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Autore: paige95    24/03/2021    4 recensioni
La guerra in Afghanistan è il filo rosso che lega il destino di due uomini e due famiglie, due mondi distanti che non sanno di essere molto vicini tra loro.
Nell'estate del 2018, in pieno conflitto, il tenente comandante dei Navy SEALs Christian Richardson e l'inviato speciale del Los Angeles Times Samuel Clark verranno chiamati al fronte, lasciandosi alle spalle vissuti, affetti e i vasti territori californiani.
[Questa storia partecipa al contest "Chi ben comincia è a metà del prologo" indetto da BessieB sul forum di EFP]
Genere: Angst, Guerra, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Destino'
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L'oceano restituisce i ricordi




 

San Diego - Base navale/Coronado, 14 settembre 2018
 

Katherine provò una sensazione di profondo spaesamento. Il Coronado non era il suo habitat naturale, l'estensione degli spazi e l'immensità della costruzione in muratura bianca la metteva in soggezione. Non le era familiare una base affollata di Navy SEALs, specie se a mancare era l’unico marinaio di cui le importasse davvero.
Era una visitatrice occasionale nel cuore di una delle basi più attive della California; non era abituata al trambusto di voci, sirene e macchinari, lei operava sulla spiaggia e spesso solo lo sciabordio delle onde accompagnava le sue giornate di lavoro. L'animo della bagnina era graffiato da una vena solitaria, malinconia e socievolezza l'avevano resa la candidata perfetta per strappare dall'oceano i poveri malcapitati che finivano prede delle correnti. La sorprese il fatto che suo marito si sentisse a suo agio in un clima così concitato, credeva che le loro anime fossero affini, forse era la sua unica arma per combattere la solitudine di cui aveva sofferto in tempi passati, non avrebbe potuto recriminargli qualcosa. Christian aveva molto da insegnarle, in primis a non lasciare che il passato influisse sul presente, a non lasciare che due genitori dagli orizzonti limitati chiudessero anche i suoi, ma consentire all'oceano di aprirle nuovi porti navigabili. San Diego le aveva regalato una nuova vita, una vita che New York al civico sulla 5th Avenue nell'Upper East Side non le avrebbe mai offerto. San Diego le aveva donato l'amore, non un amore qualsiasi, l'amore di Christian era sorto dalle ceneri della sua sofferenza e ciò che le offriva era ancora più prezioso.
Era un amore che mancava ogni giorno di più.
Per quanto si fidasse dell'affetto che entrambi provavano nei confronti della loro famiglia, pregava ogni giorno che rimanesse intonso e inviolato, che la morte e il destino non giocassero loro un tiro mancino. Ogni giorno la scelta del marito era più nitida, soltanto lui poteva sapere quanto la Marina Militare potesse lenire le ferite. Era stata una decisione troppo intima e personale che, benché presa in giovanissima età, era certa fosse stata ben ponderata. Christian era un uomo equilibrato e razionale, il suo stato di ansia e gli attacchi di panico sempre in agguato non avevano indebolito la sua integrità psichica. Katherine avrebbe potuto scommettere solo sulle sue abilità; non le restava che appoggiarlo nella scelta che aveva intrapreso, in quella strada che era diventata anche un po’ la sua. Arrivati a quel punto, giunti ad una simile consapevolezza, la base in cui suo marito spendeva la maggior parte delle sue giornate non era più così estranea, era diventata da anni ormai una scelta di vita condivisa da lei e, volente o nolente, da ogni componente della loro famiglia.
Il comandante Hernandez – a cui era stata affidata l'esclusiva guida e responsabilità della base in assenza dell'ufficiale Richardson –  aveva proposto a Katherine di raggiungere il Coronado per poter prendere parte all’identificazione delle salme rinvenute. Fabian le aveva assicurato che la visita alla base non avrebbe urtato la sua sensibilità, i corpi non sarebbero stati presenti, essi erano stati trasportati nel reparto di medicina legale in collaborazione con la polizia di San Diego; il tempo trascorso sui fondali dell’oceano aveva reso complesso il riconoscimento, solo un esame scientifico avrebbe potuto restituire un nome alle vittime. 
L'ufficiale si era premurato di trattenere alla base gli effetti personali di alcuni di quegli sfortunati passeggeri. Da quando il relitto dell'aereo era stato individuato, Fabian non aveva smesso di lavorare, negli ultimi giorni si era prodigato a raccogliere i resti, consapevole del valore affettivo che potessero racchiudere in sé per le famiglie coinvolte. Katherine non aveva idea di quanto la sua presenza potesse essere utile, dal momento che non aveva avuto il piacere di incontrare i suoceri, conosceva solo un paio di nomi e il loro aspetto dalle foto che le erano state mostrare;  in assenza del marito però si sentì in dovere di provare, fosse solo per la stima che nutriva per quella che fu la famiglia Richardson.
Il comandante accolse Katherine all’ingresso del centro di comando con informalità; aveva scorto sulle guance della donna una buona dose di tensione. Katherine era davvero agitata, l’uomo aveva dato una giusta interpretazione alla sua espressione tesa; non le era confortevole il luogo, non era solita far visita a Christian durante l’orario di lavoro, l’impazienza l’aveva colta solo nel giorno in cui gli annunciò di aspettare la loro piccola Alisia. Fabian comprendeva quanto fosse arduo il compito, non desiderava che si sentisse in soggezione e la confidenza che aveva maturato nel corso degli anni nei confronti della compagna del collega era l’unico beneficio che potesse offrirle.
All’interno della base Katherine respirò la presenza del compagno, le sembrò di trovarsi a lui più vicina. Il tenente la invitò a percorrere prima di lui uno stretto corridoio rivestito da mura candide e la condusse fino ad una lucida porta d’acciaio, davanti alla quale le fece cenno di fermarsi. A lato vi era posta una targhetta rettangolare che recitava un nome completo:

