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Autore: syila    28/03/2021    1 recensioni
In una città tentacolare e multietnica come Singapore possono accadere cose spiacevoli a chi si avventura negli stretti e tortuosi vicoli dei quartieri più antichi; anche Sigvard Ohlsen viene coinvolto in una situazione pericolosa quando il Capitano Justus Van Loo scompare improvvisamente nell'affollato mercato a ridosso del porto.
L'olandese aveva detto di essere pronto a lasciarsi il passato di pirata alle spalle per tornare in Europa col giovane ufficiale, ma cosa potrebbe succedere se invece il passato non fosse pronto ad essere dimenticato?
Questa storia segue il breve arco temporale rimasto in sospeso nella "Ballata del mare salato".
Genere: Avventura, Drammatico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti | Contesto: Età vittoriana/Inghilterra
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- Questa storia fa parte della serie 'Victoriana'
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Capitolo I°

Possiamo scegliere quello che vogliamo seminare, ma siamo obbligati a raccogliere quello che abbiamo piantato.
Proverbio cinese


La città di Singapore era come una foresta primigenia: un luogo torrido e brulicante di vita, al tempo stesso splendido e marcescente, sensuale e crudele.
Cominciava con la palude delle giunche e delle capanne che dilagavano sull'acqua dello Stretto, così fitte che era impossibile distinguere dove cominciasse effettivamente il mare e dove finisse la terra.
Era un posto affascinante ma pericoloso, tutto cunicoli tortuosi e anfratti oscuri, abitato da gente delle più varie etnie ma accomunata dall'avere poco o niente da perdere.
Lì si trovavano le più sordide fumerie d'oppio, le mescite in cui si servivano alcolici di contrabbando e le botteghe che vendevano merci sconosciute, provenienti da tutti gli angoli del mondo.
Vi era poi il sottobosco dei primi edifici in muratura, dei magazzini del porto e delle abitazioni dei mercanti meno ricchi.
Lì c'erano modesti negozi e strade lastricate. I risciò passavano trasportando armatori cinesi e faccendieri europei.
E poi si saliva. Via via la città diventava più ariosa, le strade si allargavano, i negozi cedevano il passo a eleganti caffé e teatri e chiese bianche come pani di zucchero, fino a raggiungere la sommità della foresta pluviale, la cima svettante dei grandi alberi, costituita dagli alberghi di lusso e dai palazzi governativi britannici.
Il caldo però regnava ovunque, umido e soffocante.

Gli ultimi raggi del tramonto tingevano di un arancio intenso le acque dello Stretto, facendole assomigliare a una colata di metallo incandescente.
Il mare era calmo e le poche giunche che ancora non avevano attraccato per la notte vi scivolavano sopra senza rumore, spinte da un leggero vento di libeccio.
Il riflesso delle prime lanterne cominciava a tremolare nell'acqua: pennellate di rosso, porpora e verde che si spargevano sulle onde come manciate di gemme.
Nell'aria aleggiava l'odore di brace e cibi arrostiti delle bancarelle cinesi, misto al sentore penetrante della salsa di arachidi malese e a quello raffinato dell'antica cucina dei Baba Nyonya, i misteriosi cinesi dello Stretto sulla cui ricchezza si raccontavano fantastiche leggende.

