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Autore: Adeia Di Elferas    31/03/2021    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
Capitoli:
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“C'è molta gente che desidera parlarti. Non puoi rifiutare di incontrarli...” disse, una volta di più, Fortunati, accavallando le gambe e sistemandosi meglio sulla poltroncina: “Senza contare che devi assolutamente dare una risposta pubblica a Lorenzo.”

Caterina lo guardava di traverso, senza dire nulla. Non le piaceva il tono che il piovano stava usando con lei, tanto meno l'espressione condiscendente che aveva usato quando lei, prima, aveva provato a scansare tutti quegli obblighi facendo presente la sua stanchezza.

“Se è una cosa che può far piacere a mio cognato – disse, quasi sputando le parole, la donna – io posso giusto andare in casa sua per ricevere gli ospiti che vuole che io riceva per dire loro quanto è bravo e buono con me. Nulla di più.”

In realtà le era già pesato parecchio incontrare il giorno prima Scipione e Paolo Riario e tutti gli altri suoi fedelissimi che si erano rifugiati a Firenze. Infatti, dopo un primo momento in cui rivederli le aveva allargato il cuore, infatti, la loro vicinanza non solo le aveva ricordato gli ultimi, drammatici momenti di vita del suo Stato, ma anche la confusione e la precarietà della sua situazione attuale. Dover veder sfilare davanti a sé, un po' com'era successo a Roma, una sequela di possidenti e persone influenti desiderose di parlare con lei solo per poter dire di averla incontrata e per estorcerle qualche pettegolezzo sul papa, era qualcosa che proprio non le andava giù.

Francesco stava per aprire la bocca, probabilmente per dire che quello poteva essere un buon compromesso, ma la Tigre lo anticipò.

“In cambio, però, voglio avere il via libera per prendere possesso della Villa di Castello. Non voglio più restare in città.” deglutì e poi, con fare più risentito, fece presente: “Mi infastidisce molto che i francesi mi tengano chiusa in questa casa come se fossi ancora in prigione.”

La Sforza alludeva al fatto che, dopo aver saputo della sua breve visita in San Lorenzo, i soldati che l'avevano scortata in città avevano fatto sapere di non essere felici di saperla in giro per Firenze da sola, alla mercé di chiunque, specie di possibili spie del papa, che avrebbero anche potuto rapirla o peggio.

“Lo sai che la situazione è molto diversa.” ci tenne a dire Fortunati, che, però, non sapeva come gestire il temperamento della Leonessa.

Anche se la donna era molto meno aggressiva e fredda di quanto era stata prima della sua lunga prigionia, all'uomo sembrava sempre di muoversi su un terreno difficile, come se, da un momento all'altro, potesse essere strascinato a fondo dalle sabbie mobili.

“Non ho ancora avuto modo di vedere mia nipote Cornelia.” ribatté, aspra, Caterina.

“L'hai avuta a Imola per mesi, e non sei mai andata a vederla...” sbuffò il piovano senza riuscire a trattenersi.

Quell'attacco, secondo la donna del tutto gratuito, la fece irritare più di ogni altra cosa, fino a farle desiderare che, al posto del fiorentino, con lei ci fosse Luffo Numai. Di lui aveva solo ricevuto di recente una lettera, arrivata tramite una staffetta molto fidata, e lei era rimasta molto ben impressionata da come quel forlivese la stesse, di fatto, ancora servendo, malgrado tutto. Era leale, discreto e, soprattutto, non si sarebbe mai permesso di fare un'osservazione come quella esposta, con eccessiva leggerezza, da Francesco.

“Ne ho abbastanza.” dichiarò la Leonessa, alzandosi dal divanetto e andando verso la porta: “Sei dalla mia parte e ti sono debitrice, lo so bene, ma non ho intenzione di farmi riprendere a questo modo anche da te. Avanza la mia proposta a Lorenzo, o falla avanzare da chi ritieni opportuno. E poi fammi sapere anche come procede la questione di Baccino. Mi sembra impossibile che sia stato inghiottito nel nulla...”

Fortunati non ribatté in alcun modo, restando, anzi, seduto al suo posto, in silenzio, con l'espressione vuota di qualcuno che cercava di capire non solo come gestire il difficile presente in cui si trovava, ma anche un animale selvatico che faticava, una volta di più, a seguire le regole che venivano imposte solo ed esclusivamente per il suo bene.