Tenente Comandante Christian Aiden Richardson

Nell’angolo della base in cui si trovavano si respirava un’atmosfera angusta. Il silenzio tra le strette calle era surreale e Fabian lo rispettava per abitudine ed etichetta militare. Il fatto che Katherine si trovasse lì era un privilegio che portava il suo nome da sposata.
La donna avvertiva tra le caviglie nude un’aria gelida provenire da lontano; lo interpretò come un segno, il marito in qualche modo inspiegabile le sfiorava le spalle, la incitava a compiere un passo in più. 
Il silenzio tra l'ufficiale e la bagnina era stato assordante lungo il breve tragitto, la cadenza dei loro passi aveva aumentato la distanza tra i due. L’apparente formalità durò pochi minuti e venne dissolta da una manciata di parole sussurrate da Katherine.
«È l’ufficio di mio marito?»
«Sì, ma non lo sfrutta quasi mai. Preferisce la cabina di controllo o i luoghi comuni per lavorare. Forse non sai e se lo sai non lo ricordi, a Christian non piace stare seduto alla scrivania e ammetto che litighiamo spesso per questo. È fin troppo temerario, ma solo per eccessivo zelo e altruismo, non disdegna affatto la sua vita, sa bene quanto abbiate bisogno di lui. Mi dispiace, non sono riuscito a risparmiargli la guerra»
Fabian era sinceramente mortificato, lo sguardo basso infondeva soggezione. Lui, che per età sarebbe potuto essere suo padre, avrebbe voluto tutelare l’incolumità di Christian, come era solito fare nelle missioni più pericolose. Il giovane ufficiale non volle lasciarsi aiutare, lo spirito di Patria fu più resistente di qualunque pensiero, anche della sua amata famiglia.
«Ho provato a sostituirmi a lui. Ho chiesto di parlare con il consolato americano a Kabul, ho ricordato a loro che il tenente Richardson aveva troppo da perdere. Avevano bisogno di lui, non di un vecchio servitore degli Stati Uniti d’America»
Katherine rispose allo sconforto dell’uomo con un sorriso che dipingeva tanta gratitudine. Gli pose una mano sulla spalla, non era certa che lui sapesse quanto il gesto contasse per lei. Da buon amico non aveva informato Christian del suo tentativo fallito, aveva mandato giù il magone cercando di accettare la volontà e la partenza del collega.
«Se l’America, la tua famiglia e noi ti perdessimo, lasceresti un dolore immenso. Tua moglie e i vostri ragazzi non avrebbero sopportato che tu fossi al fronte»
Fabian incontrò gli occhi malinconici della giovane donna e lo ferirono, benché lei cercasse di sortire l’effetto contrario. L’ufficiale spostò la loro attenzione sull’argomento del giorno, il quale non era affatto più lieto.
«Penso non gli dispiacerà se ci accomodiamo qui»
Hernandez recuperò dalla tasca dei pantaloni un mazzo consistente di chiavi, le quali appartenevano alla maggior parte delle serrature della base. Katherine fu la prima a varcare la soglia. Trovò un ufficio quasi spoglio, ma non si stupì, Christian era ordinato e Fabian le aveva appena rivelato che il marito prediligeva svolgere le sue attività altrove.
Pochi passi dietro Katherine vi era Fabian che tolse il suo cappello e lo appese ad un piccolo attaccapanni in prossimità della parete. Ebbe rispetto per ciò che i Navy SEALs - lui compreso - avevano posto sulla scrivania di Christian; non erano semplici reperti, ma ricordi rinvenuti dalla carcassa di un aereo precipitato, come tali Fabian li trattò e ne ebbe cura.
Katherine scorse gli oggetti dalla soglia e intravide in un angolo la scatola nera aperta, i nastri erano stati estratti, segno che le indagini - anche se forse informali - erano già iniziate. La bagnina non era affatto acerba sull’argomento, conosceva bene la funzione di quel reperto, forse il più importante di tutti se ci si basava sui formalismi. Il resto non era in buone condizioni, perciò non riuscì ad identificare qualcosa nello specifico a metri di distanza. 
La donna mosse qualche passo pacato in direzione della scrivania di legno robusto e sbiadito dal sale dell’oceano, sostanza naturale con la quale Christian divideva le sue giornate. Arrivata fin lì, avvicinarsi fu la scelta più logica per Katherine. Passò una mano sulla superficie liscia, era un movimento lento che lasciò il solco della mancanza del comandante. Non esaminò gli oggetti - almeno non subito -, ad attirare l'attenzione della donna fu quello che era stato lasciato dal proprietario prima della sua partenza. Una foto in particolare non la ricordava nemmeno lei, raccontava la loro più grande follia; poteva sembrare un giorno qualunque, invece immortalava la notte santa delle loro nozze, una notte di luna piena che rischiarava i loro sorrisi gioiosi. Era una delle poche testimonianze della loro unione, la più preziosa e lui la custodiva come tale. Katherine sfiorò la cornice con la punta delle dita per non macchiare il vetro con le impronte.
«Gliel'hai detto?»
La voce di Fabian la riscosse dal torpore malinconico nel quale era caduta.
«Cosa?»
«Non gli hai parlato del ritrovamento dell’aereo?»
