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Autore: Adeia Di Elferas    13/03/2021    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Chiedendo al Medici di accomodarsi dove preferiva, Caterina accese qualche candela, in modo da rischiarare a sufficienza la biblioteca e poi si sedette su una delle poltroncine, proprio dinnanzi a Lorenzo.

L'uomo la guardava di sfuggita, teso, con un'espressione cupa che lasciava intendere quanto fosse contrariato nel vederla, tutto sommato, in forze. Il Popolano doveva ammettere con se stesso di non ricordarla troppo bene, dato che le uniche due volte in cui l'aveva vista era stato accecato dalla rabbia e dal rancore. Però gli sembrava che prima la Sforza fosse più in carne, e che i suoi capelli, per quanto già quasi del tutto bianchi, conservassero ancora qualche riflesso biondo. Ormai, invece, benché avesse la sua stessa età, aveva la stessa canizie di una donna molto più vecchia.

“Avevate urgenza di parlarmi, non è vero? Abbastanza, almeno, da arrivare in questa casa a quest'ora di sera...” disse la Leonessa, osservando con molta attenzione il cognato.

Le ricordava molto poco Giovanni, aveva un'altra forma del viso, il naso completamente diverso, e due occhi tondi e spenti che nulla avevano a che fare con quelli allungati e chiari del suo terzo marito. Eppure c'era qualcosa di impalpabile che glielo ricordava.

“Sono arrivato qui a quest'ora – cominciò a dire l'uomo, schiarendosi la voce e stringendosi una mano nell'altra in grembo – solo perché ho saputo solo ora del vostro arrivo e ci tenevo a porgervi i miei saluti.”

Era evidente quanto il Medici fosse in difficoltà, eppure la Tigre non sentiva nessun bisogno di agevolarlo mettendolo a proprio agio.

Stava per ribattere in modo pungente quando, per caso, il suo sguardo si posò sulle dita di lui. Se Giovanni aveva avuto mani bellissime, affusolate ed eleganti, Lorenzo le aveva tozze e sgraziate. A Caterina mancò comunque un battito del cuore, quando si rese conto di quanto fossero simili a quelle di suo figlio Giovannino.

Così, ricacciando in gola l'ondata acida con cui aveva pensato inizialmente di travolgere il cognato, disse solo: “Siete stato gentile.” poi, come a non voler mostrarsi troppo morbida, soggiunse: “E ora che avete visto che sono qui e che sto bene, non intendo trattenervi oltre...”

Il Popolano, nel sentirsi dire quelle parole, ebbe un moto di impazienza: “Se sono qui, non è solo per accertarmi della vostra salute!”

La Sforza si sistemò meglio sulla poltrone e chiese: “E perché, allora? Per chiedermi come sono le celle di Castel Sant'Angelo? Per chiedermi come sia stato veder radere al suolo la rocca che era stata la mia vita per anni? Per chiedermi quante volte il figlio del papa mi ha usato violenza? Per chiedermi com'è stato stare male in cella e aspettare di crepare di freddo e fame o di polmonite? O forse siete qui per chiedermi di rinunciare all'eredità che spetta a mio figlio?”

Il Medici cominciò a scuotere il capo e poi, alzandosi, sbottò: “Siete una donna impossibile!”

La milanese non disse nulla, limitandosi a guardare il suo interlocutore camminare nervosamente davanti a lei. Si lisciò più volte l'abito sulle cosce e rimase in attesa.

Gli occhi bovini di Lorenzo corsero alle mani di lei e, senza riuscire a trattenersi, esclamò: “E sì che dicevano tutti che voi curaste molto la vostra persona... Quelle sembrano mani da sarta, non da signora.”

“Se vi è sfuggito – ribatté seria lei – sono stata in prigione per oltre un anno, non ho avuto molto modo di badare al mio aspetto... Avreste, anzi, dovuto vedere che unghie lunghe avevo, quando mi hanno liberata...”

Il fiorentino sembrava contraddetto dal tono della donna, e, allo stesso tempo, ne seguiva i gesti come se fossero ipnotici.

