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Autore: futacookies    10/03/2021    2 recensioni
{soukoku}
«Dimmi un po’, Chuuya-kun», inizia, «tu ci tieni molto, a Dazai?»
Genere: Angst, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Chuuya Nakahara, Osamu Dazai
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Note: scritta per la quinta settimana del cow-t organizzato da Lande di Fandom con il prompt: "tradimento"
Canon divergence perché non mi risulta che Dazai e Chuuya si siano incontrati dopo la morte di Odasaku e possibili accenni/spoiler da "Dazai, Chuuya, Fifteen" se non si è in pari con la terza stagione dell'anime.
(pining? unrequited love? also hinted, unrequited Dazai/Akutagawa).

 


 

 

Quel sapore metallico, un po’ di sangue



 

Chuuya conosce perfettamente il sapore del tradimento: quel sapore metallico, un po’ di sangue, che si accumula in bocca dopo aver ricevuto una pugnalata allo stomaco ‒ lo stesso sapore a cui era stato personalmente costretto quando gli unici amici che avesse fino ad allora avuto gli avevano voltato le spalle. 

Quando viene a sapere dell’incidente con la Mimic, così lo chiamano le sue fonti, il suo primo istinto è cercare Dazai. Ma non lo trova da nessuna parte. Chuuya sputa per terra e ignora il familiare gusto che si sta facendo strada sul suo palato. Continua a cercarlo ‒ interroga i suoi sottoposti, va da Akutagawa, si inventa una scusa per chiedere ad Hirotsu se sa qualcosa. 

Incontra sguardi bassi, svuotati, indifferenti, nessuno sa niente. E Dazai non c’è. 

«Ane-san», si lamenta, raggiungendo Kouyou, «che fine ha fatto quell’idiota?»

A Kouyou Dazai non è mai piaciuto tanto. Non le piacciono i suoi modi sgarbati e spicci, la sua aria di supponenza, la tendenza a immischiarsi in faccendo che gli riguardano e a risolvere suo malgrado. Di tutte le persone che potrebbero dirgli qualcosa di Dazai, o del suo stato attuale, è l’ultima.

Lei nasconde un sorriso divertito dietro al ventaglio. I suoi occhi, freddi e indecifrabili, si posano su di lui. Chuuya, sotto al suo sguardo, si muove a disagio sulla sedia ‒ si sente, per una frazione di secondo, quasi colpevole per quella domanda. Non dovrebbe interessarsi di Dazai, non quando non fa altro che lamentarsi di quanto lo detesti, non quando è così evidentemente una debolezza. 

«Dimmi un po’, Chuuya-kun», inizia, «tu ci tieni molto, a Dazai?»

Chuuya deglutisce. Preferirebbe non rispondere. Preferirebbe che lei non gli avesse mai posto questa domanda, così da non sembrare un codardo nell’evitarla. Preferirebbe poter direttamente dire che sì, lui ci tiene a quel cretino di Dazai, e pure tanto, ma qualcosa nel modo in cui lo sta continuando ad osservare gli suggerisce che un misurato distacco sia la risposta migliore.

Scrolla le spalle.

«Perché?»

Lei sventola il ventaglio, come a soffiare via la sua domanda. 

«Non ci pensare. Non ha importanza, adesso.», gli confida.

I gomiti di Chuuya sprofondano in avanti e lui nasconde un grugnito confuso e infastidito tra le dita. 

Cosa non ha importanza?, vorrebbe chiederle. 

Dazai? Può Dazai, enfant prodige della Port Mafia, più giovane esecutivo, talmente scaltro da essere temuto perfino dallo stesso Boss, non avere importanza? Può Dazai, il suo acerrimo rivale, il suo partner, il suo- può quel Dazai non aver importanza? Al solo pensiero, gli viene da ridere istericamente.

Forse ciò che non ha importanza sono i suoi sentimenti. Ma quando mai l’hanno avuta? Messi da parte ad ammuffire, assopiti e derisi quando presenti, non sono mai stati motivo di grandi grattacapi ‒ almeno finché Dazai era lì, a cercare una stupida scusa per prenderlo in giro, per fargli compagnia giusto un paio d’ore, per toccarlo. Ma adesso non c’è, e nessuno gli vuole dire niente, e lui non ha idea di quello che sta succedendo e allora i suoi sentimenti gli fanno male quanto una coltellata.

