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Autore: DanieldervUniverse    18/03/2021    2 recensioni
[Ars Magica]
In Toscana, vicino alle foci dell'Arno, Mastro Virgilio sta raccogliendo ingredienti per incantesimi nel Reame Fatato quando intravede un uomo vestito interamente di rosso che sembra essersi ritrovato nella selva oscura e aver smarrito la diritta via...
Questa storia partecipa al contest per l'undicesimo anniversario del XIII ORDER Forum
Genere: Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Il dolore al ginocchio lo costrinse a fermarsi. Si sedette in un avvallo tra due tronchi d’albero: non proprio confortevole ma sufficiente per accomodarlo. Purtroppo anni di viaggi, di lunghi periodi passati inginocchiato nel laboratorio a completare rituali e incantesimi, e un paio di sfortunate avventure avevano leso la sua gamba al punto che non nemmeno la sua magia poteva più rimediare. Poco male, i suoi anni di avventura erano finiti e ormai l’età cominciava a farsi sentire. Grazie all’incanto di Longevità appariva molto più giovane di quanto non fosse realmente, ma il corpo invecchiava comunque dimostrando che non ci si poteva sottrarre alle leggi di Dio e ingannare la morte.
Non passò molto che un piccolo folletto, con arti sottili e lunghi e due orecchie a punta che spuntavano dai lati della testa conica, colorato con chiazze di blu e strisce di rosso, apparve tra i fiori del sottobosco saltellando fino ad atterrargli in grembo. La creatura era talmente piccola da potersi sdraiare nel palmo della sua mano, e aveva un aspetto mansueto e inoffensivo che non ispirava timore o sospetto. Nelle sue mani recava una bacca, delle dimensioni di un lampone ma dal colorito molto più vivo, che sembrava grande e pesante in confronto al suo corpo esile.
Il gusto dei frutti fatati era sicuramente qualcosa di ultraterreno, capace di sciogliere lingue e menti, ma lui sapeva bene che assaggiare il cibo delle fate l’avrebbe intrappolato nel loro mondo, incapace di fuggire. Per fortuna aveva dalla sua anni di esperienza e di testi molti dettagliati su come trattare con il Reame Fatato e su come comportarsi per non arrecare offesa. Prese con delicatezza la bacca dalle mani della creatura e la portò alla bocca, ma senza toccarla con le labbra; imitò il gesto di ingoiarla e poi la restituì al giovane folletto. Quello sembrò deluso, ma accettò doverosamente il frutto e con due saltelli scomparve nell’erba. Le regole dei fatati erano molto rigide. Lui sorrise e si pulì le mani con un fazzoletto speciale, per eliminare le tracce del frutto fatato dalle sue mani, e poi si apprestò a riprendere il suo peregrinare: doveva trovare ancora un paio di cose, e restare troppo tempo nel Reame Fatato non era mai una buona idea.
Un improvviso scricchiolare nel bosco attirò la sua attenzione: dal rumore sembrava una creatura, più o meno grande come un umano, che si muoveva con incertezza. Era molto raro che un fatato, umanoide o meno, facesse rumore mentre si muoveva, men che meno nel suo Reame, e se lo faceva aveva un buon motivo.
Incuriosito si avvicinò, circospetto, usando i grossi e nodosi tronchi d’albero come copertura, fino a scorgere la fonte di tanto trambusto: un uomo di mezz’età, vestito con una tunica e un cappuccio rossi e col capo cinto da una corona d’alloro, si aggirava nella selva, guardandosi attorno in modo frenetico. Era solo un povero viandante che aveva avuto la sfortuna di entrare nel Reame Fatato senza una guida e senza realizzare il pericolo in cui si trovava. Capitava fin troppo spesso.
Sempre circospetto, si mise a pedinare passo passo lo sfortunato individuo, accertandosi che non cadesse in qualche trappola funesta allontanando spiritelli, ninfe dei boschi e altre piccole creature del Reame. Per fortuna il viandante doveva avere la benevolenza del Signore, perché non li condusse tra le fauci di qualche potente essere fatato e giunsero infine fuori dalla selva indenni e solo un poco affannati.
Si mantenne nascosto tra le fronde al limitare della macchia d’alberi, vigilando mentre il viandante raggiungeva la riva del fiume: erano sbucati dall’altra parte della vallata, vicino ai monti e ad un piccolo fiume senza nome. Si accorse che era l’alba, e il sole cominciava ad apparire oltre le montagne, gettando una strana luce tutt’attorno.
