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Autore: Melabanana_    03/04/2021    1 recensioni
A un certo punto della storia che conosciamo, in tutto il globo terrestre hanno cominciato a nascere bambini con poteri sovrannaturali, dando inizio alla generazione dei "portatori di doni". Assoldati dalle "Inazuma Agency" come agenti speciali, Midorikawa e i suoi coetanei dovranno lottare contro persone disposte a tutto pur di conservare e accrescere il proprio potere. Ma possono dei ragazzini salvare il mondo?
Avvertimenti: POV in 1a persona, AU, forse OOC, presenza di OC (secondari).
Questa storia è a rating arancione per via delle tematiche trattate (violenza di vario grado, morte, trauma, occasionale turpiloquio). Ho cercato di includere questi temi con la massima sensibilità, ma vi prego comunque di avvicinarvi alla materia trattata con prudenza e delicatezza. -Roby
Genere: Angst, Azione, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Shonen-ai, Crack Pairing | Personaggi: Jordan/Ryuuji, Xavier/Hiroto
Note: AU, OOC | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Spy Eleven -Inazuma Agency '
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Ormai lo sapete che scrivo sentendo molta musica (ho una playlist apposita per Spy Eleven!), quindi anche stavolta vi beccate le ost consigliate per il capitolo: ♫ x, x, x ♫ 
Buona lettura e ci rivediamo come al solito nelle note in basso ↓


 
[Midorikawa P.O.V.]
 
 
 
Nessun piano è a prova di imprevisti, perciò non è che non ne avessi messo in conto qualcuno. Ma non avrei mai potuto prepararmi all’arrivo di Coyote e Fox, o all’entrata in scena della polizia capitanata da Hitomiko. Almeno quest’ultima giocò a mio favore.
Quando Endou e Hiroto avevano parlato di rinforzi, non mi aspettavo certo di vedere un centinaio di persone.Tra queste, riconobbi i miei compagni di squadra; Hitomiko, naturalmente, ma anche Kidou, Maki e Reina. Con mia grande sorpresa vidi anche altri volti familiari, come Zell e Desarm, che non capivo perché fossero lì. Non credevo che ci sarebbe stato il tempo di chiederlo. In ogni caso, la marea blu entrò sfondando l’ingresso e in pochi secondi invase la hall, chiudendo ogni via d’uscita; la situazione non poteva che volgere a nostro vantaggio. Anche gli uomini assoldati da Kenzaki lo capirono e, come se si fossero messi tacitamente d’accordo, lasciarono tutti cadere le loro armi e alzarono le mani in segno di resa mentre i poliziotti li tenevano sotto tiro. Non opposero resistenza neanche quando furono messi in manette: almeno per loro, la notte era già finita. Una volta scomparso Kenzaki, non avevano motivi per continuare la battaglia. Volgendo lo sguardo verso l’entrata, notai che anche i ricercatori erano stati intercettati e arrestati, e osservai per qualche istante le loro facce pallide e angosciate. Dovevo ammettere che era un piacere vedere le loro espressioni sconfitte. Ma guardie e ricercatori erano solo pesci piccoli. Kenzaki era ancora a piede libero, per non parlare di Buffalo, Fox e Jackal. Anche se avevano perso Coyote erano ancora pericolosi; anzi, forse lo erano più di prima, mossi dalla rabbia e dal lutto ancora fresco.
Mi accigliai. Per quanto guardassi, non vedevo traccia di Fox e Jackal da nessuna parte. L’unico ancora in vista era Buffalo che, come c’era da aspettarsi, stava dando un bel po’ di filo da torcere ai miei colleghi. Nonostante perdesse sangue da braccia e gambe, non sembrava intenzionato a fermarsi: a quanto sembrava, aveva perso la percezione del dolore. Il suo volto contratto mi fece pensare alla maschera di un namahage, con due cavità nere al posto degli occhi. Capii che era stato completamente sopraffatto dal dono che aveva ricevuto. A prescindere dall’esito della battaglia, aveva già perso.
La sua fine arrivò all’improvviso quando, nel tentativo di fermare i suoi movimenti, Desarm gli scagliò addosso una scarica elettrica. Avendo usato apposta un voltaggio ridotto per non ucciderlo, però, non riuscì a paralizzarlo del tutto. Il pugno di Buffalo scattò verso destra, dove c’era Reina, ma non la sfiorò nemmeno: rimase bloccato a mezz’aria a circa un metro da lei. Zell si gettò verso Reina e l’afferrò per le spalle, tirandola indietro, ma non ce n’era bisogno. Buffalo aveva perso i sensi mentre era ancora in piedi.
Per un po’ tutti rimasero a fissare quella posa assurda, preoccupati che potesse ricominciare a muoversi da un momento all’altro. Hitomiko fu la prima a riscuotersi dallo shock.
