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Autore: IndianaJones25    16/03/2021    2 recensioni
È una luminosa e calda giornata estiva di fine Ottocento quando, in una casa di Princeton, nel New Jersey, nasce l’unico figlio del professor Henry Jones Sr. e di sua moglie Anna.
Nel corso dei venticinque anni successivi, il giovane Junior vivrà esperienze indimenticabili e incontrerà persone straordinarie, in un viaggio di formazione che, tappa dopo tappa, lo porterà a diventare Indiana Jones, l’uomo con frusta e cappello, il più celebre archeologo del mondo…
Genere: Avventura, Generale, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Abner Ravenwood, Henry Jones, Sr., Henry Walton Jones Jr., Marion Ravenwood, René Emile Belloq
Note: Missing Moments, Raccolta | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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XXI.
CHICAGO, ILLINOIS, APRILE 1920

   Indy era consapevole del fatto che suo padre ricevesse uno stipendio così alto da non sapere neppure che cosa farsene, dei soldi che guadagnava; inoltre, da quello che gli era stato raccontato un giorno di tanti anni prima, suo nonno, l’ammiraglio britannico Walton Jones IV, morto prima che lui nascesse, aveva lasciato una sostanziosa eredità, con un codicillo che vincolava Henry a suddividerne un quarto tra i suoi eventuali figli, una volta divenuti maggiorenni. E, siccome lui era figlio unico, quel quarto gli sarebbe spettato di diritto e per intero di lì a pochi mesi.
   Ma non aveva nessuna intenzione di domandare niente a suo padre; non voleva in nessun modo che si dicesse che ce l’aveva fatta grazie all’appoggio di quel vecchio ipocrita. Anche perché, lo immaginava fin troppo bene, Henry avrebbe colto al volo quell’opportunità per schernirlo e denigrarlo. Le lettere che gli spediva quasi quotidianamente - nelle quali alternava implorazioni accorate, previsioni nefaste di un cupo futuro senza speranze e vere e proprie minacce - per indurlo a tornare sui suoi passi e intraprendere la strada della linguistica, la dicevano molto lunga sul fatto che non avesse ancora digerito la sua scelta.
   Così, senza stare a pensarci troppo, aveva preso la decisione di lavorare per pagarsi gli studi. Dopo alcune ricerche, era riuscito a farsi assumere nel ristorante di Jim Colosimo, un bonario emigrante italiano che, mentre lui lavava i piatti, lo intratteneva con le sue allegre e buffe storielle. E in quel locale, Indy aveva scoperto una passione che, fino a quel momento, non aveva mai conosciuto: quella per la musica.
   Ogni sera, nel ristorante si esibivano musicisti jazz tra i più gettonati di quei giorni ruggenti. Quelle sinfonie scatenate trascinavano in allegria verso un mondo nuovo, che si era finalmente lasciato alle spalle gli orrori che avevano dominato gli anni precedenti e che, così si sperava, non sarebbero tornati mai più.
   Tra tutti i musicisti che si susseguivano di volta in volta nel locale di Colosimo, quelli che il ragazzo preferiva ascoltare erano senz’altro Sidney Bechet e la sua orchestra. Si perdeva spesso tra le note sferzanti del sax e tra le vibranti sonorità del pianoforte, accompagnate dal rullare ritmico della batteria e del contrabbasso e dal graffiare delle chitarre, al punto da dimenticarsi di essere lì per lavorare e non per assistere agli spettacoli.
   Quella tensione, quell’alchimia che si creavano tra i suonatori, unendoli con un filo invisibile ma saldo, lo affascinavano. Gli sarebbe tanto piaciuto poter provare l’emozione di suonare, la sensazione di far parte di qualcosa di grande, che poteva funzionare solo in gruppo, seguendo ritmi e controtempi.
   Così, al culmine di una di quella scatenate notti, mentre uno dei musicisti beveva qualcosa al bar, Indy si era fatto coraggio e, preso tra le mani il suo sassofono rimasto appoggiato sopra una sedia, lo aveva studiato con attenzione e aveva provato a soffiarci dentro.
   Dapprima incerto, poi sempre più sicuro, Indy aveva iniziato a suonare. Non conosceva le note, ma era riuscito ugualmente a indovinarne alcune a orecchio, traendo un allegro motivetto dall’ottone dorato e ricurvo. Bechet e i suoi ragazzi si erano dati di gomito, guardandolo; alla fine, si erano uniti a lui, accompagnandolo con i loro strumenti.
