Film > Operazione U.N.C.L.E.
Ricorda la storia  |      
Autore: _Akimi    31/03/2021    0 recensioni
[pre-slash Napoleon/Illya | post-canon?]
"Vi è una certa intimità nel momento in cui i loro sguardi si incontrano, Napoleon che si volta pigramente, ma solo facendo capolino dietro alla propria spalla.
Illya ne vede il profilo spossato – con il chiarore di una luna crescente che accenna ancor più i suoi lineamenti. Pare bambino e adulto nel medesimo tempo, non avendo abbandonato la sua frivolezza abituale, ma con una maturità rinnovata che, taciturna, appesantisce l’animo.
E Illya non ha bisogno di altro per comprendere che Gaby aveva ragione – gli incubi sono lì, sul suo volto, ed è morto qualsiasi fiero tentativo di nasconderli.
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Gabriella Teller, Illya Kuryakin, Napoleon Solo
Note: OOC | Avvertimenti: nessuno
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Avvertimenti!!! : omofobia (un po' anche internalizzata), accenni a terapie riparative e tortura. Non ci sono note di chiusura, ma alcune parole straniere (russo/turco) sono comunque intuibili dal contesto.


Schachmatt

Napoleon di quei lunghi attimi di tortura ricorda tutto e niente.
La sua memoria pare vacillare lenta, a tratti soffermandosi su dettagli che reputerebbe persino superficiali, a ben guardare, perché non vi era nulla di significativo nel tono orgoglioso di zio Rudi né nella lampada che oscillava sopra la sua testa - un fascio di luce ad infastidire lo sguardo.
Alle volte, invece, di quel giorno rimane solo il buio, la sensazione delle scosse a percorrergli il corpo e il pensiero che sarebbe deceduto in una stanza anonima, legato come un animale ad una sedia.
E quando il niente sembra sopraffarlo, quando capisce che la morte gli è stata lì accanto, soffiandogli sul viso, Napoleon cerca di fugiarsi nell'unico ricordo confortante che gli rimane, per quanto ancora stenti ad ammetterlo.
Doing okay, cowboy? - accompagnato da un’occhiata tesa, ma che non lascia trasparire altro se non la professionalità del suo caro compagno di avventure.
E forse, Napoleon così okay non lo è ancora, ma rivivendo quegli attimi, quelle parole, sa di essere vivo.
E per una spia, la propria vita è tutto ciò che di più prezioso ha da offrire.

 
_________________________________________________
 
Non sa dire che cosa ci sia di diverso in Napoleon; ad un occhio disattento egli appare borioso come sempre, di una loquacità a tratti insostenibile e un sarcasmo pungente che, in modo eguale, si prende beffa di sé e degli altri.
Per Illya è diventato quasi un'abitudine, così avvezzo al senso dell'umorismo dell'americano che, qualche volta - solo qualche volta! - un sospiro scappa anche a lui dalle labbra, una simil risata che non vuole dire molto, ma che è già principio di compromesso.
E direbbe che la sua deformazione professionale sia diventata quello - non l'essere impassibili all’uccidere, non la capacità di mentire a comando, ma ridere delle sciocchezze che Napoleon racconta negli istanti più inopportuni del loro lavoro.

Ma da qualche giorno, ad aggiungersi al già frenetico contesto, vi è una venatura diversa nei suoi occhi, di tedio e irrequietudine, come se il suo corpo fosse lì, assieme a loro, ma lo sguardo osservasse una realtà che nessun altro può raggiungere.
Nei silenzi, quando forse crede di non essere visto, Illya lo sente boccheggiare, annaspando in cerca di aria che non sia rarefatta e che possa dare lui lo stato di quiete che tanto va cercando.

Non dice nulla però, Napoleon, giacché è troppo orgoglioso per ammettere di avere bisogno di aiuto - qualcosa che Illya comprende bene, condivide persino, perché l'essere colleghi è diverso dal considerarsi amici.
Tra loro vi è ancora un camminare in punta di piedi, cercando la giusta parola da dire per zittirsi a vicenda, senza mai voltare troppo le spalle all'altro. È una consuetudine, uno status quo che soddisfa entrambi perché del sentimentalismo insipido non può frapporsi nel loro lavoro e abbandonarsi ad esso sarebbe un comportamento poco professionale.

Eppure.

Eppure, Illya ritorna all'immagine di Napoleon che ha davanti, adesso che sono in albergo in un secondo di effimera pace. I capelli ricadono appena sulla fronte, corrucciata come spesso accade, e il celeste delle sue iridi appare così liquido dal far rinvenire alla mente il gelare placido della Jauza ad inizio inverno.
Tra le mani ha un bicchiere quasi vuoto di gin e ad ogni nuovo sorso una parte di sé annega nell'alcol, liberandosi di un greve peso che anche Illya percepisce, ma che ancora gli appare come intangibile. Non sa cosa sta cercando, ma aleggia nell’aria una certa, insolita mestizia – opprimente anche per lui, certo non uomo dotato di particolare empatia.

Gaby è chiusa nel bagno della loro camera, così lontana dopo aver detto a Illya di stare nella hall insieme all’americano. E, ad essere chiari, non è Kuryakin ad aver accettato l’offerta – perché Gaby non propone, ordina – e la faccia da cane bastonato di Napoleon deve averla convinta ad elargire gentilezza. Non la propria, evidentemente, ma a spese di altri.

Così si ritrova di fianco a Solo, in devoto silenzio, affondando in un divano la quale comodità non è proporzionata all’estetica. Poco importa – direbbe  se non fosse che il sofà è troppo piccolo per due uomini come loro ed è inevitabile trovarsi stretti l’uno contro l’altro, gomiti a sfiorarsi ogniqualvolta Napoleon si muove per sorseggiare il suo drink.
La sua ossessione per l’alcool ha un che di nauseante, portando Illya a domandarsi se non sia diventata una dipendenza, più che un vizio saltuario. Non lo ha mai visto bere prima di andare in missione, questo è vero, ma vi sono volte in cui sembra abbandonarsi troppo mollemente ad alcune cattive abitudini.
È un genere di sregolatezza tipica del mondo capitalista – ne è convinto perché, sebbene gli alcolici siano una reminiscenza maligna anche nella sua madrepatria, lo sguardo vitreo di Napoleon è diverso da qualsiasi espressione Illya abbia mai avuto modo di osservare in Unione Sovietica.
Deve essere il malessere dell’uomo occidentale, o qualsiasi altra cazzata gli americani vanno propinando in giro per metà globo.

Quindi…

Quindi Illya lo scruta, un’occhiata soltanto, a volersi assicurare di non averlo perso completamente in futili tribolazioni, ma non azzarda di più. Non una parola perché no, non è bravo a confortare, e neppure un gesto, uno qualsiasi, per fargli capire che gli è vicino. La sola presenza dovrebbe sufficere all’arduo compito che Gaby gli ha affidato e ci vuole credere davvero, Illya, anche se per ora non vi sono cambiamenti significativi nel comportamento di Napoleon.

«Passerai il pomeriggio a guardarmi senza dire nulla?»

Alla fine, è proprio lui a interrompere il silenzio, in un bisbiglio che accenna ad un’inusuale esitazione. Pare imbarazzato, forse, ma Illya scopre di sbagliarsi quando lo sente aprire bocca di nuovo.

«Sai, mi ricordi un signorotto francese a cui ho rubato un quadro una volta. L’idiota lo fissava giorno e notte, era così ossessionato dai dettagli da non comprendere il contesto generale dell’opera.»

E Illya non capisce che cosa dovrebbe significare – se sia uno degli strani aneddoti della sua vita prima di entrare nella CIA o una metafora che, data la prolissità del soggetto, potrebbe estendersi senza fine.

«Tu non sei un’opera d’arte.» Che non è una battuta, uno scherzo per alleggerire l’atmosfera. Lo esclama senza enfasi, un’affermazione che non lascia spazio a dibattito, ma Napoleon, invece, è divertito. Sì, si lascia ad un riso che parte dal petto ed esplode tra le labbra, ignorando le facce curiose del personale dell’albergo.

