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Autore: Melanto    12/03/2021    6 recensioni
[Sequel di 'Huzi']
«‘… E quindi, illustri colleghi, questo c’è da dire su mio padre: le uniche cose che abbia mai preso sottogamba sono state solo i palloni.’ E qui mi aspetto le risate sceme dei vecchi e l’applauso finale, gli smollo la targa e me la squaglio dal palco. Che te ne sembra?»
Un discorso da preparare ai piedi di uno dei più grandi spettacoli italiani.
Un padre, un figlio e... un Super Santos?!
...oh, happy day!
Genere: Introspettivo, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Alan Croker/Yuzo Morisaki, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Huzi - the saga'
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I giorni felici

Note Iniziali: Non era prevista, perché ormai niente è più previsto in quello che scrivo.

Ma oggi è un compleanno speciale, di un personaggio speciale e non so perché stessi pensando a ‘Huzi’ e così…
AVVISO ENORME: potrebbero esserci spoiler grossi in merito al sequel di ‘Huzi’ che ho in mente di scrivere.

So che prima che arriverà quel momento, magari ‘sta storia ve la sarete pure dimenticata, ma, nel dubbio, io vi avviso. XD così almeno lo sapete e non mi chitamuortate later.

Quindi, liberissimi di leggere, non leggere, sarcazz.

Comunque, sì, per chi non ha letto ‘Huzi’… non ci capirà una mazza XD BUT LOVE AND PEACE <3

Ci ritroviamo alle note finali.

 

Buona lettura!

 

 

PS: abbiate pietà e misericordia degli errori che troverete, l'ho terminata pochi minuti fa e volevo pubblicarla in tempo per il 12 T_T scusate!!!

 

 

I giorni felici

 

 

 

 

 

«‘… E quindi, illustri colleghi, questo c’è da dire su mio padre: le uniche cose che abbia mai preso sottogamba sono state solo i palloni.’ E qui mi aspetto le risate sceme dei vecchi e l’applauso finale, gli smollo la targa e me la squaglio dal palco. Che te ne sembra?»

Il silenzio più lungo di dieci secondi non gli fece ben sperare.

Hirotaka alzò già gli occhi al cielo.

– Che per fortuna non fai lo scrittore.

«Grazie al cazzo, Mino! Sono uno scienziato. Passi per l’articolo scientifico, ma un discorso…» sbuffò, stravaccandosi sulla seggiolina pieghevole che aveva i piedini ben infissi in un mare di scorie di grandezza variabile dal millimetro a qualche centimetro. Più avanti si poteva scorgere anche il profilo di alcune bombette. «Senti, perché non facciamo che quando torno me lo scrivi tu?»

– Non ci pensare neanche, Hiro. È tuo padre, sii responsabile.

«Oh, però non ti faceva schifo quando ritoccavi i miei articoli per il vecchio Ohno e renderli, com’è che dicevi, ‘più avventurosi’.» Scimmiottò le ultime due parole virgolettandole con le dita, anche se il suo interlocutore non poteva vederlo.

Una risata compiaciuta gli scivolò contro l’orecchio.

– Sì, era divertente, in effetti.

«Gnegnegnè.»

– Facciamo così: se proprio non ti verrà niente, ti darò una mano. Una mano, Hiro. Non tutto il braccio. Non lo scriverò io. Ti metterò sulla strada giusta.

«Maestrino di merda.»

– Però ti piace quando questo maestrino di merda ti-

«Sta’ zitto. Zitto non dire altro.»

Un’altra risatina, di nuovo compiaciuta.

Hiro pensò che quell’altro sapesse sempre come trovarsi con il coltello dalla parte del manico; doveva essere una prerogativa degli scrittori: ci sapevano troppo fare con le parole, lui invece era una schiappa quando non c’erano equazioni nel mezzo.

– Ora scappo, devo terminare il manoscritto entro le dieci o è la volta buona che il mio editore mi licenzia.

«Non lo faranno mai e lo sai anche tu. Paraculo.»

– Sì, lo so, ma fammi dare un tono da scrittore impegnato! – e giù l’ennesima sghignazzata. – Tu, però, ricorda il materiale: voglio una marea di foto e video. Il successo del mio prossimo libro dipende da te.

«Se ti servivano così tanto, perché non sei venuto? Ora staresti qui, in panciolle con me, sotto il cielo azzurro di Sicilia.»

– Tentatore, – sospirò l’altro. – Ma tra la consegna e le manifestazioni letterarie non ho modo di muovermi. E di certo i vulcani non stanno ai miei comodi, per questo ci sei tu a fare le mie veci. Sarai i miei occhi.

«Fottiti.»