Non può essere morto. Questo lui lo sente ‒ lo sa: Dazai non può morire. Non ci sono dotati di abilità che possano avere la meglio su di lui, e non esiste cecchino, per quanto addestrato, che possa essere più scaltro di lui. Messi in acconto pure i suoi scarsi tentativi di suicidio, poi, Dazai si diventa una specie di divinità della sopravvivenza. E di certo, se fosse morto, qualcuno lo avrebbe saputo, qualcuno gliel’avrebbe detto ‒ non lo avrebbero lasciato a domandare su di lui in giro come un imbecille.

«Che cosa ha fatto stavolta?», chiede, la fronte schiacciata contro il legno duro del tavolo. È fastidioso, quasi, ma mai quanto lo stomachevole presentimento che si è annidata da qualche parte nella sua mente ‒ non può essersene andato. Non di sua spontanea volontà. Non può averlo- non riesce neanche a dirlo. 

«Chi sa.», commenta Kouyou, lo sguardo improvvisamente perso altrove. «Chi sa.», ripete, e poi con un gesto secco chiude il ventaglio. «Dovresti andare dal Boss. Mi ha chiesto di mandarti da lui appena ti avrei visto.»

Scatta su. Un ordine è un ordine, si dice. E poi, il Boss potrebbe essere l’unica persona in grado di dirgli qualcosa su Dazai. 

«Chuuya-kun.», lo richiama Kouyou, mentre lui è già alla porta. Come se fosse stata capace di leggergli nella mente, gli dice: «Sarebbe meglio per te se lasciassi perdere Dazai.»

Chuuya si irrigidisce.

L’ha detto come un suggerimento. Gli ha dato un consiglio. Ma la fermezza della sua voce la tradisce. Quello, non differentemente dall’andare da Mori-san, è un ordine bello e buono. Purtroppo, però, Kouyou non ha alcun potere su di lui da molto tempo.

 

Non importa che grado di ricopra all’interno delle gerarchie della Port Mafia, arrivare fino all’ufficio del Boss è sempre un’esperienza snervante. Passati i controlli, e le guardie che ti accompagnano da un lato all’altro dell’edificio armate fino ai denti, resta sempre il sibillino terrore che tu sia stato chiamato soltanto per essere giustiziato. O per ricevere una missione suicida, che è più o meno la stessa cosa.

La prima volta che ha messo piede in quell’ufficio, se lo ricorda ancora fin troppo bene, l’ha fatto da prigioniero: c’era ancora Rimbaud, con il suo sciarpone e quel freddo interiore che si poteva quasi avvertire, standogli troppo vicino. C’era Mori-san, ingoiato dall’ombra mentre annunciava di avere in ostaggio i suoi amici. E c’era Dazai, che già blaterava stronzate dalla mattina alla sera. 

Adesso però c’è solo Elise che disegna in un angolo, e i suoi pastelli a cera che formano un campo minato che vorrebbe non dover attraversare. E c’è un fascio di luce prepotente che illumina la scrivania del Boss. 

Chuuya si toglie il cappello e si inchina. 

«Boss.», si annuncia, e quello distoglie distrattamente lo sguardo dai documenti che stava studiando con tanto interesse.

«Ah, Chuuya-kun.», gli risponde, e Chuuya alza il capo per poterlo guardare. Il cappello rimane abbandonato tra le sue mani. «Chuuya-kun.», ripete, giungendo un paio di volte le dita all’altezza del naso.

«Ho un nuovo ruolo per te.», gli annuncia senza molti preamboli. «E solo una nomina d’ufficio, ovviamente, e saremmo tutti più sollevati se non ci fosse mai bisogno di utilizzarla.», riflette ad alta voce.

«Boss ad interim. Se io non dovessi esserci.», spiega sommariamente. 

Sta dicendo altro, e Chuuya sa che dovrebbe ascoltarlo. Gli tornerebbe sicuramente utile. E poi è una mancanza di rispetto, come potrebbe mai giustificarsi se il Boss gli chiedesse qualcosa e lui non rispondesse perché stava pensando a-

Dazai era il boss ad interim designato, prima di lui. C’è un protocollo da seguire, quando il Boss è compromesso, questo lo sa perché in un interminabile notte di appostamento Dazai non aveva niente di meglio da fare che annoiarlo con tutti i dettagli del caso. 