«Acuta osservazione, Peril;» il sarcasmo deve essere una buona medicina per un uomo come lui perché l’iniziale lividore pare aver abbandonato il suo viso. È quasi tornato ad essere il Napoleon Solo di sempre. «Ma intendevo dire che, proprio come davanti ad un quadro, bisogna porsi le giuste domande per trovare le giuste risposte.»

Illya corruccia la fronte, le mani in tasca a stringersi in un pugno nervoso, giacché la pazienza non è una dote che vuole sprecare con una persona come Napoleon, eppure deve – se non per il loro essere colleghi, lo deve per Gaby. E anche per i loro superiori, ad essere sinceri.

«Quindi,» l’ultimo sorso di gin scorre giù, verso lo stomaco, e Illya - che lo vede deglutire, potrebbe giurare di aver sentito anche nella propria gola una sensazione di bruciore. «Se hai curiosità, basta chiedere. Ma, e lo dico in completa amicizia, tutto ha un prezzo, anche il mio tempo.»

Illya si ammutolisce, riflette, e l’incessante sguardo dell’altro su di sé inizia già ad infastidirlo. I ruoli erano invertiti poco prima, e ora capisce perché Napoleon si sia sentito sottoposto a giudizio.

«Non sono curioso.»

«Non ho detto che lo sei,» Napoleon ride ancora, questa volta di un riso trattenuto tra i denti, un poco più forzato di ciò che si è soliti udire. «ma per essere una spia, sei un bugiardo mediocre.»

Punge il suo orgoglio e Illya ammette touché – non esplicitamente, mai dargli una soddisfazione -, ma non ha più alcun margine di deviazione. In passato ha tenuto interrogatori crudi, nessun attimo di pausa, nessun metodo conciliante, ma le sue vittime non si chiamano Napoleon.
Non quel Napoleon Solo che, sapendo di aver colpito un bersaglio, ora mantiene un ghigno sardonico sul volto, così pieno di sé e della propria prontezza. 

«Anche tu lo sei. Come governo americano, è stupido bluffare senza sapere regole del gioco.»

«Pensavo fossi un tipo da scacchi, non da poker? Quante cose si scoprono conversando…» Inizia a biascicare un poco, distraendosi per un attimo soltanto con la figura di una donna che varca la soglia dell’hotel, un seguito di facchini che la scortano come suoi schiavi personali.

«Scacchi insegna a leggere la mente dell’avversario, il poker è da capitalisti, noi in Un-»

«Sìsì, ho capito, allora immagina di avere una scacchiera di fronte a te e dimmi cosa vedi.»

Per un attimo soltanto, Illya crede che lo stia prendendo in giro, un modo per beffarsi dell’amato passatempo dei sovietici, ma quando ritorna nuovamente sul viso di Napoleon nessuna traccia di ironia riempie le sue iridi azzurre, attraversate solo da venature di abituale alterigia.
Allora non si fa fuggire l’occasione, analizzando ogni piccolo dettaglio di quel volto che pensa di conoscere ormai bene – dal modo in cui un ricciolo scuro scivola contro le tempie sino agli angoli delle labbra appena piegati all’insù, in un mezzo sorriso che non pare celare nulla di incoraggiante.
La sensazione che vi sia qualcosa di diverso ritorna prorompente, occupando la sua mente come un medico in cerca della diagnosi perfetta. Va in scoperta di una sola, piccola variazione – un cambiamento quasi inaspettato lì, nascosto dietro a lembi di pelle perfetta e di zigomi accennati.
Napoleon è sempre stato un essere contradditorio, in bilico tra eccessiva estroversione e inusuale riservatezza; in alcuni giorni Illya pensa di conoscere tutto di lui, che la sua vita sia davvero riassumibile in tutto ciò che di elencato si trovi nel suo dossier, ma al momento nulla del suo passato pare riaffiorare nella sua figura.

Nessun tremore di mano.
Osserva, vedendolo semplicemente giocherellare con il bordo del suo bicchiere. Deve essere un tic privo di significato poiché lo ha visto muoversi nel medesimo modo in altre occasioni, quindi sfatando qualsiasi ipotesi per ora formulata.

Nessun tremore di gambe.
È seduto a suo modo – mento alto, gomiti larghi, incurante dello spazio che occupa e di Illya che, invece, si sente opprimere in un angolo esiguo del divano. Il piede sinistro oscilla di tanto in tanto, seguendo il ritmo di una ballata italiana che riecheggia tra le pareti della hall.

È imperturbabile, almeno in apparenza, ma Illya è cresciuto in un ambiente dove ciò che si vede non è sempre ciò che è – la linea che divide il falso dalla verità è sottile e riconoscere tale confine è un’arte che richiede esperienza e allenamento.
Potrebbe dire di averla padroneggiata e di saper scorgere i modi per nascondere traumi e paure; vuole credere che tale abilità sia il risultato acquisito nella sua carriera intensa nel KGB, ma non sarebbe sufficiente. Vi è altro ancora poiché nelle iridi di Napoleon vede la propria immagine riflessa, a tratti ritrova un dolore che gli ricorda frammenti del proprio trascorso.
Non sa con certezza se le ferite di Napoleon siano altrettanto lontane, ma è certo che qualcosa deve essersi ridestato – gettando l’americano in un nuovo turbine di taciturna afflizione.

«Sai la storia di come mi sono fatto cicatrice?»
Illya lo domanda a bassa voce, bisbigliando perché non è solito condividere aspetti della sua vita e già sa di non aver mai raccontato nulla di tutto ciò a Napoleon. Non vi è tempo per quel genere di chiacchiera in un lavoro come il loro e, anche a trovarne, tra i due il rapporto non è così amichevole da concedersi una condivisione di esperienze passate.
Forse è proprio Napoleon, tra i due, ad essersi lasciato a qualche episodio dei suoi tempi in Germania Ovest - ma solo memorie buffe e che non rivelassero troppo delle sue origini.
E, in effetti, ancora oggi Illya non conosce nulla della famiglia che lo ha messo al mondo, del perché ha sentito il bisogno di arruolarsi presto, lasciandosi alle spalle casa per non tornare mai più. Sono dettagli che si è domandato, qualche volta, nei momenti in cui l'eccessivo bisogno di mostrarsi virile sembrava prendere il sopravvento su Napoleon.
Dapprima Illya era convinto delle proprie conclusioni - sono tutti gli americani ad essere così sfrontati e sicuri di sé, ma con il trascorrere dei giorni, quasi a conoscersi meglio, gli è sembrato che fosse Napoleon - da solo - a cercare di compensare la mancanza di un qualcosa.
Sono illazioni, ipotesi che non hanno alcuna prova a supporto, eppure Illya non si sente distante dalla verità.

«Credevo volessi parlare di me.»
«Tu hai detto di immaginare scacchi. Ognuno può scegliere una mossa per aprire.»

Napoleon, in un primo momento, non pare convinto di tale risposta, quasi a soppesare la trappola nella quale si è appena scagliato. Illya lo guarda e un bagliore di dubbio gli attraversa il viso, un cambio di luce così repentino da scomparire subito dopo, come sempre, dietro ad un sorriso.

«Okay, allora no, non la conosco.»
Lo mormora posando gli occhi sulla cicatrice lì, un segno indelebile sulla pelle del viso di Illya. E quest'ultimo la sfiora con la punta delle dita, in risposta allo sguardo indiscreto dell'altro, ma senza nascondersi.
Uno scambio equo di memorie - una rivelazione per una rivelazione, e nessuno dovrebbe uscirne perdente.

«Dodici anni, ero in orfanotrofio,» non si aspetta di trovare della compassione nei modi di Napoleon, non sarebbe da lui cedere ad inutili reazioni e, dopotutto, il dossier di Illya non gli è sconosciuto. Ed è meglio così, preferendo una sincera indifferenza ad una falsa empatia. «Si dorme insieme in grandi stanze e un ragazzino, penso più grande di me, mi taglia con un pezzo di vetro.» 

Napoleon incrocia le braccia, labbra arricciate in una posa pensierosa e nessun senso di sorpresa o di tristezza a tinteggiare il suo viso – medita, Illya non capisce per cosa esattamente, ma lo vede oberato da pensieri che aspettano di essere condivisi. O mantenuti confidenziali, forse.

