’idea di essere ramoscelli secchi e delicati.
Aveva capelli a caschetto color del grano, e i suoi occhi… i suoi grandi ed espressivi occhi …possedevano una particolare e brillante sfumatura celeste.
Una spolverata di lentiggini decorava il suo minuscolo naso e i suoi zigomi appena accennati. Sua madre gli diceva sempre che ogni volta che si metteva a piangere, o che faceva i capricci, una nuova lentiggine spuntava sul suo volto.
Ma il piccolo Tom aveva smesso di credere a quella storiella fin da quando aveva undici anni.

Quel giorno d’estate, il ragazzino vestiva una semplice maglietta bianca e una salopette di jeans.
Mentre oltrepassava la piantagione, allungò una mano verso le piante di granturco. Accarezzava le ruvide foglie: adorava la sensazione che avvertiva sulle dita e il fruscio che provocava.
“Hey, ragazzino!” Un cupo e rauco sussurro si levò tra quelle piante.
Tom ritrasse immediatamente la mano come se, improvvisamente, si fosse accorto di averla infilata in una tana di scorpioni.
Si era fermato... o forse era meglio dire che si era paralizzato dalla paura. E mentre il suo corpo veniva scosso da tremori incontrollabili, Tom si mise a fissare intensamente il granturco di fronte a lui. Era sicuro di non esser solo. Molto probabilmente c’era qualcuno nascosto tra le piante.
Il ragazzino pensò che doveva trattarsi di un malintenzionato, poiché la voce che lo aveva chiamato era così spaventosa che poteva appartenere solo a un uomo crudele… o almeno queste erano le considerazioni di Tom.
Si sentì osservato. Mai aveva sperimentato quella sgradevole sensazione: fu come esser privato degli abiti e della pelle. Su di lui avvertiva occhi famelici e percepiva un intento malvagio.
Guardò la sua casa e gli parve lontanissima. E la piantagione sembrava essersi fatta più fitta e buia.
“E’ solo la mia immaginazione” riuscì a dire con un filo di voce.
Magari aveva ragione. Ma la sua fervida immaginazione di bambino lo stava inabissando in un oceano di terrori sempre più assurdi e fantastici.
In mezzo a tutte quelle piante potevano trovarsi una moltitudine di mostri. Mostri così osceni da non avere un nome. Mostri che sfuggono alla ragione umana. Mostri che danno la caccia ai bambini.
“E’ solo la mia immaginazione” ripeté Tom Williams ad alta voce.
Cercò di dominare le sue paure.
“E’ solo la mia immaginazione” guardò con occhi di sfida il granturco di fronte a lui.
Nessuna voce osò rispondergli. Nessun mostro uscì allo scoperto.
Tom si sentì fiero di lui. Ma il suono di un rametto spezzato nella piantagione fece crollare il suo ardore appena ritrovato.
Quel suono ebbe sul ragazzino lo stesso effetto di una sferzata sulla schiena di un cavallo: iniziò a correre sul sentiero di terra battuta. Si allontanò dalla sua casa e dal luogo in cui aveva udito, o presunto di aver udito, l’orribile sussurro.
Corse così forte che ebbe l’impressione di volare. Continuò a correre anche dopo aver superato l’intera fattoria di famiglia.

 

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“Certo che ti sei immaginato ogni cosa” disse Wyatt, con fare annoiato, dopo aver ascoltato la terrificante storia di Tom. Quest’ultimo si stava ancora riprendendo dalla sua folle fuga, bevendo tutto d’un fiato una bottiglietta d’acqua ghiacciata.
Wyatt Sinclair era il miglior amico di Tom. I suoi capelli, neri come la notte, arrivavano fino alle sue orecchie. I suoi occhi erano di un intenso e meraviglioso blu.
Era decisamente più basso di Tom, nonostante i due fossero coetanei, ma poteva vantare delle solide spalle e forti braccia.

