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Autore: Regen    26/03/2021    0 recensioni
Sono gli ultimi giorni della Seconda Guerra Mondiale. Due amici si ritrovano dopo anni su due fronti opposti: uno è ufficiale delle Camicie Nere, l'altro è a capo di una banda partigiana. Una sola giornata per ritrovare il valore di un'amicizia particolare e intensa incrinata dalla guerra.
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Guerre mondiali
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Sera

 

 

Non avrebbero saputo dire chi tra i due fu il primo ad avvicinarsi. Sapevano solo che un attimo prima erano stretti l’uno all’altro, e un attimo dopo i loro volti erano così vicini da respirare la stessa aria. Infine, le loro bocche si erano unite con un trasporto che nessuno dei due aveva mai provato.

Si strinsero ancora più forte l’uno all’altro, in un abbraccio spasmodico, da togliere il fiato. Quasi avessero voluto fondersi. Rosso e nero, sinistra e destra, ribelle e soldato; i due volti dei loro schieramenti, della loro epoca, del loro Paese.

In poco tempo, i loro vestiti erano finiti dimenticati in un angolo del capanno, e i loro corpi, avvinghiati sulla paglia, si esplorarono imparando a conoscersi. O forse ritrovandosi. Nonostante fosse la prima volta, era come se ogni carezza, ogni parola sussurrata sulla pelle nuda, ogni bacio fossero il ricordo di una parte di loro stessi, impressa a fuoco nei loro cuori. Un ricordo del presente, del passato e del futuro. Di casa.

Fu un’unione di corpi e di anime che, seppur divise, non avevano mai smesso di chiamarsi, di cercarsi; due anime così diverse, eppure così uguali. Separate da un destino più grande di loro, realizzarono in quegli istanti di essersi appartenute da sempre, di essere indissolubilmente legate da un filo che nessuno mai sarebbe stato in grado di spezzare. Ogni movimento dei loro corpi, ogni brivido di piacere, ogni volta che l’uno sussurrava il nome dell’altro, ancora e ancora nella quiete del bosco, era quel filo che si accorciava, e che li avvicinava sempre più. All’orgasmo del corpo, che raggiunsero insieme respirando l’uno sulla bocca dell’altro; alla fusione delle loro essenze, che avvenne quando si guardano negli occhi e ciò che videro fu loro stessi, ciascuno riflesso nelle iridi dell’altro.

 

“Allora non eri un sogno.”

Francesco si stiracchiò e si passò una mano sugli occhi per liberarsi dell’ultimo velo di sonno che ancora lo avvolgeva. Romano rise, scompigliandogli affettuosamente i capelli.

Dopo quell’amplesso appassionato, quasi disperato, il ragazzo partigiano era rimasto a lungo a guardarlo con la testa reclinata sul braccio e con gli occhi pieni di emozione, accarezzandogli il viso ancora e ancora, finché l’infinita stanchezza non aveva avuto la meglio e si era abbandonato al sonno. Romano l’aveva allora accolto tra le braccia, per trasmettergli un po’ di calore in quel tardo pomeriggio primaverile e per vegliarlo, come era certo che l’amico avrebbe fatto con lui.

“E adesso?”

“Adesso…” Rispose Francesco con calma, intrecciando le dita a quelle dell’altro e accarezzandogli piano il dorso della mano. “Adesso andiamo insieme dal tuo comandante, chiunque egli sia, e gli proponiamo un patto di resa.”

Romano rise di nuovo. Una risata amara. “Stai scherzando, spero.”

“Tu stai scherzando, se credi che permetterò ancora a questa assurda guerra di separarci.”

“E tu credi davvero che il mio superiore si arrenderebbe così, senza lottare? Forse dimentichi chi siamo noi, Francesco. Noi siamo il braccio armato dell’Italia, il nostro dovere è difendere la patria da chiunque la minacci. Anche dagli stessi italiani, se necessario.”

Francesco si trasse a sedere e lo guardò dritto negli occhi. Le sue iridi chiare erano incendiate da un ardore incredibile, mentre parlava. “Quante stronzate. Siamo stati noi altri a salvare l’Italia dalla rovina che voi avete portato e che… Beh, lasciamo perdere questo per un momento; ho la sensazione che non cambierai idea e ora non c’è tempo per cercare di farti ragionare. Dimmi, allora: sei davvero disposto a rinunciare a questo… a noi, senza lottare?”

Romano quasi sussultò. Non fu tanto la veemenza con cui aveva parlato Francesco, no; fu quella parola, quel “noi” pronunciato con una semplicità disarmante, a far vacillare per un istante tutte le certezze che aveva. Sospirò e scosse lentamente il capo, abbassando lo sguardo.

