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Autore: EleonoraParker    29/03/2021    1 recensioni
Era buia, la notte. Più buia di quanto fosse in qualsiasi altro luogo, sui colli della sepoltura.
Soffi di vento gelido si insinuavano tra le ciocche, smuovevano le vesti, e, nella loro spietata imperturbabilità, avevano l’ardire di trapassare la stoffa leggera.
Quale abominio, toccare l’intoccabile.
Wei Wuxian sorrise, all’empia oscurità fuori e dentro di lui.
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Passavano, le ore. La campana aveva suonato, l’ora era arrivata. Il sonno no.
Ma il tempo passava, lo faceva. Invecchiava i volti, smussava le rocce, stringeva i cuori.
In silenzio, noncurante dell’ombra di distruzione che si portava dietro.
In silenzio, come il più sleale degli assassini e il più fatale dei sentimenti.
Aveva imparato a conoscerlo, Lan Wangji, il tempo. Ed era l’unica cosa di cui avesse paura.
Genere: Angst, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Lan Wangji/Lan Zhan, Wei Ying/Wei WuXian
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Salve a tutti. Piccola premessa prima di cominciare.
Non ho inserito tag movieverse o otherverse perché questa storia è stata scritta ispirandosi all'anime prima e alla serie poi, quindi in realtà va bene con entrambi. Si colloca in un momento non specificato dell'anno trascorso da Wei Wuxian sul colli della sepoltura, non ho neppure deciso se prima o dopo l'incontro con Lan Wangji, non credo ci siano fondamentali differenze ai fini della storia. 
Poi mi sono permessa anche di aggiungere un piccolo pezzo di mia invenzione sul passato di Lan Wangji, ma appunto, è solo una mia possibile versione, non prendetela troppo sul serio;)
é la prima fanfiction che scrivo su questi personaggi e spero davvero di essere riuscita a rendere loro giustizia.
Grazie a chiunque si sia interessato e a chi leggera e commenterà. 
Buona lettura. 

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Era buia, la notte. Più buia di quanto fosse in qualsiasi altro luogo, sui colli della sepoltura.
Baluardo di dannata giustizia, zattera di profughi alla deriva. Terra bruna e spoglia che il sole visitava solo per pochi momenti di agonia, quando ardeva del colore del sangue, prima di lasciarsi morire oltre l’orizzonte.
A volte, tutto quello che restava.
 
Soffi di vento gelido si insinuavano tra le ciocche, smuovevano le vesti, e, nella loro spietata imperturbabilità, avevano l’ardire di trapassare la stoffa leggera.
Quale abominio, toccare l’intoccabile.
Wei Wuxian sorrise, all’empia oscurità fuori e dentro di lui.
A dir la verità, tutto quello lo divertiva.
Il sapore dell’oscurità, più inebriante persino del Sorriso dell’Imperatore; il vuoto immenso, cui testimoni erano solo la luna e le stelle, più lontane che mai; i volti spaventati, spaventati da lui, il ragazzino mendicante, figlio di servi, nelle cui capacità non avevano mai creduto.
C’era un tocco di fatalità in tutto quello, era da riconoscere.
Fatalità crudele e disperata, macerie di una casa distrutta.
Chiuse gli occhi.
 
Era anche fredda, quella notte, ma lui non poteva più percepire il freddo da tempo ormai.
Era lo stesso, fuori e dentro di lui; lo stesso vuoto, la stessa mancanza, solo un ricordo sbiadito della vita che lo aveva abbandonato, in quello stesso posto, anni prima.
Cosa gli restava, allora, dei giochi, delle risate che era sempre riuscito a trovare anche nelle circostanze più nere?
Dei sogni di un futuro che non fosse diverso dal presente, perché dopotutto non aveva mai desiderato, prima, felicità più grande di quella che aveva avuto.
Solo un’ombra, come ombra era diventato il ragazzo che, un giorno, aveva posseduto tutto quello. Solo un simulacro di sé.
 