«Non mi sembrava una notizia da comunicare per telefono. E poi non ci sentiamo spesso quanto vorrei»
Katherine si accomodò sconsolata sulla sedia del marito; la seduta era morbida e ancora calda, anche se lui mancava già da diverso tempo. Fabian si avvicinò a lei oltre la scrivania e sussurrò quasi, scorgendo la sua preoccupazione. 
«Ehi. Sono certo stia bene»
Continuavano a ripeterle quanto suo marito fosse in gamba e preparato per affrontare situazioni estreme come una guerra spietata. Katherine credeva in lui, nelle sue capacità e nella sua prudenza. Nessuno di loro, però, si trovava nella sua posizione, nessuno tra coloro che la circondavano aveva una bambina di sei anni da difendere dall'assenza del padre. Alisia non conosceva la destinazione di Christian, era triste benché fosse all'oscuro di buona parte degli eventi. Un altro pensiero sullo stato di suo marito l'avrebbe condotta alle lacrime, di cui in pubblico si vergognava.
«Cosa avete riportato a terra?»
Lo sguardo di Katherine vagò sulla scrivania. Muschio e licheni serpeggiavano fra gli anfratti dei reperti. Il metallo era incrostato, la carta e la stoffa erano zuppe dell'umidità accumulata nel corso di più di due decenni. Esaminò ogni oggetto con il pensiero rivolto alle vite che essi nascondevano. Non osò sfiorare qualcosa, ai suoi occhi era tutto troppo fragile e prezioso.
Fabian le allungò con accortezza un piccolo oggetto recuperato dalla mischia. Vi passò sopra il pollice per eliminare le impurità che avrebbero reso più complessa l'identificazione.
«Una fede. Potrebbe appartenere alla madre di Christian, il nome dell'uomo coincide con quello riportato sulla lapide, ma il compagno di viaggio al suo fianco non la indossava»
«Christian conserva ancora la vera di suo padre. Non era solito portarla all’anulare, così mi ha detto lui tempo fa»
L'espressione che entrambi si rivolsero in sincrono era sgombra dal più flebile dubbio sul fatto che fossero loro. Erano tristi e sollevati nel medesimo tempo. A Katherine parve di rivivere in parte il dolore del marito alla notizia. Quegli oggetti erano impregnati dei loro ultimi respiri, gli ultimi con i quali avevano parlato un'ultima volta con il figlio. Erano figure lontane, eppure così vicine a lei, fosse solo per l'amore che nutriva per Christian. Una lacrima scorse sulle sue guance, Katherine la asciugò subito per ribellione alla sua stessa emotività. Provava per i signori Richardson un affetto incondizionato per aver reso suo marito l'uomo che era.
Katherine fece scivolare tra le dita la fede in oro placcato, così diversa da quella che le aveva donato Christian.
«Fabian. Li avete trovati davvero?»
«Non lo so. Prova ad esaminare il resto»
Il comandante guidò lo sguardo della donna verso un cumulo isolato di oggetti. Era chiaro che Fabian avesse già fatto una selezione logica dei reperti, elemento di cui lei non si era accorta fino a quel momento, troppo presa dalla malinconia.
L'ufficiale posò i palmi sul bordo della scrivania, avido di sapere. Non era sua intenzione imporle alcun genere di fretta, ma era preda dell'impazienza di conoscere la portata della loro scoperta.
Nel cumulo di oggetti vi era un orologio da polso arrugginito e fermo nel tempo ad un momento preciso e drammatico. Accanto ad esso un portafogli da uomo ormai incolore attirò l'attenzione di Katherine. Scottava al tatto della giovane donna, ma si fece forza e lo aprì. Al suo interno una fotografia sbiadita immortalava un bimbo moro dagli occhi profondi come l'oceano. Katherine ne rimase affascinata.
«Ora capisco perché conserva la foto di sua figlia nel portafogli. È un'abitudine di famiglia»
«È lui? Sei sicura?»
Non gli rispose e si girò pensierosa verso la scatola nera.
«L’avete ascoltata?»
«Dovrò consegnarla alle autorità, ma prima voglio fare una copia della registrazione»
«Voi non siete le autorità?»
«Ci sarà un altro processo, Katherine. Il caso verrà rivalutato insieme alla sentenza. Sei sicura che Christian sia pronto a riaprire vecchie ferite?» 
«Christian ha sempre voluto dei corpi su cui piangere la loro memoria, non gli importa più nulla della giustizia»
«Allora dimmi tu cosa dovrei fare. Fingo che non sia successo nulla davanti alla Giustizia? Sopra quell'aereo non sono morti solo i genitori di tuo marito»
Il comandante era combattuto, l'entusiasmo iniziale per la scoperta era quasi del tutto sparito, non desiderava ferire il collega. 
«Gliene parlo io quando torna»
«Richardson non tornerà prima di maggio»
«Lo so bene, ma temo possa sentirsi male. Converrai con me che non sia il caso di fargliela ascoltare»
«Tuo marito è sveglio e me la chiederà»
«Dì che l’hai consegnata alle autorità e che non ne hai più la disponibilità»
«Vuoi che gli menta?»
«No, non chiedo a te di farlo. Gli dirò solo quello che potrà farlo sentire meglio. Gli risparmio il resto. Ora fammi ascoltare le registrazioni, voglio capire cos’è successo a quel maledetto aereo»