   «Tu hai la musica nel sangue, ragazzo!» aveva commentato Sidney, entusiasta, prima di cominciare a soffiare con immensa bravura nel suo sassofono soprano. Indy, pur con le sue mille incertezze, gli era andato dietro, perdendosi in un mare di crome e di semicrome.
   E tutti insieme avevano continuato a suonare, riempiendo di note e di allegria la serata, e sarebbero andati avanti in quella maniera per tutta la notte, fino all’alba, se Colosimo non fosse venuto a reclamare a gran voce il suo lavapiatti, che aveva molto più da fare in cucina che non nel palchetto d’angolo.
   Da quella sera indimenticabile, però, Indy aveva scoperto di possedere un hobby di cui non aveva mai sospettato; e, quindi, aveva iniziato a risparmiare sullo stipendio, per potersi acquistare un suo sassofono e poter suonare ogni volta che ne avesse avuto voglia.

   Per il resto, la sua vita all’università procedeva tranquilla.
   Aveva stretto amicizia praticamente subito con René Belloq e, dopo qualche giorno, rotti gli indugi, si era avvicinato anche a quello che tutti consideravano il cocco di Ravenwood, ossia Harold Oxley. Harold era un inglese dal carattere mite, a tratti parecchio timido, un po’ più vecchio di loro, la cui più grande passione erano le civiltà precolombiane. E ciò che scoprirono molto presto fu che, più che il favorito del docente, era il suo personale valletto, a cui più che altro l’archeologo affidava l’incarico di badare a sua figlia Marion. Ma Oxley non si lamentava e, anzi, sembrava ben contento di occuparsi della piccola, che considerava quasi come una specie di sorellina.
   Grazie all’intercessione di Harold, Indy poté chiarirsi con Abner e mettere da parte i malumori che avevano caratterizzato il loro primo incontro. Anzi, molto presto, il professore cominciò a manifestare un vero interesse nei suoi confronti, dimostrando di tenere particolarmente alla sua vicinanza. In questo modo, il ragazzo poté conoscere sempre meglio quell’uomo intelligente e di grande acume che si celava sotto un aspetto da vecchio orso ferito e dietro modi burberi, sgarbati e sbrigativi.
   Spesso, infatti, quando Indy non era impegnato con altri corsi o sul suo posto di lavoro, lo chiamava nel suo studio e, fattolo accomodare, cominciava a porgli domande sempre più insistenti riguardo ai suoi interessi e, nel frattempo, a impartirgli delle vere e proprie lezioni private.
   «L’archeologia» gli disse una sera mentre, volgendogli le spalle, fumava la pipa guardando dalla finestra il panorama della città su cui iniziavano ad accendersi le prime luci, «non si fa nelle università, Jones; tantomeno nelle biblioteche. Qui si vengono ad apprendere le basi, i primi rudimenti, si fa un po’ di storia della materia, e soprattutto si inizia a separare i semi dalla pula… ma è là fuori che la si impara davvero. Sul campo. Un vero archeologo lo puoi incontrare soltanto là. Diffida di chi non si muove mai dal suo tavolino.»
   «E lei ha passato molti anni sul campo, professore?» domandò il ragazzo, osservando i numerosi reperti antichi allineati sugli scaffali che contornavano le pareti dell’ufficio.
   «Tutta la vita» precisò Ravenwood. «Praticamente, è là che mi sono fatto le ossa e che ho preso la laurea. Non ho imparato nulla, in aula, ma soltanto sul campo. E ci torno ancora, sempre, a ogni occasione possibile, e d’ora in avanti anche tu verrai con me, e così vedrai che cosa significhi davvero, la parola archeologia.»
   Quella prospettiva era intrigante. Indy sognava ogni notte il momento in cui, finalmente, avrebbe affrontato il suo primo scavo.
   «Non vedo l’ora» ammise.
   «Ma ci sono aspetti dell’esistenza che possono rendere più complicata la vita sul campo…» andò avanti a parlare Abner. «Ed è bene che tu lo sappia, per essere preparato.»