L’uomo, dopo essersi riposato un poco, prese a seguire la sponda del corso d’acqua, inerpicandosi verso ignota destinazione. Pensò quasi di lasciarlo andare ma quando volse lo sguardo nella direzione in cui si allontanava vide tre creature uscire dalla selva e farglisi incontro minacciose. A prima vista sembravano animali comuni, un leone, un lupo e un leopardo, ma per chi come lui era avvezzo ai segreti della magia e dei Reami ultraterreni quelle creature erano più di quello che appariva.
Lesto si mosse in soccorso del viandante, vedendolo spacciato, e proprio mentre le tre fiere si facevano avanti per balzare sullo sventurato egli lanciò un incanto, uno scudo magico che riflettesse i loro attacchi e bruciasse le loro pelli. Di fronte a un mago dell’Ordine di Ermes i fatati retrocessero, timorosi e giustamente prudenti nei suoi confronti. Anche l’uomo indietreggiò atterrito di fronte a lui, come facevano sempre i mondani di fronte a qualcuno con il Dono.
-Abbi pietà di me!- implorò -Uomo o ombra che tu sia!
Probabilmente doveva essere confuso dalla luce del sole: giocava brutti scherzi, specie quando si era passata tutta la notte nel Reame fatato. Fece appello a tutta la sua capacità oratoria per dargli una risposta rassicurante.
-Non abbia paura messere! Accorro in suo soccorso per respingere le fiere che anelano alle sue carni.
Cercò di apparire benigno e conciliatorio, per quanto possibile: l’avversione che investiva i mondani di fronte a coloro che possedevano il Dono era qualcosa che trascendeva la ragione, e una volta rivelata la vera natura del mago difficilmente si sarebbero sentiti a loro agio in sua presenza.
-Chi siete voi?- domandò l’uomo, sbattendo le palpebre dopo averlo udito. Una reazione più moderata di quelle a cui era abituato: era incredulo, più che spaventato, curioso più che intimorito.
-Mi chiamo Virgilio, vengo dai comuni settentrionali e correntemente mi dedico a soccorrere i viandanti bisognosi.
-Sei tu il Virgilio? Che ai tempi di Augusto cantasti di Enea e del suo viaggio da Troia alla terra italica?
La domanda lo prese in contropiede. Le tre bestie fatate giravano attorno a loro fameliche, aspettando che si distraesse per poterli assalire, e lui stava lì, imbambolato, con quell’individuo che gli poneva quesiti improbabili. Soppesò le opzioni e suo malgrado si convinse che era meglio dire una piccola bugia nella speranza che l’altro lo ascoltasse senza lamentarsi.
-Sì, mio buon viandante. Fui io Virgilio, che del buon figliol d’Anchise narrò le imprese.
-Oh mio maestro. Non altro poeta ha inspirato in me l’arte come la lettura dei vostri scritti. Vi prego, aiutatemi contro cotali belve, indicatemi la via per sfuggire al loro male- l’uomo parlò con le lacrime agli occhi, sollevato e allo stesso tempo spaventato.
-Non temere, t’indicherò la via. Non c’è bisogno di superare queste fiere, è un altro il viaggio che dovrai compiere. Ti guiderò io per la strada che ti è stata posta avanti, così che tu non possa percorrerla fino in fondo- nel dirlo operò un altro incanto minore, allontanando ancora le tre belve fatate. La pelle dell’uomo sembrava riprendere colore a mano a mano che l’udiva pronunciare ogni parola, e con il colore tornavano vigore e fiducia.
Nella sua testa sorrise compiaciuto del suo operato, mentre cominciava lentamente ad indietreggiare, allontanandosi dalle fiere e dal Reame. Lo trovava di cattivo gusto ingannare un buon uomo in tal maniera, ma ahimè tempi duri richiedevano sacrifici. Non avendo alternative migliori, pensò di riaccompagnare lo sventurato fino al suo Sanctum, per poi indirizzarlo su una strada sicura in modo che non gli capitassero altri accidenti.
-Vieni con me. Segui il mio passo- l’incoraggiò, e l’uomo ubbidì.


Il Sanctum era stato costruito dentro una specie di conca cilindrica naturale scavata nella roccia, con una parete scoscesa che rendeva praticamente impossibile la scalata, e solo delle pesanti macchine d’assedio (o un drago o creature di simile potenza) potevano sperare di abbatterla. L’unico ingresso era una sorta di galleria scavata nel monte, con affissa affianco una tavoletta con iscritto sopra un breve sonetto dai versi minacciosi che servivano ad invitare i curiosi a tenersi lontano. Nonostante la maggior parte della gente del posto fosse analfabeta tutti si tenevano a debita distanza.