C’è un protocollo prestabilito e diversi piani d’azione da seguire a seconda dell’emergenza, e ci sono carte che bisogna leggere immediatamente e altre da cui si deve assolutamente restare lontano, a prescindere dalla situazione e tutta una serie di macchinazioni che Mori-san ha voluto introdurre a tutti i costi per evitare che si ripetesse la confusa anarchia seguita alla morte del boss precedente.

«Be’, Chuuya-kun, questa non è una cosa poco. C’è qualcosa che vuoi dire?»

«Certo, Boss.», china la fronte. «Grazie. Non la deluderò.»

Lui applaude divertito, un singolo schiocco di mani che interrompe l’atroce silenzio dell’ufficio. 

La mente di Chuuya, più rumorosa che mai, non fa che strillare un singolo nome, un litania assordante che minaccia di fargli esplodere il cervello ‒ Dazai, maledetto Dazai-

«Certo che non lo farai-», dice, ma Chuuya lo interrompe.

«Cos’è successo», chiede, scandendo lentamente le parole, cercando di non lasciar trapelare la sua preoccupazione. «al mio predecessore?»

C’è un istante in cui gli occhi di Mori-san sono attraversati da un baluginio indecifrabile. È solo un attimo, ma il suo sguardo si raffredda e la sua mascella si contrae e le sue spalle si irrigidiscono. Chuuya sbatte le palpebre e il momento successivo il Boss sembra di nuovo sinceramente divertito dalle sue parole.

«Il tuo-?», chiede ironico, sottolineando il possessivo in un modo che in qualunque altra occasione l’avrebbe fatto morire di vergogna. «Eh.», commenta. Poi, come se fosse le reazione più naturale del mondo, scoppia a ridere. «Bella domanda, Chuuya-kun. Davvero, il modo in cui hai-», si ricompone, e abbandona qualunque cosa stesse per dirgli e invece osserva: «Sei cresciuto molto. No, non credo che mi deluderai. Per quanto riguarda Dazai-kun», scrolla le spalle, come se ormai la faccenda non lo riguardasse più, «Be’, non credo che rivedremo presto il tuo predecessore.»

Chuuya trattiene un ringhio. Vorrebbe solo una spiegazione. Non gli sembra di chiedere tanto. Perché essere così criptici quando si può essere diretti e arrivare al punto. Perché perdersi in discorsi inutili quando potrebbero semplicemente dirgli dov’è o cosa ha fatto o perché diamine non dovrebbero vederlo più.

«Non restarci troppo male, Chuuya-kun. Almeno non è stato un sacrificio a vuoto.»

Indica con il mento una busta già aperta. Chuuya, esitante, allunga una mano. 

Quello che sta guardando, se ne rende conto, è un documento di estrema importanza ‒ convincere le autorità competenti a rilasciare un permesso del genere, Chuuya lo capisce, non deve essere stato facile. E una simile vittoria potrà anche far sentire il Boss risarcito della perdita di Dazai.

Ma non lui. Un pezzo di carta, per quanto di valore, non potrà restituirgli Dazai. 


Non gli sono mai piaciuti i puzzle, ma nei giorni seguenti riesce ad estorcere abbastanza informazioni da mettere insieme i pezzi di quello che è effettivamente successo tra Dazai e il Boss. Akutagawa, pur imbarazzato e riluttante, è quello che riesce a fornirgli più informazioni ‒ in fondo, è stato anche lui coinvolto, entro certi termini. 

Ancora non si arrende all’idea che Dazai se ne sia andato, poveretto. Per giorni ha battuto ogni strada di Yokohama, ha cercato in ogni vicoletto, in ogni fogna, si è esposto alla luce del sole ma se ne è tornato con un pugno di mosche e un broncio che ogni giorno diventa più sconsolato.

A Chuuya fa un po’ pena ‒ e un po’ invidia, perché anche lui vorrebbe poter avere una scusa per cercare Dazai in ogni dove, se non altro per dargli un pugno su quel suo muso supponente. 

Osamu Dazai è un traditore e da qualche parte c’è una pallottola con il suo nome scritto sopra. Una pallottola in una pistola il cui grilletto non verrà mai premuto, perché il Boss ha ordinato che nessuno prenda iniziative personali contro di lui. Il fatto che abbia lasciato vuoto il posto di esecutivo, un posto per cui molti non esiterebbero a uccidere, la dice lunga su come lui stesso stia vivendo la situazione. 