– Meglio un ‘fottimi’.

«Ma sparisci!»

Hirotaka chiuse la chiamata e guardò il messaggio di WhatsApp che Mino gli aveva mandato mentre erano al telefono: uno scatto che ritraeva lo scrittore durante l’ultimo shooting fotografico dell’ultima intervista che aveva rilasciato per l’ultima convention di non sapeva cosa; un mezzobusto in giacca, cravatta, folto capello ingellato ad arte ed espressione da ‘t’ingravido con lo sguardo in 3, 2, 1…’.

«Stronzo,» bofonchiò. «Imbrattacarte dei miei stivali!»

«Con chi stai parlando?»

Hiro alzò la testa e la figura ancora solida di suo padre, nonostante l’età, fece capolino da sotto l’ombrellone che avevano piantato alle pendici dell’Etna. Davanti: una spiaggia di tefra, il largo scudo della montagna e l’ennesimo parossismo in corso.

«Con la mia coscienza. Quella che dice che faccio pietà a scrivere discorsi.»

«Mino te lo ha distrutto, non è così?»

Hiro ammiccò, mentre suo padre prendeva posto nella seggiolina accanto alla sua e si lasciava sfuggire una risata.

«Che ridi, papà? È il discorso per te! Io sto scrivendo il discorso per la tua festa di compleanno!»

«Massì, Hiro. Puoi sempre dire: ‘Caro papà, tanti auguri, cento di queste targhe. Prosit’

«Dici che posso?» Hirotaka ci pensò sul serio, mentre metteva via il portatile e ripescava il pacchetto di sigarette dallo zainetto abbandonato accanto ai piedi. Se ne accese una, il vento gli mangiò il fumo e quando si volse per guardare suo padre, che lo scrutava con gli occhiali abbassati sul naso, scoppiarono a ridere entrambi.

Contemporaneamente, una serie di esplosioni riempì l’aria con un borbottio arrabbiato.

Suo padre lo rintuzzò al braccio col dorso della mano, mentre cambiava posizione sulla seggiolina. Pareva non dovesse trovare pace.

Hiro gli rivolse un sorriso divertito: più di sessant’anni e pareva un bambino impaziente. Gli occhi spalancati, il busto proteso in avanti. Fosse stato per lui, avrebbe chiesto di salire ancora un po’ o di cercare un punto d’osservazione migliore. Faticava ad associare tutti quei capelli grigi all’entusiasmo di suo padre: pareva quello d’un ventenne.

«Ah! Guarda, guarda! Che fontane! Non è bellissima?» disse con un largo sorriso, mentre indicava verso il Cratere di Sud-Est.

L’uomo rimase con le mani a coppa sotto al mento e quel sorriso felice per qualche minuto, prima di rilassarsi contro lo schienale della seggiola. Bevve dalla bottiglietta, in quella mattina dal cielo troppo terso per essere fine febbraio, e prese un lungo respiro.

«Se può consolarti, anche io non sono mai stato un granché con i discorsi accademici, e ne ho dovuti fare a decine, chiedilo a tua madre: le serate che ha dovuto trascorrere con me che andavo avanti e indietro declamando il solito ‘esimi colleghi’ di certo non le ha scordate. Ti assicuro: li facevo iniziare tutti così. E invece… guarda,» di nuovo il braccio proteso verso il vulcano e quell’eruzione affascinante, colorata di rosso e grigio, «di questo io non mi stancherei mai di parlare. Troverei tutte le parole del mondo, me le inventerei addirittura. Quanta poesia c’è in una matassa di cenere e fuoco?»

Hiro girò il viso alla montagna. Era bella davvero, ammantata di nero come indossasse un mantello, mentre sulla sommità si levava un pennacchio: piuma d’un cappello immaginario.

«Mi sarebbe sempre piaciuto trovarci insieme a guardare un’eruzione come stiamo facendo adesso. Solo che nella mia idea parlavano, sai, di tutto l’aspetto scientifico che c’è dietro. Che so: la balistica dei proietti, il principio fisico di quella fontana di lava, il chimismo.» Suo padre prese una scorietta tra quelle che avevano attorno e la rigirò tra indice e pollice. «…le vescicole dentro questo lapillo.» Lo lanciò in avanti, rituffandolo tra gli altri e già non più distinguibile. «Poi però hai scelto le tempeste e così…»

«Se vuoi, possiamo parlare di come influiranno le correnti sulla deposizione dei materiali da caduta,» ammiccò: un sorrisetto appena accennato e provocatore all’angolo della bocca.

Poi fu solo il sobbollire delle fontane, come una litania a qualche Madonna, a riempire il silenzio pacifico che calò tra di loro.