Aveva creduto, un tempo, che fosse stata la guerra a portargli via tutto.
A privare tutti di ciò che di più importante avevano.
E certo, era vero: gli aveva strappato la sua casa, parte della sua famiglia, la sua innocenza.
Ma ora era finita, ed il vento continuava ad urlare alla ricerca di un cuore palpitante.
Non era stata la guerra, no, a strappargli la sua stessa natura, distorcendola, annientandola, per poi riesumarla solo per rivolgerla contro i pochi che ancora amava.
E, cosa ancor peggiore, contro i pochi che ancora lo amavano. Gli unici che, in fondo, a loro modo, continuavano a tenere a lui, che non lo avevano allontanato, ripudiato, come il peggior abominio che l’umanità avesse mai conosciuto.
La sua shijie, quella cui fianco credeva non avrebbe mai abbandonato, anche suo fratello, nonostante tutto, a vivere la loro vita da qualche parte, lontano da lí.
Lui.
Già, tutta quella malvagità, la guerra, era stata in grado di spezzare, nel profondo, persino lui.
Lo sapeva, Wei Wuxian, che era sempre stato in grado di leggere nei suoi occhi qualcosa di più della semplice impassibilità.
Gli avevano portato via parte del suo clan, dissacrato la sua casa, distrutto tutto ciò che conosceva, e, forse, strappato flebili illusioni di gioventù, sicurezza di teoria mai fattasi pratica.
Tutti credevano fosse sempre pronto, a qualsiasi cosa. Lui non lo era stato.
Nessuno lo é.
E Wei Wuxian lo aveva capito e, per la prima volta, davanti al dolore che aveva scorto nelle profondità del suo sguardo, aveva desiderato ardentemente di ritrovarvi l’impassibilità di un tempo.
Tutto, che non fosse quello.
 
Ma nessuno era più stato lo stesso, dopo.
Restavano solo spoglie, frammenti di chi erano stati e di chi sarebbero potuti diventare, pelle morta di serpente, seppellita al fianco di chi avevano perso.
E in tutto quello, su tutto quello, ancora, l’oscurità ad imperare.
L’oscurità che non era in un sigillo, e non era nella magia, ma nel cuore delle persone, nel profondo della loro anima, proprio di quelle che restavano meno nell’ombra, di quelle che vivevano e che regnavano, alte come il sole, come era stato in passato e sempre sarebbe stato in futuro; a far credere che il buio fosse cattivo, ad illuminarlo della più infamante ipocrisia, distruggendo famiglie, amicizie, amori, nella cieca certezza di possedere la verità, e di essere potenti nella loro supremazia.
Questo, era ciò che restava. Ed era solo questo ciò che per sempre sarebbe rimasto.
Non anonime gesta, calde parole.
Neanche lui, cosí potente, padrone e schiavo al tempo stesso del proprio potere, aveva importanza, nell’incessante flusso del tempo.
Né i suoi ricordi, a cercare di far sopravvivere ciò che di puro era rimasto.
 
E allora, tutto ciò che aveva ancora senso fare era lottare; per ottenere un posto, se non nell’eternità, almeno nel presente; per fare la differenza, spirito libero, al di là di ogni categoria, oltre ogni concetto di bene e di male, nell’unica possibile unità del suo essere, a metà strada, fermo al bivio della scelta, da nessuna parte e ovunque al tempo stesso, seguendo solo la giustizia dettata dal proprio cuore, e da occhi profondi che imploravano aiuto e pietà.
Era forse malvagità, quella?
Eppure era tutto ciò che sarebbe rimasto di lui, in quegli occhi, quando il momento di pagarne il prezzo sarebbe giunto.
Lui aveva ragione: presto o tardi, lo avrebbe fatto.
E allora il bagliore del sole, un riflesso nelle iridi, sarebbe diventato nulla più che un ricordo, un privilegio perduto.
E sperava soltanto, Wei Wuxian, di poter essere lui a pagare quel prezzo, come era giusto.
Lui e solo lui, come solo era stato ad accogliere in sé quel dono e quella maledizione.
 
La solitudine ormai era un’amica, nonostante tutto e nonostante tutti, l’unica sempre al suo fianco, l’unica a comprenderlo davvero.
Ma faceva male, ora che aveva avuto un’idea, il barlume di una possibilità, di quello che sarebbe stato se non fosse più stata la sola; ora che aveva avuto un assaggio di quello che sarebbe potuto essere, se non fosse stato ormai troppo tardi.
Infinitamente lunga, la strada. Mutevole il traguardo.
Solo una sagoma lieve, quasi indistinta, evanescente, gemmea, come ultima consolazione, ora, a marcare il profilo della luna, stagliandosi sulla sua luce bianca per sempre.
Niente più che un’illusione.
 
Sorrise ancora, Wei Wuxian, perlacei riflessi a incorniciare gli occhi, a scivolare sulle guance come rugiada, e un dolce sapore sulle labbra.
Vi condusse il dizi, e con quello stesso sapore iniziò a suonare una melodia lontana, udita tanto tempo prima.
Note dolci, impresse nella memoria e sulla punta delle dita. Si librarono nell’aria tersa e gelida, espandendosi sottili, sinuose, superando monti, boschi e laghi, sondando la lontananza.
 