 

Cesare Borja ascoltava distratto le parole di Giovan Francesco Sanseverino, e lanciava occhiate perplesse all'Aubigny, non perché non riuscisse a capire quello che stava dicendo – malgrado il forte accento – ma perché la sua mente era impegnata in tutt'altro.

Se i due condottieri, infatti, stavano disquisendo, dinnanzi alla mappa che riportava l'esatta, o quasi, fisionomia di Capua, su come indirizzare l'ultimo attacco, il Valentino non riusciva a non pensare a tutt'altro.

Prima di tutto, e quell'immagine risultava quasi imbarazzante a lui stesso, occhieggiando di quando in quando verso Giampaolo Baglioni, che se ne stava un po' in disparte in un angolo del padiglione, non riusciva a non ripensare alla partenza da Roma. Aveva convinto sia il Baglioni, sia Vitellozzo Vitelli a indossare una sorta di divisa da lui scelta, color cremisi e oro, convincendoli che fosse importante farla vestire anche ai quattrocento fanti che li seguivano. Con il senno di poi, quando avevano lasciato l'Urbe, tutti agghindati allo stesso modo, probabilmente erano risultati ridicoli, più che minacciosi.

Oltre a quello, collegava la sua partenza da Roma con un fatto ancor più grave, che sapeva per certo averlo messo più in ridicolo di tutto il resto, avendone avute le prove origliando i discorsi dei soldati e degli avventori delle locande più disparate. Lasciato lui il Vaticano, Caterina Sforza era scappata, e il padre di Cesare, invece di far valere la sua autorità papale, aveva fatto finta di essere stato colui che aveva predisposto la partenza della donna.

Quando era stato certo che tutte quelle voci corrispondevano a verità e che la Tigre di Forlì ormai era a Firenze, protetta dalla Signoria, oltre che dal re di Francia, il Valentino si era sentito una nullità.

A che cosa era servito catturarla, umiliarla e ridurla sua schiava, se poi, non appena aveva mollato un solo istante il morso sul suo collo, la sua preda era riuscita a liberarsi con tanta facilità?

“Quando attaccheremo, a me basta che mi lasciate Ranuccio da Marciano – si intromise Vitellozzo Vitelli, scostando di colpo la tenda che faceva da porta al padiglione – voi prendetevi pure il re di Napoli, Prospero Colonna e tutti gli altri...”

Il Borja lo guardò appena, mentre Baglioni, l'Aubigny e perfino il Sanseverino si mettevano a discutere con lui, chiedendogli se fosse quello il modo e il tempo di presentarsi a quell'importante riunione.

Ripiombando nei suoi pensieri, del tutto disinteressato alla smania del Vitelli – che voleva vendicare ancora la morte del fratello Camillo, giustiziato per colpa di Ranuccio un paio d'anni prima – il figlio del papa si mise a sedere su uno degli sgabelli vicino al tavolo della mappa, e accavallò le gambe.

C'era una cosa che non lo lasciava dormire. Si trattava di qualcosa di molto più angoscioso, per il suo modo di vedere il mondo, di tutto il resto.

Aveva creduto che la morte di Alfonso d'Aragona avrebbe risolto tutto, che avrebbe placato ogni cosa. Era stato certo che suo padre avesse avanzato, nel febbraio di quell'anno, una proposta agli Este solo per far buon viso a cattivo gioco e tenere a bada Ferrara.

Invece i mesi erano passati e le trattative continuavano e Cesare non poteva sopportare, per nessun motivo, che sua sorella Lucrecia sposasse Alfonso Este, il figlio di Ercole, l'uomo che, tra le altre cose, dicevano fosse in un qualche modo la causa reale della morte la prima moglie, Anna Maria Sforza...

“Ferrara è troppo lontana da Roma.” aveva obiettato, quando aveva sentito per la prima volta parlare di quell'ipotesi.

“Roma non è lontana da nulla.” aveva risposto, sibillino, il padre.

Da allora Cesare se n'era in parte disinteressato, ma negli ultimi giorni, per bocca di un portavoce fidatissimo, aveva saputo che il pontefice non solo stava portando avanti gli accordi, ma che Lucrecia sembrava quasi sollevata dall'idea di sposarsi di nuovo.