Mentre mostrava le mani, a sottolineare quanto appena detto, Caterina concluse: “Certo, le unghie lunghe non erano nulla in confronto al sudiciume che mi si era incollato addosso...”

Il Medici fece una smorfia, sbattendo un paio di volte le palpebre. In tutta onestà, la Tigre non sapeva dire se quello dell'uomo fosse un disgusto rivolto più a ciò che lei stava descrivendo, o al fatto stesso che lei ne parlasse. In quel preciso istante si rese conto che Lorenzo, per lei, era davvero solo uno sconosciuto. Anche se si erano scontrati spesso a distanza, e anche se Giovanni le aveva parlato più volte di lui, per la Sforza il fiorentino non era assolutamente nulla. Era solo, anzi, un sasso spigoloso che andava a mettersi sotto le sue ruote proprio quando il carro sembrava essersi messo sulla strada buona.

“Perdonatemi, se vi parlo di certe cose – disse la Leonessa – non credevo foste così delicato.”

Il Popolano parve risentirsi, per quel commento, tanto che, gonfiando un po' il petto, prese la parola come se l'altra non avesse detto nulla fino a quel momento: “Dovete venire nel mio palazzo, come mia ospite.”

“No.” la risposta scivolò fuori dalle labbra di Caterina prima che lei potesse ragionarci.

Il volto del Medici dapprima perse colore e poi assunse una spiacevole tonalità porpora che sembrava estendersi perfino alle sclere degli occhi: “Come sarebbe a dire no?” chiese lui, riuscendo a stento a trattenere la voce.

“Io vengo da Milano, ma credo che 'no' abbia lo stesso significato nel Ducato, come qui in questa Repubblica.” ribatté la donna, senza scomporsi, ma sentendo il cuore battere più veloce.

Si sentiva stanca, più di quanto non fosse mai stata. La giornata che aveva trascorso le pareva infinita e ora, a sera tarda, essere impegnata in una conversazione tanto importante e pericolosa la stava annientando. Voleva solo che il cognato se ne andasse il prima possibile e senza aver fatto danni.

“Perché?” chiese Lorenzo, avvicinandosi a lei con fare minaccioso: “Io vi offro la mia mano, e voi la rifiutate così?!”

“Non voglio darvi incomodi.” fece la Sforza, con un filo di voce.

Ancora una volta, come le era successo con il Valentino e come, anni e anni prima, le era capitato con il suo primo marito, Girolamo Riario, si sentiva piccola, indifesa. Avrebbe voluto scappare e sottrarsi a quel confronto, ma sapeva di non poterlo fare.

Il Popolano se ne stava ritto davanti a lei, quasi pronto a fermarla fisicamente, se ce ne fosse stato il bisogno. Forse non sarebbe riuscito a farle del male, ma Caterina si sentiva comunque come una preda braccata.

Anche se all'inizio del loro incontro era riuscita a prevalere su di lui senza problemi, ormai sentiva i suoi fantasmi indebolirla, farle tremare le gambe e seccare la gola. Non voleva più sentirsi così, avrebbe pianto di rabbia, per il disappunto che provava nei confronti di se stessa, ma non sapeva come vincersi.

“Incomodi!” sbraitò a quel punto Lorenzo, perdendo una volta per tutte le staffe: “Siete stata vicina alla morte, eppure non avete perso il vizio di essere un'ipocrita e una spergiura!”

“Questo, di me, non potete dirlo!” notare la paura che sottendeva allo scatto d'ira dell'uomo ridiede vigore alla Tigre: “Siete voi a essere un ipocrita e uno spergiuro! Voi avete cercato di sfruttare la mia prigionia per prendervi i soldi di mio figlio!”

“Quei soldi sono di mio fratello!” il Medici sentiva la gola raspare a ogni parola, ma non aveva alcuna intenzione di abbassare i toni, anzi: “Voi avete i francesi, che vi reggono il gioco, avete perfino il papa, che se la fa addosso, per la paura che gli ha messo in corpo quel fanfarone del re di Francia! E volete farmi credere di aver paura di accettare la mia mano tesa?! Se vi faccio quest'offerta è solo perché mi servite!”