I due sedevano sul fianco di una morbida collinetta arsa dal sole.
Di fronte a loro si trovava un rudimentale campo da baseball, creato con semplici cumuli di terra per simulare le basi e la pedana del lanciatore. Quel giorno, un gruppo di ragazzini di Louistown, divisi in due squadre, avevano organizzato una partita tra di loro. Tom e Wyatt erano dei semplici spettatori.
Il campo da gioco sorgeva vicino alla tenuta abbandonata del vecchio Lewis Price.
Era un burbero signore, morto un paio d’anni fa per un tumore ai polmoni. Il signor Price non aveva una famiglia o degli amici. L’unica sua compagna era la pipa che tanto adorava. Ironico pensare che proprio quella pipa lo aveva portato nella tomba.
Dopo la sua morte, nessuno a Louistown voleva rivelare la sua proprietà.
Si diceva infatti che il terreno era avvelenato da alcune acque che scorrevano proprio lì nei paraggi.
Tom, e tutti gli altri ragazzini cresciuti in quella città, conoscevano bene quei corsi d’acqua: erano dei lenti fiumiciattoli paludosi e maleodoranti, pieni di alghe, rane, libellule, salamandre e… ovviamente …cicale.
Dal campo da baseball si poteva scorgere la casa diroccata del defunto Price: una modesta villetta di legno marcio, circondata da un vasto terreno ricoperto da erba rigogliosa. Era altissima, più alta di un uomo adulto.
Sembrava formare una giungla, una di quelle foreste inesplorate che si possono trovare in India o in altri posti simili.
Tom si mise a fissare quell’erba e per un solo, terrificante momento, si sentì di nuovo osservato. Una recinzione separava la collinetta da quella selva fatta di altissima erba... una misera recizione.
Wyatt diede una possente pacca sulla spalla del suo amico: “tu e la tua fervida immaginazione!” Commentò il ragazzo.
Quel semplice e spontaneo gesto scacciò via tutte le paure di Tom.
Tornò a rilassarsi e a guardare la partita che si stava svolgendo vicino a lui. Molti dei giocatori erano ragazzini che conosceva benissimo: c’era George ‘spillo’ MacMore, di origine irlandesi, con i suoi capelli dritti e rossi e il suo corpo incredibilmente alto ed esile. C’era Joe limpshire, un arrogante ragazzino dai capelli come oro liquido. Era un tipo logorroico che si autoproclamava il miglior giocatore di baseball di tutta l’Arkansas, erede del leggendario Hank Aaron degli Atlanta Braves. Inutile dire che Joe risultava antipatico a molti ragazzini.
C’era anche il grande e grosso Ron Davis, la cui faccia era invasa da così tanti brufoli da assomigliare a una pizza al salame piccante.

Durante il primo inning, Joe Limpshire eliminò con sfacciata facilità un ragazzino di nome Timothy Baker. Era il più basso tra tutti i presenti e portava degli enormi paia di occhiali dalla spessa montatura nera.
Joe iniziò a deriderlo nella speranza di farlo piangere. Timothy, come tutta risposta, gli mostrò il dito medio, scatenando le risate degli altri giocatori.
Arrivò poi il momento della partita che tutti aspettavano: alla battuta si presentò Evelyn Reese.

Si fece dare la mazza da baseball da Timothy e prese posto sul campo da gioco. Portò la mazza dietro le sue spalle e piegò le gambe. La sua posizione sgraziata rivelava tutta la sua inesperienza in quello sport.
I giocatori non potevano fare a meno di fissare, con accesa curiosità, quella creatura aliena che rispondeva al nome di Evelyn Reese.
< Come poteva una ragazzina interessarsi di un gioco da maschi? > Era la domanda che tutti si stavano facendo.
Evelyn, quel giorno, si era presentata al campo senza alcun invito, in sella alla sua bicicletta da femmina munita di un cestino rosa sul manubrio. Si avvicinò ai ragazzi e, come se nulla fosse, chiese loro di poter giocare. Era la prima volta che una ragazzina metteva piede in quel campo da baseball. Ovviamente fu scelta per ultima durante la formazione delle squadre.
E in quel momento, quella misteriosa creatura si preparava ad affrontare non un ragazzino qualunque… bensì lo spocchioso Joe Limpshire.
Per Tom, assistere a quella combinazioni di eventi fu come osservare i pianeti del sistema solare allinearsi alla perfezione.
Lui fissava estasiato Evelyn. Il desiderio di poter leggere i pensieri della ragazzina lo tormentava. Sentiva inoltre un nodo allo stomaco ogni volta che posava lo sguardo su di lei. Era da circa sei mesi che Tom avvertiva quell'incomprensibile sensazione. Ogni volta che vedeva Evelyn a scuola - i due frequentavano classi diverse - Tom non riusciva più a parlare o camminare, mentre la sua gola si inaridiva e la sua testa vorticava.
Quel giorno, sul campo da baseball, Evelyn indossava degli shorts bianchi, una maglia azzurra con una grande margherita ricamata sul petto e un berretto blu che racchiudeva al suo interno l’intera chioma castana della giovane. La visiera del cappello nascondeva gran parte del suo volto.
Tutti i ragazzi le urlavano frasi di incoraggiamento, non perché tifavano per lei… ma per il semplice motivo che volevano vedere Joe Limpshire battuto da una ragazza.
E Timothy Baker, furioso per esser stato eliminato, iniziò a prendersi la sua rivincita contro Joe: “sta attento…” gli urlava, ridacchiando “…se ti fai battere da una femmina è meglio che non ti fai più vedere in giro.”

