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Autore: IndianaJones25    02/04/2021    2 recensioni
È una luminosa e calda giornata estiva di fine Ottocento quando, in una casa di Princeton, nel New Jersey, nasce l’unico figlio del professor Henry Jones Sr. e di sua moglie Anna.
Nel corso dei venticinque anni successivi, il giovane Junior vivrà esperienze indimenticabili e incontrerà persone straordinarie, in un viaggio di formazione che, tappa dopo tappa, lo porterà a diventare Indiana Jones, l’uomo con frusta e cappello, il più celebre archeologo del mondo…
Genere: Avventura, Generale, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Abner Ravenwood, Henry Jones, Sr., Henry Walton Jones Jr., Marion Ravenwood, René Emile Belloq
Note: Missing Moments, Raccolta | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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XXVI.
PALMIRA, MANDATO FRANCESE DI SIRIA, LUGLIO 1923

   Ragazze dalla bellezza leggiadra e incantevole danzavano armoniosamente nella penombra. I loro veli semitrasparenti, avvolti attorno ai lunghi capelli, scendevano fino ai piedi scalzi, frusciando con la vaporosità di nubi argentate. Oltre a qualche tintinnante collana di perle e a nastri colorati che ricadevano morbidi attorno ai fianchi a cui erano legati, non indossavano altro. Ondeggiavano leggere come l’aria, al suono di una musica celestiale che pareva scaturire dall’atmosfera profumata, muovendo ritmicamente le mani e i piedi e ammiccando verso di lui con fare lascivo. Di quando in quando, una di loro lasciava scivolare il velo in terra, per poi chinarsi a raccoglierlo con movimenti sensuali che mettevano in risalto le forme perfette dei corpi e che gli procuravano le vertigini.
   Vertigini unite a spossamento, arsura implacabile, bruciori alla pelle e lieve ma persistente senso di nausea. I sintomi di quella che lo sbrigativo medico che lo aveva visitato aveva definito “forte insolazione”.
   Indiana Jones era appena cosciente del fatto di stare vaneggiando o, meglio, delirando. Troppo sole gli aveva dato alla testa e lo aveva scottato. Anche se era disteso sopra la brandina completamente nudo, nell’ombra oscura della tenda, si sentiva come se si trovasse ancora in pieno sole, avvolto in due o tre coperte di lana. La febbre altissima non gli dava tregua e il calore che trasudava dalla sua carne non poteva essere mitigato nemmeno dalle pezze imbevute di acqua fredda e aceto che, di continuo, gli venivano appoggiate sulla fronte e sul petto da uno degli inservienti del campo base. Il medico aveva detto di avere troppo da fare, per occuparsi a lungo di lui, e si era ritirato nel suo alloggio, con una buona bottiglia con cui combattere la calura della bollente estate mediorientale.
   Tutto era successo perché Ravenwood, quell’anno, non era riuscito a ottenere il permesso per continuare i suoi scavi in Egitto.
   «Maledetti!» aveva gridato, entrando con foga e sbattendo la porta del suo ufficio, nell’Università che si andava svuotando in vista delle vacanze estive prima della prossima sessione di esami. «Tre volte maledetti! Ottusi idioti che non sono altro! Non si rendono conto della fortuna che hanno!»
   Indy, che con una lente d’ingrandimento stava esaminando un vaso greco in ceramica a figure rosse risalente alla prima metà del V secolo, alzò gli occhi verso di lui.
   «Che cosa succede, professore?» domandò, sbigottito da quella scenata inattesa.
   Furente, Abner aveva mollato un pugno all’anta di un mobiletto. Si era ferito le nocche.
   «Succede che, per quest’anno, salta tutto!» sbraitò, con i baffi che vibravano in maniera pericolosa.
   Indy era letteralmente cascato dalle nuvole. La partenza per il Delta del Nilo era già fissata alla settimana successiva da molto tempo.
   «Salta tutto?» ripeté, credendo di non aver compreso. «In che senso salta tutto? Vuol dire che non andiamo…?» Non era affatto difficile, in fondo, capire a che cosa si stesse riferendo Ravenwood. C’era soltanto un argomento che lo rendeva tanto sensibile e in grado di mandarlo in quella maniera fuori dai gangheri.
   «No, non andiamo in Egitto» borbottò Abner, appoggiandosi con le mani alla scrivania, chino in avanti. Era rosso di collera e il torace gli si alzava e gli si abbassava molto velocemente.
   «Ma perché?» sbottò Indy, deluso. «Stiamo preparando tutto quanto da mesi. Ormai, la localizzazione di Tanis è praticamente certa e…»
   «A loro non interessa!» sbraitò Ravenwood, sempre più infuriato. «Il consiglio direttivo è convinto che la mia ricerca dell’Arca dell’Alleanza sia ormai durata abbastanza a lungo per poter essere considerata una spesa superflua. Quei vecchi becchini vogliono risultati concreti, e a sentire loro io non gliene sto portando!»