“Vi servo per ingraziarvi re Luigi e per rimettere il riga il papa, vero?” la Leonessa aveva abbassato la voce, e aveva socchiuso gli occhi, convinta di aver fatto centro: “Sarebbe un gran peccato, se sapessero cosa ne pensate davvero di loro... Un fanfarone e un codardo, è questo, il riassunto delle vostre dichiarazioni, o sbaglio?”

“Fate attenzione...” cominciò a dire l'uomo, seccato.

“O in realtà mi volete in casa vostra solo per attirare lì anche mio figlio Giovannino?” lo incalzò la Leonessa: “E, magari, dopo qualche mese mi farete un bel funerale, dicendo che la prigionia mi aveva provata troppo e che non avevo più molto da vivere... E magari dopo poco anche mio figlio morirà per qualche misteriosa malattia e voi, da amorevole zio, vi farete carico della sua eredità, per il bene della famiglia...”

“State attenta a quello che dite – la zittì l'uomo, puntandole contro il tozzo indice – io sono un fiorentino, e sono un Medici.”

“Anche io sono una fiorentina. E sono una Medici.” gli ricordò Caterina: “È stata questa Repubblica, di cui voi sembrate tanto fiero, ad avermi concesso la cittadinanza, ed è stato Giovanni a darmi il vostro cognome.”

Con le orecchie che fischiavano e la vista che vacillava, l'uomo, assecondando un impeto furente, sollevò una mano, pronto a colpire la Tigre.

Questa, per quanto stanca, ebbe i riflessi abbastanza pronti per sottrarsi e mettere tra loro la poltroncina imbottita: “E poi volete farmi credere che in casa vostra sarei al sicuro...” commentò, combattendo strenuamente con la nausea che cresceva e che rischiava di farle dar di stomaco.

Il Popolano abbasso le mani, lasciando le braccia molli lungo i fianchi. Fissò la Sforza con lo sguardo vuoto, come spento. Sollevò un paio di volte le sopracciglia e poi, dopo essersi schiarito la gola, scosse da solo il capo.

“I francesi vi fanno da scorta, so che anche loro sono entrati in Firenze.” disse Lorenzo, atono: “E so anche che il papa ha mille occhi e vuole vedere cosa farà Firenze per voi. Venite in casa mia e sarete al sicuro. Fatemi questo favore, lasciate che io possa mostrare al re, al papa e a Firenze che tra noi non ci sono più dissidi, e nessuno alzerà mai un dito su di voi.”

“No.” ribadì Caterina.

Il Medici sporse in fuori le labbra e poi, raddrizzando le spalle, concluse: “Pensateci. Non vi conviene, avermi come nemico.”

“Questo non saprei...” sbuffò la Tigre, senza riuscire a trattenersi, mentre l'altro raggiungeva la porta: “Mio marito Giovanni era convinto di avervi come amico, eppure non ne è uscito meglio di me...”

Lorenzo si fermò un solo istante. Poi parve ripensarci. Senza voltarsi, e senza fare cenni di saluto, lasciò la biblioteca. La Sforza lo sentì chiedere a un servo di essere accompagnato fuori e poi, dopo qualche passo, non si udì più nulla.

Con lo stomaco squassato dalla tensione provata e il corpo sfatto dalla fatica, Caterina si lasciò cadere su una delle poltrone e sciogliendosi in un pianto di nervosismo e stanchezza, attese di essere di nuovo in sé, prima di tornare dai suoi figli.

 

“Non lo so che cosa volesse.” ripeté una volta di più Alessandra Scali a Fortunati che, apprensivo, le chiedeva come mai Lorenzo Medici si fosse presentato lì, per di più a un'ora così tarda.

“Di certo non voleva nulla di buono...” commentò frate Lauro, con un mezzo sorriso: “I parenti o chiedono soldi o favori...”

“Se il Popolano chiede dei soldi a Caterina, casca male...” ribatté acido Francesco.