Evelyn sembrava ignorare tutte quelle battute e schiamazzi. Fissava intensamente Joe. Serrò le labbra e corrugò leggermente le sopracciglia.
Quel suo sguardo così concentrato e determinato fece sussultare il cuore di Tom. Il ragazzino stava ancora cercando di comprendere cosa fosse quella strana e ricorrente emozione agitarsi dentro di lui, quando Joe Limpshire lanciò la palla. Evelyn roteò la mazza ma riuscì a solo fendere l’aria. Strike uno.
Il suo movimento fu così scomposto che inciampò sui suoi stessi piedi. Per sua fortuna non cadde ma barcollò, come se fosse ubriaca, scatenando le risate di tutti gli altri giocatori. Quei ragazzini avevano improvvisamente perso ogni speranza nei confronti di Evelyn e avevano iniziato a deriderla.
Poco dopo, Joe Limpshire effettuò il suo secondo lancio.
Il chiaro suono, come un possente schiocco, della palla da baseball che impattava contro la mazza agitata da Evelyn parve riecheggiare fino all’orizzonte.
Tutti i presenti rimasero a bocca aperta nel vedere Evelyn Reese deviare il dardo bianco e rotondo scagliato da Joe Limpshire.  
Un fuoricampo avrebbe coronato quel magico momento… ma la realtà era che la palla colpita da Evelyn sorvolò prima Joe e subito dopo iniziò a ruzzolare per terra.
Rotolò dritta verso il ricevitore, che in quell’occasione era Ron Davis.
Ma il grande e grosso faccia-da-pizza Ron, nell’accovacciarsi, si fece scappare la palla che proseguì la sua bizzarra corsa. Se Ron si fosse chinato un po’ di più, avrebbe corso il rischio di lacerare i calzoni. La palla continuò a rotolare sul campo.
I ragazzini, che tanto avevano deriso Evelyn, ora la stavano incitando con tutte le loro forze: “corri! Corri!” Le ripetevano.
Persino Wyatt era balzato in piedi e aveva iniziato a battere le mani.
Evelyn intanto stava correndo alla conquista delle basi. Era così eccitata che si era dimenticata di lasciar cadere la mazza. La stava portando con se e probabilmente, in quegli instanti così concitati, neanche avvertiva il suo peso.
Ron riuscì finalmente ad agguantare quella palla. La strinse nel suo guantone marcato Wilson che sua madre gli aveva comprato per Natale.
Evelyn però aveva già compiuto un giro completo di campo, conquistando tutte le basi. Probabilmente non avrebbe vinto la partita, o non avrebbe mai più colpito una palla in vita sua... ma in quel momento Evelyn fu acclamata da tutti come se fosse una campionessa.
Lei non riuscì a trattenere un sorriso e lo nascose abbassando lo sguardo e incassando la testa tra le spalle. Azzardò alzare la mani e fece il segno della vittoria. Sentì le sue guance divampare per l’imbarazzo.
I ragazzini però avevano già rivolto le loro attenzioni verso Joe Limpshire, il cui volto era diventato rosso per la rabbia.
Uno scroscio di risatine e battute al vetriolo stavano travolgendo il ragazzino dai capelli d’oro.
Timothy Baker era il più scatenato tra tutti i presenti. Quel piccolo quattrocchi incitava tutti i suoi amici ad infierire ancora contro Joe.