«Ci sono rimasto male,» confessò suo padre, d’un tratto, «che tu abbia scelto Meteorologia, alla fine.»

«Io lo volevo fare il vulcanologo, ma…»

«Sì, lo so. È colpa mia. Sono troppo figo per te.» Suo padre lo disse con una serietà tale, che pareva ci credesse davvero. Poi girò piano la testa verso di lui e gonfiò le guance in una risata spernacchiata che gli fece alzare gli occhi al cielo. «E dire che quando ero ragazzino, sarei stato proprio l’ultimo da considerare un rivale.»

«Parli del calcio?»

Suo padre annuì, lui strinse il mento tra indice e pollice.

«Sai che, ora che ci penso, a casa dovrei avere ancora quel pallone che mi regalasti quando avevo… non so, tre o forse quattro anni?»

«Davvero?»

«Serio.»

«All’inizio ti ci dedicavi tanto. Per questo pensavo che saresti diventato vulcanologo come me: anche io avevo cominciato col calcio e poi avevo cambiato strada. Pensavo avresti fatto lo stesso.» Gli pungolò il piede con la punta dello scarpone da trekking. «Col pallone non eri male.»

«Vedi? Talento di famiglia e comunque, in quello, ero più bravo di te,» disse Hirotaka allargando le braccia e portandole alla sommità della seggiola. Sollevò le sopracciglia più volte.

«Nei tuoi sogni, figlio. Non puoi dirti migliore di me senza prima aver preso una pallonata in faccia da Kojiro Hyuga e poterlo raccontare.»

«Graziaddio.»

Hiro tirò l’ultima boccata alla cicca e poi la spense nel bicchierino di plastica che aveva con sé, resto dell’ultimo caffè bevuto.

«Mi dispiace se ti ho limitato o castrato nelle tue scelte. Non volevo.»

«Figurati, pa’, ormai un nome me lo sono fatto anche io.»

«Morisaki l’acchiappa-tempeste; non era così che avevano scritto in un articolo del National Geographic

«Rock’n’Roll, vecchio,» si crogiolò, le braccia incrociate al petto e le mani che mimavano le corna.

«Questo vecchio può darti ancora due o tre piste, bada a come parli.»

«O’ guagliù! Guardate che hanno portato i ragazzi dell’INGV di Catania!»

Francisco Pablo arrivò di corsa, col suo giapponese inframmezzato di dialetto napoletano. Hiro avrebbe voluto dire di ‘esserselo voluto portare’, ma la realtà era che Pablito si era autoinvitato a tutti i costi, perché voleva tornare un po’ in Italia, anche se non sarebbero andati a Napoli.

Tra le mani, stringeva una palla arancione con le strisce nere.

«Un pallone?» fece eco, senza troppa sorpresa. Non aveva visto tanti fissati di calcio come in Italia.

In Giappone, okay, i vecchi amici di suo padre erano calciatori, ma poi la cosa passava abbastanza in sordina. Lì, invece… erano dei maniaci.

«Non è un pallone! È un Super Santos!» esclamò Pablo, con un sorriso che andava da un orecchio all’altro, ma quando entrambi lo guardarono come avesse parlato arabo, sgranò gli occhi già grandi fino a farli diventare enormi. «Non sapete cos’è un Super Santos? Ma addò campati, int’’o Giappone?» Pablo sollevò la sfera con entrambe le mani come fosse una reliquia sacra. «Questo è il Re di tutti i palloni usa e getta delle mie estati napoletane passate dai nonni. Sapeste quanti ne aggio persi e accattati. Prof, a te che sei l’esperto.»

«Una volta,» rise Yuzo. Si alzò e lo prese dalle mani di Pablo, inarcando un sopracciglio. «Ehi! Ma è leggerissimo!»

«Sì! Va a capocchia che è na’ bellezza! Venite a fare due tiri? Dopo facciamo un bello spuntino di metà mattinata con caffè e arancini! Maronna, l’Italia quant’è bella!» esultò il ragazzo con le braccia alzate, poi corse via per tornare da quelli del gruppo di ricerca dell’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia che si erano resi disponibili per un affiancamento al gruppo del VRC di Tokyo.

«Pablito è gasato.» Yuzo scosse il capo. Abbassò lo sguardo sulla sfera che ancora passava da una mano all’altra.

Anche se quello che aveva ricevuto lui in regalo da bambino era stato molto più serio e professionale, Hirotaka sapeva che ‘il pallone’ era quel simbolo che legava i suoi giorni felici a quelli vissuti da suo padre, in gioventù.