«Diamine, Illya, te lo hanno mai detto che sei pessimo nel raccontare storie?» È l’unica cosa che dice – dopo attimi di silenzio - nel suo tono abitualmente sprezzante. E Illya, ad onor del vero, non potrebbe dargli torto, ma è convinto di essersi spinto nella giusta direzione. Tutto come immaginato.

«Allora sentiamo te, John Wayne.»
Mima la sua medesima posa, braccia strette contro il torso e la fronte appena corrucciata, come a trattenersi dall’aggiungere altro di poco amichevole.

«Oh, è uno trucco stupido quello;» quindi, no, non ha funzionato come sperava, ma è pur sempre qualcosa – non un discutere continuo contro un muro. «Prima faccio una domanda.»

«Pensavo che mia storia fosse pessima.»

«Non pessima,» sembra offeso, quasi ad esclamare che non farebbe becera ironia sul suo passato. «La tua abilità nel raccontarla lo è. E comunque, mi lasci iniziare il turno o-?»

Illya si limita ad un accenno di capo, ritornando taciturno. Non teme la curiosità dell’altro giacché sa che ogni domanda inopportuna può essere ricambiata con un ugualmente sconveniente quesito. Sono l’uno legato alla sorte dell’altro – e se Napoleon decide di chiedere troppo, allora Illya non si tratterrà dal fare altrettanto.

«Sapevi perché lo ha fatto? Credi che l’essere figlio di tuo padre ti abbia messo in una posizione scomoda in un posto come quello?»

«Sono due domande, cowboy.» Illya risponde stizzito, un poco contenuto, ma non impassibile. Il solo nominare suo padre risveglia qualcosa a lungo sopito in lui, una parte di sé che si era ripromesso di non toccare più, non in contesto di lavoro. Soprattutto, non di fronte a Napoleon.

«Bene, riformulo. Gli altri ragazzini ti trattavano male per ciò che è successo alla tua famiglia?»

E Illya ci pensa, in silenzio, e inconsapevolmente tornando ad una posizione non dissimile da quella di Napoleon.
Non era una rarità trovare altri bambini come lui – figli di nemici dello Stato – negli orfanotrofi. Lo si sapeva poiché gli educatori ne erano a conoscenza e non nascondevano, pur sostenendo di trattare tutti in egual modo, la loro durezza contro chi si era macchiato di un tale crimine.
Vi era, però, anche chi aveva perso i genitori per la guerra, prole di militi ignoti o di eroi acclamati dalla madrepatria. Nel dolore, alle volte, ad Illya era sembrato di essere simile a tanti altri.
Di conseguenza, ciò che suo padre aveva fatto – o ciò per cui era stato accusato – non aveva reso diverso il modo in cui gli altri ragazzi lo vedevano. Gli adulti, sì, avevano in sé una consapevolezza diversa, come se riversare le proprie frustrazioni potesse ergerli moralmente, renderli compagni migliori.
Ma i bambini, per quanto maligni potessero essere, non avevano alcun interesse per la politica né per l’onore.

«Tutti avevano perso famiglia, lì. Come, poco importava. Devi imparare a sopravvivere e quando a nessuno interessa come cresci, mostri ad altri di essere il più forte. Magari il ragazzino voleva che io lo ricordassi.»

«Quindi come lezione ti è serv-»

«No. Tocca a me.»

E Napoleon cambia – questa volta per davvero – sicché il pallore pare ritornare sul suo viso, si schiarisce la voce con una mano chiusa a nascondere le labbra. Non lo vede più sorridere, Illya, ma più che preoccupazione, sul suo viso riconosce un senso di serietà che ha notato in poche altre occasioni. Ha accettato le regole del gioco senza lasciar spazio ad inutili lamentele o proteste infantili.
È un uomo di parola – vorrebbe dire, ma una parte di sé farà sempre fatica a fidarsi di lui. Era un ladro, dopotutto, ed è una spia – mentire è sempre una sua arma a disposizione.

«Dopo zio Rudi,» Illya lo sente sospirare, le spalle che si levano un poco, il petto che si gonfia d’aria, eppure il suo volto non cambia – una lastra di marmo fredda alla vista. Qualche screziatura, forse, cela irrequietezza e malessere, ma Napoleon non mostra apertamente e Illya non vuole forzare quando ha la possibilità di chiedere.

«Hai detto a CIA di essere stato torturato?»
 
«No, e comunque a loro non importa.» Una risposta scarna, priva di dettagli o di novità, e Napoleon sembra non voler dire nulla di più, per cui i suoi occhi si allontanano da Illya, guardando il bicchiere vuoto. «Tuo padre, credi che lo abbiano incastrato o le accuse erano vere?»

Illya deglutisce, mentre Napoleon sciocca le dita per chiamare un cameriere. L’attesa concede una pausa, pausa in cui nessuno dei due parla e quando il gin arriva, osservare come esso scivoli lento sul fondo del bicchiere è quasi liberatorio.
Terapeutico, persino, in una pausa breve che ricorda Illya del tempo trascorso da quando si sono separati da Gaby, un’eternità – una lunga, lunghissima eternità.

«Non lo so.»

«Quella non è una risposta.» Si bagna solo le labbra, Napoleon, assaporando il drink come se avesse lottato a lungo contro uno stato di disidratazione.

«Ma è verità, o preferisci ascoltare una bugia. Vero, voi americani siete-»

«Lascia perdere.»

Si zittiscono entrambi, come a voler soppesare con attenzione la prossima mossa. Per Illya, lo scacco matto pare ancora così distante, tanto dal non essere certo di poter estrapolare qualche parola di più dalla bocca di Napoleon. Il tasso di pazienza di quest’ultimo non è molto differente dal proprio, anche se egli insiste nel volersi mostrare come il più condiscendente tra i due.


«Non è la prima volta che ti capita.»

«Cosa?» Mormora stizzito Napoleon, evidentemente preparandosi al peggio tra un goccio e l’altro.

«Tortura. Quando ti ho trovato, non sembravi preoccupato di morire.»

Illya di quel momento ricorda tutto e niente.
La sua memoria scorre veloce, a tratti lasciandosi sfuggire dettagli che reputerebbe importanti in qualsiasi altro contesto, ma né la voce di zio Rudi né il senso di oscurità gli è rimasto impresso nella mente.
Alle volte, invece, crede di riuscire ad immaginarsi tutto, quale sensazione Napoleon debba aver provato lì, legato e scosso dall’elettricità, sino ai pensieri che devono aver dominato su di lui, ma non facendolo sentire come una bestia in trappola. Appariva pronto, come qualcuno che è fuggito più di quanto avesse immaginato, e acciuffato dopo un lungo periodo di latitanza.
Eppure, Illya, quando capisce quanto vicino sia stato a vederlo morire, non può che ringraziare la casualità che lo ha portato a trovarsi nel posto giusto al momento giusto.

«Quindi la tua domanda sarebbe se mi hanno torturato prima di tutta questa storia?»

Accenna con il capo e un’espressione incupita prende posto sul volto di Napoleon, in bilico tra improvviso riserbo e abituale fastidio. Non vuole rispondere – Illya lo comprende dal modo in cui si ritira di nuovo dietro al suo bicchiere di gin, non più limitandosi ad un sorso, ma ingurgitando ciò che è rimasto – un solo gesto e il liquido ambrato sparisce, alleggerendo il corpo e la mente.

«È una faccenda un po’ complicata da spiegare, e dubito che tu possa capire.»

«Questa non è risposta.» Illya lo scimmiotta, aspettandosi un altro riscontro irritata da parte sua, ma invece – come suo solito – Napoleon si concede un sorriso, contento di tanta beffarda prontezza.  

«Va bene, no, non mi è mai capitato prima d’ora.» E prima che possa ribattere, chiedendo una spiegazione, Napoleon lo interrompe ancora una volta. «Come mai sei finito in un orfanotrofio? Pensavo che fossi cresciuto con tua madre.»