Il giovane Limpshire iniziò a prendersela con Ron Davis e con il suo goffo culone.
Sebbene Ron fosse due volte più grande e grosso di Joe, il suo scarso intelletto lo rendeva assai remissivo nei confronti del suo assalitore verbale.
Ma Joe non aveva ancora finito di sbraitare. Provava così tanta frustrazione e vergogna, alimentata da tutte quelle battutine orchestrate da Timothy-il-nanerottolo, che se la prese anche con Evelyn.
“Sei una troia!” Urlò Joe puntando il dito indice verso la ragazzina. E si sorprese nel sentire la sua voce così acuta e stridula. Stridula quasi quanto i versi delle cicale che non la smettevano di frinite attorno al campo da baseball… anzi …sembravano diventare sempre più numerose e chiassose.
“Mi hai sentito, Eve? Se solo una troia! Proprio come tua madre.”

“Cos’è una troia?” Sussurrò Tom a Wyatt.
Tom, per tutto quel tempo, era rimasto seduto sulla collinetta arsa dal sole.
Il suo amico tornò a sedersi al suo fianco: “mio padre dice che una troia è come una puttana che non ti chiede soldi per scopare. Sai cosa voglio dire con scopare?”
Tom sapeva benissimo cosa significava quella parola: indicava l'atto di abbracciare qualcuno senza vestiti. Il ragazzino considerava quel un gesto assai insensato e imbarazzante e aveva giurato a se stesso di non farlo mai in vita sua.
Le offese di Joe Limpshire avevano smorzato gli animi di tutti gli altri ragazzini.
Spillo MacMore gli rivolte la parola: “avanti, Joe! E’ solo una partita!”
“Chiudi il becco, immigrato di un irlandese!” Lo ammonì Joe per poi avvicinarsi a Evelyn con fare minaccioso.
Ma la ragazzina non sembrava intimorita. Alzò la mazza da baseball contro Joe, come se volesse metterlo in guardia.
In quel momento Evelyn Reese, senza dire una sola parola, gli stava promettendo un braccio rotto o il cranio fracassato se solo si fosse avvicinato di un altro passo.
Tutti gli altri ragazzini avevano smesso di ridere e ora fissavano con orrore Evelyn.
< Stai minacciando di picchiare Joe? Sei impazzita? >... Era il pensiero comune di tutti loro < …sai chi è suo fratello? Un conto è prenderlo in giro, ma alzare un dito contro un Limpshire è tutta un’altra storia. >

Joe però si era fermato nel vedere quella mazza puntata contro la sua faccia.
In quel momento avvertì qualcosa di duro e spigoloso contro la punta della sua scarpa. Era una pietra. < Prendimi e lanciami contro quella troia! > Sembrò sussurragli la pietra… o almeno era ciò che Joe si era immaginato.
Evelyn continuava a fissarlo con occhi di ghiaccio. Aveva avuto quell’austera espressione per tutta la giornata. Probabilmente era di pessimo umore ancor prima di raggiungere il campo da baseball ma nessuno dei ragazzini lì presenti aveva avuto l’ardore di chiedergli come stava o come mai avesse quel broncio. Del resto, Evelyn Reese aveva spesso quell’espressione granitica sul volto. E ora quegli occhi da sfinge non solo stavano fissando Joe… lo stavano sfidando.
Lui raccolse il sasso e lo scagliò in direzione di Evelyn
La ragazzina non si mosse poiché non si aspettava una simile reazione. Nessuno poteva aspettarsi una simile reazione. Ma la pietra sfiorò solo il suo volto.
“Ora stai esagerando, Joe!” Gli urlò Timothy Baker pur restando a debita distanza da lui. Ma il giovane Limpshire iniziò a lanciare pietre e pezzettini di terra dura contro Evelyn. Lei indietreggiò, chiuse gli occhi e iniziò ad agitare alla rinfusa la mazza.
Toc, toc, toc… si udì ogni volta che colpiva un proiettile scagliato da Joe. Il ragazzino si voltò verso Ron Davis: “aiutami!” Lo sgridò.
Ron, appena promosso da Joe come sue braccio destro, si unì a lui in quella improvvisata sassaiola.
Evelyn avvertì chiaramente un sasso impattare contro il suo ginocchio destro. Un secondo sasso le sfiorò il berretto blu. Un terzo colpo la prese all’altezza del fegato. Un quarto proiettile doveva essere di un pezzetto di terra, poiché Evelyn lo sentì frantumarsi contro la sua spalla sinistra. Ogni volta che veniva colpita, sentiva un esplosione di dolore dilagare su tutto il corpo.