I giorni in cui non c’erano pensieri, dove potevi diventare chiunque senza dover scegliere su due piedi, dove non c’erano lahar che ti strappavano gli affetti né eruzioni che distruggevano la tua città, o tifoni che ti mettevano davanti alle verità scomode e rimandate.

I giorni felici che, mentre lui li viveva per la prima volta, avevano visto suo padre assaggiarne di nuovo il sapore attraverso la sua bocca di bambino che rideva, correva dietro alla palla e non sapeva cosa fossero i complessi d’inferiorità.

Adesso i giorni felici avevano un sapore del tutto diverso, a volte amaro, a volte dolce. Sempre unico.

La cosa bella, però, era che adesso potevano viverli alla pari.

«Zia Rita lo aveva detto.» Con abile mossa e un colpetto dal basso, Hirotaka rubò il pallone dalle mani di suo padre. «Allora? Me contro te?»

«Addirittura?» lo squadrò l’altro.

Lui tenne stretta la sfera sotto al braccio, affilando gli occhi.

«Ti straccio.»

«Oh. Questo è tutto da vedere, pisellino.» Un lampo di sfida attraversò gli occhi nocciola e sempre pacati di suo padre. Un lampo di rivalsa, di giovinezza che voleva e sapeva ancora ruggire, un’eco di quei giorni felici lasciati indietro, ma non abbastanza. «Anche se non dovrei… Il medico ha detto di andarci piano con gli sforzi.»

«E te lo ricordi mentre siamo sotto l’Etna a guardare un’eruzione?»

L’uomo guardò prima il vulcano e poi lui con una leggera smorfia sulle labbra. «Touché. Non diciamolo alla mamma, però, eh.»

Fu il turno di Yuzo di rubargli la palla, dando un pugno ben assestato al centro della sfera. Il Super Santos volò lontano, andando davvero ‘a capocchia’ come aveva detto Pablito.

Suo padre rise, gli andò dietro senza troppa fretta e poi gli fece cenno di raggiungerlo.

Ancora un ragazzino, dopotutto. Sì, ancora un po’.

Rise anche lui.

«No. Non glielo diciamo.»

 

“Esimi colleghi, l’idea di questo discorso avrebbe dovuto essere ‘bravo, papà, e cento di queste targhe’, ma mi è stato fatto presente che non sarebbe stato un granché. Di certo non parlerò per un’ora, quindi mettete via i cuscini e non anestetizzatevi con lo champagne.

Non c’è bisogno che io vi ricordi quello che Yuzo Morisaki ha materialmente fatto per questo paese, e se ce ne fosse bisogno, abbiamo tutti Google sul cellulare.

Vi dirò, invece, quello che ha fatto per me e per molti di voi che sono presenti in questa sala, oggi: la possibilità di aver vissuto e di poter vivere ancora molti giorni felici assieme alle persone che amiamo. Non è da tutti regalare un futuro, ma se siamo qui a parlarne, vuol dire che c’è riuscito. Noi l’abbiamo ricevuto.

Sono certo che molti altri potranno godere di questo privilegio, ora che è il nuovo Direttore Generale della Japan Meteorological Agency; molti saranno protetti come siamo stati noi fino a questo momento.

Certo, mi toccherà chiamarlo ‘Capo’ e non sarà uno spasso, ma forse per la prima volta riuscirà a farmi fare qualcosa come dice lui.

Quindi, papà, hai una nuova targa da mettere in mostra in ufficio, ma vorrei che questa sia la sera in cui, per una volta, siamo noi quelli che regalano un giorno felice a te.

Buon compleanno.”

 

Discorso di Hirotaka Morisaki,

12/03/2039

 

Mi ha insegnato a guardare, combattere e pregare.

(combattere e pregare!)

E si rallegrerà ogni giorno

(ogni giorno!)

Oh, giorno felice!

 

Oh Happy Day – Edwin Hawking Singers

(Sisters Act 2 – cover)

 

 

 

 


 

 

Note finali: …auguri Yucchan. Lo so che in questa storia non sei affatto un ragazzino, fuori, ma dentro certo che lo sei. Dentro lo sarai sempre <3

Devo essere in quella fase della vita in cui mi sento più a mio agio a scrivere di persone adulte che di ragazzini, ma spero che abbiate apprezzato questa storia.

Chissà perché, ma io immagino il discorso di Hirotaka mentre scorrono le immagini di lui e suo padre che giocherellano a pallone, assieme agli altri ragazzi dell’INGV e, sullo sfondo, l’Etna li grazia con la sua magnificenza cosmica.

Anyway, auguri a te, che nelle mie storie sei stato di volta in volta: padre, figlio, amico, amante, compagno e marito.

Auguri, Yuzo. ♥

 

 

 

   
 
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