“In nessun tempo e in nessun luogo potrebbe mai esistere ciò che intendi. Lo sai benissimo.”

“Pensi davvero che me ne importi?” Asserì l’altro, prendendogli il mento tra due dita e costringendolo a guardarlo negli occhi. “Se siamo ancora qui, nonostante la guerra, i morti, i feriti e la distruzione… Se nonostante tutto questo siamo ancora qui, adesso, l’uno di fronte all’altro, è proprio per questo momento. Possiamo cambiare il destino, Romano: possiamo cambiare il nostro destino e quello di altre persone. Io non voglio che altro sangue italiano venga versato inutilmente in questa guerra fratricida. Non voglio che le fondamenta della nuova Italia si poggino su questo.”

“Ipotizziamo per un istante che tu abbia ragione, e che andiamo quindi a presentare la tua proposta al mio superiore; ipotizziamo anche, per assurdo, che lui accetti. Anche così, tra noi e voi non siamo più di una trentina: che differenza vuoi che faccia?”

“Sarebbe già un inizio, per Dio!” Gridò Francesco infervorato, sbattendo una mano sul pagliericcio. “Possibile che tu non capisca? Se il tuo superiore accetta di firmare la resa della vostra caserma, io metterò per iscritto la mia garanzia di capo partigiano che non ci saranno ritorsioni nei vostri confronti.”

Romano sorrise mestamente. “Non cambierai mai, vero? Vuoi sempre fare l’eroe, cercare di salvare tutto e tutti.”

“Dimmi in che modo questo è un male.” Ribatté il partigiano, accennando un sorriso a sua volta.

“Non lo è. È anche per questo che io ti…” Si fermò.

“Che tu mi…?”

Silenzio.

“Oh, lascia stare,” disse infine il fascista, cambiando tono. “Piuttosto, dimmi come pensi che reagiranno i tuoi compari, una volta che sapranno quello che hai in mente di fare.”

Francesco alzò le spalle. “Semplice. Non lo sapranno.”

“Alla faccia della democrazia che tanto decantate,” sogghignò il fascista.

“Non fraintendermi: lo sapranno, ma dopo. Li metteremo di fronte al fatto compiuto, e allora non potranno più opporsi. Certo, lì per lì, magari alcuni si incazzeranno un po’… Ma alla fine sono tutti dei bravi ragazzi, e arriveranno a capire che era la cosa giusta da fare.”

Con lentezza, Romano, che era rimasto, indolente, sdraiato fino a quel momento, si trasse a sedere a sua volta e posò la testa sulla spalla dell’amico, il quale lo strinse prontamente a sé.

Il pensiero del fascista tornò, per l’ennesima volta quel giorno, ai ricordi che li univano, dall’infanzia fino a quel preciso momento. Nonostante la ragione e il suo senso del dovere gli gridassero che quella era un’assurdità, un azzardo, per la prima volta in vita sua non li ascoltò. Scelse invece di ascoltare il cuore. Scelse Francesco.

“Sarebbe bello se, quando tutto questo sarà finito, potessimo andare da qualche parte lontano da qui. Magari in qualche posto da cui si può sentire il rumore del mare, e delle onde che si infrangono sugli scogli…” Il milite chiuse gli occhi, immaginando un posto del genere e loro due lì, insieme. “Da qualche parte dove nessuno saprebbe mai chi siamo e da dove veniamo.”

Il giovane partigiano fece scorrere la mano lungo la schiena dell’altro ragazzo, in una lenta carezza. “Piacerebbe tanto anche a me…” Sussurrò.

Poi, all’improvviso, capì. “Aspetta un attimo… Quindi quello era un sì?”

Senza sciogliere l’abbraccio, voltò il capo quel tanto che bastava per guardarlo negli occhi e l’altro annuì, l’ombra di un sorriso a tendergli le labbra. La felicità riempì improvvisamente il cuore di Francesco fin quasi a scoppiare.

“Lo sapevo! Lo sapevo che avresti accettato!” Gli prese il viso tra le mani e lo baciò, ancora e ancora, in preda all’euforia.

Romano rise di fronte a quello slancio, intrecciando le dita tra i capelli biondi dell’amico d’infanzia.

 

“Non per fare l’uccello del malaugurio, ma come puoi essere tanto sicuro che il tuo piano funzionerà?” Gli domandò Romano, mentre si stavano rivestendo.