-Per me si va nella città dolente, [...] lasciate ogni speranza voi ch’entrate- lesse Dante, lo sventurato viandante. La sua voce era ferma e sicura, non soave ma gradevole, e colse perfettamente il tono cupo e angoscioso delle rime.
-Non capisco il significato di tali versi, maestro- gli disse dopo aver riflettuto per alcuni attimi.
La domanda era piuttosto pertinente, dato che nemmeno lui ne era molto sicuro: il testo era stato preso dal Magus Arovisto, fondatore del Sanctum, almeno un secolo prima da alcuni sacri testi ebraici ed il significato era ancora ragione di dibattito ancora tra i membri della comunità. Ciò nonostante, cercò di trarre una spiegazione plausibile dai suoi arrovellamenti giovanili.
-È un avvertimento: lascia dietro di te ogni paura e indugio. Siamo ingiunti alle porte dell’Inferno, donde gli uomini soffrono e penano, e ti mostreranno i peccati di tutta l’umanità- gli rispose con solennità, calandosi nella parte -Non dubitare, mio allievo, è Dio che ti invita nel suo regno a visitare ciò che nessun uomo vivente potrà mai scrutare.
Nel lungo tragitto fino al Sanctum aveva usato tutta la sua eloquenza per scucire allo sconosciuto i segreti del suo viaggio, scoprendo il suo nome, le sue origini e l’esilio che gli era stato imposto, ma venne anche a sapere della sua ricerca della redenzione e dell’allegoria del viaggio nei reami divini come mezzo per raggiungere il perdono.
Virgilio era cristiano come molti appartenenti all’Ordine, ma nel suo animo fu altro a stuzzicare il suo interesse: Dante non sapeva dell’esistenza dell’Ordine di Ermes, né era cosciente che tra il mondo e i tre reami ultraterreni, Fatato, Divino e Infernale, si formavano degli spiragli, luoghi, come il bosco dove si erano incontrati, dove le due realtà si sovrapponevano e attraverso cui era possibile raggiungere le terre Divine. Se Dante parlava in termini allegorici, lui lo intendeva alla lettera: un viaggio all’Inferno, passando per il Purgatorio fino al Paradiso era possibile, e che il Diavolo in persona provasse a fermarlo lui l’avrebbe compiuto.
Lo spirito avventuriero del mago si era infiammato di fronte alle parole del suo interlocutore, e la nostalgia era tornata a pulsare nonostante non era più il giovane che sfidava le avversità per raggiungere i propri obbiettivi: ora l’età avanzava e, come gli ricordava la sua gamba, il suo tempo finiva.
Anche il suo gusto per la vita di strada era scemato, ormai troppo logoro per poter sopportare lunghe notti all’aperto sotto la pioggia con solo il mantello a coprirlo, o le marce forzate senza certezza della meta.
Eppure non voleva finire così, vecchio, stanco e raggrinzito a fissare il mondo dalla finestra del suo laboratorio: voleva avere un’ultima avventura, una che mai altro uomo o donna avesse osato fare; al Diavolo il ginocchio malandato, al Diavolo il piacere e la calma del Sanctum e il conforto dei suoi compagni, avrebbe accompagnato Messer Dante nelle terre di Dio, esplorato i suoi regni e raccontato ai posteri le meraviglie di tale viaggio.
Guidò con calma il suo accompagnatore attraverso il tunnel, sbucando infine dall’altra parte. A quell’ora del giorno il sole illuminava tutta la conca con luce radiosa, risaltando sugli umili ma ben congegnati edifici. I Sanctum dell’Ordine erano costruiti in modo da garantire ad ognuno dei maghi residenti un alloggio e un laboratorio, secondo i gusti di ognuno, e poi gli spazi dedicati al resto degli abitanti del Sanctum che si dedicavano alle attività essenziali: cucinare, coltivare i piccoli campi, raccogliere la legna, fare il bucato, e assistere i maghi nel gravoso compito di interagire con la società.
Il suo Sanctum era particolare, perché data la difesa naturale era stato costruito come un piccolo villaggio: quattro massicce torri di pietra, collegate tra loro e alte una decina metri, al centro dell’abitato formavano l’area riservata ai maghi, e tutt’attorno, addossati alle pareti, vi erano gli altri edifici, più modesti e costruiti in paglia e legno.
In quel momento grida scomposte e confuse turbarono la pace facendolo sobbalzare assieme al suo accompagnatore: da una delle vie laterali spuntò una bandiera animata, che si muoveva a mezz’aria per proprio conto, e subito dietro la inseguiva una bolgia di abitanti del Sanctum, principalmente ignudi e assaliti da un nugolo d’insetti.
