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Autore: Nadine_Rose    29/03/2021    1 recensioni
Sarah ed Hermann sono rispettivamente due tra le tante vittime e i tanti carnefici nell’ora più buia della storia dell’umanità. Il campo di Fossoli, anticamera dell’inferno nazista, sarà la loro comune e perenne prigione d’amore malato.
Matteo, un giovane pescatore, sarà colui che proverà a sciogliere il cuore di Sarah dalle catene del tenente Hermann, nello speranzoso e disperato scenario del dopoguerra napoletano.
[Capitolo 65: Un amore a Fossoli]
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Genere: Drammatico, Sentimentale, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Olocausto, Dopoguerra
Capitoli:
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Capitolo 49

 

Le ragioni del cuore

 

“Ho conosciuto in te le meraviglie meraviglie d’amore sì scoperte che parevano a me delle conchiglie ove odoravo il mare e le deserte spiagge corrive e lì dentro l’amore mi sono persa come alla bufera sempre tenendo fermo questo cuore che (ben sapevo) amava una chimera.”

Alda Merini, Le rime petrose

 


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Fu la moglie del compare a porgerle, con un’interiezione di preoccupazione – che, alle orecchie di Sarah, parve di pura ipocrisia –, un fazzoletto, consigliandole erroneamente di mettere la testa all’indietro, non per cattiveria ma per ignoranza – e anche di questo lei dubitò.

Imponendosi di non dare loro la soddisfazione di vederla in preda al panico, piegò la testa in avanti e strinse le narici con mano ferma e sicura, nonostante il profondo turbamento causato dal sangue, nonostante l’acutizzarsi del dolore, nonostante la ferita dell’anima. L’indifferenza di Matteo faceva più male del suo schiaffo.

Di fronte all’ostentata forza d’animo di Sarah, lui restò fermo, finché non si rese conto di aver perso la partita e un altro pezzo del suo cuore, forse irrimediabilmente. Eppure non riusciva a provare rimorso per lo schiaffo datole.

Nel far ritorno in sé, la rabbia deviò verso se stesso e, alzatosi di scatto dalla sedia, con gran foga, lanciò sul tavolo le carte che gli erano rimaste in mano, mentre lei gli rivolgeva uno sguardo attonito e interrogativo.

La perdita di sangue si era fermata e Sarah aveva allontanato il fazzoletto dal naso. Per un attimo, temette un’ulteriore reazione violenta da parte di suo marito e, stavolta, dinanzi a tutti, presagendo già il loro perseverare nel menefreghismo. Istintivamente, spinta da un impulso difensivo, anche lei si alzò.

“Torniamo a casa, Sarah”, disse, senza rabbonire la voce e lo sguardo e provò una sensazione di disagio, quando, accorciando fisicamente la distanza creatasi fra di loro, le cinse i fianchi con un braccio, lo stesso che le aveva alzato contro, per esortarla ad andare via.

 

Campo di Fossoli, 15 luglio 1944

 

Quattro notti d’insonnia e senza amore, tre giorni lontani l’uno dall’altra, lui per orgoglio, lei per delusione.

Oltre che assassino, Hermann era pure bugiardo. Trattandola come qualsiasi altro prigioniero, le aveva mentito sul destino dei settanta internati politici e, ancor prima, sui suoi sentimenti, facendole credere di aver instaurato con lei, seppur nascostamente, un rapporto alla pari. Invece, era per lui soltanto come un oggetto fra gli oggetti di sua proprietà, prigioniera e sgualdrina da usare a suo piacimento, un sottoposto a cui impartire gli ordini e il protrarsi della sua assenza gliene dava conferma.

Forse, Hermann aveva accolto la sua provocazione e, adesso, non essendo previsti nell’immediato trasferimenti di prigionieri verso la Germania, stava escogitando un modo per sbarazzarsi di lei. Forse, più semplicemente, l’aveva già dimenticata, sostituendola magari con la bella cameriera bionda dagli occhi chiari, italica al cento per cento e amante del sergente maggiore, che, approfittando del suo allontanamento dalla servitù, non si era fatta sfuggire l’occasione di rassettargli la camera e servirgli i pasti. Preoccupata per la sua sorte, era stata Giuditta a darle questa informazione.

La parte di sé legata ancora all’illusione di un sentimento amoroso rifiutava di credere alle proprie supposizioni, mentre l’altra, sopraffatta da una ragionevole amarezza, la teneva segregata nella baracca, nonostante la calura di metà luglio, a tagliare le maniche dei vestiti con i quali era arrivata a Fossoli, prima di liberarsi di quelli regalatele da lui, assieme alla rosa rossa che, a maggio, aveva fatto seccare.

Non era abituato a sentirsi dire di no. Viaggiando a ritroso nella memoria, poteva imbattersi in un ragazzino a cui, nonostante la rigida educazione impartitagli talvolta attraverso punizioni corporali, non era stato negato nulla. Seppur ben temprato ad affrontare quella che sarebbe stata la sua vita militare, nessuno gli aveva mai dato la possibilità d’imparare come comportarsi qualora le cose fossero andate in un modo diverso da quello previsto, desiderato.