“Perché lo porteremo avanti insieme,” rispose Francesco con un sorriso, con quella sua semplicità disarmante. “Da ora innanzi, qualunque cosa accadrà, noi saremo sempre insieme. Te lo prometto.”

L’altro ragazzo sorrise di rimando. Era tutto ciò che voleva sentire. Di tutto il resto, delle possibili - e probabili - complicazioni, di un eventuale fallimento, e persino della morte, non gli importava.

“Senti… So già che questa è una domanda stupida, ma te lo voglio chiedere comunque.”

Francesco, che si stava allacciando gli scarponi consunti, alzò lo sguardo incuriosito. “Chiedermi cosa?”

“In questi anni… In mezzo a tutte le privazioni, i combattimenti, le fughe e i nascondigli… Hai mai pensato, anche solo per un secondo, di cambiare schieramento? Di unirti a noi?” Non lo guardò negli occhi, Romano, mentre pronunciava quelle parole. Finse invece di essere particolarmente concentrato ad allacciare il polsino della camicia.

“No, mai.”

“Lo immaginavo.”

“Perché tu, invece? Hai mai pensato di passare dalla nostra parte?”

“Cielo, no!” Romano si sentì quasi offeso da quella domanda, ma l’immagine che aveva davanti in quel momento, di Francesco che si annodava al collo il suo amato fazzoletto rosso, lo indusse inconsapevolmente ad ammorbidire il tono. “Posso essere d’accordo con questo tuo piano, capo partigiano; ma ciò non significa che sia d’accordo con tutte le tue idee.”

“Lo immaginavo.”

Si guardarono, e per qualche istante i loro volti furono seri come quella mattina. Un attimo dopo stavano ridendo di nuovo, insieme.

“Strano che la tua banda sgangherata non sia ancora venuta a cercarti. O a cercare me, nel caso pensassero che ti ho fatto fuori.”

Francesco inarcò un sopracciglio, scettico, ma aveva ancora il sorriso sulle labbra. “Tu, fare fuori me? Ma neanche tra cento anni! Piuttosto, è più probabile che i ragazzi mi abbiano cercato tutto il pomeriggio, e che ora siano tornati al rifugio. Ultimamente non ci muoviamo con il buio, se non è strettamente necessario. Penseranno che ho avuto bisogno di una pausa dopo gli avvenimenti di oggi, e che voglia starmene un po’ per i fatti miei.”

“Succede spesso? Che tu abbia bisogno di una pausa, intendo.”

“Vuoi sapere se faccio quelle cose con ogni ufficiale delle Camicie Nere che catturiamo?” Sogghignò il ragazzo biondo.

“Idiota.”

Lo scappellotto dietro la nuca che ricevette dall’altro non fece che accentuare il sorriso divertito di Francesco. Era forse gelosia, quella? Scoprì che non gli dispiaceva affatto quella nuova componente del loro rapporto. Non c’era stato abbastanza tempo per soffermarsi a riflettere su tutto ciò che avrebbe implicato quella nuova dinamica, ma lui era senza dubbio impaziente di scoprirlo.

“Comunque, per rispondere seriamente alla tua domanda, sì, mi capita abbastanza spesso di aver bisogno di qualche momento per starmene da solo con i miei pensieri. Ma come puoi immaginare date le circostanze, le occasioni per farlo sono veramente poche.”

Il milite annuì, comprensivo. “Capisco quello che intendi. Anche per me è così. E credo tu possa immaginare che ritagliarsi dei propri spazi in caserma sia altrettanto impossibile.”

“Già,” commentò il partigiano, prendendo il fucile in spalla. “Quindi, cosa stiamo aspettando? Andiamo a sistemare questa faccenda una volta per tutte.”

Una volta accertatosi che non ci fosse nessuno nei paraggi, Francesco uscì dal capanno, seguito da Romano.

Il piccolo bosco odorava della pioggia appena caduta e del polline dei fiori che le api avevano da poco iniziato a raccogliere. Gli alti pioppi creavano una volta naturale sopra il sentiero coperto dei loro piccoli semi raccolti in candidi batuffoli bagnati, che alla luce della luna parevano fiocchi di neve appena caduti. Il silenzio regnava ovunque, interrotto solo dal canto di qualche civetta che si era appena svegliata dal letargo invernale.

Nel buio quasi totale, Romano per poco non inciampò e si lasciò sfuggire un’imprecazione; Francesco allora gli prese la mano e lo guidò premurosamente, passo per passo, su quei sentieri che ormai conosceva come il volto della propria madre e che avrebbe potuto percorrere anche ad occhi chiusi. Quando giunsero al limitare del bosco, dal lato del paese, il capo partigiano si fermò di colpo.