-Arrestatelo! Legatelo ora che è innocuo!- ordinò. I poliziotti ebbero un attimo di esitazione, ma, quando capirono che Buffalo non si sarebbe ripreso, si gettarono subito su di lui per arrestarlo. Non potendo mettergli le manette ai polsi, perché erano troppo piccole, lo legarono con delle corde spesse, poi cominciarono a farlo rotolare verso l’uscita. Sarebbe stata una scena comica, se non ci fossimo trovati in quella situazione.
Una volta terminati gli arresti e portato fuori Buffalo, poliziotti e agenti fecero un ultimo giro di ispezione e così trovarono Jackal: era svenuto in mezzo al corridoio che portava alle scale, e nessuno sapeva come ci fosse finito. Fox, invece, sembrava svanito nel nulla. Era scappato? O si era semplicemente nascosto? In ogni caso, potevamo solo augurarci che non fosse più un pericolo.
Osservavo tutto questo con uno strano distacco, come se lo stessi vedendo succedere attraverso uno schermo. Tutto questo avrebbe presto smesso di essere un mio problema. C’era soltanto un’ultima cosa che dovevo fare. Dopo essermi trascinato all’entrata, mi appoggiai contro una parete e mi misi a guardare le persone che, più o meno ordinatamente, lasciavano l’edificio, in attesa di vedere i miei compagni e accertarmi che stessero bene.
E, poco alla volta, li vidi. Burn e Gazel furono i primi a passare, sostenendosi a vicenda. Non avevano riportato grandi danni, fisicamente, ma Gazel era a pezzi dopo aver usato il suo dono in un modo a cui non era abituato. Quando mi passarono accanto, Gazel mi scoccò un’occhiata stanca, ma per qualche motivo si voltò subito dopo, come se quello scambio di sguardi avesse avuto un costo. Subito dopo vidi arrivare Gouenji con Fubuki in spalla. Tra quelli che avevano preso parte alla missione, Fubuki era sicuramente quello che ne era uscito peggio. Il suo bel volto era chiazzato di viola e rosso dove era stato colpito più volte da Coyote, e senza dubbio molti altri lividi simili sarebbero presto sbocciati su tutto il suo corpo. Ma c’era dell’altro. Il suo sguardo era privo di vitalità e persino la rabbia che lo animava era scomparsa, come se gli eventi di poco prima l’avessero prosciugata. Rabbia. Era tutto quello che avevo sentito quando avevo lasciato che il mio dono lo toccasse, una rabbia così forte da non poter essere nata da poco. Doveva aver vissuto dentro di lui per anni, alimentandosi di giorno in giorno. Non sapevo perché Fubuki avesse deciso di partecipare al mio salvataggio, né perché fosse così arrabbiato, ma di una cosa ero sicuro. Qualcosa dentro di lui si era spezzato e il suo futuro sarebbe stato determinato da come avrebbe superato quel muro.
Ero impaziente di vedere Hiroto, ma lui non passò. Cominciai subito a preoccuparmi. Forse era già andato avanti, forse aveva raggiunto Hitomiko per darle un primo resoconto della nottata; sarebbe stato da lui. Sollevato ma anche deluso, cercai di convincermi che era meglio così, che non ci fossimo incrociati. Intanto, Endou e Kazemaru vennero verso di me. Erano tra gli ultimi a uscire e, quando mi vide, Kazemaru si lasciò sfuggire un sospiro di sollievo; dal suo sguardo apprensivo capii che mi stava cercando dopo avermi perso di vista tra la folla. Scambiò un’occhiata con Endou, che annuì e andò avanti, lasciandoci soli, per quanto possibile. Kazemaru mi si avvicinò e, prendendomi delicatamente per la mano, mi parlò a bassa voce.
-Come ti senti? Vuoi che ti porti in braccio?- mi chiese, preoccupato. Cercava di capire come stavo dalla mia espressione, ma evitai apposta il suo sguardo. Non volevo che provasse a leggermi; temevo che avrebbe intuito cosa mi stava divorando. Dovevo trovare il modo di dirglielo, in fretta, prima di essere scoperto.
-Kazemaru, io...- cominciai, ma mentre cercavo le parole giuste un grido straziante mi interruppe. Entrambi ci girammo verso la fonte di quell’orribile suono.