 

Fabian non aveva ancora ascoltato gli ultimi istanti del Boeing 747, non sapeva di cosa sarebbero stati testimoni. La donna al suo fianco era determinata e, paradossalmente, l’ufficiale era più intimorito di lei, l’esperienza in campo militare non lo rese più disinvolto. Sfruttò una cabina vuota e concesse a Katherine di prendere posto su una sedia riservata ai SEALs. Il comandante indugiò a fornirle l’occorrente per ascoltare, sperava che alla fine decidesse di risparmiarsi la tortura, lui avrebbe potuto occuparsene più tardi, invece era tenace almeno tanto quanto suo marito. Christian non avrebbe potuto scegliere compagna migliore: una donna forte nelle sue debolezze, che sapeva farsi carico delle fragilità dell’uomo con il quale spartiva la vita, lo stesso del quale soffriva la mancanza e con il quale condivideva i fantasmi del passato, come se ella stessa avesse vissuto il drammatico giorno di ventitré anni prima. 
Katherine rivolse un leggero cenno con il capo all’amico. Era pronta qualunque cosa ci fosse in serbo per loro. Fabian collegò i fili necessari ai macchinari che aveva a disposizione alla base. La donna trattenne le cuffie contro le tempie con risolutezza. La sbobinatura iniziò nel momento in cui Fabian premette il pulsante di accensione. Sentirono rumori striduli in sottofondo, durarono qualche secondo, il tempo sufficiente per far credere all’ufficiale che per qualche assurdo motivo i dati fossero andati perduti, invece erano solo i motori che ruggivano.
Una voce giovanile e vivida subentrò più tardi.

«Qui Boeing 747. Torre di controllo, mi ricevete?»
«Ti riceviamo, comandante. Decollo completato con successo»

Gli sguardi di Katherine e Flores si sfiorarono, la fortuna doveva averli abbandonati in seguito. Passarono almeno venti minuti prima che i due ascoltatori udirono nuovamente la voce del giovane comandante. Provarono tanta angoscia in quel lasso di tempo, erano coscienti di come sarebbe terminato quel volo. Fiaban, munito di penna e taccuino, si appuntava informazioni ai fini delle indagini, sia che fossero private sia che diventassero pubbliche. Il comandante eseguì qualche calcolo veloce tra i dati che aveva a disposizione: il tempo stimato per il tragitto, conoscendo il luogo di partenza e di destinazione, e il punto in cui l'aereo aveva perso autonomia in volo. 

«Torre di controllo? Qualcosa non va, ho avvertito un vuoto d’aria insolito. Potete analizzare il problema?»
«Comandante, puoi effettuare la procedura d’emergenza e segnalarci le spie accese e spente davanti e sopra di te?»

La voce di Fabian si intromise seria, approfittando di una pausa nella conversazione tra il pilota e la giovane donna che lo stava guidando in quelle manovre.
«Sta inserendo il pilota automatico»
«Cosa significa la procedura d’emergenza?»
Non era un buon segno. Fabian era piuttosto ferrato sull'argomento, aveva trascorso qualche anno nell’aeronautica militare all’inizio della sua carriera e i voli erano all'ordine del giorno. 
«Il copilota avvisa i passeggeri di prepararsi al peggio, mentre il primo pilota controlla il funzionamento del mezzo, codifica ogni spia con il libretto di istruzioni alla mano»

«Torre di controllo, stiamo perdendo altitudine, seppur molto lentamente. Non capisco...rilevi un malfunzionamento del motore? Il carburante non scende»

La voce del pilota cercò di non far trasparire agitazione, eppure entrambi ostentavano preoccupazione durante il volo, chi dal velivolo chi dalla terra ferma.

«Comandante, riporta l’aereo sopra i trenta mila piedi. Abbiamo bisogno di tempo per identificare il malfunzionamento»
«Ho più di trecento passeggeri a bordo, non ho tempo per le vostre stime»

La voce del comandante del mezzo non era esigente, ma inspiegabilmente comprensiva, dispiaciuta e dolce. 
«Ti prego, Fabian, blocca»
Lui la ascoltò con prontezza e Katherine discostò la cuffia dalle tempie, la posò delicatamente davanti a sé e si portò le mani sul volto. Era emotivamente sfinita e tesa. Sussurrò qualche  secondo dopo prendendo un lungo respiro fatto di singhiozzi contenuti e celati. 
«È stata una catastrofe» 
Fabian non negò, avevano già stimato il numero di corpi che l’oceano aveva restituito, doveva con pazienza essere dato loro solo un nome. 
«Può essere stata una negligenza?»
«Non da parte dei piloti, sono anch’essi semplici vittime. Ora questo lo sappiamo, sono innocenti»
Fabian continuò ad ascoltare, dopo un primo momento di diffidenza volle sapere avidamente. Lo fece con professionalità, come se fosse uno specifico compito da portare a termine e da cui non poteva esimersi. In realtà non voleva arrendersi per Christian. 

«Comandante, se collaborate ti prometto che andrà tutto per il meglio»
«Procedo. Riporto l’aereo sopra i trenta mila piedi. Disattivo il pilota automatico e lo tengo stabile manualmente»
«Molto bene, Brian»
«Sophie, cerca di fare presto. Non so per quanto potrò resistere»

Era nata una certa confidenza tra il pilota e la ragazza con la quale era in comunicazione. Erano entrambe voci giovani, non potevano avere più di trent'anni, eppure la voce femminile aveva un timbro familiare per l'ufficiale che stava ancora assistendo alla conversazione. Passò qualche minuto di assoluto silenzio, Fabian si voltò verso Katherine, ma cercò di essere impassibile per non angustiarla.

«Sophie. Sto perdendo il controllo del mezzo. Ho bisogno di un atterraggio d’emergenza»
«Sotto di voi c’è l'Oceano Pacifico» 

La ragazza era spaventata. Qualcosa le impediva di svolgere il suo lavoro con obiettività. 

«Devi resistere qualche chilometro» 

Era una supplica accorata. Stava pregando il pilota di non arrendersi per alcuna ragione, sfidando anche le leggi gravitazionali. 