Mentre i due uomini stavano per mettersi a battibeccare, la Sforza ricomparve nel salone e, guardando prima i figli e poi gli altri, dichiarò: “Va tutto bene. Mio cognato mi ha offerto una stanza in casa sua, ma ho dovuto rifiutare.”

Nessuno, nemmeno la Scali, che pur aveva espresso il desiderio di vedere gli ospiti andarsene il prima possibile, le diede torto. Anzi, vedendo che, bene o male, la donna non sembrava troppo provato, ciascuno si comportò come se non fosse successo assolutamente nulla.

“Mi spiace per prima...” disse piano Caterina, avvinandosi a Bianca: “Non ti ho nemmeno detto quanto sei stata brava, con la ballata...”

La giovane arrossì appena e poi, abbassando lo sguardo, sussurrò: “Mi ha sempre fatto piacere, cantare per te.”

La Tigre, assecondando un moto spontaneo, allungò una mano verso di lei e, dopo averle dato una carezza sulla guancia, sorrise, un po' triste: “Mi ricordo quando lo facevi, da piccola. Piaceva molto anche a me. L'apprezzavo davvero.”

La Riario sembrava più che inorgoglita da quella dichiarazione e, con le labbra che si incurvavano soddisfatte, recuperò il piccolo Giovannino, che le stava correndo accanto, e lo prese in braccio: “Se non hai nulla in contrario – disse alla madre – lo porterei a dormire. È stato sveglio più del solito...”

“Va bene.” annuì, un po' a malincuore, la Leonessa: “Nei prossimi giorni avremo modo di parlare anche di lui...”

Giovannino, scrutando la donna con intensità, allungò una manina dalle dita tozze – così simili a quelle dello zio – e attese che la madre la prendesse nella sua per qualche istante.

Caterina lo fece e gli diede anche un breve bacio sul palmo, per poi dirgli: “Dormi bene, mi raccomando.”

Il bambino, forse ancora un po' intimidito da lei, non disse nulla, guardando a turno la Sforza e Bianca, che si sentì in dovere di dire: “Non vuole ancora dormire da solo... Se lo lasciamo solo al buio, di notte, comincia a piangere e a far capricci e bisogna che qualcuno si corichi assieme a lui.”

La milanese ci pensò un momento e poi disse: “Se dovesse far così anche stanotte, portalo nella mia stanza. Tanto a breve ho intenzione di ritirarmi.”

La ragazza ne parve molto felice e le assicurò che avrebbe fatto così, se fosse stato necessario.

Caterina vide che la Scali e Fortunati la stavano osservando, probabilmente in attesa di chiederle come fosse andato realmente l'incontro con il Popolano. Dato che Bernardino non c'era, e che Cesare stava discutendo di qualcosa con Ottaviano a bassa voce, mentre Sforzino e Galeazzo erano intenti a parlare con frate Lauro, la donna si decise ad avvicinarsi ad Alessandra e Francesco.

“Dove pensate sia Bernardino?” chiese, giusto per rompere il silenzio.

La Scali scosse il capo, commentando: “Non lo so, probabilmente è andato in camera sua o è uscito...”

“Dubito che Carlo sia uscito anche stasera – la interruppe il piovano, lanciandole un'occhiata quasi ammonitoria – adesso che Madonna Sforza è di nuovo con noi, immagino che suo figlio non abbia in mente di andare in giro per Firenze anche stanotte...”

La Leonessa deglutì, ripromettendosi di sincerarsi personalmente su dove fosse Bernardino, e poi riprese, rivolgendosi alla padrona di casa: “Mio cognato mi ha offerto di andare a casa sua, ma, come penso capiate, non posso farlo.”

“Sarei la prima a dirvi di non fidarvi.” convenne l'altra.

“Il punto è che intendo andarmene da qui in fretta – spiegò la Tigre, guardando anche Fortunati, sperando che, magari, lui avesse qualche consiglio utile – ma per farlo, intendo andare poi in una casa mia, non certo da altri, creandomi altri creditori. Non potete nemmeno immaginare a quanta gente sia debitrice...”

“La Villa di Castello – si permise allora di dire Francesco – sarebbe di Giovannino, dato che era nell'asse ereditario di suo padre...”