Lui rimase perfettamente impassibile di fronte a tutta la scena, ma dovette faticare parecchio per non sbottare a ridere o sospirare con rassegnazione. Aveva praticamente irretito il viandante nella sua grande bugia e perdere l’illusione per l’imprevedibilità dei suoi colleghi sarebbe stato un vero peccato. Dovette ammettere che ci stava prendendo proprio gusto a mantenere quell’illusione di sacra allegoria per il proprio compagno di viaggio, e aveva timore di cosa ne sarebbe stato dei suoi progetti quando Dante avesse realizzato la verità.
-Chi sono quelli Maestro?- domandò Dante, mentre il rapido corteo spariva oltre la curva.
-Essi furono coloro che morirono senza infamia e senza lode, gli indecisi e gli ignavi. Il cielo non li accolse ma nemmeno l’Inferno, per cui rimangono sospesi in codesto loco per sempre condannati a rincorrere un oggetto inafferrabile.
L’uomo annuì, e stava per cominciare a porgli altre domande ma lui lo prese per mano e lo condusse dentro una delle quattro torri, onde evitare ulteriori sorprese. Fece accomodare Dante in un posto isolato dove non rischiava di avere incontri imprevisti, e poi corse nel suo laboratorio a preparare il necessario per il viaggio. Il ginocchio già gli provocava fitte lancinanti, ma non l’avrebbe fatto desistere. Al suo ingresso nel laboratorio si trovò di fronte al suo giovane apprendista, Valerio, intento a risistemare. Nel vederlo il ragazzo venne travolto dal sollievo e gli si fece incontro.
-Mastro Virgilio siete vivo! Eravamo tutti sicuri che vi fosse successo qualcosa! Perché siete andato nel Reame Fatato da solo? Oh presto, si accomodi in cucina, vado a chiamare i cuochi…
-No ragazzo, non serve- lo interruppe, iniziando a frugare tra gli scaffali alla ricerca del suo prezioso libro di incantesimi e dei vari altri materiali necessari per gli incanti -Corri a preparare delle provviste per un viaggio di qualche giorno, e portale a me. Devo partire subito.
-Partire? No no no Mastro Virgilio lei non deve affaticarsi! La sua gamba si rovinerà ancora! E dove vuole andare senza…?
-Basta così Valerio! Fai quello che ti dico, e sbrigati o ti faccio frustare!
Intimorito dal suo tono il ragazzo scappò via di gran carriera. Ci volle un bel po’ per raccogliere tutto il necessario e dividerlo in bagagli abbastanza comodi perché lui e il suo compagno potessero portarli in spalla senza soffrire. Per quando ebbe finito Valerio era tornato con le provviste, che lui ripose dentro le sacche da viaggio senza rivolgergli parola. Poi gli balenò nella mente un pensiero che aveva ignorato nella foga dei preparativi.
-Valerio- disse -Beatrice è tornata?
-N-no, ancora no- rispose il giovine, con aria contrita.
Sospirò tristemente: Beatrice era una sua cara amica, che era stata accolta al Sanctum da poco tempo rispetto a lui, ma avevano legato bene quando avevano cominciato a viaggiare assieme, stringendo una solidale amicizia. Partire senza di lei, o senza darle un saluto (che poteva ben essere l’ultimo) lo lasciava un po’ intristito e mogio. Ma non c’era tempo per gli indugi, l’avventura l’attendeva. Si fece aiutare da Valerio a trasportare le sacche da Dante, che appena lo vide giungere si alzò con sguardo sollevato, come un cane che rivede il padrone, e disse -Ordunque è ora di proseguire il nostro viaggio? Di prendere la via che porta nelle terre del Diavolo?
-Chi è quel matto?- domandò sottovoce Valerio.
-Non preoccuparti di lui, non è tuo affare. Quando Beatrice sarà di ritorno, dille che sono andato al vecchio mulino.
-Al mulino!? Ma al mulino...
-Non discutere ragazzo. Ubbidisci al tuo maestro. E non preoccuparti per me, tornerò. Torno sempre- gli sussurrò, in tono conciliante e gentile per rassicurare il giovine travolto ingiustamente dall’impeto della sua smania. Quello abbassò lo sguardo e annuì, facendosi da parte.
A quel punto condusse a Dante fuori dal complesso e su per uno dei sentieri di montagna che si dipartivano dall’altro lato della conca, perdendosi tra i rilievi, approfittando del fatto che tutti gli abitanti del Sanctum in grado di fermarlo erano occupati a rincorrere la bandiera. A pensarci bene poteva diventare un gioco simpatico: acchiappa la bandiera, o qualcosa di simile.