Le palpebre di Illya tremano un attimo, socchiudendosi nel tentativo di trattenere la calma. È proprio una figura di donna che, come il più strano dei miraggi, gli appare nel buio e non riesce a distinguere se si tratti del viso di sua madre o di una sconosciuta qualsiasi.
Sono passati anni, diversi anni, dall’ultima volta che le ha parlato – non ha più notizie di lei da quando è stato arruolato nel KGB, e i giorni trascorsi non hanno aiutato la sua memoria.
Una parte di lui trova ingiusto il trattamento che ha riservato alla donna che lo ha messo al mondo, sangue del suo sangue, eppure nessuno sforzo pare colmare quel vuoto.
La mancanza gli provoca un senso di vertigini, come ad essere sospesi in una realtà priva di inizio o di fine – e lì, come tutte le volte che accade, il suo tic comincia ad affiorare, picchettando l’indice destro contro una gamba tremante.

«Illya

La sua coscienza gli ha spesso suggerito che sua madre non sarebbe orgogliosa di quello che è diventato – un assassino in un mondo in cui cedere alla violenza è semplice ed è la via che, prima di lui, molti altri hanno intrapreso. Il marchio d’infamia di suo padre ha cambiato le loro vite per sempre, un’ombra dalla quale è difficile allontanarsi, eppure né lui né sua madre sono mai riusciti a serbare odio nei suoi confronti.

«Illya

La mano di Napoleon è fredda quando tocca la sua, un solo attimo che non si estende per più di un secondo – evitando di creare imbarazzo tra loro. Ma Illya la sente, e anche quando l’altro si allontana, gli pare di percepire ancora le impronta delle sue dita contro la propria pelle.
Ed è insolito, a ben pensare, quanta delicatezza un uomo come Napoleon riesca a possedere – lui, capace di brandire armi come fossero giocattoli, di preparare esplosivi nel medesimo modo in cui apparecchia una tavola o fa godere una donna. Ha un controllo di sé che Illya potrebbe persino invidiare, se non fosse che non ve n’è di perfezione in un mondo come il loro, quindi deve esserci qualcosa, qualsiasi cosa, che possa far perdere il tocco anche a lui.

Ma quando ritorna in sé e Napoleon pare pronto ad un nuovo attacco, la figura di Gaby appare dalle scale dell’hotel. Un sorriso pieno ad occuparle il viso e un vestito – uno di quelli suggeriti da Illya – a fasciarle delicatamente il corpo.

«Allora, vi state divertendo senza di me?»

 
_________________________________________________


Sono trascorsi un paio di giorni quando ritrova Illya, la missione conclusa alle loro spalle e il cielo di Roma tinteggiato da nuvole vermiglie. Il crepuscolo riflette i suoi colori sul viso assorto del russo – impegnato ad osservare il vecchio orologio del padre di nuovo al polso.
Napoleon lo ha sempre considerato singolare, il modo in cui egli riesca a stordire una persona adulta con il solo palmo della mano, e con la medesima a carezzare un quadrante di vetro come se temesse di frantumarlo con la semplice pressione delle dita.
Illya è notoriamente un uomo arcigno, ottima spia quanto ottimo è il suo fervore in combattimento – Napoleon deve riconoscerlo, sicché non lo stupisce sapere che è il miglior professionista che il KGB abbia mai avuto.
Eppure, ha i suoi momenti – che sia l’ossessione per il passato o la sua scarsa capacità a fidarsi degli altri. È guardingo, ma di una paranoia rasentante la bizzarria, e non differisce molto da un vulcano quiescente pronto ad esplodere da un momento all’altro.

E ora Napoleon si trova lì, un vento autunnale a soffiargli tra i capelli e una balconata con vista che lo rilasserebbe in qualsiasi altra occasione, ma non oggi.
Le sue attenzioni sono tutte per lui – una sagoma immobile che si mimetizza bene con la bellezza esuberante della città.
È un connubio di classico, barocco e moderno alla quale si è affezionato e gli mancherà, adesso che l’UNCLE è stata fondata e la retorica del noi contro voi è cessata di esistere. Ufficialmente, perlomeno, perché una parte di lui è e sarà sempre riluttante nei confronti di Illya. Non l’uomo in sé – che è più umano di quanto voglia dimostrare -, ma di ciò che dovrebbe rappresentare.

Non è l’unico ad essere cresciuto a pane e propaganda – anche Napoleon ha i suoi stereotipi, luoghi comuni che gli sono stati inculcati da ragazzino e, pur combattendoli, è difficile disfarsene completamente.
Non crede neppure di definirsi patriottico, tant’è che l’idea di andar fieri di un pezzo di terra gli suona piuttosto stravagante. E poi, non ha mai avuto modo di vivere l’American Dream – un miraggio, più che una reale possibilità.

Questi suoi pensieri, però, sono un segreto alle orecchie di Illya.
È meglio così – pensa lo stesso Napoleon – poiché giocare alla parte dell’americano disinvolto contro la severità sovietica è più semplice che instaurare un rapporto serio. Essere alleati, poi, è un’ipotesi che ha dell’incredibile, e non è solo colpa del russo, sebbene accusarlo di scarsa collaborazione sia la via meno complicata da seguire.

Ma anche da parte sua, fiducia è una parola difficile da pronunciare, e solo in poche occasioni ha avuto modo di chiamare qualcuno amico.
Paiono epoche lontane, decenni or sono – quando era giovane e con la convinzione di avere il mondo tra le mani; dove ad ogni quadro rubato, ad ogni buon colpo portato a segno, l’avere fede degli altri era un qualcosa che si poteva concedere.

Alle volte, con il senno di poi, si pente di essersi fidato anche troppo – il che spiega il perché della sua situazione attuale.

Ma Illya e Gaby potrebbero essere diversi - vorrebbe dirsi.
Potrebbe imparare a confidare in altre persone di nuovo, ma la prudenza non è mai troppa – a prescindere da ciò che l’UNCLE vuole prefiggersi.

E poi ci sono gli incubi, quegli incubi – e benché Napoleon rimanga un ladro con una certa fama e avere un codice d’onore non è esattamente nel suo stile, non può negare un dato di fatto incontestabile.
Illya gli ha salvato la vita – e la sua mente lo ricorda; il suo cuore anche, poiché il solo osservarlo fa riemergere istanti che lo hanno tenuto a lungo sveglio alla notte. La sua voce ferma che lo chiama, quel cowboy mormorato con un’insolita preoccupazione – non troppo esplicita, ma espressa appena in superficie, scivolando lenta sulla punta della sua lingua.
E Napoleon trova ancora ironico il proprio modo di abbarbicarsi ai dettagli, giacché non avrebbe mai immaginato di dover riconoscere Illya come suo salvatore.

Tuttavia…

Tuttavia, quell’autoritaria, nevrotica macchina da guerra è l’uomo che gli ha permesso di essere ancora qui, ad osservare melancolico l’ultimo tramonto su Roma.


«Ti devo ancora una mossa,» Napoleon sussurra, annunciando la sua presenza. «L’ultima volta non abbiamo proprio finito.»

Illya non sobbalza, non mostra plateali cenni di sorpresa, ma quando si volta, i suoi occhi sembrano essersi fatti più piccoli e una sfumatura di stupore è appena visibile lì, nelle sue iridi.

«Napoleon…» Vi è un certo languore nel modo in cui pronuncia il suo nome, un’incertezza che lo stesso Napoleon non riesce a comprendere, ma lo prende contropiede poiché non è da lui, non da tipica spia del KGB che ha imparato a conoscere.

«Forza, approfittane adesso che sono sobrio.» Si concede una risata per spezzare l’imbarazzo che aleggia tra loro, in cerca di un appiglio per non sembrare un completo idiota.
Illya, come suo solito, non ride – lo guarda solamente, schiudendo le labbra per dire qualcosa che fatica ad abbandonare la sua testa.

«Non chiedi di mia madre?»

Giusto, la signora Kuryakin. La sua cara mamma.

Napoleon non se n’è dimenticato – ovvio che non lo ha fatto -, ma non è sadico a tal punto da risvegliare quella parte di Illya, ché in fondo di vederlo di nuovo alle prese con il suo tic non è una vista piacevole. Non è repulsione, ma semplice disagio perché non è mai stato bravo a calmare gli altri.
Rimane un ladro – non proprio buon materiale con cui confidarsi.

«Solo se ne vuoi parlare tu.» E dice la verità, esclamandolo.