“È bello qui,” disse Sigvard Ohlsen, lasciando vagare lo sguardo sull'acqua che si faceva sempre più liscia e immobile.
Sedeva ad un tavolino che si trovava sul terrazzo di una vecchia casa coloniale. L'edificio aveva di certo visto tempi migliori, e decenni di rimaneggiamenti avevano portato la sua architettura da un insieme di linee ortogonali a un susseguirsi tortuoso di stanzette e corridoi, ma ciò che la vecchia casa aveva perso in funzionalità l'aveva senza dubbio guadagnato in fascino. Il terrazzo che si affacciava sull'acqua doveva essere stato in passato un patio per i ricchi mercanti che l'avevano fatto edificare, poi un molo, poi una rampa di carico, poi forse un deposito approssimativamente coperto, e adesso era tornato alla sua funzione originaria, ovvero quella di ospitare persone tranquille e desiderose di bere qualcosa di fresco lasciando vagare lo sguardo sulla baia.
Seduto di fronte al giovane svedese, Justus van Loo rispose: “Tutte le volte che mi trovo a Singapore faccio una visita al locale del vecchio Qiang. Lo trovo molto rilassante.”
“Ci vieni spesso a Singapore?”
“Ci venivo quando...”
Si interruppe.
La frase completa sarebbe stata: ci venivo quando prendevamo qualcosa di particolarmente grosso e c'era da piazzare il carico.
Corresse il tiro: “Ci sono venuto qualche volta.”
A Sigvard non piaceva che lui fosse stato un pirata. Non vi alludeva mai, naturalmente, ma Justus sapeva che l'argomento gli era particolarmente sgradito.
Alzò gli occhi sul ragazzo, che però era voltato verso l'acqua. Ostentatamente voltato, parve all'olandese.
“Sigvard?”
“Scusami, è più forte di me,” disse l'altro con franchezza.
Justus spinse la mano sulla superficie del tavolo fino ad incontrare quella del suo giovane amante. “Ho chiuso con quella vita, quante volte te lo devo dire?”
“Anche se noi chiudiamo col passato, non è detto che il passato chiuda con noi.”
“E questo che significa? Per caso hai paura che un giorno mi prenda un raptus di follia e mi rimetta a percorrere il mare a bordo di una giunca di tagliagole?”
Lo svedese si limitò ad aggrottare appena la fronte. Non l'avrebbe ammesso nemmeno sotto tortura, ma il suo timore era proprio quello.
Che un giorno il comandante van Loo si stancasse della cosiddetta vita onesta e decidesse di ricominciare a fare il pirata. La belva che assaggia carne umana difficilmente poi si rassegna a mangiare di nuovo animali selvatici, è un fatto risaputo.
Quella era la cosa che gli faceva più paura in assoluto, perché se Justus fosse tornato a fare il pirata lui non avrebbe potuto seguirlo.



Il passato raggiunse l’olandese qualche giorno dopo, in uno degli affollatissimi mercati di Singapore.
Il Capitano cercava del buon tabacco per la sua pipa e Sigvard lo aveva accompagnato nelle strettissime viuzze dei quartieri vecchi, che s’inerpicavano tortuose fino alle prime colline.
I negozi, ingombri di ogni genere di mercanzia, dalle più ovvie, come il riso e le stoffe, alle più misteriose, sembrava che avessero esaurito lo spazio interno rigurgitando sulla strada i loro prodotti, che costringevano la brulicante folla di compratori a vere e proprie gimcane tra casse di volatili starnazzanti e pingui sacchi di spezie.
Nonostante il signor Olsen avesse una scarsa predisposizione a soffermarsi su qualcosa che non fosse un timone, una carta nautica o l'orizzonte, non poté fare a meno di stupirsi davanti alle bottegucce che vendevano i rimedi tradizionali della medicina cinese: lucidi scorpioni essiccati, uova di drago, zanne di tigre, spacciate come panacea universale, suscitavano in lui uno stupore infantile unito ad un vago senso di ribrezzo
Quando la minuscola proprietaria della “farmacia”, dall'aspetto rugoso come quello delle arance che si appendevano sull’albero di Natale, provò a rifilargli qualcuno di quei rimedi il giovane ufficiale faticò a scollarsela di dosso a causa della sua melliflua cortesia, che lo obbligava a risposte altrettanto cortesi.
“Un tonico per la virilità…” ripeteva sommessamente sorridendo tra sé “Non credo di averne bisogno Justus… Justus?”
Il Capitano doveva essere entrato nel negozio dirimpetto dove lo aveva visto intavolare una trattativa col proprietario su alcune scatole di tabacco d’importazione.
Attese qualche minuto, ma dall’angusta rivendita non uscì nessuno.
Attorno a lui la folla di piccoli cinesi continuava a vorticare, apparentemente indistinguibili gli uni dagli altri, apparentemente indifferenti allo straniero biondo.
Una vaga inquietudine cominciò ad impadronirsi del giovane, mosse qualche passo fino al punto in cui la strada principale s’incrociava con un vicolo ancora più stretto e buio dove a malapena due persone potevano muoversi affiancate. La sensazione di disagio crebbe nonostante Sigvard s’imponesse di rimanere calmo; Van Loo non era un bambino e non c’era bisogno che vivessero appiccicati, forse aveva semplicemente deciso di tornare alla locanda da solo e di aspettarlo lì.
Tuttavia dell’Olandese si poteva dire tutto tranne che fosse un irresponsabile; lo avrebbe avvisato del suo allontanamento, invece era semplicemente svanito nel nulla, come se non fosse mai esistito.
Domandare ad una di quelle formiche insaccate in stracci di tela blu o grigia era inutile, del formicaio avevano lo stesso spirito di sacrificio e la stessa monolitica compattezza; se avevano visto sparire l’olandese lì in mezzo, o se qualcuno lo “aveva fatto sparire” nessuno di loro avrebbe collaborato.
Il signor Olsen inspirò profondamente l’aria umida e troppo carica di odori poi entrò deciso nel piccolo vicolo laterale.