Joe Limpshire alzò per l’ennesima volta la mano armata con un'altra pietra raccolta da terra. In quel momento, quella sua mano fu raggiunta da un sasso grande e levigato scagliato con forza.
Il ragazzino sentì un gran male e le sue dita iniziarono a pulsare a ritmo del suo cuore. La pietra che lo aveva colpito non era stata lanciata da Evelyn, ma da qualcuno alle sue spalle… qualcuno che si trovava sulla collinetta arsa dal sole.
Tom si era paralizzato nella posa che aveva assunto dopo aver scagliato quel sasso grande e levigato. Un piede in avanti, il busto torto e il braccio destro sporto in avanti. Con occhi spalancati fissava Joe massaggiarsi la mano offesa.
< Mi sono condannato da solo! > Pensò Tom.
Joe si era completamente dimenticato di Evelyn. Alzò lentamente lo sguardo verso Tom. Un’espressione di incredulità e ferocia era apparsa sul volto del ragazzo dai capelli d’oro.
Wyatt balzò in piedi: “cos’hai fatto?” Sussurrò esterrefatto a Tom.
Ma il suo amico non sapeva rispondere. La sua mano era stata più veloce dei suoi pensieri. Non appena aveva visto Evelyn colpita da Joe, Tom aveva agito.
In un’altra occasione non avrebbe mai colpito quel bulletto, del resto non aveva una mira così precisa. Ma l’emozione del momento aveva infuso in lui un talento da cecchino.
“Voi due…” ringhiò Joe in direzione di Tom e Wyatt “…siete spacciati!”
“Perché io?!” Protestò Wyatt.
“Siete spacciati” ribadì Joe.
“Beh… dato che sono stato coinvolto…” Wyatt afferrò da terra un sasso e lo lanciò contro Joe. Riuscì a colpirlo alla testa. Un sottile fiotto scarlatto zampillò dalla fronte del ragazzino dai capelli d’oro, tracciando un elegante arco di sangue a mezz’aria. Il sasso gli aveva aperto uno strana ferita a forma di ‘V’ sul sopracciglio destro. Joe barcollò all’indietro prima urlare per la rabbia e per il dolore.
“Prendili” gridò a Ron Davis mentre si piegava in due e si copriva il volto con le mani. Il sangue si faceva strada attraverso le sue dita e scendeva lungo le braccia.
Il grande e grosso Ron iniziò a correre verso Tom e Wyatt, salendo la collinetta aiutandosi anche con le sue possenti e grasse braccia.

Tom e Wyatt, perfettamente sincronizzati, si voltarono e iniziarono a scappare.
Raggiunsero la cima della collinetta e si fiondarono verso la recinzione che delimitava il confine della proprietà del defunto signor Price.
Balzarono sulla recinzione, la scalarono e saltarono dall’altra parte.
Wyatt attutì la caduta flettendo le ginocchia e premendo i palmi contro il terreno. Tom invece si schiantò al suolo con il suo sedere mingherlino.
Wyatt lo aiutò ad alzarsi. Non c’era tempo per concentrarsi sul dolore.
Ron li aveva raggiunti e iniziò anche lui a scavalcare la recinzione. Grande e grosso, con quella faccia brufolosa e le sue guance rosse, Ron sembrava un orco. Uno di quei bestioni forti e stupidi che si potevano trovare nelle favole per bambini.
Wyatt e Tom continuarono a correre.
Si stavano dirigendo verso l’altissima erba che invadeva la proprietà del signor Price. Tra loro e la vegetazione c’era uno di quei fiumiciattoli paludosi incriminati di aver avvelenato il terreno circostante.
I due ragazzini lo superarono con un agile balzo e si immersero nella fitta selva di altissima erba. Poco dopo udirono alle loro spalle lo scroscio dell’acqua.
Si voltarono. Ron era caduto nel putrido fiumiciattolo. Probabilmente voleva superarlo anche lui con un balzo ma la sua gargantuesca mole lo aveva trascinato nell’acqua.
“Hey, Ron! Avevi sete?” Gli urlò Wyatt.
Ron aveva la bocca spalancata e la sua espressione comunicava tutto il orrore e disgusto. Per sua fortuna, il fiumiciattolo non era per nulla profondo. Grumi di viscida alga erano rimasti sul suo testone, simulando una schifosa parrucca del colore degli spinaci bolliti. Con movimenti goffi, Ron avanzò verso i due fuggiaschi. Si aggrappò alla sponda del fiume e iniziò ad uscir fuori da quell'acqua putrida.