«Poco da dire.» Ed è evidente che vi è un qualcosa da dire, ma Napoleon gli lascia spazio, rimanendo in silenzio. Nessuna battuta fuori luogo o scherzo per sdrammatizzare. Sa che lo stesso Illya non apprezzerebbe.

«A dodici anni mi hanno portato in orfanotrofio, te l’ho detto. Poi non l’ho più vista.»

«Dovevi esserci affezionato.»

«Certo, Solo, è mia madre
E Napoleon non riesce a decidere cosa dovrebbe colpirlo di più, l’ovvietà dell’esclamazione – come se il rispetto per la donna che mette al mondo un figlio è ciò che di più scontato ci sia, o la scelta del tempo presente. Non sa che fine abbia fatto sua madre, non sa se sia ancora viva da qualche parte lì, nella vastità dell’Unione Sovietica, ma la ama ancora. Una certezza oltre il tempo e lo spazio.

«Ora spiegami faccenda complicata.»
Anche Illya non ha dimenticato – ovviamente non lo ha fatto – ed è il turno di Napoleon di mettersi a nudo. E di alcool vicino non ne trova, quindi gli tocca sopportare l’umiliazione senza una goccia del suo amato gin a bagnare le labbra.
Pessima circostanza.

«Siamo già in argomento, ad essere sinceri.» Deglutisce, sospira, e un principio di emicrania pare rivelarsi per tormentarlo – sempre puntale quando certi ricordi gli balzano alla testa. E avere occhi su di sé non aiuta.

«Sai che mi sono arruolato a sedici anni, giusto?»

Illya annuisce, distogliendo lo sguardo quando un nuovo silenzio piomba tra loro e si protrae a lungo, per uno, due, infiniti attimi.
Ad osservarlo di profilo, con il sole calante che riflette sulla sua cicatrice e la coppola appoggiata sulla testa, Napoleon è quasi sul punto di fermarsi e non dire nulla. O di mentire, perlomeno, poiché ciò che vorrebbe rivelare non è un qualcosa che causerebbe grande empatia nell’animo del russo.

«Ho lasciato casa.» Che non è un trauma, non se detto ad una persona a cui sono stati strappati entrambi i genitori, vivendo in una realtà tutto fuorché felice.
Almeno lui ha avuto una scelta – vorrebbe dirsi, ma Napoleon la considererebbe più una fuga obbligata. «Mi sono imbarcato verso un continente appena uscito da una guerra dalle dimensioni catastrofiche perché la mia famiglia, piuttosto che sopportare qualche mio… diciamo difetto, mi avrebbe volentieri fatto friggere il cervello.»

Non riconosce l’espressione che ora attraversa il viso di Illya. Sono una gamma di emozioni, diverse tra loro – confusione, disinteresse, rabbia; l’una contraddice l’altra e Napoleon non sa che farsene, se non riderci sopra poiché è l’unica cosa che gli rimane. È il suo coping mechanism da un paio di anni. Sì, probabilmente decenni.

«Perché?» Illya lo chiede con tono pacato, come se fosse la domanda più semplice da porre e dal quale aspettarsi una risposta sincera.

«Non è più il tuo turno.» Napoleon sussurra, quasi sollevato, eppure la curiosità negli occhi dell’altro non si attenua neanche un poco. Rimane viva, famelica, seppur paziente in attesa di verità.

«Avresti potuto lasciarmi morire lì, da zio Rudi, ma non lo hai fatto.»

«Qual è domanda?»

Non lo sa neanche Napoleon che cosa voglia sentirsi dire. Lasciarsi rincuorare, forse? Sapendo che l’essere stato soccorso non è stato solo un caso o un gesto dettato dal dovere. Ma riflettendoci, qualsiasi speranza riposta in Illya e nel suo senso di compassione è un’aspettativa destinata a perire.
Sono colleghi – solo colleghi – e Napoleon traccerebbe quelle parole volentieri sulla propria pelle, se potesse.

«Perché mi hai salvato?»

«Non lo so, non ci ho pensato. Ho fatto e basta.»

Che ha un suo senso, nonostante Illya non sia uomo dal fare e basta. Ha un suo piano per tutto ciò che accade, sin dal giorno che ha ben deciso di seguirlo correndo dietro ad una macchina a Berlino Est. O forse è solo Napoleon ad intravedere più del dovuto – immaginando intenzioni che neppure esistono.

«Volevi morire come dicevano i tuoi genitori?»

E Napoleon ride ancora – il suono della sua voce riecheggia tra i tetti della bella Roma, trasportato dal vento e dai piccioni che vanno in cerca di qualche briciola di pane. Ha un che di straordinario e spaventevole ciò che vorrebbe confessare, eppure non si trattiene – non che ci sia tanto altro da perdere.

«No, non esattamente,» ma ci ha pensato a lungo, ricordando ogni singola parola che i suoi genitori erano soliti a dirgli sul suo essere. E quando zio Rudi lo aveva tenuto legato a quella sedia, quasi a ritornare ragazzino, si era domandato se fosse davvero destinato ad una fine come quella. Papà e mamma erano stati lungimiranti, allora.
Ma poi è arrivato Illya – Illya, la sua voglia di impicciarsi dappertutto con quello stupido ‘Doing okay, cowboy?’.

«Bene, perché contrario sarebbe stupido.»

«Grazie tante, Peril, avevo bisogno di sentirmelo dire.» Ritorna il sarcasmo, l’ironia pungente contro il palato e che sfugge dalle labbra, spontaneo, una caratteristica innata che non richiede neppure un poco d’allenamento.

«Lo so,» e Illya non scherza, no, il suo volto è serio come a volersi spingere verso una direzione che nessuno dei due avevano considerato. «Gaby dice che hai incubi. Non so come faccia a saperlo, ma credo abbia ragione.»

E Napoleon si ammutolisce, rigido e con le mani a nascondersi nelle tasche dei pantaloni. Lo sguardo fugge verso il panorama, lo spuntare della prima sera che colora i palazzi e i lampioni accesi sotto di loro, a disegnare scie di luce ad ogni nuovo incrocio.
Gaby ha ragione - sì, non una novità per una donna abituata a leggere e comprendere tutto di tutti. Deve essere un’abilità intrinseca al suo caratterino, un full inclusive di determinazione, testardaggine e spirito di adattamento.

«Effetti collaterali della vita da spia, immagino.»

Ma Illya non risponde, non aggiunge altro – forse convinto di aver sentito a sufficienza, o no, annoiato da una conversazione incagliata in un susseguirsi di sciocche domande senza fine.
E Napoleon, abbandonando Roma, spera di lasciare nella città eterna gli ultimi fantasmi della sua vita passata.

 
_________________________________________________
 

Istanbul in autunno è fredda e malinconia. A tratti, per quanto inusuale possa sembrare, ricorda a Gaby la sua Berlino. Senza muro e guardie a sorvegliare ogni singolo cittadino, ma nell’aria si respirano le medesime sensazioni.
È più bella di Roma – meno scontata, più peculiare. E poi il profumo di tè al mattino la fa destare sempre di buon umore, anche quando gli altri non lo sono.

Illya è il medesimo dalla prima volta che lo ha incontrato – le pare più irrequieto, forse perché non è abituato a lavorare in un contesto diverso dal KGB e lei lo nota dal suo diffidare di qualsiasi proposta giunta dall’alto.
La loro storia si è arenata, ma ciò non le procura tristezza.
Non è mai stata avvezza all’idea di impegnarsi – di avere un uomo solo per un lungo periodo, e poi, forse anche per la loro professione – Illya è incostante, ed entrambi hanno bisogno di qualcosa di diverso.

Lui non ha realizzato ancora che cosa voglia – di questo Gaby ne è convinta fortemente giacché vi sono giorni in cui vorrebbe gridare in pubblica piazza che i suoi cari colleghi sono degli idioti.

Napoleon, anche, con il suo modo di negare le evidenze e di creare false apparenze di sé a cui egli stesso crede ben poco. Un ottimo ladro, ma altrettanto non può essere detto sulla sua abilità a mentire.
Si parlano spesso, loro due, e con il passare dei giorni – molti dei quali trascorsi a fare da vedette in attesa del loro obiettivo, scopre lati insoliti che non avrebbe mai immaginato di conoscere.
È meno frivolo di quanto possa apparire, ma è terribile nel volersi bene – questione che a Gaby non dovrebbe importare, se non fosse che è affezionata a lui e quella sua tendenza autodistruttiva che perdura da quando hanno lasciato Roma la infastidisce sempre più.