Dazai è un traditore perché ha lasciato la Port Mafia, certo. Su questo sono tutti d’accordo. Dazai è un traditore perché ha lasciato la Port Mafia senza di lui, obbietterebbe Chuuya. Perché se ne è andato senza dirgli nulla, senza dargli una spiegazione, perché prima lo ha trascinato giù con lui e poi lo ha abbandonato lì senza un motivo.


«Al posto mio ti saresti arrabbiato anche tu, ne sono sicuro.», borbotta, e poi calcia un sassolino nello strapiombo. 

La tomba di Rimbaud non gli risponde.

Non lo sa nemmeno, perché è andato lì. Ha solo cominciato a vagare per le strade di Yokohama, e poi si è allontanato di più, sempre più, finché non ha capito dove i suoi piedi lo stessero portando. Un luogo in cui nessuno gli verrà a rompere le scatole ‒ un luogo in cui l’unica persona che può rompergli le scatole, non andrà.

«Dai, Chuuya, non puoi davvero avercela con me.»

Chuuya, che stava per calciare un altro sassolino nel vuoto, ferma la gamba a mezz’aria e resta congelato, nell’assurda posizione di un fenicottero. Riesamina lentamente le ultime parole ascoltate, indeciso se si tratti di un’allucinazione o meno e poggia con calma il piede per terra. Il sassolino che stava per calciare schizza rapidamente verso il volto di Dazai ‒ Chuuya non ha nemmeno bisogno di vederlo per sapere che tutta la forza d’impatto data dalla sua abilità si disperde nel momento in cui entra a contatto con la sua guancia.

«Dovrei ucciderti.», borbotta, e fa per andarsene.

Dazai, chiaramente nell’umore per fare due chiacchere, allunga un piede e lo fa inciampare.

«Ti hanno ordinato di uccidermi?», si informa in tutta calma, come se gli stesse chiedendo delle condizioni meteorologiche.

«No.», butta fuori. «Ma io voglio sempre ucciderti.»

Si rialza e resta in piede mentre Dazai incrocia le gambe sull’erba. 

«Non ci credi nemmeno tu.», gli dice, e socchiude gli occhi. C’è troppo sole. «Siediti», chiede, accarezzando il posto vuoto accanto a lui.

Chuuya incrocia le braccia al petto. Non ha intenzione di fare quello che vuole lui, non ha intenzione di sedersi accanto a lui e fare finta che gli ultimi giorni non siano mai accaduti. Non ha intenzione di lasciarsi indebolire fino al punto in cui gli chiederà di tornare. 

«No.», risponde, ma Dazai tira un lembo dei suoi pantaloni.

«Siediti, Chuuya.», ripete. Stavolta sembra un ordine.

È così stanco di ricevere ordini. Da giorni non fa altro che ricevere ordini spacciati da consigli e richieste e bonarie raccomandazioni e sa di non poter rifiutare niente, non può zittire Kouyou e non può negarsi al Boss e adesso non riesce nemmeno al voltare le spalle a Dazai, quindi si limita a sedersi docilmente accanto a lui.

«Proprio come un cane~», cinguetta lui, deliziato. 

Chuuya si sporge per allungargli un pugno e lui si scansa appena in tempo. 

La sua risata, tutt’altro che sincera, risuona nelle sue orecchie anche dopo la manciata di secondi che passano in completo silenzio. Quella, si dice, è la risata di un traditore. Di qualcuno che non ci ha pensato due volte, prima di lasciarsi alla spalle qualunque sentimento potessero condividere.

E quella sensazione, di essere stato escluso e gettato in angolo per un capriccio, di non essere stato abbastanza da impedirgli di andarsene,  proprio non riesce a scrollarsela di dosso. E questo silenzio in cui sono piombati si fa sempre più pesante. Ci sono tantissime cose che vorrebbe chiedere, tanti impropri che vorrebbe lanciargli contro, c’è una supplica sussurrata che non vedrà mai la luce del sole perché proprio non gli riesce, di aprire la bocca e dare fiato a quello che sta provando.

Apre una palpebra per spiare Dazai: sta fermo, con la schiena curva e il volto teso verso il sole, gli occhi chiusi come se fosse un gatto. La camicia che ha addosso è sporca di sangue che sembra essere ormai troppo secco per essere lavato via. La benda che portava sull’occhio destro non c’è più. Non c’è neanche il cappotto di Mori-san e la cravatta pende, allentata, da suo collo. 