Suonò della sua vita spezzata, Wei Wuxian, e di ogni sacrificio d’amore che per essa era e sarebbe stato fatto.
Suonò di Lan Zhan, Wei Ying, della consapevolezza giunta solo alle soglie della perdita, dell’inevitabilità di certe scelte, e di tutti quei sogni spezzati che, notte dopo notte, nel freddo, smettevano di palpitare, insieme a frammenti del suo cuore, nel buio recesso del suo petto.
 
 ~~~~~~~~~
 
 
Passavano, le ore. Avevano ormai imparato a scivolare su di lui come foglie d’acero sulla superficie di un placido lago, sempre in movimento, eppure mai abbastanza.
La campana aveva suonato, l’ora era arrivata.
Il sonno no.
Ma il tempo passava, lo faceva. Invecchiava i volti, smussava le rocce, stringeva i cuori.
In silenzio, noncurante dell’ombra di distruzione  che si portava dietro.
In silenzio, come il più sleale degli assassini e il più fatale dei sentimenti.
Aveva imparato a conoscerlo, Lan Wangji, il tempo. Ed era l’unica cosa di cui avesse paura.
 
In passato, esso non era stato per lui che luce, lettura, meditazione, ripetizione, silenzio, una solitudine necessaria, il rintocco di una campana.
Ma poi…
Poi c’era stato il battito, un unico, singolo battito, fuori tempo.
E da allora aveva iniziato ad averne paura.
D’inizio perché, nel tempo, le cose crescevano, come loro, come mostri.
Ma a ripensarci ora, era dolce quella paura.
Ora che aveva capito che, nel tempo, le cose muoiono.
E per anni la morte era stata un concetto lontano, per quella vita solitaria che a volte non sembrava nemmeno vita ma ore, crescita e concetti.
Era stata solo assenza, dolore sordo come quello che avvertiva sfiorando la cicatrice della sua prima frustata.
Ma ora, ora che c’era vita, e c’era un presente, e un passato, e forse anche un futuro, la morte era diventata perdita.
E qualsiasi altro essere umano, forse, per quanto virtuoso e destinato all’immortalità, avrebbe comunque temuto la propria morte, ma non lui.
Lui temeva il tempo, perché in esso tutto aveva visto finire, e cambiare irreversibilmente.
E temeva il tempo perché sapeva, con certezza ineluttabile come l’onda che torna al mare, che tutto ancora sarebbe finito.
E morto.
E delle volte quell’istante sembrava cosí vicino da agghiacciarlo.
 
Con un sospiro, abbandonò le coltri insonni, poco più che il fruscio delle vesti ad accompagnarlo.
Un ciuffo insolito sul viso, che compulsivamente fece per sistemare, arrendendosi poi all’inutilità del suo gesto: era notte, e non c’era nessuno.
Poteva lasciar riposare, per un po’, i suoi capelli, tenuti in costante tensione.
Che importanza aveva, dopotutto? Se lo era chiesto molte volte, da bambino.
Non riusciva a capire, allora, perché fosse tanto importante essere sempre impeccabili, quando le acconciature facevano male e i vestiti stringevano; rigorosi, quando le regole erano cosí tante e cosí noiose e i silenzi parevano infiniti, intaccabili; freddi, quando un sorriso ed una carezza sembravano essere cosí dolci.
Non conosceva, allora, la cattiveria del mondo, il suo occhio giudice, impietoso come la spada sul collo del condannato.
Presto, troppo presto, aveva imparato ad essere grato a quell’educazione ricevuta, a quel rigore, a quella corazza che, almeno in parte, avrebbe dovuto proteggerlo.
Lo aveva fatto quando aveva visto, provato, come potesse essere il resto del mondo, fuori dai confini di Gusu, quella terra dalle atmosfere oniriche.
 
La scuola del clan Lan aveva sempre accolto studenti da fuori, provenienti dai più eminenti clan di coltivazione e non.
Quegli studenti erano sempre stati il suo contatto con il mondo esterno, l’unico che, allora, avesse mai avuto.
E alcuni di loro erano educati, obbedienti, veri e rari esempi di virtú. Altri non lo erano.
Altri, gli avevano promesso novità e scoperte, a soddisfare la sua curiosità di bambino, lo avevano convinto a fidarsi di loro, e a farsi condurre nel posto più bello dei meandri delle nuvole.
Gli avevano fatto complimenti che nessuno gli aveva mai fatto prima, gli avevano detto che era bello, bello come una bambina.