«Negativo» 
«Brian, ti prego. Hai a bordo più di trecento passeggeri e tu sei su quell’aereo»

Fabian udì un silenzio intriso di addio.

«Sophie, ti amo»

La voce del ragazzo era commossa, non si trattenne più e lasciò trapelare il suo immenso sconforto.

«Ti amo anche io, Brian»

Affaticata, lei cercò di mantenere la calma.
Fabian non sentì più nulla, solo singhiozzi femminili, non utili ai fini del processo, non raccontavano nulla di nuovo sulla fine dell’aereo. La comunicazione era caduta nel vuoto, i motori si erano spenti lentamente come una candela priva di cera.
«Cos’è successo?»
«Non lo so, Katherine. Dovranno analizzare lo stato dell’aereo per comprendere l’avaria»
«Sono passati ventitré anni, non riusciranno più a capirlo»
«Forse qualcuno ci può ancora aiutare»
Il tenente pensava alla voce femminile che aveva udito, la stessa che aveva in sé qualcosa di familiare. Forse aveva appena ascoltato una vecchia collega che, scosso, non riusciva a riconoscere. Doveva trattarsi di un controllore del traffico aereo specializzato nel suo campo, quindi poteva ipotizzare cosa fosse successo, anche a distanza di anni. 

 

 