«Quand’è l’ultima volta che hai dormito?» Glielo domanda una mattinata, tono irritato, quello materno – come dice lo stesso Napoleon, ma lei è fatta così. Qualcuno deve pur essere l’adulto tra loro.

«Dormo tutte le notti, cara.» Lo vede accasciarsi su una sedia del cafè più vicino al rifugio dove stanno. Borse sotto gli occhi, gote pallide – il nodo della cravatta che indossa è già stato ammorbidito, a malapena fasciandogli il collo. È inconsueto vederlo così trasandato e quasi lo invidia, Gaby, perché anche da insonne non perde mai il suo fascino sfrontato.

«Napoleon,» esclama con tono urgente, ma i loro sguardi non si incontrano e le sembra di essere di nuovo priva di compagnia. Lui si nasconde come solito, uno dei giornali di stampa estera a celargli il viso e, di tanto in tanto, la sua mano a sbucare per prendere la tazza di caffè o un katmer al pistacchio.

«Dico sul serio.»
Non è complesso capire che qualcosa lo stia turbando, ma riuscire ad andare oltre quel suo guscio è una sfida che Gaby è troppo stanca per affrontare.
Aveva confidato in Illya – ancora non sa perché – e il risultato è un Napoleon più indisposto di prima, come se ai problemi abituali si fosse aggiunta anche una nuova inquietudine dai tratti incomprensibili.

«Pensavo che ci fossimo lasciati queste cazzate alle spalle. Lavoriamo assieme adesso, e lo dico per-»

«Non ho bisogno di una balia, Gaby;» un’espressione contrariata appare alla sua vista, due occhi a scrutarla con il viso mezzo nascosto da una prima pagina che riporta ‘L’Algeria ha il suo primo presidente’.

«Allora non comportarti come un bambino.»

«Io non-» sbuffa, ma accartocciando il giornale sulle proprie gambe permette a Gaby di osservarlo con attenzione, finalmente. «Senti, se hai voglia di dare una mano, la prossima volta non sguinzagliarmi addosso Illya.»

«Eh?» Aspira aria e trattiene una piccola risata. «Di che cosa stai parlando?»

«Gabriella
E lei capisce, il riverbero della sua voce le riecheggia tra le orecchie come un avviso a non proseguire oltre, abbandonando la farsa della donna innocente che non si azzarderebbe mai ad intromettersi in quel genere d’affari. E, sebbene non ne sia contenta, deve ammettere che Napoleon non è così stupido come aveva immaginato.
Ma ciò non la allontana dalla sua opinione iniziale, siccome è ancora convinta che vi sia un qualcosa tra i due uomini che, ovviamente, non sono disposti ad accettare. Napoleon potrebbe essere il più malleabile – quello disposto a fare una prima mossa per aprirsi all’altro – e Gaby non può lasciarsi sfuggire l’occasione.
Sente di avere un ruolo, una missione da adempiere: ha orecchie acute per ascoltare e occhi scaltri per vedere, e non può essere l’unica ad aver riconosciuto un certo atteggiamento da parte di Illya.

«Ci sono persone che necessitano di una spinta,» lo crede davvero, e l’aver bisogno di aiuto non è motivo di vergogna. «E poi ho l’impressione che tu ti senta il debito con lui. L’ho capito quando vi ho visti seduti in hotel a Roma e da qualche cosa che mi ha detto.»

«Diamine,» lo osserva alzarsi di scatto, la sua tazza che trema all’irruenza di quel gesto e qualche goccia cade lì, bagnando la pila di quotidiani che occupano una parte del loro tavolo. «Cosa fate nel vostro tempo libero, parlate di me?»

Napoleon non vuole una risposta che, Gaby sa, potrebbe spaventarlo. Eppure, vedere il suo volto attraversato da panico e imbarazzo è una tentazione alla quale non può rinunciare, invitandola a lasciarsi scappare di bocca una semplice, maledetta frase.

«Più frequentemente di quanto tu possa pensare.»

E quando lui l’abbandona lì, in mezzo all’abitudinario cafè, Gaby non si sente sola – Istanbul mantiene il suo buon umore e il profumo di tè addolcisce le prime ore del mattino.

 
_________________________________________________

È il sorriso dei suoi genitori a svegliarlo. Non un rumore né un pericolo imminente. Solo un'immagine innocua del suo passato, un gesto che il sé bambino ricorda senza alcuna fatica perché è cresciuto con la forza di quei sorrisi.
Da suo padre ha imparato a sdrammatizzare - o almeno, gli piace pensarla così, poiché il vecchio Solo è sopravvissuto a due guerre mondiali e alla Grande Depressione, ma con la bramosia incontenibile di volere una famiglia.
Da sua madre, invece, Napoleon ha ereditato la resilienza e la capacità di apprezzare le piccole felicità della vita. La cucina, in particolare modo, giacché l'unica cosa che di positivo ricorda della sua infanzia sono le cene domenicali.
E la festa del Ringraziamento, sì, quello era un giorno speciale.

Ma oggi, ora che si sveglia in un letto disfatto e con il corpo e il viso madidi di sudore, alla mente gli rinviene solo il loro sguardo - quello sguardo in bilico tra disappunto e rassegnazione, accompagnato da un sorriso fasullo.

Nei sogni, come tutte le altre notti, la tortura di zio Rudi gli fa ancora compagnia - una visione fedele, indimenticabile. L'ha immaginata in ogni forma, dalla più realistica ad una variazione molto distante dalla realtà.
Tuttavia, adesso, a differenza di tutte le altre volte, Illya non è apparso - nessuna occhiata complice, nessun cowboy sospirato. Dietro le spalle di Rudi, proprio dove Napoleon si rifugia spesso con la vista, vi sono i suoi genitori.
Mamma e papà sorridenti.

E sebbene non abbiano mai approvato molte delle scelte prese nella sua vita, una parte di lui vuole credere che non sarebbero mai arrivati a tanto. Non a lasciarlo morire, o peggio, alterato da una Medicina che promette di curare un qualcosa che Napoleon non considera una malattia.
Ma nell'incubo loro guardano senza fare nulla, senza dire nulla. Lo ascoltano mugugnare, digrignare i denti ad ogni scossa che percorre il corpo, irrigidendosi.  E vi è sadismo non tanto nelle espressioni, ma nel loro stare immobili - come se fossero felici spettatori di uno show raccapricciante.

Allora Napoleon spera - per la prima volta dopo notti spezzate da tali visioni - che Illya possa sbucare da qualche parte, che lo soccorra come è avvenuto nella realtà. Sospira il suo nome, persino, e nel risveglio sente ancora qualche parola sfuggirgli dalle labbra.
In inglese, in russo, in un misto tra le due - qualsiasi cosa necessaria a vedere la maledetta sagoma di Kuryakin alle spalle di Rudi.

Ma la stanza del caro zio svanisce lenta, sostituita dalle pareti asettiche della sua camera da letto.
È nel rifugio - al sicuro.
Solo il suo respiro delirante riecheggia tra le mura, il cuore a sbattergli nel torace e un lieve formicolio alle dita che gli ricorda nuovamente che Napoleon Solo è.
Napoleon Solo (r)esiste.

 
_________________________________________________

Illya socchiude la porta della camera e cammina a passo lento, un poco trascinandosi. Non riesce a dormire, eppure il sonno grava ancora sulle sue spalle, invogliandolo a sdraiarsi di nuovo, ma senza chiudere occhio.
Fisserebbe il soffitto come ha fatto nelle ultime ore.
Il solo pensiero potrebbe scaturire ilarità, se non fosse che passare notti insonni è diventata una scomoda abitudine e neppure una partita a scacchi in solitaria pare quietare il suo animo.
Non avrebbe molto da fare, dopotutto, se non perdere contro se stesso. E vi è un qualcosa di utile, certamente, nell'imparare quali siano i propri punti deboli, ma non è allettante quanto poter vincere contro qualcun altro. Difficile è trovare avversari degni.