Tom e Wyatt sparirono nella vegetazione, ridendo a crepapelle per la battuta di quest’ultimo.
“Cosa facciamo?” Chiese Tom senza smettere di correre. Notò con sua grande sorpresa di essere più veloce di Wyatt. Stava facendo da apripista in quel mondo composto solo da altissimi ciuffi d’erba.
Il fruscio delle piante smosse dai due ragazzini era assordante.
“Tiriamo dritti…” gli urlò Wyatt “…non ci dirigiamo verso la casa di Price. Tiriamo dritti e sbucheremo sulla statale. Da lì possiamo tornare a casa.”
“Dici che è una buona idea?”
“Preferisci affrontare il brufoloso mostro della laguna?”
Scoppiarono di nuovo a ridere. Accelerarono la loro corsa nell’erba senza potersi orientare in alcun modo. Tom, sempre avanti rispetto al suo amico, si voltò verso di lui. Avrebbe voluto rispondergli con una battuta. Ma in quel momento non gli venne nulla in mente.
Tom rideva, Wyatt rideva… l’uomo alle loro spalle rideva.

Un’espressione di puro terrore deformò lo sguardo di Tom. Un’espressione così potente da influenzare anche Wyatt.
Quest’ultimo non si era voltato ma aveva capito, guardando semplicemente Tom, che c’era qualcosa di innominabile proprio dietro di lui.
Iniziarono a urlare per il terrore. Accelerarono la fuga.

Tom era tornato a guardare di fronte a se.
La visione dell’uomo ghignante era durato solo un instante o forse meno. Quell'individuo aveva il volto sporco di fango... un fango dal colore così cupo da mettere in risalto i suoi denti.
Ma ciò che aveva terrorizzato Tom più di ogni altra cosa era che quell’individuo sembrava un cadavere mezzo marcio. Sul suo volto, tondo e grottesco, mancavano interi brandelli di carne. Fasci muscolari e porzioni di ossa erano esposti all’esterno. Vermi giallognoli spuntavano da  un’orbita cava di uno dei suoi occhi. Vermi che si arricciavano come il dito di una persona quando chiama qualcuno e vuole dire: < vieni da me, avanti, non ti faccio nulla! >
E quell’espressione! Quell’espressione dell’uomo mezzo marcio era a dir poco atroce. Comunicava tutta la sua crudele euforia. Una crescente eccitazione che aumentata man mano che si avvicinava ai due ragazzini.
Tom continuava a urlare e a correre. Smanacciava gli altissimi ciuffi d’erba di fronte a lui. Sembravano esser diventate liane appiccicose che gli rallentavano la fuga.
Pregava il buon Dio di non farlo scivolare. Se avesse messo il piede in qualche buca sarebbe caduto. E se fosse caduto… sarebbe stato preso dall’uomo mezzo marcio. Rammentò il terrore sperimentato quello stesso giorno nella sua piantagione di granturco e quel raccapricciante sussurro: “Hey, ragazzino!”
Una voce così orrenda poteva appartenere solo a un uomo orrendo. Un uomo dall’aspetto spaventoso. Un uomo come quello che lo stava braccando in quel preciso momento.
Wyatt, nel frattempo, sentì le lacrime agli occhi. Mai aveva sperimentato un terrore così grande. I suoi neri capelli si impigliarono a qualcosa… o forse era meglio dire che qualcosa, simile a una mano parzialmente scheletrica, gli aveva afferrato una ciocca di capelli.
Wyatt però non rallentò e sentì il suo cuoio capelluto tendersi. Poi una lacerazione, seguita da una sensazione intensa di bruciore che si espanse rapidamente su tutta la sua testa. Il ragazzino aveva capito fin da subito che alcuni dei suoi capelli gli erano stati strappati via dalla radice.
Il dolore gli infuse nuove energie. Corse più veloce, così tanto da affiancare Tom.