Base militare americana – confine Nord/Est di Kabul, 12 settembre 2018
 

L'unico rumore che fece breccia nella notte fu lo scalpiccio dei passi del tenente Richardson. 
La luna nascente lo guidò fino alla base. Fu più facile di quanto credesse ritrovare la via nell'oscurità, il satellite proprio come il sole sorgeva ad Oriente. Ripercorse le proprie orme, sicuro della direzione che stava seguendo. Non era possibile trascurare ciò che stava succedendo alla base, indirettamente l'esercito nemico stava minacciando anche lui e Gwen che si erano stanziati sulle distese di vegetazione limitrofe. 
La sua Sig Sauer era carica e a portata di mano. Forse era l'unico particolare che non smetteva mai di gettarlo in un stato di disagio - ormai credeva che quella sensazione sgradevole non sarebbe più stata cancellata dagli innumerevoli anni di servizio; sperò di non doverla usare lungo il tragitto, se non per depistare qualche soldato dell'esercito avversario. 
Gemiti sommessi giunsero all'orecchio del capitano a pochi metri dalla sua destinazione. Una guerriglia si stava consumando all'interno del filo spinato che non era riuscito a respingere il nemico. Ampie fessure aperte da possenti armi da taglio, quali cesoie o seghe, avevano creato più di un varco per l'accesso sul suolo americano
Christian ignorò i colpi sparati tra le mura, la sua mente non riusciva a realizzare che in quel preciso momento uno dei suoi compagni d'armi stesse esaltando l'ultimo respiro. Era proprio ciò che Flores aveva voluto risparmiare a lui e al soldato Ward. Il generale però con i suoi ordini non aveva cancellato la loro coscienza. Il dispiacere per i commilitoni era così intenso che Christian fu sfiorato dal pensiero di entrare nel vivo dello scontro, se non fosse stato per una distrazione di notevole importanza lo avrebbe fatto, con tanto di avventatezza e convinzione. 
La sua attenzione  venne attirata da una sagoma familiare accostata alla base di un possente e irregolare masso. Fu la flebile e suggestiva luce che si spalancava dalla volta celeste a rivelargli il volto dell'uomo. 
Flores soffriva in modo composto accostato ad un angolo scomodo. Tentava di contenere con la mano l'emorragia che copiosa gli stava dilaniando il fianco e di riprendere fiato per tornare nel pieno della battaglia con più energie, le stesse che lo stavano inesorabilmente abbandonando. L'ufficiale più anziano non attendeva impassibile la morte, non si arrese a lei, cercò di alzarsi per tornare a combattere accanto ai suoi uomini e fu quello il momento in cui Christian intervenne per tutelarlo da se stesso. 
«Generale! Non è il caso di muoversi, rischia di peggiorare»
Christian lo aiutò a contenere la ferita con sangue freddo, anche se nel cuore era diventato un vulcano attivo di emozioni. Era senza dubbio una notte sfortunata per loro, il cui esito si prospettava essere sempre più drammatico. 
Flores lo fissò pensieroso. Tra le mille domande che gli sorsero una vinse su tutte. 
«Capitano, lei crede nell’Aldilà?»
Christian rimase confuso. Forse cercava un conforto nei suoi ultimi istanti di vita, rassicurazione che non era in grado di offrire in quei minuti. Era una domanda difficile in un momento simile, non riusciva a prendere in considerazione che il diretto superiore morisse. Aveva visto troppe volte la morte attraversare il suo cammino, il solo pensiero di rivivere la dipartita di un conoscente gli devastava l'anima. 
«Sto provando a crederci» 
«Se avessi la certezza di rivedere lei, non chiederei altro che non fosse la morte. Se ne è andata così»
«Sua moglie è morta per una ferita simile?»
Chris ripensò alle parole del colonnello Keller, con ingenuità, non ritenne di risultare indelicato e indiscreto, nonostante tra loro non vi fosse alcun grado di confidenza. Christian non sapeva con esattezza come avesse spirato quella donna a lui misteriosa. Sapeva, però, come l'anima del generale lo stesse salutando: nel silenzio, in una pacata tarda sera d'autunno Flores era diventato - contro ogni sua volontà - una placida foglia ormai secca che si avvicinava leggera alla fine
[1]. Il pensiero della compagna lo stava aiutando a rendere il passaggio dalla vita meno oneroso. Christian sentì il cuore del superiore rallentare le pulsazioni sulla ferita, si stava rilassando, forse troppo per scongiurare l'ultimo respiro. 
Flores non ebbe la forza per dissentire, anzi si mostrò insolitamente vulnerabile davanti al comandante, tanto da non domandare alcuna spiegazione sulle informazioni note al seal.
«Non era ancora mia moglie, non è riuscita a diventarla»
Gli occhi di Christian erano velati da una sottilissima patina lucida percepibile dall'attento sguardo altrui. Si commosse per le condizioni del superiore, non temeva affatto che l'intransigente generale dell'esercito americano lo rimproverasse per quel suo attimo di debolezza. L'ufficiale di marina si concesse la libertà che Flores gli aveva negato fin dalle prime ore in cui aveva messo piede sul suolo afghano. 
Mark sorrise procurandosi qualche spasmo alle viscere lesionate. Era grato al seal per il supporto che gli stava offrendo, non era certo di meritare un simile grado di lealtà da parte di un uomo a cui aveva arrecato una buona dose di sofferenza; sfiorò la mano con la quale Richardson stava tentando di contenere il flusso del liquido ematico, fu l'unico slancio di affetto che riuscì a permettersi nei confronti del suo soccorritore. 
«Ora piange per me? Credevo di esserle antipatico»
Christian non ebbe il tempo di replicare. Lo scatto di un grilletto si fece largo nella notte. Intravide la canna di un mitra puntato su di loro. La penombra rivelò un giovane uomo dai lineamenti delicati contornati da un copricapo tipico dell'Oriente. La kurta scura appena visibile era macchiata di sangue rappreso, ma non sembrava del diretto interessato. L'ombra del copricapo e della luna oscurarono le cicatrici che deturpavano il suo volto, ancora vagamente innocente. Flores impiegò un filo di voce prima di svenire e rilassare i muscoli in tensione per il dolore fisico. 
«Campbell … sei vivo»
Il soldato appena giunto abbassò l'arma con discrezione, ebbe il timore di essere osservato da sguardi compromettenti. 
La confusione di Christian si dissolse subito e lo riconobbe, benché non avesse mai avuto modo di incontrarlo. 
«Alexander»
Il ragazzo si rivelò, uscì dall'imbrunire e si palesò alla luce naturale del satellite. Fissò Christian disorientato, non sapeva chi fosse, ma la divisa lo classificò come un alleato. Le generalità non erano importanti in quel drammatico frangente. Alexander era in apprensione per il superiore, provò subito a soccorrerlo, non perse tempo prezioso. 
«Sono arrivato tardi»
«Penso io a Flores. Raggiungi Gwen, è sola e ferita nella foresta. Ha bisogno di te»
L'uomo che aveva appena conosciuto gli aveva riferito un'informazione allarmante ed emozionante. Gli dispiacque allontanarsi dal capezzale del generale privo di sensi. Lo consolava il fatto che il militare decorato di fronte a lui gli infondesse fiducia, era certo che il generale fosse al sicuro. 
Alexander non se lo fece ripetere. La raggiunse di corsa, senza badare ad altro; i passi rimbombavano sul terreno arido, ma non ebbe paura di spaventarla. 
La trovò, la scorse al suolo e lasciò che il mitra scivolasse dalle sue mani non appena ebbe appurato il suo stato di salute. Gwen lo riconobbe, dopo aver escluso che si trattasse di Christian o di un qualsiasi nemico dal quale si sarebbe dovuta difendere. La tensione non si sciolse comunque, era stupita e a tratti impassibile. Il dolore alla gamba aveva alterato i lineamenti della ragazza, aveva offuscato la sua mente. Per qualsiasi motivo i suoi occhi non esprimevano gioia a quell'incontro. 
Gwendoline si alzò con le poche forze che le erano rimaste e Alexander ebbe occasione di scrutare la ferita sanguinante. Le andò incontro per evitare che si affaticasse e la raggiunse a metà strada. Più lui si avvicinava, più lei faticava a riconoscerlo. La giovane non gradì le mani gelide del soldato sui fianchi; tentò di colpirlo con un pugno sul petto spinta dall'ira, ma era troppo debole, aveva perso sangue a gocce, ogni dimostrazione di forza fu vana. Si lasciò andare tra le sue braccia, priva di energie, non riuscì a lottare contro la volontà di Alexander. 
«Mi hai abbandonata. Mi avevi promesso che non lo avresti mai fatto»
Svenne, lasciando che le parole le morissero in gola; una parte di lei sapeva di essere al sicuro, abbassare la guardia non sarebbe stato rischioso né tantomeno fatale per la sua incolumità. Alexander la strinse a sé, non consentì al corpo della ragazza di sfiorare il terreno. Adagiò la nuca di Gwendoline sul suo ginocchio e la abbracciò affondando il volto nell'incavo della sua spalla. Lo stato della giovane compagna gli assestò un violento colpo al centro del petto. Nessuna tortura subita era stata altrettanto dolorosa. Si limitò a scaldarla e a proteggerla con il suo calore. Se solo avesse incrociato prima il suo cammino, lei non avrebbe rischiato la vita e nemmeno Flores. 
Non riusciva ad esprimere quanto la amasse. Si era innamorato di lei giorno dopo giorno, ma non glielo aveva mai confessato. 