Il messaggero gli aveva addirittura riferito che la giovane, dedicandosi sempre più di rado al figlio nato dal secondo matrimonio – per tacere del suo primogenito, sempre più lasciato alle pietose cure delle suore – passava intere ore a guardare il ritratto dell'Este, senza dire nulla, assorta nei pensieri più intimi che potessero passare per la mente di una futura sposa.

Quasi vendendo davanti a sé la sorella intenta a cercare nelle pennellate sulla tela un tratto che le piacesse più di un altro, Cesare si alzò di scatto, come se si fosse scottato.

Gli altri condottieri presenti, che si erano messi a litigare su come gestire l'avanguardia, per la presa di Capua, si zittirono di colpo, certi che l'atteggiamento del Duca di Valentinois fosse legato ai loro toni troppo accesi.

“Sanseverino – disse allora il Borja, capendo che tutti si aspettavano qualcosa da lui – voi vi occuperete dell'avanguardia. Vitelli, voi avrete Ranuccio da Marciano, se ce ne sarà l'occasione. E per il resto: vedete di trovarvi d'accordo e basta! Questa città va presa entro la fine di questa settimana!”

“Ma...” cominciò a dire Giovan Francesco, sbattendo le palpebre, un po' sorpreso da quella risoluzione improvvisa e vaga.

“In fondo è solo martedì! Entro domenica ce la farete, mi auguro, a inventarvi qualcosa!” sbottò Cesare, grattandosi con inconscia furia le cicatrici che gli deturpavano il volto e che quella mattina gli prudevano più del solito.

Nessuno osò aggiungere altro, e così il Valentino afferrò il suo mantello leggero, se lo mise in spalla e uscì dal padiglione, sotto il sole cocente di luglio.

 

Quella mattina, Caterina aveva incontrato uno dei francesi che l'aveva scortata fino a Firenze. Egli l'aveva pregata di mettere in ordine le idee e convincersi che mostrarsi troppo rigidi nei confronti di Lorenzo Medici non sarebbe stata una mossa molto azzeccata.

Alla fine, seppur con grande riluttanza, la donna aveva accettato di avanzare una proposta al Popolano, a patto che i francesi facessero qualche piccola pressione affinché il fiorentino le permettesse di trasferirsi alla Villa di Castello.

Risolto quel problema, la donna aveva fatto di nuovo cenno anche con il francese alla questione di Cornelia. Adesso che suo figlio Cesare era ripartito e che Ottaviano aveva capito di tenersi alla larga, si sentiva più tranquilla e ben disposta all'idea di conoscere finalmente la nipotina, che cominciava a essere grandicella.

L'uomo, però, non era stato molto disponibile e le aveva fatto capire molto chiaramente che prima era lei che doveva fare quanto le era stato chiesto e, in base a come si sarebbe comportata, avrebbe avuto ancora o meno l'appoggio del re di Francia.

“Ricordatevi che non siete più una prigioniera del papa – aveva detto il francese, a voce molto bassa, lasciando che il suo accento transalpino prevalesse perfino sul tono di minaccia – ma non siete comunque una donna libera come le altre...”

Caterina si era trattenuta a stento, prima di far presente che fin da piccola non si era mai sentita libera come le altre, sia per colpa del cognome che portava, sia, poi, per il matrimonio che le era stato imposto e per lo Stato che era stata costretta a gestire. Aveva lasciato quindi partire il francese con la promessa che avrebbe fatto quello che doveva.

Quella sera, prima di cena, dopo aver passato un paio d'ore con Giovannino, che si stava abituando di nuovo alla sua presenza, diventando a tratti quasi ossessivo con lei, la Sforza aveva chiamato a sé Fortunati e gli aveva chiesto di portare, la mattina dopo, una sua offerta al Medici.

Avrebbe permesso a Lorenzo di dire a tutti che lei aveva accettato la sua ospitalità, e per avvalorare quella tesi, avrebbe anche incontrato qualche fiorentino desideroso di vederla proprio al palazzo di Via Larga, ma lo avrebbe fatto sotto la supervisione degli uomini del re di Francia. Infine, per evitare che lei si appellasse apertamente alla Signoria, al papa, a re Luigi e all'Imperatore, le avrebbe concesso di usufruire della Villa di Castello anche se, legalmente, Giovannino non ne era ancora entrato in possesso.