Caterina ricordava vagamente i discorsi del suo secondo marito, su quella dimora. Sapeva, se non era cambiato nulla, che lì c'erano anche molti dei dipinti a cui Giovanni era stato legato da ragazzo.

Le sarebbe piaciuto, poter crescere lì il loro unico figlio. E, in effetti, sarebbe stata una buona sistemazione anche per tutti gli altri.

“Ma come il resto dell'eredità, immagino la si possa considerare bloccata e nelle mani di mio cognato.” obiettò la Sforza, che non voleva illudersi che fosse tutto così semplice.

“Un modo potrebbe esserci...” soppesò la Scali, puntando gli occhi scuri in quelli verdi della sua ospite: “Lorenzo vi ha offerto ospitalità, e l'ha fatto per due motivi: sia per sperare di avervi sotto al suo tetto e ottenere per vie traverse vostro figlio e la sua eredità, sia per mostrare a Firenze e ai francesi quanto sia felice della vostra liberazione.”

“E quindi?” la Leonessa si massaggiò la fronte, stanca e un po' confusa.

Anche se fino a quel momento era riuscita a reggere discretamente bene tutto, dalla tensione mentale alla fatica fatica, a quell'ora cominciava a vacillare. Avrebbe voluto poter dire a tutti che era esausta e che doveva ritirarsi per dormire, ma sapeva che quei discorsi erano importanti e andavano fatti subito.

“E quindi voi accettate, ma solo in parte.” Alessandra aveva abbassato ancora di più la voce: “Se Lorenzo potrà dire che voi siete a casa sua, avrà in parte quello che vuole. In cambio, però, dovrà concedervi di andare alla Villa.”

“Se la considera sua, ci saranno dei suoi servitori e delle sue spie, e per me sarà poco diverso che essere con lui in Via Larga.” fece notare la Tigre.

“Non se coinvolgiamo i francesi.” puntualizzò Fortunati, che cominciava a capire il ragionamento della Scali: “Loro sono i garanti ultimi della tua libertà. In più, non credo che intendano lasciarti completamente libera, almeno all'inizio.”

“A questo non avevo pensato...” ammise la Sforza, accigliandosi.

“Adesso ti vedo molto stanca...” Francesco sembrava davvero preoccupato per lei: “Forse dovremmo discuterne domani.”

La milanese cercò lo sguardo dell'uomo e poi quello di Alessandra e quando capì che entrambi concordavano con quella valutazione, annuì e disse: “Avete ragione. Io... Io vorrei poter fare di più, ma sono senza forze...”

Senza attendere oltre, la donna salutò a voce alta anche gli altri presenti, annunciando che stava per andare a coricarsi.

Era appena uscita dal salone, stava cercando di ricordarsi la strada esatta per arrivare alla stanza che le era stata concessa, quando sentì dei passi alle sue spalle. Dominata dallo spirito di autoconservazione che per anni l'aveva preservata da molti pericoli, si voltò di scatto, in posizione di difesa, e faticò a rilassarsi anche quando si accorse che ad averla seguita erano stati Cesare e Ottaviano.

Non poteva dire di aver paura di loro, tuttavia, alla luce tremula delle candele a muro e nel silenzio abbastanza totale del palazzo, i due giovani uomini le davano un senso di insicurezza di cui avrebbe volentieri fatto a meno.

“Madre, c'è una cosa di cui dobbiamo parlare.” cominciò a dire Cesare, serio.

“Lo faremo domani. Stasera sono troppo stanca.” ribatté la donna, accennando un passo.

“Non abbiamo praticamente un soldo – la frenò Ottaviano – se non quelli che potremmo ottenere vendendo i vostri gioielli.”

La Tigre cominciò in parte a subodorare dove volessero andare a parare, eppure ciò che il suo secondogenito disse di lì a poco, la sorprese.

“Abbiamo preso contatti con il Cardinale Giovanni Medici, in queste settimane – disse il giovane, inclinando la testa dalla tonsura ben marcata – sia per aiutare nelle trattative per la vostra liberazione, sia per nostra sorella Bianca.”