Non c'era nulla nel vicolo. O perlomeno nulla di interessante. Era stretto e sporco, ingombro di detriti. Lungo le pareti si susseguivano porte sbarrate di magazzini, uscite di servizio di locande e fumerie d'oppio, qualche abitazione privata e un piccolo tempio alquanto dimesso, ormai coperto di rampicanti e sporcizia.
Persone non se ne vedevano. Si sentiva qualche voce provenire dalle cucine delle locande, una donna che cantava, il vagito di un bambino, ma non c'era nessuno in giro.
Sigvard si affacciò alle rare porte aperte, ma non vide nulla che potesse spingerlo a varcare una di esse.
Lì Justus non c'era.
Tornò sulla via principale, che lo accolse con una caotica accozzaglia di suoni e odori.
Si guardò intorno, ma sarebbe stato facile notare l'olandese, se fosse stato da quelle parti: era biondo, più alto di tutta la testa rispetto alle persone che affollavano la strada e vestito con un'elegante uniforme blu dai bottoni dorati.
Qualcuno lo urtò. Si girò di scatto, ma era solo un venditore di frutta che camminava bilanciando le sue ceste sulle spalle.
Di nuovo fece girare uno sguardo irresoluto tutt'intorno. Justus non c'era, quello sembrava essere l'unico dato chiaro di tutta la faccenda.
Guardò un'altra volta nella bottega del tabacco alla ricerca di una stanza secondaria invisibile dalla strada, ma fu nuovamente deluso.

Tornò sulla strada, guardò in qualche altra bottega. Una sorda inquietudine stava cominciando a impadronirsi di lui. Conosceva Justus, e quel comportamento era del tutto alieno alla sua natura. Non sarebbe mai andato via senza dirgli qualcosa, non l'avrebbe mai lasciato in quel modo.
A meno che...
Forse si era sentito male? Gli sembrava improbabile che un uomo forte come van Loo fosse stato assalito da un malessere improvviso così intenso da costringerlo a dileguarsi senza una spiegazione, ma quell'idea lo indusse a tornare alla locanda presso cui abitavano.

Giunse alla piccola pensione in preda a tetri presentimenti. Se davvero Justus stava così male da comportarsi in quel modo, la rosa delle patologie che potevano averlo colpito lasciava ben poche speranze. Vi erano malattie tropicali che non solo non avevano alcuna cura, ma erano talmente strane e rare da avere a stento un nome. Le conosceva solo con i termini locali, e sapeva che tutte conducevano inesorabilmente alla morte.
Andò alla ricerca del padrone della locanda, un orientale legato al comandante van Loo da un pluriennale rapporto di amicizia. Sigvard sospettava che quell'amicizia si fosse consolidata durante gli anni in cui il comandante era stato un gentiluomo di fortuna, ma non era quello il momento di sottilizzare.
Trovò l'uomo in un angolo della sala principale, intento a consumare una ciotola di riso.
“Signor Chen!” lo chiamò, dirigendosi a grandi passi verso di lui.
L'altro si alzò e si inchinò cerimoniosamente.
“Signor Chen, il comandante è rientrato?” domandò lo svedese.
L'orientale si inchinò di nuovo e con grande cortesia rispose: “Comandante non qui.”
“Non è rientrato?”
“Lui non qui,” ripeté il signor Chen, scuotendo desolato la testa.