Ma oltre il semplice vestiaro, c’è qualcosa nella sua espressione rilassata che è spaventosamente alieno. 

Quel Dazai, realizza, anche se in fondo già lo sapeva, non è più sotto il giogo della Mafia. È un ragazzo libero, sebbene con una fedina penale spaventosa e sicuramente ricercato dalle autorità. Chuuya è pronto a scommettere la sua automobile nuova che non c’è un solo agente del governo che non sia disposto a vendere l’anima al diavolo pur di mettere le mani su di lui. Ma mentre questo pensiero gli fa contorcere lo stomaco, Dazai non ne sembra minimamente preoccupato. 

Ci sono tante cose che gli dovrebbe dire, ma sta’ attento non è di certo un’opzione possibile, non dopo aver minacciato di ucciderlo.

Non ci credi nemmeno tu, gli ha detto, e forse ha ragione. Forse lo dice soltanto per darsi un tono. Solo per non fare la figura del cane che elemosina una carezza dal suo padrone ‒ e può anche dire che gli fa tanta pena, Akutagawa, ma la triste realtà è che in fondo non sono molto diversi, loro due, sempre a inseguire Dazai e la speranza di un briciolo d’affetto che lui non riesce neanche a provare.

Non per lui, almeno, perché Chuuya è sicuro che se fosse morto lui, al posto di Odasaku, Dazai non avrebbe battuto ciglio. Avrebbe continuato ad obbedire agli ordini di Mori-san e non si sarebbe soffermato su di lui più di tanto. Sarebbe stato uno spreco di tempo. 

«Stai pensando troppo.», nota Dazai. «Non rovinare questo momento.»

Chuuya storce il naso. Che momento dovrebbe star rovinando? Cosa sta succedendo, tra di loro, seduti su uno strapiombo accanto a una tomba? 

Chiude gli occhi e cerca di non pensare, almeno per qualche minuto. Si concentra sul vento che sente tra i capelli, sul rumore delle onde che si infrangono contro la scogliera, sul respiro quasi inesistente di Dazai ‒ tutto, pur di soffocare i suoi sentimenti e il suo orgoglio tradito che strilla per avere vendetta. Ci sono tante cose che potrebbe dire, ma di certo Dazai non gli estorcerà una confessione d’amore dopo tutto quello che ha combinato. probabilmente non saprebbe nemmeno che farsene, del suo amore. Non gli ridarà gli amici che ha perso. Non lo riporterà indietro. È completamente inutile.

«Perché sei venuto qui?», gli chiede a un certo punto.

«Non lo so. Ero uscito per fare una passeggiata.»

Dazai apre gli occhi e gli rivolge uno sguardo incuriosito.

«Sei così stupido, Chuuya. Sono quattro giorni che ti aspetto.»

Chuuya scatta su come una molla. 

«Non prendermi in giro.», strepita, assottigliando lo sguardo.

Dazai non sembra minimamente toccato dalle sue lamentele. Scrolla le sue spalle. 

«Non lo sto facendo.», confessa, molto semplicemente. 

Chuuya comincia a camminare avanti e indietro, affondando i piedi nell’erba, pensando freneticamente a tutte le volte in cui Dazai gli ha mentito e del perché questa dovrebbe essere una di quelle ‒ o di come, per una volta, potrebbe non esserlo. Perché magari questa volta è diverso, perché potrebbe essere l’ultima volta che-

Ah, certo. 

«Cosa farai adesso?», chiede. 

Si è fermato, e adesso troneggia su di lui. Dazai alza lo sguardo e gli sorride ‒ c’è un istante in cui gli sembra orribilmente innocente, in cui tutti i suoi crimini non sono mai avvenuti e tutti i peccati sono stati assolti. Chuuya sente le ginocchia cedergli e crolla affianco a lui. 

Di tutte le persone che potevano tradirlo, che potevano voltargli le spalle oppure piantarci un pugnale, in quelle spalle, perché proprio lui? Non c’è davvero un modo per trattenerlo lì con lui, seduto sull’erba in un giorno assolato, in un istante in cui esistono solo loro e non il male che hanno fatto e che li circonda.