Francesco era parso poco ottimista, a riguardo di quella richiesta, però aveva accettato di fare da intermediario.

Così, a cena, la Leonessa sentiva nel suo stomaco un groviglio di emozioni che faticava a gestire come avrebbe voluto. Da un lato stava assaporando il calore che le dava avere la sua famiglia riunita al tavolo – c'era anche il suo ultimogenito, benché fosse ancora piccolo e avesse già mangiato – mentre dall'altro la sua testa era già al giorno dopo, alle possibili risposte di Lorenzo e alla plausibile impazienza di Alessandra Scali, nel caso avesse dovuto ospitarli ancora per qualche tempo.

Dopo che Sforzino, tra una boccata di minestra e l'altra, aveva riassunto alla madre l'interessantissima storia di Caterina non ricordava già più che santo, Galeazzo aveva toccato il tasto di Capua.

Tutti, ormai, sapevano che l'esercito francese, guidato da Cesare Borja, aveva messo la città sotto assedio e ci si aspettava che, da un giorno all'altro, arrivasse la notizia della sua capitolazione.

Nel sentir parlare del Valentino, Bianca cercò di cambiare discorso, per far sì che la madre non si turbasse, ma fu proprio la Tigre a chiedere al figlio di continuare a parlarne. Da quando era a Firenze, la Sforza aveva avuto sempre un po' la sensazione che tutti la volessero tenere nell'ovatta, e quella sensazione non le piaceva affatto.

Così il Riario riprese il suo discorso, cercando di fare un quadro ampio, ma chiaro, alla madre, che, lo sapeva bene, negli ultimi mesi non aveva avuto alcun modo di tenersi informata sui progressi della campagna militare di Luigi XII.

“Non dovresti parlare di queste cose a tavola – lo rimproverò a un certo punto Ottaviano, innervosito soprattutto perché non riusciva a capire la maggior parte dei giochi politici che il fratello, invece, pareva padroneggiare come niente fosse – sei solo un ragazzino...”

“Galeazzo ormai è un uomo.” intervenne Caterina, per rimettere ordine tra i due figli, dato che nello sguardo di entrambi aveva visto una scintilla che non le piaceva affatto.

Frate Lauro, che oltre alla Scali era l'unico esterno alla famiglia, guardava la scena da sopra il cucchiaio fumante, come uno spettatore esterno in attesa di vedere chi avrebbe sguainato per primo la spada.

“Galeazzo non è ancora un uomo... Lo sappiamo tutti che non ha mai...” commentò, con iniziale leggerezza e poi spegnendosi, Bernardino, che, quella sera, su concessione della madre, aveva avuto accesso a un calice bello pieno di vino.

Per quanto fosse un ragazzino avvezzo a star fuori anche di notte, a fare a pugni e a mescolarsi alla teppa della peggior specie, era bastato bere quel calice colmo per sentirsi confuso e parlare troppo liberamente.

Il silenzio che scese sulla tavolata imbarazzò un po' tutti. Galeazzo era diventato scarlatto e anche Bianca, che preferiva non affrontare quel genere di argomenti così apertamente, aveva preso colore.

Sforzino non aveva capito appieno di cosa si stesse parlando, così come Giovannino, che non aveva neppure lontanamente seguito il discorso dei grandi. Ottaviano, invece, si era messo a sghignazzare, borbottando qualcosa su come il fratello, per quanto fosse il preferito della madre, avesse quasi sedici anni, ma si comportasse ancora come un bambino, non come lui, che alla stessa età sapeva già benissimo come andava il mondo.

Alessandra Scali, che non sapeva come gestire quel silenzio, provò a chiedere se qualcuno volesse già passare all'arrosto, mentre frate Lauro ebbe il coraggio di dire: “Avanti... Il nostro giovane Galeazzo ha davanti tutta la vita per...”

“Passiamo all'arrosto.” concluse Caterina, schiarendosi la voce e poi, guardando Bernardino, pensando che lasciar cadere l'argomento fosse l'unico modo per togliere Galeazzo dal centro dell'attenzione di tutti, gli disse: “E tu per stasera con il vino hai finito...”

La cena proseguì senza altri momenti di imbarazzo e dopo un po' si tornò anche a parlare della situazione politica e bellica dell'Italia. La Sforza ascoltava con attenzione, anche se, a tratti, tutte quelle questioni le sembravano ancora distanti e astratte, come le era successo appena dopo essere uscita da Castel Sant'Angelo.