   Sollevò lo sguardo e fissò con crescente intensità il suo studente.
   «Un giorno anche tu sarai un archeologo a tutti gli effetti, Jones» disse, con un sibilo sinistro nella voce, il respiro affannoso, «ma se posso darti un consiglio, tieniti lontano dalle università: meglio essere indipendenti, che dover sottostare alle richieste di vetusti tromboni vestiti da beccamorti.»
   Indy trasalì. Non aveva mai visto Abner perdere le staffe a quel modo.
   «Professore, mi dispiace. Se vuole posso provare a mettere una buona parola e…»
   Ravenwood scoppiò in una risata che si tramutò subito in un attacco di tosse che durò quasi due minuti. Sembrava un cane che latrava e annaspava allo stesso tempo.
   «Non… farmi… ridere… Jones…» riuscì finalmente a dire, quando si fu calmato. «Tu… hai una pessima reputazione, lo sai, vero? Ti sei portato a letto mezza università, comprese le più rispettabili delle mie colleghe - donne onestissime, prima di incontrare te, posso assicurartelo - e hai combinato un guaio dopo l’altro. Se non ti hanno buttato mai fuori è soltanto perché io mi sono sempre assunto le tue difese. Qualche volta ho persino dovuto alzare la voce, per poterti salvare. Ma non ti degnerebbero di uno sguardo, se provassi a dire loro qualcosa. Anzi, potrebbero prendere la tua insubordinazione come scusa valida per espellerti una volta per tutte.»
   Con un sospiro profondo, Abner andò alla finestra aperta e fece scorrere lo sguardo sul cortile soleggiato. Gruppetti di studenti con i libri sottobraccio passeggiavano in ogni direzione. Sotto un albero, vide René Belloq che addentava una mela. Poco lontano, Harold Oxley camminava in compagnia di Marion. La ragazza chiacchierava come un fiume in piena, e Harold, le mani dietro la schiena, annuiva a intervalli regolari. Il cielo splendeva, illuminato da un bellissimo sole, e l’aria profumava d’estate. Ravenwood, però, non riusciva ad assaporare la dolcezza della bella stagione.
   «No, ormai la decisione è presa e dovremo fare come vogliono loro» bofonchiò. «Andremo in Siria e mapperemo le rovine di Palmira, come richiedono. Gli porteremo i loro risultati concreti, ubbidendo come cagnolini ben addestrati.»
   Si voltò a guardare il suo studente. Indy deglutì nel trovarsi di fronte quello sguardo allo stesso tempo arcigno e fiero.
   «Ti devo confessare una cosa, Jones» borbottò, interrompendosi subito dopo per mordersi le labbra.
   Il ragazzo rimase in rispettoso silenzioso, attendendo che il professore trovasse le parole adatte da dirgli. Finalmente, Ravenwood parve superare il disagio che lo aveva colto.
   «L’insegnamento non mi entusiasma più» rivelò. «Vent’anni fa, quando ho iniziato, andavo fiero del mio ruolo. Pensavo che un giorno avrei istruito qualcuno che sarebbe potuto essere il mio degno successore. Ma in tutti questi anni non ho trovato nessuno che rispondesse a colui che stavo cercando. Almeno, finché sei arrivato tu. Ti ho incontrato, e ho capito che tu eri l’uomo che stavo cercando da tanto tempo.»
   Indy fece un vago cenno. Si sentiva in imbarazzo.
   «Istruirti, trasmetterti tutto ciò che so, mi ha rinvigorito. Mi sono sentito di nuovo giovane. Mi è tornata la voglia di trascorrere ogni momento della mia vita sul campo, senza più dover sfruttare il poco tempo libero che mi è concesso dalla vita universitaria. Grazie a te ho capito di potere - e volere - tornare di nuovo a essere quello che ero una volta, e ora questo luogo mi sembra una prigione.»
   «Professore…» borbottò Indy, sempre più a disagio, ma Abner scosse il capo, facendogli cenno di lasciarlo continuare.
   «Questo rifiuto di aiutarmi da parte del consiglio direttivo mi ha risolto a prendere una decisione su cui ho meditato molto a lungo. Ormai ho deciso: non appena tu ti sarai laureato - che succeda l’anno prossimo, o tra due, non ha importanza - io rassegnerò le mie dimissioni. Voglio tornare a occuparmi interamente di archeologia. Basta libri e scartoffie, per me. E mi auguro che tu vorrai seguirmi in questa follia.» La voce di Ravenwood si era fatta roca, e una scintilla di pazzia gli illuminava lo sguardo. «Perché sì, lo so, questa è follia pura. Ma io sono certo che l’Arca sia sepolta a Tanis, e farò di tutto per dimostrarlo. E se l’Università di Chicago ha deciso di non appoggiarmi, ebbene farò a meno del loro aiuto.»