   Si voltò verso di lui e accennò a una fotografia color seppia in una cornice d’argento appoggiata sulla scrivania. Incuriosito, Indy la prese e la guardò. Mostrava un Abner più giovane, accanto a una bella donna di aspetto minuto, dai lunghi capelli neri e lucenti, che teneva tra le braccia un fagottino che il ragazzo immaginò fosse Marion appena nata.
   «Sua moglie?» tirò a indovinare.
   «Si chiamava Kathleen» rivelò Abner, con tono piatto, prendendo il ritratto dalle mani del suo studente e osservandolo con sguardo luccicante. «Era la mia dolce metà. Era parecchio più giovane di me, eppure ci amavamo sul serio. Lei mi capiva, comprendeva il perché di ciò che facevo. Poi, dieci anni fa, una malattia me l’ha portata via. E io mi sono ritrovato da solo con Marion ancora in fasce. Non è stato per niente facile e, per un momento, ho persino pensato di non farcela più. Mi sono trovato a dover scegliere tra mia figlia e l’archeologia… sono riuscito a trovare un equilibrio tra entrambe, ma non so quanto potrà durare. Non potrò trascinarmi sempre dietro quella piccoletta in ogni spedizione in giro per il mondo. Per fortuna che, adesso, ho trovato Harold, la sua vicinanza e il suo attaccamento a Marion mi stanno dando un grande aiuto e parecchio conforto. Oxley in futuro sarà un bravo docente, un grande studioso, ma non diventerà mai un uomo da campo. Lui è più per la teoria che per la pratica.» Un sospiro gli sfuggì dalle labbra. «Non voglio correre troppo, eppure… non ti nascondo che, un giorno, quando sarà il tempo adatto, non mi dispiacerebbe sapere Marion legata a lui…»
   Indy lo osservò in silenzio, domandandosi se Abner avrebbe desiderato che la figlia si unisse ad Harold Oxley per saperla felice o, più semplicemente, per togliersela di torno. In ogni caso, gli pareva che il professore si stesse spingendo un po’ troppo in là con le previsioni: Marion era una bambina, Cristo!
   Abner Ravenwood alzò la testa dalla fotografia e fissò con intensità il ragazzo.
   «Tu hai un potenziale immenso, Jones, e io intendo fare di te un grande archeologo. Il più grande. Ti ho scelto, non come semplice studente, bensì come allievo. Ma ricordati quello che ti dico adesso: questo tipo di vita non è per tutti. Avere una famiglia, in un campo come il nostro, può rivelarsi un grosso, grossissimo ostacolo. Essere un archeologo significa vivere all’addiaccio, passare moltissimo tempo lontano da casa, raggiungere luoghi molto lontani e selvaggi, dover affrontare pericoli di ogni sorta. Non certo qualcosa che sia facile, quando si deve badare a una figlia di undici anni. So che ti piacciono le donne, di tutte le forme e di tutte le età. In pochi mesi che sei qui, hai già una discreta fama di amatore, stando a quello che mi riferiscono i bene informati… ebbene, non ci trovo niente di sbagliato: divertiti, portatele a letto anche a gruppi, ma non impegnarti. Non impegnarti mai con una donna, perché quando lo farai la tua carriera giungerà al termine e potrai scordarti la vita avventurosa a cui io ti sto preparando.»
   Indy annuì, imprimendosi bene in mente quelle parole. Non aveva nessuna intenzione, comunque, di sposarsi o, soprattutto, di diventare padre; ogni volta che una simile nefasta idea gli attraversava la mente, pensava a Senior, e si diceva che non voleva correre in nessun modo il rischio di diventare come lui. Adesso, Ravenwood gli stava offrendo una scusante più che valida per perseverare in quella decisione.
   Non lo avrebbe deluso, mai. Abner lo aveva scelto come proprio allievo personale e lui avrebbe fatto qualsiasi cosa per dimostrargli che non si era affatto sbagliato, nell’accordargli la propria fiducia.

   Essere il pupillo del docente aveva però anche un rovescio della medaglia.
   Sebbene la loro amicizia si mantenesse intatta - specialmente quando si trattava di organizzare insieme dei piani di conquista per portarsi a letto qualche studentessa o, perché no, una matura insegnante - René non faceva niente per nascondere l’invidia che provava per il rapporto privilegiato tra Indy e Ravenwood che, invece, non si estendeva anche a lui.
   «Fa così solo perché io sono francese e prova diffidenza nei miei confronti» dichiarò una sera Belloq, guardando torvo gli amici. «È un vecchio razzista maledetto, pieno di vecchi pregiudizi.»