“I Bentivoglio non hanno alzato un dito, per Astorre Manfredi...” disse a un certo punto Galeazzo, sollevando un po' una spalla: “E sì che è il nipote del signore di Bologna...”

Nel sentire citare il giovanissimo Astorre, la Leonessa percepì un brivido gelido lungo la schiena.

Quel ragazzino le era sempre stato abbastanza indifferente. Le aveva fatto pena, lo ammetteva, quando aveva saputo che la madre aveva assassinato suo padre Galeotto, ma, a parte quello, aveva sempre avuto un'idea neutra, di lui, diventata vagamente ostile quando era stata costretta dalle circostanze ad accettare un matrimonio per procura tra lui e Bianca.

Pensare, però, che un ragazzo così giovane in quel momento stesse languendo in una prigione identica a quella in cui lei per mesi aveva patito il freddo e la fame, le metteva addosso un'angoscia tremenda. Anzi, più cercava di non visualizzare il povero Astorre – di cui, in realtà, non ricordava nemmeno il volto, ma che, nella sua mente, assomigliava vagamente al cugino, altrettanto biondo e bello, Ottaviano Manfredi - rannicchiato in un angolo della cella, sporco e denutrito, più quell'immagine si faceva prorompente.

Allontanando un po' il piatto che aveva davanti, la donna smise di mangiare e disse piano: “Sono stanca... Perdonatemi...”

Lasciando gli altri ancora a tavola, Caterina si alzò e, senza dire nulla, lasciò la sala da pranzo. Non la fermò nessuno, e lei ne fu felice. Sapeva che erano tutti indulgenti con i suoi modi scostanti perché era reduce dall'inferno, e intendeva sfruttare per un po' quella morbidezza generale. Quando era stata giovane e in salute, alla guida di uno Stato, in pochi le perdonavano i suoi atteggiamenti.

Si andò a sedere sul divanetto, nella biblioteca, illuminata solo dalla luce di due candele, che aveva appena acceso, e aspettò di calmarsi. Si tormentava le mani l'una nell'altra, serrava gli occhi, nella speranza di smetterla di pensare a Castel Sant'Angelo, ma più lo faceva, più sentiva ancora il freddo di quella segreta entrarle nelle ossa, malgrado fosse ormai quasi agosto e facesse molto caldo.

Doveva essere passata almeno un'ora, quando, cogliendola di sorpresa, Bianca si affacciò sulla porta: “Ho visto la luce delle candele e ho pensato che qualcuno le avesse dimenticate accese...” si scusò, incrociando per un solo istante lo sguardo della madre.

La donna scosse il capo e le chiese, indicando la piccola brocca e il calice che portava con sé: “Ti piacciono i liquori?”

La ragazza arrossì appena e, facendo segno di no con la testa, rispose: “Si tratta di un vino liquoroso che fanno da queste parti... Te lo stavo portando in stanza. Pensavo ti avrebbe fatto piacere.”

Malgrado la disinvoltura con cui le parlava, a Bianca faceva ancora uno strano effetto dare del tu alla madre. Tanto che, per la frazione di un secondo, le sembrò di scorgere sul viso della Tigre quasi una nota di irritazione, come se si fosse pentita, a posteriori, di averle fatto quella concessione.

In realtà la Riario aveva solo frainteso una piccola smorfia di stanchezza, che la portava sì a desiderare il breve sollievo di ciò che la figlia le stava portando in dono, ma anche a chiedersi se un mezzo calice di quel vino particolare sarebbe stato sufficiente a farle tornare i bruciori di stomaco che l'avevano tormentata in quegli ultimi giorni.

“Prendi un calice anche per te.” disse alla fine, convinta che quella fosse la soluzione migliore: “E poi torna qui. Ho voglia di parlare un po'.”

Bianca fu sul punto di proporle di andare, magari, nella stanza di una delle due, che sarebbe stato, a quella tarda ora, un ambiente più accogliente. Nella semioscurità della biblioteca, infatti, ogni ombra le sembrava un fantasma, e anche la figura della Leonessa le ricordava più uno spettro che una donna in carne e ossa.