«Non ti dovresti interessare di un traditore come me, Chuuya.», lo canzona, dandogli le spalle. «Mori non ti ha nominato come suo vice?», chiede, ma non aspetta neanche la sua risposta. «Dovresti proprio ringraziarmi, sì.», annuisce. «Se io non me ne fossi andato, non avresti mai ricevuto una promozione.»

Chuuya grugnisce. Non gli interessa la sua stupida promozione. Non ha voglia di ringraziarlo. Se tornasse indietro con lui ora, nessuno farebbe caso al fatto che se ne sia andato in primo luogo. Nessuno potrebbe considerarlo un traditore perché Mori-san lo accoglierebbe anche meglio del figliuol prodigo. Ma il solo fatto che lui sappia, che assoluta certezza, che Dazai non si piegherebbe mai a un simile richiesta, per nessuno, nemmeno per lui, gli fa bruciare le mani dal desiderio fargli del male.

«Oi, Dazai, girati un po’, così posso prenderti a pugni.»

Dazai non si gira. Però si alza, e continua a voltargli le spalle, fissando un orizzonte terso e privo di costrizioni.

«Ti sentirai meglio, dopo?»

Non importa nemmeno, come si sentirebbe dopo. Sa come si sente adesso. Umiliato. Messo da parte. Ferito. Ma non c’è cosa che possa dirgli che farà sentire Dazai in questo modo. Quindi tanto vale ferirlo fisicamente. 

«Quello che provi per me non ha importanza.», gli dice all’improvviso. «Non so se ne abbia mai avuta. O se ne avrà mai.»

Si è voltato verso di lui, mentre parlava. Il suo volto è freddo e familiare e Chuuya sa che sta cercando di farsi odiare, sa che non le intende davvero, le sue parole, eppure non può fare a meno di cascarci, di credergli, di odiarlo esattamente come lui desidera che faccia. 

«Io ti odio.», continua. «Odio te, e odio la Port Mafia, e tutto quello che comporta. Odio il fatto che tu sia così stupidamente leale e che tra tutte le persone a cui potessi concedere questa lealtà tu abbia scelto proprio Mori.»

«Dazai-», cerca di interromperlo, ma lui continua, come un fiume in piena, a riversare su di lui la sua rabbia e la sua frustrazione. 

«Io ti odio.», ribadisce. Poi alza un braccio per spintonarlo via e Chuuya, spinto dalla memoria muscolare, lo afferra per fermarlo. Dazai fa leva sul polso che lo sta trattenendo e in un primo momento Chuuya crede che stia per dargli una testata.

Invece lo bacia. E non c’è niente di romantico, o di dolce, e sembra davvero una testata perché le loro bocche cozzano in un modo che ha quasi del doloroso. La mano libera di Dazai gli afferra il collo, e la sua lingua si spinge tra le sue labbra. 

Chuuya soffoca un mugolio e Dazai affonda i denti nel suo labbro inferiore, tirando appena, prima di staccarsi. Chuuya soffia per il dolore e la sua lingua insegue un goccio di sangue. La mano di Dazai gli stringe ancora la nuca, mantenendolo inchiodato sul posto ‒ e se anche potesse muoversi, riflette, dove potrebbe mai andare? C’è un qualunque altro luogo dove potrebbe mai voler essere? Qualunque che altra cosa che potrebbe volere?

«La prossima volta che ci vedremo», soffia sulla bocca, «potresti davvero dovermi uccidere. Lo farai?», chiede, abbandonando improvvisamente la presa e approfittando della sua perdita di equilibrio per superarlo e allontanarsi. «O mi lascerai andare via, Chuuya?»


Sono passati pochi minuti. La schiena di Dazai, che non si è voltato neanche per un istante, neanche per concedergli un addio, diventa sempre più piccola e lontana. Chuuya è ancora lì dove l’ha lasciato. Ripensa alle sue parole e tutto ciò che riesce a trovarci e la promessa che quella separazione non si altro che momentanea, che arriverà un giorno in cui se lo ritroverà davanti e forse allora toccherà a lui, decidere cosa fare di Dazai. 

Intanto, però, l’unica cosa che gli rimane in bocca, dove fino a poco prima c’era lui, è quel sapore metallico, un po’ di sangue ‒ quel sapore di tradimento, che fa male quanto una coltellata anche se in realtà gli ha dato un bacio.

  
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