Uno degli uomini di Kenzaki era immobile in mezzo alla stanza, solo. Gli altri gli avevano fatto il vuoto attorno. Accigliato, guardai meglio l’uomo, il cui volto era una maschera di orrore e sorpresa, con occhi e bocca spalancati. Un filo di sangue gli colava dall’angolo della bocca. Abbassai lo sguardo e vidi che la punta di una lama gli usciva dal petto. Una volta estratta la lama, dalla ferita zampillò una fontana di sangue, che si riversò a terra, raggiungendo con i suoi schizzi le persone più vicine. L’uomo emise un rantolo e si accartocciò su se stesso; il suo corpo, riverso a faccia in giù nel suo stesso sangue, non ebbe neppure un sussulto quando Fox gli passò sopra con noncuranza, piantandogli un piede in mezzo alle scapole invece di scavalcarlo. Fox proseguì senza degnarlo di uno sguardo e nessuno osò mettersi sulla sua strada. La spada al suo fianco gocciolava sangue sulle mattonelle a ogni passo. Quando i suoi occhi scuri si posarono su di me, intuii che il suo interesse per le guardie di Kenzaki era scemato nel momento in cui lui se l’era data a gambe, e che aveva ucciso quell’uomo unicamente per attirare la nostra attenzione. La mia attenzione. Nonostante tutto quello che era successo, ero ancora io il suo obiettivo.
Ogni muscolo del mio corpo si tese con la consapevolezza che non avrei evitato lo scontro. Rapidissimo, lasciai la mano di Kazemaru e misi della distanza tra noi, così da non coinvolgerlo accidentalmente. Ma prima che potessi pensare a un piano, Fox scattò in avanti all’improvviso. Non verso di me.
Capii troppo tardi cosa aveva in mente. Tornai indietro, ma in un lampo Fox era già su Kazemaru con la spada sguainata. Delle gocce di sangue volarono sul volto del mio partner, che riuscì soltanto a sgranare gli occhi. Avevo visto molte persone fare quell’espressione sorpresa davanti alla certezza della morte. Lui no. Lui no. Urlai, o almeno credetti di farlo: ogni suono era scomparso, come risucchiato dalla stanza insieme all’aria nell’istante in cui la lama calò su Kazemaru.
Poi Fox estrasse la spada dalla sua gamba con la stessa violenza con cui l’aveva trafitto e, quando Kazemaru urlò, i suoni e le voci tornarono. Il tempo riprese a muoversi con la solita velocità e il sangue cominciò ad allargarsi a macchia attorno al taglio, infradiciando i pantaloni strappati e gocciolando sulle mattonelle. Kazemaru cadde a terra, trascinato verso il basso dal peso morto della sua stessa gamba. Fox avrebbe potuto finirlo in un istante.
Invece, si girò a guardarmi e sorrise.
Anche quello, era stato per me. Lo aveva fatto solo per la mia attenzione.
Il sangue mi andò alla testa di colpo. Lo shock si trasformò in furia e trovai finalmente la forza di reagire. Senza pensarci due volte, sfilai dalla cinta di Kazemaru una pistola e sparai a Fox un colpo che, se non fosse stato abilmente schivato, gli avrebbe trapassato la mascella. Fox si allontanò con un balzo, mi studiò per un attimo e poi tornò all’attacco. Affondò la spada alla mia destra e, quando riuscii a evitarla, ruotò il polso in modo da sferrare un altro colpo in rapida successione. Mi spostai di nuovo, ma lui mi venne dietro senza paura e riuscì a sfiorarmi una guancia con la punta della lama. Era solo un taglietto superficiale, ma iniziò subito a sanguinare. Mentre lui gongolava, gli afferrai il polso della mano dominante e lo tirai ancora più vicino, in modo che non potesse reagire subito, poi gli tirai una violenta gomitata nello stomaco. Non contento, gli sferrai un calcio sotto il mento mentre si piegava in due per il dolore e lo feci ruzzolare all’indietro; poi, approfittando di quella manciata di secondi che avevo guadagnato, mi girai e corsi da Kazemaru. Passandogli un braccio dietro la schiena per sorreggerlo, cercai di rimetterlo in piedi, ma mi resi subito conto che era uno sforzo inutile: stava perdendo troppo sangue per poter camminare. Tentai di dominare il panico. Guardai verso la porta, dove i poliziotti si affrettavano a far uscire gli arrestati, e improvvisamente mi ricordai di Maki. Maki avrebbe potuto chiudere la ferita in un attimo, se solo fossi riuscito a portare fuori Kazemaru...
Fox si rialzò prima che potessi anche solo muovere un passo. Vedendolo avvicinarsi, non pensai più a niente. Alzai la pistola e sparai senza calibrare il mio potere.
Il proiettile esplose con una violenza tale che l’onda d’urto aprì una crepa nel pavimento, divelse le luci del soffitto e spaccò il vetro della finestra. All’ultimo il proiettile impazzì e, prima di arrivare al bersaglio, deviò verso l’alto e si schiantò nel soffitto con un fragore assordante. Lo spostamento d’aria fu così forte che Fox dovette piantare la spada a terra e aggrapparsi per non essere spazzato via. Il soffitto si squarciò e dall’alto cadde una cascata di detriti. Anche quando la polvere iniziò a diradarsi, il brontolio del crollo continuò a risuonare come eco nel silenzio gelido.