Gli imprevisti accadono e ci colpiscono senza usare la cortesia di avvisarci per tempo, altrimenti si definirebbero “previsti”, invece una “leggerezza” è ampiamente prevedibile e si può evitare attuando alcune semplici contromisure.
Il Capitano Van Loo aveva commesso la più imperdonabile delle leggerezze: ovvero credere che appendendo al chiodo i panni del pirata si sarebbe lasciato alle spalle anche le vittime delle sue audaci rapine; quale motivo avrebbe avuto per non farlo?
La maggior parte dei mercantili che aveva alleggerito era ben assicurato da qualche solida compagnia europea o americana, tolti i danni collaterali del carico e di qualche facinoroso che si era messo in testa di voler fare l’eroe (ogni nave aveva il suo e uno addirittura lo aveva salvato ed era diventato il suo compagno di vita e di viaggio) agli ufficiali in comando bastava solo presentare regolare denuncia per vedersi rimborsato il mal tolto.
Tuttavia nel mar della Cina non circolavano solo rispettabili cargo mercantili e rispettabilissime giunche pirata come la Seung, questi soggetti si dividevano le rotte con una fauna d’imbarcazioni dedite a traffici molto meno leciti dove l’oppio e le merci di contrabbando facevano la parte del leone.
Occasionalmente l’olandese si era imbattuto in questi carichi clandestini e, forte del numero di uomini, aveva provveduto ad impossessarsene lasciando agli sventurati l’arduo compito di spiegare ai loro padroni che un ladro non può lagnarsi se qualcuno lo deruba.
Il fatto di trovarsi in una stanza pulita e profumata d’incenso non lo rassicurò; nei brevi momenti di lucidità, subito prima di sentirsi sprofondare nel pavimento che lo avvolgeva e si rinchiudeva sopra di lui, Justus Van Loo era riuscito a farsi un’idea più o meno chiara di quello che era successo al mercato.


Prima leggerezza.
Aveva iniziato una serrata contrattazione col mercante di tabacchi, lasciando che Sigvard esplorasse le meraviglie esotiche delle bottegucce adiacenti, l’uomo; un piccolo, insignificante, servile insetto dagli occhi a mandorla lo aveva invitato nel retrobottega con la scusa di mostrargli certe pipe in radica e avorio che un intenditore come lui avrebbe sicuramente apprezzato. A pensarci meglio il mercante era di una cortesia che andava oltre la sudditanza, sorrideva troppo e questo doveva metterlo sull’avviso.

Seconda leggerezza.
Una volta entrato nel retrobottega qualcuno lo aveva colpito dietro le spalle, abbastanza forte per intontirlo, ma non abbastanza da tramortirlo.
L’Olandese aveva reagito con la prontezza del fuorilegge consumato, temprato all’uso della forza; riuscì ad atterrare un primo e poi un secondo aggressore, ma ben presto si trovò a lottare contro cinque avversari nell’angusta stanzetta, mentre il proprietario aveva sprangato la porta divisoria e si era dileguato nel vicolo.
Poteva chiamare Sigvard, a quella distanza lo avrebbe sentito sicuramente, però che senso aveva metterlo in pericolo quando si era trovato da solo in situazioni ben peggiori?

Terza leggerezza.
Quando spuntò il primo coltello Justus si rese conto che il suo era rimasto alla locanda e fu costretto a servirsi di quello che c’era nel retrobottega per parare i fendenti; uno riuscì ad andare a segno nella confusione generale e dopo qualche istante l’uomo avvertì un forte dolore al fianco destro.
Istintivamente portò le mani sulla ferita per saggiarne la gravità, ma in quel modo offrì un facile varco agli avversari, che gli furono addosso e riuscirono a bloccarlo, mentre uno di loro gli iniettò qualcosa nel collo che lo fece precipitare nell’incoscienza.