   Indy cercò di mettere insieme tutte quelle parole. Sul serio Abner Ravenwood era ossessionato da Tanis e dall’Arca al punto da volersi spingere tanto oltre? Eppure, per come la vedeva lui, lasciare l’Università avrebbe comportato molti più problemi che vere soluzioni. Una su tutte, era di certo la questione economica.
   «Ma… se lascia il suo impiego… come farà per i soldi?» domandò, con qualche titubanza.
   Ravenwood si strinse nelle spalle.
   «Il mondo è pieno di ricconi annoiati che non sanno che cosa farsene, di tutto il denaro che hanno da parte, e che non vedrebbero l’ora di poter legare il loro nome alla più grande scoperta archeologica di tutti i tempi» disse.
   «Lei lo crede?» domandò il ragazzo, non del tutto convinto.
   «Oh, sì. Accorreranno a frotte, pur di finanziare le nostre ricerche» profetizzò Abner.
   A Jones non sfuggì il riferimento al plurale: ormai, Abner lo considerava a tutti gli effetti una parte importante di sé. Se ne sentì enormemente orgoglioso, ma anche spaventato: quel futuro gli sembrava così incerto, pieno di incognite.
   «Se dipendesse da me, mollerei tutto in questo preciso momento e manderei volentieri al diavolo quei tromboni dei consiglieri» andò avanti a dire Abner. «Ma non posso. Perché tu possa laurearti, è necessario che io mantenga il mio posto. Così, fino a quel giorno, dovrò rassegnarmi a obbedire agli ordini. Per cui, Jones, cambio di programma: si va in Siria.»

   La rassegnazione del professor Ravenwood ad accettare di rinunciare per un’intera stagione alla ricerca di Tanis non bastò in alcun modo a sbollire la sua rabbia. Così, furente per tutto il tempo che stava perdendo, si sfogò sottoponendo i suoi studenti a lunghissime e brutali ore di massacrante lavoro sotto il sole cocente, costringendoli a turni abominevoli e non concedendo mai neppure un minuto di tregua.   
   Una mattina particolarmente afosa, riparato all’ombra di un albero dalla corteccia calcinata, non aveva fatto altro che abbaiare ordini su ordini, riprendendo con rabbia tutti coloro che si fermavano per tirare una boccata d’ossigeno o per bere un sorso d’acqua. Indy, per cercare di sfuggire alla calura che lo opprimeva sempre più, si era tolto la camicia madida di sudore, restando a torso nudo.
   Si era reso conto troppo tardi di quale pessima idea fosse stata la sua. Verso le quattro del pomeriggio aveva cominciato a sentire fastidio alle spalle e alla schiena e, prima di sera, gli era salita la febbre. In breve era finito steso sulla brandina, al buio, accompagnato dall’ovvio verdetto del medico: insolazione.
   Nel delirio che lo aveva colto appena dopo il calare del sole, si era visto circondato da molte cose, che aveva dimenticato alla svelta; soltanto le danzatrici semi-svestite erano ancora impresse nella sua memoria quando, infine, dopo un giorno e mezzo, ancora molto debole, poté alzarsi e sgranchirsi le gambe.
   «Buone notizie» rivelò il medico, riponendo il termometro nella sua borsa. «La febbre è passata e il peggio è scongiurato. Ma per almeno una settimana dovrai sottoporti a impacchi giornalieri e cospargerti di lozione, e farai meglio a restartene all’ombra.»
   «Hai una fibra dura e la pellaccia resistente, Jones» disse Abner, che era presente. Gli mollò una pesante pacca sulle spalle ancora infiammate, coperte di pelle morta che si staccava a brani, strappandogli un gemito che Indy soffocò a stento tra le lacrime che non fu in grado di controllare. «Ma mi hai fatto preoccupare per davvero. Dovrai restare in forma, se un giorno dovrai venire con me alla ricerca dell’Arca perduta. La prossima volta non fare l’eroe e rimani coperto come si deve.»
   Indy annuì ed evitò di ribattere che, la prossima volta, Ravenwood avrebbe potuto dimostrarsi anche un poco meno schiavista nei confronti di chi lavorava per lui. Si sentiva ancora troppo debole per affrontare una discussione di quel genere con il professore.
   Perlomeno, aveva imparato un’altra lezione. Meno pelle avrebbe tenuto esposta, quando si trattava di fare qualcosa in posti caldi e assolati come quello, e molto meglio sarebbe stato. Una camicia inzuppata di sudore e i capelli appiccicati sotto il cappello, del resto, sarebbero stati un inconveniente assai preferibile rispetto a un’altra esperienza dai tratti mistici come quella.
   
 
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