E lui, cosí piccolo, aveva sorriso.
E poi, solo dopo, solo quando era stato troppo tardi, e gli alloggi del clan erano stati troppo lontani, e la nebbia troppo fitta perché qualcuno lo vedesse o sentisse, solo allora aveva compreso che un complimento non era sempre una buona cosa. E tutta la cattiveria che in esso, cosí come negli uomini, poteva celarsi.
Era stato suo fratello poi, a trovarlo e a riportarlo a casa.
Era stato suo zio a punire quei ragazzi, impedendo loro di pronunciare anche una sola parola, per il resto della loro vita.
Ma lui…lui aveva smesso di ridere, di parlare, di voler correre.
Aveva smesso di cercare il contatto umano.
Era diventato l’orgoglio della sua scuola, del suo clan, uno dei più grandi coltivatori esistenti, una delle due giade di Gusu.
Ma, come la sua superficie allo stato grezzo, la sua mente era rimasta increspata, la nebbia a coprire e cancellare ogni ricordo.
 
E, inconsciamente, avrebbe voluto poterlo fare anche ora, poter avvolgere nella nebbia i ricordi della guerra, e di tutto quello che essa aveva portato. Ma ormai Lan Wangji non era più un bambino, e la realtà non poteva fare a meno di affrontarla.
Ed essa era triste, buia come il futuro, amara come quel suo tentativo fallito di cambiarlo.
 
Raggiunse il suo Guqin e sedette.
 
Ciò che c’era di più amaro, dopotutto, pensò, era che non sarebbe dovuto essere per forza cosí, ma lo era.
Ed era che, forse, la ragione non era mai stata tutta dalla sua parte. E che, a volte, persino la via più sbagliata può essere la più giusta, perché il mondo stesso, quello che le giudica e le distingue, impone che sia cosí.
Ciò che c’era di più amaro era che il resto del mondo non arrivava a capirlo, come lui aveva fatto.
Eppure, nonostante la consapevolezza, nel profondo del suo cuore ancora la paura e gli interessi lottavano, una battaglia insita alla sua natura stessa.
Ancora, ciò che era giusto e ciò che era sbagliato si confondevano, il bianco e il nero si mescolavano.
Ma, nell’impossibilità di scegliere tra i due -un’eventualità così assurda da non aver mai sfiorato la sua mente, prima, eppure da essere tutto ciò che la impegnava, ora- non era forse proprio quello che vi era nel mezzo, la perfezione?
Oscurità al servizio della luce, luce che si fa oscurità.
Il suono sottile e penetrante di un dizi, dolce, a volte, da soggiogare l’animo più duro, spaventoso, alle altre, da far rabbrividire il più intrepido degli uomini.
Un suono che avrebbe voluto udire, che, forse, poteva percepire.
Un suono che avrebbe significato averlo accanto, e al tempo stesso irrimediabilmente distante.
Un suono che, dopotutto, avrebbe preferito non aver mai sentito.
Ma c’era troppo silenzio.
 
La notte, a spiarlo con il suo grande occhio bianco dall’apertura circolare sulla parete di fronte, era troppo silenziosa per permettergli di non percepirlo.
Doveva, dunque, coprirlo, contrastarlo. O forse, come in fondo aveva fatto per tutto quel tempo, semplicemente fondersi con esso, accompagnarlo.
Le dita sfiorarono le corde.
Si tesero: profonda risuonò, la nota, nel jingshi vuoto.
Riverberò, venendo poi assorbita dai chiari paesaggi che intridevano i pannelli.
Immaginò potesse raggiungerli, immaginò fossero colli e baratri scuri.
Non si accorse del momento in cui la nota divenne melodia.
Non provò a comprendere, Lan Wangji, la naturalezza con cui le sue mani seppero catturarla e riprodurla, perché essa era solo un ricordo, un sussurro, un segreto a pesare sull’anima.
Qualcosa di perduto, forse per sempre.
E risuonò di tormento, come un sogno che non si è certi di voler realizzare, e al tempo stesso di amore, come una disperata preghiera che non si ha il coraggio di fare.
E non provò a capire, Lan Zhan, quello che in fondo sapeva già, perdendo vita e liquido dolore dagli occhi: perché stesse suonando una melodia di tristezza e solitudine, eppure essa suonasse, nella sua testa, come la voce di Wei Ying.
L’unica voce che, un tempo, alla sua solitudine aveva saputo porre fine.
 
 
   
 
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