Allora si trova a vagare in un limbo sotto forma di corridoi che paiono infiniti - è un rifugio troppo grande, quello che ha assegnato l’UNCLE per tre spie sole. Persino la camera di Gaby è lontana - due svolte a destra e una sinistra, chiedendosi se sarebbe abbastanza svelto a raggiungerla se avesse bisogno di lui.
Quella di Napoleon, invece, è nella direzione opposta.
Più vicina alla piccola cucina che non usano quasi mai, o raramente, in quei giorni colmi di momenti morti e con un americano desideroso di impastare, tagliare e chissà che altro.
Forse la vita da spia non fa per lui - Illya lo ha pensato una volta quando, seduto su uno sgabello, si è messo ad esaminarlo maneggiare con i fornelli.
In ligio silenzio, nessuna critica o provocazione – solo Napoleon di spalle, un grembiule stretto ai fianchi e una pila di piatti abbandonati dopo cena.
E Illya non ricorda neppure l’ultima volta che ha mangiato così, non bene, ma insieme a qualcun altro che non fosse per lavoro. Anche Gaby deve aver apprezzato, siccome insiste spesso nel volerla trasformare in consuetudine.
Loro tre a condividere un tavolo – normalità in mezzo ad un mondo privo di ordine.

E ricordi casuali della cena gli riempiono di nuovo la testa quando, non sapendo dove attendere il giungere dell’alba, si dirige proprio verso la cucina.
È una luce fioca ad allarmarlo – una lampada che illumina a malapena un angolo della stanza, lì, vicino al piccolo balcone che si affaccia su uno dei çarşı della città. In lontananza, sotto le stelle, si intravedono i minareti della moschea blu, e in primo piano la sagoma di Napoleon trova un proprio spazio in quel paesaggio.
Immobile, solo un’ombra che trema appena dal freddo che proviene dalla porta-finestra. Non si è accorto dell’arrivare di Illya, così assorto da pensieri che devono averlo tenuto sveglio a lungo.
Lo osserva passarsi una mano tra i capelli, la schiena ricurva e un bicchiere vuoto posto al fianco. Deve avere bevuto – come suo solito – eppure Illya non trova traccia di alcuna bottiglia di liquore.  Potrebbe essere un pessimo segno o, forse, per una volta tanto, l’americano ha imparato a trovare qualche cos’altro in cui affogare i propri dispiaceri.
Illya era solito bere un po’ di Ryazhenka da bambino, prima di andare a dormire, ma forse Napoleon è troppo grande per accontentarsi di un bicchiere di latte fermentato.

«Dovresti essere a letto da un pezzo.» Lo sussurra a bassa voce, spalla contro lo stipite della porta e braccia incrociate al petto. Rimane sulla soglia, non un passo di più, ma è sufficiente per far trasalire l’altro.

«Potrei dire lo stesso, Illya.» La stanchezza, questa volta, non è celata; al contrario, tali parole carezzano rozzamente le orecchie del russo, segno che l’ora è tarda e l’orgoglio di Napoleon deve essersi assopito tempo prima.

Vi è una certa intimità nel momento in cui i loro sguardi si incontrano, Napoleon che si volta pigramente, ma solo facendo capolino dietro alla propria spalla.
Illya ne vede il profilo spossato – con il chiarore di una luna crescente che accenna ancor più i suoi lineamenti. Pare bambino e adulto nel medesimo tempo, non avendo abbandonato la sua frivolezza abituale, ma con una maturità rinnovata che, taciturna, appesantisce l’animo.
E Illya non ha bisogno di altro per comprendere che Gaby aveva ragione – gli incubi sono lì, sul suo volto, ed è morto qualsiasi fiero tentativo di nasconderli.

«Sai storia della mia cicatrice,» lo pronuncia all’improvviso, sfiorandola con le dita in un gesto spontaneo. «Non ho detto perché te l’ho raccontata.»

Una pausa si frappone tra di loro. Napoleon guarda Illya, Illya guarda Napoleon. Lo osserva riflettere su un qualcosa, le labbra a ritirarsi in una smorfia infastidita e la fronte corrucciata come suo solito.

«Ha importanza?»

«Да.» Non gli sfugge il modo in cui rotea gli occhi, Solo, preparandosi all’ennesima paternale di cui farebbe volentieri a meno. E Illya lo annota mentalmente, ma poco gli importa – giacché sono rare le volte in cui ha voglia di parlare di sé e quando capita, nessuna reazione tediata può ostacolarlo.

«Ho sempre pensato che ragazzino mi avrebbe preso di nuovo di notte, mentre ero a letto.» È una confessione che apre ad un’eccezionale vulnerabilità, un aspetto del proprio io che non ha mai condiviso con nessun altro. E adesso che è adulto la reputa persino sciocca, quella paranoia che lo attanagliava da bambino; ma in passato aveva trascorso mesi ad immaginarlo: un nuovo taglio, e un altro ancora – una faccia sfregiata da nascondere e di cui vergognarsi.

«Non dormivo, socchiudevo solo occhi e aspettavo.»

Allora Napoleon si volta, occhi a farsi più vispi e una curiosità latente che gli attraversa il volto, facendolo quasi ritornare all’uomo di sempre. La stanchezza è ancora nelle sue espressioni, nel modo in cui si sistema per ascoltare meglio, eppure pare essere rinsavito.

«E?» Sospira come affaticato dalla breve attesa. «Non dirmi che lo hai fatto fuori.»

Illya soffia, uno sbuffo che dovrebbe rassomigliare ad una risata, sicché lo diverte sapere che Napoleon lo consideri così spietato. Ciò non ha dell’assurdo, pensando alle prime volte che si sono incontrati, ma l’Illya bambino era diverso dall’uomo attuale. Indeciso, forse, e in balia di eventi che non poteva controllare, sebbene l’avesse desiderato.

«No, un giorno se n’è andato da orfanotrofio e non è più ritornato.»

«Ancora non le sai raccontare le storie, vedo.» Mormora Napoleon, ma è solo una critica velata, una beffa che si dissipa in fretta dietro ad un sorriso. Il sonno deve averlo addolcito, smorzando appena la sua ironia.

«Ma ho capito dove vuoi arrivare;» si riempie un bicchiere mentre parla e Illya, osservandolo, rimane sorpreso nel notare che è solo acqua quella che sta bevendo. Un passo piccolo in avanti, ma pur sempre un miglioramento. «Essere paranoici fa male alla salute, immagino. Ma permettimi di dire che è divertente ricevere un consiglio simile da te.»

Gli occhi di Illya scivolano verso l’orologio del padre, le dita a stringere attorno al cinturino in una reazione spontanea. È consapevole dei propri limiti, della smania che si impossessa di lui ogniqualvolta il passato ritorna a tormentarlo. Ed è ironico, pensandoci, che dica a Napoleon di non ossessionarsi su cose che sono accadute e che non può cambiare.
Anche lui, proprio come l’americano e i suoi incubi, ritorna spesso ai giorni della sua adolescenza, al viso sbiadito di sua madre e i giorni monotoni in orfanotrofio.
È una parte di sé che non può abbandonare – è ciò che lo ha reso la spia che è adesso, e forse il rimuginare sul passato è uno dei pochi aspetti che ha in comune con Napoleon.
Davvero ironico.

«Io e te siamo diversi,» Illya lo bisbiglia avvicinandosi al balcone. Di spazio, questa volta, ve n’è a sufficienza, eppure Napoleon non si sposta, incurante del modo in cui i loro gomiti si sfiorino appena. «Io sono cresciuto come spia, e tante cose diventano abitudine. Tu…»

«Non sai come sono stato educato o che vita facevo quando ero in America.» Riceve una risposta rapida, una sfumatura di fastidio sulla punta della lingua e Illya si volta a guardare l’altro in volto. Non sembra adirato, ma neppure compiaciuto.
Semplicemente è – Napoleon Solo, l’incorreggibile uomo dalla bocca larga, di chi ha sempre qualcosa da dire anche quando non è richiesto. È schietto, perlomeno, ed è una peculiarità che Illya non potrebbe mai criticare di lui.