Kabul - Ospedale da campo, 14 settembre 2018
 

Karim si avvicinò a Samuel con passo leggero, sospeso anch'esso insieme ai pensieri che avevano colmato le sue ultime notti accanto a Maryam. Aveva riposato su una scomoda sedia di legno, pur di non lasciare che la ragazza si abbandonasse al dolore per la scoperta. Era in salute, la violenza subita non aveva lasciato altri segni oltre la gravidanza, Karim si premurò di accertarsene. I colleghi gli avevano suggerito di stendersi qualche ora, ma lui aveva negato ogni tipo di consiglio, preferendo occuparsi dei pazienti e rivolgere un'attenzione particolare a Maryam. 
Era sfinito, ma fermarsi significava ricordare anche quanto l'apocalisse fosse vicina per le sue amate terre d'Oriente. Era impotente davanti all'onda anomala che li stava investendo, ogni azione che compiva per la sua gente era solo una goccia d'acqua nel deserto, irrigare era una vana illusione.
Non vi era una sala d'aspetto per un ospedale rudimentale come quello in cui Maryam era ricoverata. L'esterno e le zone limitrofe erano diventate il luogo di attesa per gli amici e i parenti dei pazienti. Non avrebbe potuto pretendere nulla di più, era uno sprazzo di umanità nel mezzo di una distesa di emozioni bistrattate. 
Agli occhi di Samuel, Karim aveva l'aria del medico che forse in passato - prima che lui lo conoscesse - era stato. Le mani nelle tasche e gli occhiali nell'occhiello del camice bianco gli offrivano un'atmosfera professionale; la stessa che avrebbe meritato, ma che la guerra gli aveva strappato. Il conflitto perpetuo gli aveva negato un ambiente nel quale esercitare e da quando l'ospedale di Kabul era diventato una prigione la situazione per lui era precipitata. 
Il medico si accomodò accanto al giornalista con un sospiro sofferto; percepì dolore nel fisico e nello spirito. Lo sguardo dell'afghano era rivolto al suolo, era solo un modo per ricaricare le energie e ritornare accanto al letto di Maryam con un rinnovato sorriso di speranza. Non aveva studiato per curare le anime, eppure in quel clima di sopravvivenza aveva imparato sul campo e sulla propria pelle a fare di ogni necessità virtù. I suoi concittadini si appellavano a lui come la più attendibile fonte di speranza, un oracolo - nel comune sentire -  che avrebbe potuto mutare ogni singolo destino. Salvare vite non lo rendeva un eroe, ma un uomo che non era in grado di arrendersi all'evidenza; si infieriva più male che bene, la malattia che lo aveva colpito recentemente era sintomo della debolezza del suo corpo. Eppure si ostinava a credere che ciò che compiva ogni giorno per il prossimo non fosse mai abbastanza. Era una condanna non riuscire mai a colmare il dolore e le mancanze che la guerra seminava al suo passaggio.
Scrutò la mano destra del giovane americano che reggeva tra le dita una sigaretta ormai giunta al filtro.
«Ne avresti una anche per me?»
«Dottore, è nociva per la salute. Lo sai, vero?»
Karim la accettò nonostante gli avvertimenti. La accese con facilità e sorrise con amarezza, facendosi beffe delle sue conoscenze mediche. Il fumo era l'ultimo dei danni che potesse ricevere il loro corpo in Afghanistan.
«Non è la prima sigaretta. Non ne accendo una da tanto, ma ora ne ho bisogno»
Pensò ai mille motivi che rendevano i suoi nervi incontenibili e lasciò che la nicotina gli offuscasse la mente. Aveva cercato Samuel, aveva bisogno del suo sguardo rassicurante; da quando era arrivato tra loro aveva donato sincera speranza, la stessa che nel cuore del dottore stava esalando i suoi ultimi respiri. Da settimane Karim e Samuel si erano divisi con implicito assenso i compiti: il medico guariva il popolo nel corpo e il giornalista si occupava delle loro anime. Samuel era un supporto per loro, più di quanto il reporter credesse.
Il medico di Herat prese coraggio e si confidò con il suo buon amico. 
«Ho chiesto a Maryam di sposarmi»
«Congratulazioni, Karim! Spero lei abbia accettato»
Forse in Occidente sarebbe stata una gioia, Samuel lo sapeva senza che Karim lo spiegasse, il suo sguardo sconfortato fu più eloquente delle parole. Gli era venuto spontaneo complimentarsi, lo aveva fatto senza pensarci troppo, così era stato per lui quando aveva annunciato insieme a Margaret le nozze a parenti e amici. Era stato superficiale e troppo impulsivo, se ne rese conto tardi.
«Lo fai per aiutarla. È fortunata ad avere un amico come te. Karim, qual è il problema? Non ti vedo più così convinto. Ha forse rifiutato? Spero abbia compreso le tue buone intenzioni»
«Non sono il candidato perfetto per un matrimonio e imprigionarla in una vita infelice non è mia intenzione»
«Più che infelice, si sentirà protetta» 
Samuel non poteva capire cosa lo angustiasse davvero. Nessuna donna lo avrebbe meritato accanto, a nessuna donna avrebbe provocato un dispiacere se non fosse stato strettamente necessario, come nel caso di Maryam. Diede un tiro alla sua sigaretta, la spense con le dita e la buttò al suolo quasi intonsa. Tornò a scrutare il suolo posando i gomiti alle ginocchia, mai prima di allora un suo limite gli era pesato tanto.
«Farò finta che quel bambino sia mio, ma non può esserlo, Samuel ... io non posso concepire, penso da sempre»
Non se lo aspettava e in effetti i timori di Karim potevano essere fondati.
«Lo sa qualcun altro?»
«No»
«E allora non c'è alcun pericolo»
«Il fatto che sia solo alla mia età non ti sembra strano?»
«In America non sarebbe strano»
«Qui non siamo in America e tendi a dimenticarlo un po' troppo spesso»
Dovette ricordarglielo, non poteva pretendere comprensione totale da parte di un occidentale, ne era consapevole.
«Temi possa rischiare comunque? Karim, se la sposi e riconosci il bambino, non diventa un problema solo tuo? Chi altro potrebbe accusarla, se tu non vuoi?»
Non gli rispose.
«Maryam lo sa?»
Karim negò con un leggero cenno del capo.
«Glielo devi dire»
«No. Si sentirebbe ancora più a disagio con me»
«Senti, Karim, scusa la franchezza, ma se voi non avete alcuna intenzione di consumare il vostro matrimonio continuo a non vedere alcun problema»
Samuel aspettava fiducioso una risposta, evidentemente gli stava sfuggendo cosa comportasse davvero la sterilità di Karim. Il medico prese un profondo respiro, non era nelle condizioni psichiche giuste per spiegare con razionalità. 
«È il fondamento del matrimonio. Da noi una donna è costretta a diventare madre, quindi un uomo come me diventa pressoché inutile accanto ad una moglie. Quando quel bambino nascerà e non arriveranno altri figli, la gente inizierà a parlare e lei si sentirà a disagio al mio fianco, la faranno sentire così e daranno la colpa a lei solo perché è una donna. Certo che non ho intenzione di toccarla, solo che nel mio caso diventa anche inutile. Non mi fraintendere, non sono d'accordo con la Legge. Voglio solo che sia serena e che abbia la possibilità un giorno di andarsene da qui. Desidero sia libera di amare, come di non amare»
«Stai facendo tutto il possibile per lei»
«Dovrei fuggire con lei per proteggerla davvero, ma non credo di essere abbastanza forte»
Karim era pallido e sconsolato. 
«Ora devi solo riposare. Non preoccuparti, saprai starle accanto»
«Evita la retorica, Samuel. Riesco a malapena a preservare la salute delle persone che mi circondano, ma non so aiutare lei. Capisci ora perché non ho mai osato farmi avanti?» 
L’aveva accusato di disinteressarsi delle condizioni di Maryam senza sapere davvero cosa l’avesse spinto a compiere quella scelta fino a quel momento. Non si stava comportando da buon giornalista, aveva giudicato prima di approfondire i fatti, ma soprattutto si era fatto portavoce di pregiudizi, un atteggiamento sconveniente per qualunque essere umano, motivo in più per un reporter che faceva della verità la sua ragione di vita.
Il telefono dell'americano nella tasca iniziò a squillare nel momento più sconveniente.
«Pronto»
«Samuel»
Era la voce della madre spezzata dal pianto. Il ragazzo si voltò preoccupato verso Karim, ma quest'ultimo non riuscì ad interpretare lo sguardo dell'amico.