Tuttavia, ben conoscendo le reazioni a volte spiazzanti della madre, la giovane preferì non rischiare di veder sfumare quell'occasione per discutere un po' con lei e disse solo: “Va bene. Ci metto un secondo.” e, dopo aver lasciato sul tavolinetto da lettura la caraffa e il primo calice, se ne andò quasi correndo.

Caterina, mentre l'aspettava, versò due dita del vino ambrato che le era stato proposto. Il profumo era inebriante, e, quando l'assaggiò, lo trovò dolce e consolatorio. Si chiese distrattamente se Giovanni, da ragazzo, quando ancora viveva a Firenze, avesse bevuto spesso vini del genere.

Non si era ancora data una risposta, quando la figlia ricomparve, per sedersi accanto a lei sul divanetto.

Mentre le versava un po' di vino, la Sforza le chiese: “Secondo te Galeazzo ha mai avuto una donna?”

Ricordava di aver fatto un discorso simile al diretto interessato, prima che il Valentino arrivasse come una tempesta nelle loro vite, disperdendoli e allontanandoli l'uno dall'altro per oltre un anno.

Bianca, un po' sorpresa da quella domanda, convinta com'era che la madre non avrebbe più risollevato le chiacchiere nate a tavola, scosse il capo e rispose: “Per quello che ne so io, no... Pensa più ai suoi esercizi da soldato, che alle donne.”

La Tigre fece un breve cenno, difficile da interpretare e poi, accigliandosi di più, dopo aver sorbito un sorso di vin santo, domandò: “E di Bernardino cosa mi dici?”

La Riario si trovò più in difficoltà, tanto che, per prendere tempo, bevve anche lei un paio di sorsate, trovandosi la gola più riarsa di quello che avrebbe creduto: “Cerca di correre dietro a tutte le sottane che vede...” ammise, ricordandosi quello che aveva sentito dire da uno dei figli della cuoca: “Ma, insomma, non ha nemmeno undici anni... Credo che la sua, per ora, sia solo curiosità...”

La milanese, ancora una volta, non espresse apertamente il suo pensiero, limitandosi a piegare appena il capo di lato e ad annusare un po' il contenuto del suo calice, finché non riprese: “E tu?”

Quella domanda era scivolata fuori dalle labbra della Leonessa prima che potesse frenarla. Vide la figlia perdere colore in volto, e poi arrossire violentemente, mentre si sforzava di dire qualcosa.

Di colpo, la fugace visione di Bianca che si appartava in qualche angolo della rocca di Ravaldino con qualche ragazzo, o, addirittura, che si infilava nella propria stanza seguita da un giovane soldato, balenò davanti agli occhi della Sforza, che interruppe bruscamente il discorso dicendo in fretta: “Hai ragione, perdonami, non sono affari miei.”

Per qualche minuto, tra le due regnò il più totale silenzio, rotto solo dal suono dolce del vino che veniva versato di nuovo in entrambi i calici.

“A ottobre avrai vent'anni.” la dichiarazione di Caterina non era né una domanda, né un'esternazione sospirata, anzi, alla Riario suonava quasi come un'accusa.

In realtà il tono di minaccia era solo nelle orecchie della giovane, e solo nei suoi occhi era l'espressione cupa della madre, secondo lei intenta a fare chissà quali calcoli, magari basati anche sulla triste sorte del suo fantomatico sposo, Astorre, che non incontrava da che era un bambino e che ora stava marcendo poco a poco nelle celle di Castel Sant'Angelo.

La donna, invece, stava pensando a tutt'altro. Forse per colpa della luce tremula delle candele, o forse per colpa del vino, quella sera Bianca le sembrava identica o quasi a sua madre Lucrezia. A parte il colore degli occhi, molto più scuro, rispetto all'azzurro glaciale della Landriani, e al colore dei capelli, più dorati di quelli quasi bianchi della nonna, la Riario avrebbe potuto essere la sua copia esatta.

La Leonessa, guardandola, non poteva evitare di chiedersi se sua madre Lucrezia, a vent'anni, fosse altrettanto bella, fiera e gentile. Era così, quando aveva conosciuto suo padre, Galeazzo Maria, erede al Ducato di Milano? Se sì, Caterina non si sorprendeva che lui se ne fosse innamorato perdutamente, malgrado tutto.