Prima di Sarah, nessun’altra donna lo aveva mai rifiutato, merito della sua posizione sociale e attrattiva fisica e, preso alla sprovvista da quel che, in fondo, era un prevedibile diniego, aveva reagito, avvalendosi del suo ruolo di comando per trattenerla a sé. Eppure non si sarebbe approfittato di lei una seconda volta.

Dietro la bramosia dell’appagamento carnale, si nascondeva un muto bisogno d’incontro e di presenza, di sentirsi amato. Forse, per convincere Sarah a restare, sarebbe bastato mostrarle il suo lato più vulnerabile, lasciando che le ragioni del cuore motivassero la sua richiesta, sicché essa non diventasse un ordine ma un grido d’aiuto. Forse, avrebbe dovuto piegare il suo orgoglio e giustificarsi dell’esecuzione di quegli innocenti, riconoscendo dinanzi a lei che lo vedeva come un dio di essere soltanto una piccola pedina in qualcosa più grande di lui a cui aveva giurato obbedienza e lealtà, «fedeltà assoluta fino alla morte». Forse, non era troppo tardi per rimediare all’errore di averla persa.

Dapprima fisso nel vuoto, lo sguardo si focalizzò sulla porta socchiusa dell’ufficio e, di scatto, Hermann si alzò, facendo sobbalzare la cameriera bionda che aveva appena posato sulla scrivania il vassoio con il bicchiere di limonata e della cui presenza non si era neanche accorto. Agguantò il cappello dell’uniforme e percorse i corridoi dell’edificio, poi le zolle di terra e fango che lo separavano da lei, indossando la sua truce maschera.

Quando spalancò con veemenza la porta della baracca, tutti si misero in allerta, reduci dal trauma per la fucilazione dei loro compagni, fuorché Sarah che, pur alzatasi istintivamente di scatto dal letto dov’era seduta a rammendare gli orli delle maniche, mantenne una parvenza di calma per mostrarsi a lui indifferente.

“Uscite tutti.” A tal comando, benché sapesse di non esserne destinataria, si avviò anch’ella verso la porta e, come aveva già previsto, Hermann la fermò.

“Tu no.” La voce ancora greve, mentre gli ultimi prigionieri lasciavano la baracca, la mano davanti al suo petto, così vicina da sfiorarla e provocarle un sussulto, gesto che già innestò una battaglia contro se stessa per non cedervi.

E furono soli nel reciproco guardarsi. I lineamenti di Hermann si distesero, mostrando un volto segnato da notti insonni e pasti saltati, mentre un velo rugiadoso gli calava sugli occhi a rivelarne la malinconia. Invano, Sarah perseverava nell’ostentare fermezza, giacché, senza che se ne rendesse conto, ciò che vedeva era anche il suo riflesso.

Distolse lo sguardo e fece per andarsene, ma, di nuovo, lui la fermò, mettendole innanzi la mano. Stesso gesto, diverso atteggiamento, accompagnato da una voce quasi supplichevole. “Aspetta”, le disse.

“La prego, signore, ha dato l’ordine di uscire. Mi lasci andare come tutti gli altri.” Fuori la baracca, via da Fossoli, ma l’accento vibrante di lacrime trattenute rivelava che questo non era ciò che realmente voleva.

“Sarah, ascolta, io non avevo altra scelta.” Più che le parole, fu la remissività nel suo tono di voce a trattenerla. “Ho fatto un giuramento e tradirlo significherebbe finire sotto corte marziale. Neanche tu vuoi questo.”

Assentì con lo sguardo. Non voleva perderlo, ma la ragione le teneva ancora chiuso il cuore nella morsa del dolore e dello sdegno.

“Mi dispiace, Sarah. Sappi che non ti avrei costretta a stare con me”, proseguì, fino a toccare le corde giuste, quelle di entrambi, “avevo soltanto bisogno della tua presenza.” Una pausa, per prendere fiato e maggior coraggio, diede enfasi alla sua dichiarazione. “Io ho bisogno di te.”

Protese leggermente le braccia, mentre lei già cedeva all’illusione, abbandonandosi in un lento scivolare sul suo petto.

“Io ti amo.” Le parole gli fuoriuscirono dalla bocca come un suono strozzato. Rade volte gliel’aveva detto, senza mai commuoversi, sempre offrendo a se stesso false motivazioni che giustificassero il suo parlare. Delle volte era per consolarla, altre per compiacerla e, adesso, sarebbe stato per persuaderla.

Era, invece, l’espressione di un sentimento vero, forte la cui consapevolezza – in quel momento, ancora vaga e sfuggevole – gli suscitò un trattenuto pianto di liberazione.

Anche Sarah dovette accorgersene, poiché lo strinse più forte, aggrappandosi alla sua giacca, come per legarsi per sempre a quell’emozione così rara e difficilmente ripetibile.

“Anch’io ti amo, Hermann”, gli disse e fu lei a piangere sommessamente le sue lacrime.

 

“Troppo cerebrale per capire che si può star bene senza complicare il pane,

ci si spalma sopra un bel giretto di parole vuote ma doppiate.

Mangiati le bolle di sapone intorno al mondo e quando dormo taglia bene l’aquilone,

togli la ragione e lasciami sognare, lasciami sognare in pace.

Liberi com’eravamo ieri, dei centimetri di libri sotto i piedi

per tirare la maniglia della porta e andare fuori.”

 

Samuele Bersani, Giudizi universali

 

   
 
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