 

 

Los Angeles – St. Vincent Medical Center, 14 settembre 2018
 

Quando Daniel aprì gli occhi, la confusione dell'anestetico lo colse. I muscoli erano atrofizzati, aveva perso la percezione del tempo, era possibile che avesse dormito per più di ventiquattro ore senza rendersi conto di nulla. Tentò di liberarsi del respiratore che gli copriva bocca e naso, paradossalmente lo stava soffocando. Essere preda dei macchinari in una condizione di inerzia lo agitava.
«Non ci pensare nemmeno. Tieni quella museruola ancora un po', così magari sei meno rabbioso»
La voce della figlia lo rimproverò. La vide al suo fianco seduta sul materasso, la dottoressa riposizionò la mascherina con uno scatto deciso e subito dopo una luce intensa venne puntata da lei nelle sue iridi.
«Mi sento meglio, non è necessario … Delilah mi stai accecando, smettila»
Intravide la sagoma della donna allontanarsi e inforcare una biro dal camice. Stringeva una cartella clinica tra le mani. Cercava di camuffare la stanchezza e il malessere psicologico, non voleva mostrarsi debole davanti a lui.
«Ti senti meglio? Davvero? Papà, non hai subìto un'operazione semplice. Potresti per una volta ascoltare e tacere?»
Fu molto più serio rispetto a pochi minuti prima. Gli aveva salvato la vita, ne era sempre più consapevole man mano che la lucidità rinvigoriva. Discutere con lei in fondo era parte del loro rapporto, ignorò perciò i modi poco delicati della figlia. 
«Grazie, Delilah. Come sta tuo fratello?»
Il ricordo di Samuel le fece alzare lo sguardo dai fogli. Anche se nelle ultime ore i pensieri erano stati impegnati su altre questioni, continuava ad essere in pena per lui e per la malattia fatale che rischiava di contrarre con la più piccola distrazione. Daniel interpretò la sua premura.
«Sei preoccupata?»
«Tu no?»
«Conosco Samuel e non gli avrei mai affidato un reportage simile se non fossi stato certo della sua prudenza»

 


Ciao ragazzi!
Con una buona dose di ritardo, riesco ad aggiornare tra le difficoltà della trama (spero sia tutto comprensibile, nel caso chiedo scusa), del lavoro e della vita. Sono quasi tre mesi che mi impegno su questo capitolo. Perdonatemi, davvero, e grazie di cuore a tutti i lettori che mi hanno attesa con pazienza, dote non da tutti. ❤
Millenni fa ho scritto un approfondimento sul rapporto tra Flores e Isabel ai tempi della Guerra Fredda, ve lo lascio qui se dovesse interessarvi: 'Macchie di sangue innocente - segni di amori (im)puri'. Se approfondissi all'interno della trama principale vi annoierei sicuro, quindi preferisco creare tanti piccoli spin-off per i flashbacks. 
Spero a presto!
Un grande abbraccio
-Vale
 


 

[1] Per la metafora mi sono ispirata alla poesia Soldati di Giuseppe Ungaretti.


 
   
 
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