La vegetazione terminò improvvisamente. I due ragazzini uscirono da quella fitta giungla come due schegge impazzite. Sentirono, sotto i loro piedi, il morbido suolo del terreno trasformarsi di colpo nel solido e rovente asfalto della statale. In quel momento neanche una macchina stava percorrendo la strada. E fu una fortuna per Wyatt e Tom una che nessuno stesse guidando in quel remoto angolo di mondo vicino Louistown.
Solo qualche giorno più tardi i due ragazzini riuscirono a comprendere la loro fortuna sfacciata nel trovare una strada completamente deserta.
Una qualunque automobile li avrebbe spalmanti su quell’asfalto rovente per tre yards o addirittura di più. Avrebbe tracciato una lunga scia di organi, sangue e carne… una poltiglia rossastra simile alla marmellata di lamponi su un sandwich.
Tom pensò a quell’analogia, si piegò in due e vomitò i panini che non aveva ancora finito di digerire.
Wyatt era rimasto al suo fianco, incapace di parlare. Fissava l'immensa massa d'erba che occupava i terreni del signor Price, mentre il suo torace si espandeva e si sgonfiava, si espandeva e si sgonfiava a ogni suo respiro.
Tom sputò un paio di volte prima di raddrizzarsi. La sua schiena gemette, affaticata e indolenzita dalla corsa. Fissò anche lui la vegetazione. Il modo in cui l’erba oscillava dava l’idea di essere viva… in possesso di una coscienza. Una crudele e perversa coscienza.
“Cosa c’era alle nostre spalle, Tom?” Chiese Wyatt mentre continuava a riprendere fiato. Il suo amico scosse il capo senza riuscire a staccare gli occhi dalla fitta erba.
Non poteva sapere con certezza chi o cosa si trovava in quella giungla selvaggia. Poteva esserci di tutto. Un morto vivente, un mostro dalle vaghe sembianze umane, un’orrenda allucinazione, il diavolo in persona… o tutte quelle cose incarnate in un’unica e agghiacciante creatura malefica.
Tom rammentò di nuovo lo sguardo euforico di quell’uomo mezzo marcio. Rammentò anche il suo ghigno trionfante, il suo unico occhio spalancato per l’eccitazione della caccia, la sua frenetica corsa, la sua pelle sporca di fango, i vermi che si arricciavano nella sua carne, i suoi vestiti… < aveva una giacca di flanella rossa? > Tom pensò di aver intravisto degli abiti invernali indossati da quella terrificante creatura. Ma non poteva esserne certo, del resto la visione del mostro era durata meno di un instante.
Non appena aveva posato gli occhi su quella cosa, Tom si era subito voltato per fuggire via.
E aveva fatto bene, pensò il ragazzino, perché se avesse ritardato la sua fuga anche di un solo, misero instante… probabilmente non sarebbe riuscito a sbucar fuori da quella fitta e crudele vegetazione. Per un momento, nella sua testa si definì uno scenario alternativo in cui l’uomo marcio riusciva a catturarlo tra i ciuffi di erba alta.
< Cosa mi avrebbe fatto? > Si domandò Tom. Non gli piacquero le risposte che il suo cervello gli stava inviando. Non gli piacquero per niente.
Iniziò a reprimere quel pensiero. Lo compresse in una minuscola pallina mentale e lo scaricò in un punto buio del suo inconscio.
Lui era fuggito e Wyatt era al suo fianco. Erano entrambi salvi. A cosa serviva immaginare degli scenari alternativi? A nulla.
“Andiamo a casa” disse Wyatt con voce stanca.

Per un lungo periodo, Tom e Wyatt camminarono l’uno al fianco dell’altro sul ciglio della strada. Trovavano un certo conforto ogni volta che le loro spalle si toccavano. Entro un’oretta, o giù di lì, sarebbero tornati alle loro case.
Wyatt si voltò verso il suo amico: “ora mi vuoi dire cos'hai visto nell'erba?”
Tom scosse il capo. Avrebbe trovato la forza di raccontargli ogni cosa solo il giorno dopo. Ma in quel momento, mentre camminavano sul ciglio della statale, Tom non era in grado di parlare.
Wyatt intanto iniziò ragionare a mente fredda. < Magari Tom ha avuto un’allucinazione >… pensò …< oppure ha visto un’ombra e la sua immaginazione gli ha suggerito che doveva trattarsi di un mostro. Perché no?! Tom è sempre stato un fifone. Vuoi vedere che abbiamo rischiato di diventare marmellata sull’asfalto per colpa di Tom-il-fifone? >
La sua testa gli faceva ancora male. Ricordò la sensazione che aveva provato mentre una ciocca dei suoi capelli veniva strappata via... strappati via da un fantomatico uomo-mostro.
< Devo essermi immaginato tutto quanto > ipotizzò Wyatt mentre si tastava il capo.
Quando ritrasse la mano per osservarla... scoprì che era sporca di sangue. < Qualcuno mi ha davvero strappato dei capelli! > Fu la tremenda deduzione del ragazzino.



cic

   
 
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