Calava la sera e ancora Justus van Loo non si vedeva.
Sigvard era tornato alla bottega dei tabacchi, solo per trovarla sbarrata come se fosse chiusa da decenni.
Aveva chiesto in giro, ma era stato come domandare a delle maschere: si era visto rivolgere sorrisi vuoti, inchini cerimoniosi e nient'altro.
Aveva cercato nel locale di Qiang, al tempio buddhista, al circolo dei commercianti europei e in tutti i luoghi che il suo amante era solito frequentare, con nessuna speranza di trovarlo, ma con la consapevolezza che era preferibile muoversi e darsi da fare piuttosto che stare a languire alla locanda.
Là c'era il signor Chen, che lo avrebbe fatto avvertire alla comparsa del minimo indizio, quindi non avrebbe avuto senso stare ad aggirarsi come una belva in gabbia nella camera o rimanere nella sala principale con lo sguardo fisso sulla porta d'ingresso.
Quando alla fine si persuase che non avrebbe trovato van Loo da nessuna parte, mestamente tornò sui suoi passi.
“Ancora niente?” chiese al signor Chen entrando.
L'uomo scosse la testa.
“Chiamatemi subito se c'è qualche notizia,” gli disse, poi salì le scale che portavano alle camere.
Entrato in quella che divideva con il comandante van Loo, si stese sul letto con un sospiro di frustrazione e rimase ad ascoltare assorto il chiasso della strada, nella speranza di udire anche i familiari passi del suo amante lungo il corridoio.

La stanza sembra tutta d'oro. Ha pareti d'oro sulle quali si intrecciano corpi smaltati di dragoni, e ha anche il soffitto d'oro, che si intravede al di sopra di un intrico di travi intagliate. Il pavimento invece è nero e lucido come uno specchio.
Il fumo di incenso rende l'atmosfera opaca e azzurrina.
I raggi di luce che entrano da una finestra rotonda diventano come lame nella caligine.
A terra c'è un corpo riverso. È il corpo di un uomo dalla corporatura possente, ha spalle larghe e si indovina che è di alta statura. La pelle chiara e i capelli biondi lo identificano come europeo.
L'uomo è sofferente, sta molto male. Perde anche sangue, che gocciola sul pavimento lucido macchiandolo.
Poi d'un tratto si volta.


“Justus!” gridò Sigvard svegliandosi di soprassalto. Si guardò intorno disorientato, realizzando di non essere nel tempio d'oro ma nella sua solita camera.
“Justus...” ripeté, passandosi sul viso una mano leggermente tremante. Di nuovo fece girare lo sguardo tutt'intorno come alla ricerca di qualcosa. Quello che aveva sognato non poteva essere un caso, il suo amante era da qualche parte ferito e aveva bisogno di lui. Saltò giù dal letto e corse nella sala principale della locanda.
“Signor Chen!” cominciò a chiamare, già a metà della scala, “Signor Chen, dove siete?”
L'orientale si avvicinò con gran sfoggio di inchini. “Ancora niente, comandante non qui!” chiocciò.
“Lo so che non è qui,” rispose bruscamente Sigvard “è prigioniero in qualche posto e io devo trovarlo, quindi ora mi direte per filo e per segno chi è che gli vuole male qui a Singapore.”
Il signor Chen fece qualche debole tentativo di sottrarsi, ma lo sguardo dello svedese diceva chiaramente che l'avrebbe ucciso se si fosse rifiutato di aiutarlo, quindi seppur a malincuore si rassegno a mettere a parte il focoso ragazzo dei segreti di alcuni anni di onorata pirateria.


Fine prima parte


⋆ La voce della coscienza ⋆

Carissimi come promesso, anche se a qualche mese di distanza, io e Old Fashioned siamo tornati col seguito delle avventure dei nostri naviganti vittoriani, che stavolta li vedono impegnati sulla terra ferma, in circostanze non meno pericolose.
Questi tre capitoli coprono il breve arco temporale che li separa dalla partenza per l'Europa dove li abbiamo lasciati nell'ultimo racconto; il Capitano Olandese ha parecchi conti da saldare prima di lasciarsi il passato da pirata alle spalle.
Può il Signor Olsen restarne fuori?
Ovviamente no!
Chi volesse recuperare la prima parte della storia in salsa esotica, coloniale, piratesca e vittoriana può farlo qui:
https://efpfanfic.net/viewstory.php?sid=3885996&i=1
Ringraziamo anticipatamente chi vorrà avventurarsi nelle strette e tortuose stradine di Singapore, qualsiasi riscontro sarà sempre molto apprezzato!



   
 
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