Solo quando Bianca si schiarì la voce, forse per togliersi da un imbarazzo che la madre non aveva colto, la Sforza vuotò il suo calice e si schiarì la voce: “Devo dirti una cosa. Non bella.”

Non sapeva dire nemmeno lei come le fosse tornato in mente, ma era certo che quello fosse il momento giusto.

Istintivamente, la giovane si fece più tesa, irrigidendo la schiena e stringendo nei palmi delle mani il calice ancora mezzo pieno.

“Quel soldato che ti piaceva... Quello...” la milanese si rese conto di non conoscerne il nome e di non sapere come qualificarlo senza essere troppo invadente nei confronti della figlia, che aveva sempre fatto tesoro della propria libertà, custodendone gelosamente anche i segreti: “Insomma, a volte vi vedevo insieme, poco prima della tua partenza per venire qui a Firenze...”

La Riario capì all'istante a chi si riferiva. L'ultima notte che aveva passato a Ravaldino, l'aveva trascorsa con lui e non l'aveva affatto dimenticata.

Dallo sguardo della Leonessa, che si abbassava e si faceva più tetro, la ragazza intuì il prosieguo del discorso. Sentiva il cuore battere come un martello nel petto, ma si rendeva anche conto, con attonito stupore, di sapere già da tempo, nel profondo, ciò che sua madre stava per riferirle.

Caterina indugiava, non tanto per cercare le parole giuste, perché non era mai stata una sua qualità, la delicatezza nel comunicare certe notizie. Se tergiversava era solo perché dalle reazioni della figlia stava cercando di capire se tra quel soldato e Bianca ci fosse stato solo qualche bacio, o qualche carezza troppo audace o se fossero stati veri e propri amanti. Si rese conto dopo poco di non volerlo sapere.

“Insomma, hai capito di chi parlo...” riprese, mentre la ragazza annuiva in silenzio: “È morto durante l'assedio.”

“L'hai visto morire?” chiese la giovane, atona.

“L'ho visto morto.” precisò la madre.

La Riario, che fino a quel momento non aveva dato cenni di reagire in modo conclamato a quella notizia, sentì gli occhi pungere e velarsi, mentre si sforzava di non piangere. In fondo, si diceva, lo sapeva che quel ragazzo era morto. Aveva sempre saputo che lasciandolo alla rocca, verosimilmente, lo avrebbe perso per sempre.

Aveva ripensato spesso, in quei mesi, alla loro notte assieme, a tutti i momenti che avevano passato negli angoli bui di Ravaldino, a sfuggire alla realtà, e un po' si sentiva anche in colpa, perché sapeva di non averlo mai amato davvero, ma di averlo solo visto come un mezzo per vedere cosa si provava...

“Tu come stai?” chiese all'improvviso Bianca, interrompendo i propri pensieri e concentrandosi sulla madre.

Caterina, un po' spiazzata, ma quasi sollevata dal quel cambio di rotta del discorso, rispose: “Io comincio a stare meglio, poco per volta...”

“Ti hanno già detto che Giovanni da Casale adesso è...” iniziò a dire la Riario, ma la Tigre la frenò.

“Per me Giovanni da Casale è morto nel momento stesso in cui ha dichiarato la resa senza il mio permesso.” decretò, fredda, la Leonessa, versandosi di nuovo da bere.

La figlia la stava fissando. Nella fermezza ostile con cui aveva sibilato quelle parole, poteva rivedere la donna che aveva conosciuto prima della caduta di Forlì, e ne fu quasi rincuorata. In fondo, pensò, non era cambiata poi molto.

Nei suoi occhi verdi, però, poteva vedere l'inferno. L'apatia, la stanchezza, la sofferenza e la tristezza che le aveva visto nelle iridi nei giorni addietro, adesso si erano trasformate in dolore e rabbia. Era bastato rievocare la resa al Valentino, per ottenere quel cambiamento.

“Come sono stati gli ultimi giorni a Forlì?” chiese allora Bianca, guardinga, quasi temendo di vedere la milanese alzarsi di scatto e lasciarla lì da sola.

Caterina, invece, non si mosse. Bevve in silenzio un po' di vin santo e poi, mordendosi il labbro, aggrottò la fronte.

“Vuoi davvero sapere come sono stati?” domandò.

“Sì.” confermò la figlia.