   Erano da Gino’s, una pizzeria che frequentavano ogni martedì, quando Indy aveva la serata libera. René rivolse l’occhiolino ad Audrey, la bella figlia del proprietario, che passò ancheggiando accanto al loro tavolo con dei piatti in bilico sul braccio, e proseguì: «Ma è chiaro che la sua sia soltanto paura. Ha capito con chi ha a che fare e teme di poter essere messo in ombra. Be’, sapete una cosa? Ha perfettamente ragione a temermi. Io non ho per niente bisogno di Ravenwood. Più lui mi metterà da parte e più io brillerò di luce mia, fino a farlo offuscare del tutto. Quel vecchio ipocrita ha fatto il suo tempo e deve rassegnarsi a essere messo in ombra da una nuova generazione di archeologi, molto più capace ed esperta di lui.»
   «Non credo proprio che Abner abbia diffidenza per te» tentò di rincuorarlo Indy, seguendo con lo sguardo il morbido didietro di Audrey mentre si piegava ad appoggiare le ordinazioni sul tavolo vicino. «Devi solo concedergli un po’ di tempo in più. È un brav’uomo.»
   Belloq fece una risatina sarcastica.
   «Senti chi parla» commentò, socchiudendo gli occhi. «Chi era che diceva di non volerlo mai più vedere in vita sua? E di già non è più nemmeno il professor Ravenwood; ormai è solo Abner, proprio come un vecchio amicone.»
   Harold, come sempre, assecondando la sua propensione alla tranquillità, cercò di fare da paciere e di riportare la tranquillità.
   «È vero che il professor Ravenwood ha un temperamento piuttosto complicato e che, spesso, bisogna riuscire a prenderlo per il verso giusto» disse. «Ma Henry ha ragione: è un brav’uomo. Sono sicuro che riconoscerà i tuoi meriti, René.»
   «Proprio tu parli» lo schernì il ragazzo. «Lui ti usa come balia a titolo gratuito e tu lo difendi pure!»
   «Questo poi non è assolutamente vero» arrossì Oxley, evitando accuratamente di guardarlo.
   «Be’, un po’ lo è» si intromise Indy, colpendogli il braccio con una gomitata e rivolgendogli un sorrisetto, mentre ripensava ai proponimenti matrimoniali che il professore covava in segreto. «Secondo me, sottosotto, Marylin ti piace pure.»
   «A parte il fatto che si chiama Marion, e non so proprio come tu faccia a dimenticarlo ogni volta, Henry» si schermì Harold. «In ogni caso, quella bambina è una stellina e io le voglio bene come a una sorella. Quindi è ovvio che mi piace, ma in una maniera che voi due, proprio, non potete capire.»
   «Uuhh, Harold ama Marion» ridacchiò René, subito imitato dall’amico.
   «A quando le nozze, Harold?» domandò Indy, sporgendosi verso di lui, il ghigno stampato sul viso. «Mi inviterete, non è vero? Voglio proprio esserci, al matrimonio della signorina Ravenwood… al posto giusto, però… lontanissimo dall’altare del sacrificio. Quello è tutto tuo…!»
   Oxley li guardò come se fossero impazziti ma poi, rendendosi conto che stavano scherzando, si unì alla risata.
   Indy si sentiva lieto, in totale pace, libero come mai era stato.
   Quei giorni erano fantastici, forse i migliori che avesse vissuto in vita sua, e sapeva che, anche se avesse vissuto cento anni, non se li sarebbe scordati mai, perché gli si stavano conficcando nel cuore in maniera indelebile. Anche se, di quando in quando, la guerra gli si presentava ancora davanti agli occhi sotto l’aspetto di incubi che lo strappavano al sonno in piena notte, sudato e affannato, ormai si sentiva benissimo. La parte più cupa della sua esistenza era sepolta dietro di lui. Ora poteva finalmente dirsi felice e sereno, insieme a grandi amici e con la possibilità di studiare ciò che amava. Dinnanzi a sé aveva mille prospettive, una migliore dell’altra, per quanto suo padre si ostinasse a sostenere il contrario nelle lettere che gli scriveva, e non vedeva l’ora di sperimentarle tutte.
   Alzò il boccale di birra e bevve un lungo sorso colmo di spensieratezza.
   
 
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