“Anche io,” disse, inaspettatamente, al soldato.

“Come, scusa?” Chiese l’altro, confuso.

“Quello che stavi per dire prima, al capanno. Voglio che tu sappia che per me è lo stesso.”

Non vide il meraviglioso sorriso che gli rivolse il ragazzo moro nel buio, ma sentì le sue labbra sulle proprie così come sentì, nel cuore, tutti i significati che quel bacio implicava.

 

Il Capo Milite Ferrarini era inquieto, lo era stato per tutta la durata di quella giornata maledetta. Aveva saputo che i suoi soldati avevano sì incontrato i ribelli, ma erano stati sconfitti senza colpo ferire e non solo: erano stati lasciati liberi di tornare a casa come se nulla fosse successo.

“Strano, molto strano,” ragionò tra sé e sé per l’ennesima volta in quel giorno, percorrendo il suo ufficio avanti e indietro. “Qui deve per forza esserci sotto qualcosa… Un trucco, sì… Deve essere per forza così. Ma quale?”

Qualcuno bussò alla porta, e lui ingiunse loro di entrare.

“Signor Capo Milite, signore,” disse un giovanissimo soldato trafelato, “c’è il Sotto Capo Milite Damiani davanti al cancello che chiede di parlare con voi.”

“E allora cosa state aspettando, per diamine?! Fatelo passare subito!” Tuonò l’ufficiale. “Era ora che tornasse, Damiani se l’è presa comoda!” Aggiunse mentalmente.

“Purtroppo c’è un problema, signor Capo Milite, signore,” lo informò il ragazzo.

“Problema? Che genere di problema?”

“Il Sotto Capo Milite non è solo, signore. È accompagnato dal capo dei ribelli, che chiede anch’egli di parlare con voi, e…”

Il Capo Milite Ferrarini non gli lasciò il tempo di finire la frase. Si fiondò immediatamente fuori dall’ufficio, attraversò il cortile a grandi falcate e si diresse al cancello della caserma.

Passò in mezzo ai suoi uomini, tutti schierati in posizione con i fucili puntati verso la strada, e si fermò davanti all’inferriata. A pochi metri di distanza dall’altra parte c’era il suo sottoposto, Romano Damiani, accanto a colui che aveva riconosciuto come il capo partigiano della banda della zona, anche se non ne aveva mai saputo il vero nome: i ribelli usavano dei soprannomi in battaglia, in modo da non poter essere poi rintracciati.

“Sotto Capo Manipolo! Pretendo che spieghiate immediatamente il significato di questa pagliacciata!”

“Non si tratta di una pagliacciata, Capo Manipolo Ferrarini. Sono tornato a fare rapporto solo ora perché sono stato impegnato in una lunga trattativa con il qui presente Francesco Cerioli, il capo della banda dei ribelli. Se mi consentite di esprimere il mio parere, signore, ritengo che abbiamo raggiunto un accordo più che ragionevole per entrambe le parti; con tutto il dovuto rispetto, vi chiedo quindi il permesso di poterlo esporre anche a voi, nell’interesse della nostra Milizia.”

Ma l’ufficiale in comando delle Camicie Nere aveva ascoltato solo le prime due frasi.

“Finalmente osi uscire allo scoperto, comunista dei miei stivali! Dì un po’, Francesco Cerioli, mi prendi forse per stupido? Credi che non sappia che la tua banda di pidocchi si nasconde da qualche parte nel buio lì dietro, aspettando solo che apriamo questo cancello per attaccare e prendersi la caserma? Credi che non sappia riconoscere uno sporco trucco?”

“Signor Capo Milite, vi garantisco sul mio onore che…” Tentò di intercedere Romano Damiani, ma la sua voce non giunse mai alle orecchie del suo superiore.

“Fuoco!”

 

Francesco non avrebbe mai immaginato che sarebbe potuta andata così. Un attimo prima si trovava al fianco di Romano, con il fucile in spalla certo, ma non puntato e nemmeno carico, davanti alla milizia fascista; un attimo dopo, all’ordine del loro superiore, quelli avevano preso la mira e avevano sparato nella sua direzione.

Quello che non avrebbe potuto immaginare nemmeno nel peggiore degli incubi, però, era che Romano si sarebbe gettato davanti a lui per fargli da scudo con il suo corpo contro i proiettili dei suoi stessi commilitoni.