Per la Sforza fu come aprire una diga e lasciare scorrere un fiume in piena. Le parlò di tutto, con una dovizia di dettagli che sorpresero lei per prima. Non aveva più ripensato a quel modo alle settimane che avevano preceduto la sua fine, eppure ricordava ancora tutto.

Alla Riario non risparmiò nulla, né le atrocità che aveva visto, né quelle che aveva fatto lei stessa, non tacque sugli amanti che, confusamente, aveva accolto nel suo letto tra una sortita notturna e una sventagliata di artiglieria. Non lesinò nemmeno sulla descrizione dettagliata degli attacchi francesi e delle difese dei suoi uomini.

Arrivò al momento della resa e della cattura. Le parlò della ferita alla gamba e, nel farlo, sollevò la sottana e mostrò la cicatrice. Bianca la sfiorò appena con la punta delle dita, e la madre si ritrasse, come scottata.

Una volta giunta alla sua 'presa in custodia' da parte del Valentino, però, la Leonessa tacque per un po'.

La Riario iniziava a credere che non avrebbe terminato il suo racconto, e, proprio quando stava per proporre di ritirarsi per la notte, essendo ormai così tardi da essere più vicini all'alba che al tramonto, Caterina sussurrò: “Mi ha chiuso in una stanza di palazzo Numai, legandomi al letto. E hanno cominciato a litigare su chi aveva il diritto di tenermi come schiava.”

La giovane deglutì e poi, con un filo di voce, chiese: “Il figlio del papa... Davvero ti ha usato violenza, come dicono?”

La Tigre strinse il morso, si guardò un momento attorno, come in cerca di un appiglio e poi sussurrò: “Non so cosa raccontino su quello che è successo prima lì e poi a Roma. Posso solo dirti che mi è costato più di tutto il resto.”

La Riario non fece altre domande, chiedendosi se mai, in futuro, la Leonessa si sarebbe aperta di nuovo con lei su quell'argomento.

“Adesso, però, sono qui.” riprese la Sforza, fingendo di essere serena, malgrado tutto: “Ho salvato tutti i miei figli, e sono ancora viva. Tutto il resto non conta nulla.”

“Spero che il figlio del papa bruci all'inferno, per quello che ti ha fatto.” disse Bianca, calma, ma implacabile.

Non abituata a sentire certe esternazioni da parte della figlia, Caterina assaporò l'ultimo sorso di vino e poi, appoggiando il calice sul tavolinetto, dichiarò: “Io preferirei che l'inferno lo passasse mentre è ancora vivo. Almeno potrei essere sicura che abbia pagato almeno in parte i torti che mi ha fatto.”

Nessuna delle due disse altro, a riguardo. La Tigre fece qualche domanda alla figlia su come si fosse trovata alla Murate e, seppur un po' evasivamente, la ragazza le disse che, tutto sommato, non si era trovata male.

Parlarono ancora per qualche minuto, fino a che, svelta come ogni alba estiva, la prima luce del sole cominciò a filtrare dalla finestra della biblioteca.

“Giovannino non dorme ancora da solo?” chiese la Leonessa, mentre lasciava il divanetto, imitata dalla figlia.

La posizione fissa tenuta per tante ore le aveva anchilosato la schiena e le gambe, ma era felice di aver speso a quel modo la notte.

“No...” ammise Bianca: “E vuole anche la luce. Ha il terrore del buio.”

“Di solito dorme con te?” si informò la milanese, mentre uscivano.

La Riario, che teneva in mano la brocca vuota e i due calici, annuì: “Sì.”

“Stanotte con chi pensi che abbia dormito, visto che tu sei rimasta qui con me?” le labbra della Tigre erano appena sollevate, intenerite dalla puerile – e vista la sua prima infanzia, anche comprensibile – paura del suo figlio più piccolo.

“Sicuramente con Bernardino.” rispose, senza esitazione, la giovane: “Quando, per qualche motivo, non dorme nella mia stanza, si infila nel suo letto. Gli vuole molto bene.”

Con il sorriso che si allargava in volto, la Leonessa non commentò oltre, ma si congedò dalla figlia dicendo solo: “Riposa, adesso... Ti ho fatto perdere troppe ore di sonno...”

“Non sono state ore perse.” ci tenne a sottolineare Bianca, prima di salutarla e avviarsi alle cucine, per riporre la brocca e i calici, prima di andare nella propria stanza a riposare.

 

   
 
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