“Che c'entra Bianca, adesso?” il tono della Sforza era più acuto di quanto lei non avrebbe voluto.

“Bianca non ha più un'età da restare in casa senza marito...” iniziò a dire Ottaviano: “Potrebbe essere la madre di Giovannino, per età...”

“Vostra sorella Bianca – ricordò loro la donna, sollevando una mano, ammonitrice – ha purtroppo già un marito, e si trova in cella. E poi che cosa...”

“Potremmo far pressioni al Cardinale Medici per far sciogliere il suo matrimonio e trovarle un uomo marito che la mantenga, in questo non...” riprese il Riario maggiore, quasi mangiandosi le parole.

“In questo modo non rischia di finire a pesare sulle tue finanze?” lo anticipò la madre: “A Bianca penserò io. E se sei così stupido da pensare che il papa accetterebbe di liberarla dal matrimonio con Astorre solo per fare un piacere a te, allora significa che hai ventidue anni, ma non hai ancora capito nulla del mondo.”

Ottaviano prese subito colore, ma tacque. La sua espressione era la stessa che faceva da piccolo, quando qualcosa non andava secondo i suoi piani.

Cesare, invece, non aveva perso la calma, anzi, propose: “Lasciateci fare un tentativo, potrebbe essere una buona cosa per...”

“Il papa, i Cardinali, i Vescovi... Roma intera deve dimenticarsi che voi tutti esistete, Bianca per prima.” decretò Caterina, senza ammettere repliche: “Cesare, mi auguro che tu riparta presto per Pisa. Quanto a te – concluse, rivolgendosi a Ottaviano – meno fai, meno sbagli, ricordati solo questo. Se verrò a sapere che questa questione di Bianca è andata avanti, saprò come regolarmi, sappiatelo.”

Con il cuore che batteva forte, quasi dolorosamente, la donna voltò loro le spalle. Malgrado la gioia iniziale provata nel riabbracciare anche i due figli più grandi, la donna ormai provava solo una profondissima amarezza nei loro confronti.

Così come si erano dimostrati del tutto inadeguati quando ancora vivevano a Forlì e quando lei era prigioniera a Roma, così ora si confermavano due inetti capaci solo di metterle delle pietre sul cammino, invece di aiutarla a levarle.

Trattenendo a stento le lacrime, la donna arrivò in prossimità della sua camera. Si accorse solo in un secondo momento che lì accanto c'era Bernardino e che teneva per mano il fratello più piccolo.

I due la fissavano in silenzio, così lei, appropinquandosi, chiese, retoricamente: “Mi aspettavate?”

Senza dire nulla, Bernardino la strinse a sé con forza, come aveva fatto nel momento in cui si erano visti. Giovannino, troppo piccolo per competere con il fratello in quello scambio affettuoso, si aggrappò alle vesti della madre, attendendo che la donna si allontanasse dall'altro e prendesse in braccio lui.

“Bianca mi ha detto che avevate chiesto di portarlo qui, se avesse avuto problemi ad addormentarsi...” spiegò il Feo, indicando il piccolo Medici.

“Sì, sì...” confermò lei: “Lo terrò a dormire con me, stanotte...”

“Posso?” chiese il piccolo, guardandola con gli occhietti color pece sgranati.

“Sì.” confermò lei: “Certo. Siamo stati lontani così tanto...”

“Posso fermarmi qui con voi anche io?” la richiesta era uscita dalle labbra di Bernardino prima che il ragazzino potesse frenarla.

Aveva quasi undici anni, ma in quel momento alla madre sembrava molto più piccolo. Posandogli una mano sulla spalla, gli disse che poteva fermarsi anche lui.

“Ti ho tenuto a distanza anche troppo, quando avrei potuto tenerti vicino a me.” gli disse la donna, mentre apriva la porta della camera e lasciava che Giovannino corresse da solo sul letto, felice come non mai di poter dormire tutta notte assieme al fratello e a sua madre, che, pur fumosa nei suoi ricordi, era tornata a essere, nell'arco di poche ore, un punto cardine della sua vita.

   
 
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