«Non era vita da spia, forse vita triste, ma non da spia.»
E Illya sa di aver toccato un nervo scoperto, di essersi lasciato sfuggire un giudizio di troppo poiché l’espressione sul viso di Napoleon diviene tutt’a un tratto severa, lo sguardo a velarsi di una mestizia improvvisa. Gli occhi soltanto bastano per farlo zittire e Illya sì, rimane in silenzio, in attesa di un qualcosa che neppure lui sa.

«Non ho risposto ad un tuo perché quando eravamo a Roma.»
Per un attimo è quasi impercettibile alla vista, il modo in cui le dita di Napoleon tremano stringendo il bicchiere ancora colmo d’acqua. Un dettaglio che, tuttavia, Illya non si lascia sfuggire e legge in quel gesto più di quanto l’altro voglia realmente rivelare.
Allora sente di aver varcato un confine mai superato prima, di una complicità che non hanno in nessun’altra occasione condiviso in passato, e diventa difficile comprendere come comportarsi.

«È importante?» Lo mima ancora, ma non più come scherno. È una domanda legittima che trova una risposta titubante nei lineamenti di Napoleon, sempre teso eppure con un nervosismo che scema lenta, scomparendo ad ogni nuovo sorso.

«Sì e no? Ai fini del nostro lavoro, no. Ma siamo colleghi, e viviamo praticamente sotto lo stesso tetto, mangiamo allo stesso tavolo… e io so di te più di quanto tu sappia di me.»

Illya vorrebbe dirgli che tanta segretezza non lo infastidisce – non ha bisogno di conoscere tutto ciò che ha fatto o sperimentato nella sua vita precedente. Potrebbero non rivedersi in futuro, potrebbero persino morire l’uno davanti all’altro, e forse sapere troppo diverrebbe facilmente più un peso che un piacere.
Eppure, si sente responsabile per lui – lo è da quel giorno in cui lo ha trovato nell’ingloriosa stanza di zio Rudi, e se proprio non gli fosse importato della sua vita, lo avrebbe abbandonato senza alcun rimorso.
Non è mai stato uomo da fare e basta – ha preso una scelta, consapevole e desiderata: non volere la morte di Napoleon è una presa di posizione che non lascia spazio ad equivoci.

«Se chiedo perché, prometti di ritornare a dormire?»

E Solo ride, il mento un po’ all’insù e le gote che s’imporporano alla mancanza di aria; è un riso fragoroso che interrompe l’attesa, ma che Illya non riesce a comprendere. La sua è una proposta seria – quasi un ordine, se potesse davvero contenere quello spirito indisciplinato. E, invece, in beffa a tutte le sue regole, Napoleon ride – di qualcosa di vago e forse un poco anche di lui.

«Non ti facevo tipo da promesse. Sono cose che chiedi anche a Gaby?»
Un sussurro che risuona basso tra le labbra, e Illya intravede un accenno di malizia nel modo in cui lo dice, nel modo in cui lo guarda, ed un’improvvisa epifania pare colpirlo quando realizza quanti pochi centimetri vi sono tra loro.
Può sentire il respiro di Napoleon carezzargli il viso – così vicino, così azzardato.

«C’era una sorta di centro a New York.» Prende tempo, ritornando ad osservare le forme geometriche della Camii. «Penso si faccia anche da voi, sai, quando qualcuno non segue l’ordine delle cose.»

Nella mente di Illya appare solo un’immagine di una prigione – di una gabbia, o di qualsiasi altro posto in cui chiudere persone che non seguono le leggi. E sì, può dire che l’Unione Sovietica è familiare a quel genere di trattamento.

«Mia madre era un po’ titubante all’inizio; è una donna abbastanza credente, quindi le preghiere erano terapeutiche, almeno nella sua visione del mondo.»

Il solo pensiero disgusta Illya, non rimpiangendo la rigidità ateistica della sua madrepatria. Il buio della superstizione è un ricordo di tempi lontani, e che, sollevato, riconosce di non aver mai vissuto.

«Invece mio padre ha un forte senso pratico e di avere un figlio invertito proprio non gli andava. Era la sfortuna più grande che gli fosse mai accaduta in vita, parole sue.»

Napoleon lo guarda, cerca una qualsiasi reazione sul suo viso quando pronuncia quella parola, una r marcata ad arricciarsi contro il palato, quasi frettoloso nel volerla sputare fuori. E ora che lo ha fatto – ora che si è liberato di quel peso, Illya ritrova gli stessi occhi vitrei di poche settimane prima, quando erano stretti l’uno contro l’altro su un divano della lussuosa Roma.
Quel vuoto non gli ricorda più solo il gelare dei fiumi moscoviti, ma di più – il tempo ventoso della baia di Baku, ma anche il nevischiare dei Carpazi e di tutte le volte che, dalle stanze ad allenarsi, vedeva la sua Mosca imbiancata.
È una sensazione familiare, ma non per questo priva di sorpresa. E lo è, esterrefatto, poiché non avrebbe mai immaginato che Napoleon – quel Napoleon – fosse così. Non dopo averlo visto ammaliare con innata scioltezza ogni giovane donna nella città eterna.

«Questa dovrebbe essere la parte in cui condividi una delle tue intransigenti frasi comuniste.»

Ma Illya rimane in silenzio, bocca tesa in una linea perfetta e il viso svuotato di qualsiasi emotività. Non rabbia né disgusto, forse solo un poco confuso, come se la realtà di tale rivelazione fosse ben lontana dalle sue aspettative iniziali.

«Sei proprio stupido cowboy.»
E Napoleon sgrana gli occhi, il naso ad arricciarsi in un’espressione buffa che, se non fosse per il contesto serio in cui si trovano, Illya avrebbe volentieri fatto sparire a suon di pugno.
Lo sanno entrambi che in uno scontro alla pari il sovietico vincerebbe senza troppe difficoltà.

«Come? Tutto qui?» Il tono allarmato con cui lo esclama dissipa le ultime tracce di stanchezza, quasi a ritornare ad uno status quo dove nessun Napoleon depresso esiste e neppure alcun Illya a cercare di confortarlo. «Niente invettive contro il decadimento delle società capitaliste?»

Illya crede sì, che il mondo oltre la cortina di ferro sia colmo di difetti e di vizi imperdonabili. A modo suo, Napoleon ne è l’emblema – con la sua sfacciataggine e l’insolenza nei suoi modi di porsi. In aggiunta, il suo successo con le donne è dato dalla totale mancanza di pudicizia e uno spirito di adattamento che non ha eguali.
A tutto ciò si aggiungono i fiumi di alcool, l’incontrollabile tendenza al furto e al gioco d’azzardo…

«Società capitaliste sono orribili, ma quelle cose non esistono solo in America, lo hai detto anche tu.»
In questo, Stati Uniti e Unione Sovietica non sono differenti – e quando si è abituati ad un mondo in guerra, semplice è disconoscere qualsiasi forma di amore, trasformando genuini sentimenti in malattie e in messaggi propagandistici a cui Illya non ha mai voluto dare ascolto.

E Napoleon pare aver compreso molto più dietro alle sue parole. Un’ammissione che non riuscirebbe ad esplicitare nel medesimo modo in cui egli ha fatto poco prima, ma basta per trovare complicità lì, dove nessuno dei due avrebbe mai pensato di scovare.
Allora si guardano senza esclamare alcun suono, bocche serrate e un’inusuale quietudine ad aleggiare tutt’attorno – tanto bramato dopo lunghe settimane caotiche. E nella bonaccia, ancora una volta colpito da un’inattesa scoperta, il viso dell’americano appare splendere sotto la luce fioca della luna.

Parla in un brusio, un timido «Oh, Gaby…» che anticipa un nuovo riserbo che, a tratti, è contagioso.
Illya non ha bisogno di sapere altro per comprendere a che cosa stia facendo riferimento e il pensiero che Gaby – la sua Gaby – abbia rivelato più di quanto le fosse concesso è terribile, quanto terribile è la risata a cui Napoleon si abbandona.

«Credo sia stata lei a farci scacco matto.»

E Illya, nella sua non risposta, non può che pensare la stessa cosa.

 
  
Leggi le 0 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Film > Operazione U.N.C.L.E. / Vai alla pagina dell'autore: _Akimi