-Perché andiamo a questo mulino? Cosa ci attende avanti, oh Maestro?
-Quel mulino segna il punto dove dovremo guadare lo Stige, il fiume dei dannati, ove Caronte aspetta di traghettare le anime all’inferno- rispose, sbrigativo. In realtà dovevano solo guadare l’Arno con l’aiuto di un vecchio traghettatore dal linguaggio incomprensibile, ma la sua mente era già proiettata avanti, al Reame Infernale dove le anime dei malcapitati venivano risucchiate e dove demoni e diavoli oscuri attendevano per infliggere disumane sofferenze a chi incontravano, e alle prove che avrebbero dovuto affrontare lui e Dante per sfuggire a tale fato.
Il ginocchio doleva, ma in compenso il suo spirito aveva ritrovato il gusto per l’avventura, quell’indomabile desiderio e aspettativa che lo portava a desiderare di giungere lontano, verso destini ignoti. Stava recuperando la sua gioventù, cancellando gli ultimi anni di delusione e amara contemplazione, e si sentiva più vivo che mai. Anche se zoppicante per il dolore continuò ad avanzare con determinazione, con Dante che arrancava nella sua scia.


-Lui ha fatto COSA!?
Batté il pugno sul tavolo con tutta la sua forza, sfogando l’improvvisa ondata di rabbia che l’aveva colta. Nonostante il tavolo fosse di quercia, solido e massiccio, la forza che impresse nel guanto ferrato ebbe ragione di esso e il mobile si spezzò in due proprio nel mezzo, crollando a terra e rovesciando tutto ciò che vi era appoggiato sopra: alambicchi, pergamene, erbe e sacchetti d'inchiostro.
Valerio indietreggiò atterrito di fronte alla sua furia, lanciando un grido stridulo, ma lei non se ne curò. L’avventatezza e la stupidità di Virgilio la sorprendevano sempre: il mago era andato nel Reame Infernale, anzi all’Inferno, e per di più in compagnia di uno sprovveduto qualunque incontrato per caso nel Reame Fatato, e pensava di attraversarlo indenne fino ad arrivare nel Reame Divino, dove i suoi poteri erano inutili!
Nessun mago era così stupido da entrare nel Reame Divino: Dio e i suoi poteri annullavano totalmente le capacità del Dono, rendendo i maghi ermetici inermi come mondani di fronte ad esso.
L’emicrania le stava facendo scoppiare la testa, e non era provocata dalle flebili e impacciate scuse che Valerio stava cercando di balbettare. Fece una serie di lunghi sospiri, quietando il suo desiderio di estrarre la sua spada e fare a pezzi l’intero laboratorio, ma a malapena. Quando si fu calmata abbastanza diede le spalle al giovane con un verso rabbioso e si avviò giù per le scale con passo marziale, fino a raggiungere il suo cavallo fuori dal complesso centrale. Maghi e altri abitanti del Sanctum si fecero da parte al suo passaggio, intimoriti e vergognosi per essersi fatti sfuggire Virgilio sotto il naso per un’idiozia.
Mentre armeggiava per sistemare la sella sentì una mano posarsi sulla sua spalla. Era il vecchio Manfredi, che la guardava con sguardo triste e cupo.
-Virgilio e il suo compagno sono partiti un giorno fa, Beatrice. È inutile seguirli, ormai. Non torneranno più.
Lei si sottrasse al suo tocco con uno strattone ed emise un basso ringhiò minaccioso che lo fece indietreggiare. Si fece portare delle provviste e una faretra empia di frecce, e poi partì al galoppo lungo il sentiero che portava al vecchio mulino.
Era furiosa, fuori di sé, incapace di controllare i propri istinti. Quella feccia di mago si era andato a cacciare in un pasticcio più grande di lui e non l’aveva nemmeno aspettata prima di buttarsi in una delle avventure più grandi che umano avesse vissuto. Aveva ignorato il suo ginocchio malandato, la sua stessa prudenza e persino gli avvertimenti di Valerio, e cosa peggiore era stato disposto a lasciarla indietro pur di partire in fretta.
Non aveva dimostrato il minimo di gusto per la decenza, o rispetto per le persone che in tanti anni l’avevano tirato fuori dai guai senza mai chiedergli nulla in cambio se non il rispetto da riservare ad un nobile compagno. A fatica soffocò le lacrime che cercavano di tradire la sua impassibilità e fece forza perché il suo destriero si affrettasse: doveva salvare quel maledetto mago e il suo compagno dalle fauci stesse dell’Inferno.

  
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