Francesco si era trovato innumerevoli volte di fronte alla morte, così tante che aveva ormai perso il conto. Tuttavia, quella sera fu come la prima volta. Solo cento volte peggio.

Mentre spalancava le braccia per afferrare al volo il corpo esanime dell’amico d’infanzia, fu come se fosse lui stesso, a morire. Tutti gli ideali, i sogni, i progetti e le lotte di una vita scomparvero in un frammento di istante. Ogni cosa perse significato, colore e valore. Anche la vita stessa.

Sotto gli occhi dei fascisti sgomenti, poggiò delicatamente a terra il corpo che aveva stretto a sé per un pomeriggio intero - il più bello della sua vita - e si chinò per depositare un ultimo bacio sulla sua fronte. Poi imbracciò il fucile e lo puntò sui militi della caserma.

Una raffica di proiettili lo centrò in pieno.

“Non lo dimenticherò, te lo prometto. Un giorno ti restituirò il favore.”

Con i suoi ultimi respiri udì la voce di Romano, ovattata dal tempo. Aveva rispettato la sua promessa.

“Da ora innanzi, qualunque cosa accadrà, noi saremo sempre insieme. Te lo prometto.”

Come lui aveva rispettato la sua.

 

Non c’era stato nessun attacco, nessuna sparatoria, dopo. Il Capo Manipolo Ferrarini era basito. Lui, un rude militare di carriera con alle spalle tante e tante battaglie, era sconvolto dall’orrore e dalla drammaticità della scena che si era svolta sotto i suoi occhi. I suoi militi erano subito usciti a controllare i corpi - deceduti, entrambi - e gli avevano portato anche un’altra notizia: l’arma del partigiano non era carica.

Nessun trucco, nessuna trappola.

“Mio Dio, cosa ho fatto…?” Pensò, invocando un Dio che non credeva l’avrebbe più ascoltato. Così come lui non aveva ascoltato quei due ragazzi.

“Signor Capo Milite, quali sono gli ordini?” La voce di uno dei suoi soldati lo riscosse.

“Date loro una degna sepoltura.” Ordinò.

Il ragazzo che era entrato nel suo ufficio si fece timidamente avanti. “Ma… Signor Capo Milite, signore…intendete anche al ribelle?”

L’ufficiale lo guardò. “Ricordami il tuo nome, soldato.”

Questi si mise subito sull’attenti. “Arcuri Alberto, signor Capo Milite, signore.”

“Milite Arcuri, Francesco Cerioli, il capo dei partigiani, era un combattente valoroso. Lui e i suoi uomini hanno mostrato indulgenza nei confronti dei nostri camerati in tempi in cui assai pochi sono disposti a farlo. Noi siamo coloro che tengono alto l’onore dell’Italia, e l’onore ci impone di mostrare loro il dovuto rispetto. Anche tra nemici ci deve essere, il rispetto. Ricordati questo, soldato, e portalo con te fino alla vecchiaia.”

“Signorsì, signore. Grazie per l’insegnamento, signore.”

Il milite Arcuri Alberto non sarebbe mai arrivato alla vecchiaia, così come nessuno di loro, in quella caserma. L’errore che il loro comandante aveva fatto quella sera aveva segnato la loro sorte. Ma questo il Capo Milite Ferrarini non ebbe il cuore di dirglielo. L’indomani i partigiani si sarebbero avventati su di loro, e nessun’arma e nessun cancello sarebbero stati in grado di salvarli.

Non aveva un animo cattivo, il Capo Milite Ferrarini: sapeva riconoscere il valore degli avversari sul campo di battaglia e li rispettava per questo, nonostante ciò non lo avesse mai ostacolato dal compiere il proprio dovere. Tuttavia, per quanto ci ragionasse, non riuscì a capire cosa avesse spinto quei due ragazzi, nemici tra loro, a compiere quel gesto suicida; ma lui non era mai stato un gran pensatore, e si rassegnò al fatto che non sarebbe mai venuto a capo di quell’enigma. L’ufficiale delle Camicie Nere si ritirò nel proprio ufficio a stendere il rapporto della giornata, più per occupare l’attesa che per necessità. Non c’era più nessuno a cui fare rapporto, non ci sarebbe mai più stato.

Lentamente, l’oscurità della notte lasciò il posto al bagliore rossastro dell’alba. L’alba che illuminò con la stessa luce la caserma dei fascisti e il rifugio dei partigiani; l’alba che rischiarò le tombe di due ragazzi che, seppur su schieramenti opposti, avevano entrambi amato la loro patria. L’alba che rischiarò l’Italia intera.

L’alba del 25 aprile.

  
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