La mano mi tremava per il contraccolpo, e fu solo per pura forza di volontà che riuscii a non far cadere la pistola. Dopo poco, però, mi accorsi che tutto il mio corpo tremava, non sapevo se per lo sforzo o per il panico. Per un attimo rimasi a fissare il buco nel soffitto; poi mi ricordai di Kazemaru e abbassai lo sguardo verso di lui, sperando che nel frattempo non avesse perso i sensi. Ma lui era sveglio e mi stava guardando a occhi sgranati. Quando i nostri sguardi si incontrarono, lui sussultò e distolse il suo, come rendendosi conto dell’errore commesso, ma era troppo tardi. Anche se solo per un momento, avevo visto la paura nei suoi occhi.Aveva paura di me. La consapevolezza mi colpì come uno schiaffo in faccia, e sentii subito il familiare bruciore delle lacrime. Non riuscivo a parlare.
Mi forzai a distogliere lo sguardo e, quando alzai gli occhi sull’ingresso, vidi Endou farsi largo tra quelli che stavano uscendo; era l’unico ad andare controcorrente, perciò individuarlo fu semplice. Kazemaru era troppo stordito per reagire, perciò presi quella decisione per lui.
-Endou! Vieni qui, sbrigati!- gridai. Endou alzò la testa di scatto e mi guardò per un istante, poi tornò a chiedere alle persone di spostarsi con maggiore urgenza.
Quando riuscì a entrare e ci raggiunse, gli bastò una sola occhiata per capire che Kazemaru versava in condizioni critiche. Senza perdere tempo, gli dissi di inginocchiarsi e feci salire Kazemaru sulla sua schiena, in modo che Endou lo portasse come lui aveva portato me per tutta la sera. Non mi sfuggiva l’ironia.
Una volta che si furono sistemati, mi rivolsi a Endou.
-Endou, prendi Kazemaru e portalo fuori. Ha bisogno di Maki, subito!
Lui annuì, ma poi il suo sguardo guizzò verso Fox, che nel frattempo si stava rialzando. Mi accorsi che Endou stava esitando, preoccupato al pensiero di lasciarmi solo con Fox, perciò gli misi una mano sulla spalla e lo costrinsi a girarsi verso la porta. Se voleva salvare Kazemaru, doveva correre senza voltarsi indietro; questo era chiaro a entrambi.
-Endou, vai- dissi con voce dura. Stavolta, Endou mi ascoltò.
Intanto, Fox si era rimesso in piedi e, vedendo Endou correre verso l’uscita con Kazemaru in spalla, decise di provare a fermarlo. Si lanciò verso di loro, ma riuscii a mettermi sulla sua strada in tempo per bloccarlo; a quel punto l'impatto fu inevitabile e cademmo entrambi a terra, perdendo di vista le nostre armi. Disarmati, cominciammo a strattonarci a vicenda e a menare colpi alla rinfusa nel tentativo di assumere il controllo. Poi Fox riuscì a scaraventarmi a terra e a bloccarmi sotto di lui, sedendosi sul mio stomaco. Velocissimo, gli afferrai i polsi per impedirgli di strangolarmi a mani nude e ingaggiammo una nuova battaglia di forza. Gli occhi di Fox erano iniettati di sangue.
-È tutta colpa tua! Se solo non fossi mai esistito...!- soffiò tra i denti, a un centimetro dalla mia faccia. La rabbia lo rendeva cieco e vulnerabile, ed io approfittai della sua debolezza. Accumulai potere nella punta delle dita e spinsi avanti le mani con tutte le mie forze. Fox allentò istintivamente la presa per il dolore e finì gambe all'aria.
Inginocchiato a terra, si guardò incredulo le mani e i polsi: nei punti in cui l’avevo toccato si erano formate delle macchie violacee, come piccole ustioni. Prima che si riprendesse dallo shock, scivolai in avanti e gli diedi un calcio nel petto, facendolo cadere all’indietro, poi mi alzai e gli schiacciai la cassa toracica con un ginocchio. Fox tossì violentemente, con il volto rosso e contratto dalla sofferenza. Sapevamo entrambi che non aveva speranza di vittoria. Non quando io potevo ancora contare su un dono e lui no. Per qualche momento restammo così, immobili, a fissarci. Fox fu il primo a parlare.
-Che fai, non mi uccidi?- mi chiese, sprezzante, ma anche confuso. E anche io fui sorpreso di scoprire che la risposta a quella domanda era no. Lo odiavo con tutto me stesso; non c'era nemmeno un briciolo di compassione per lui dentro di me. Ma non lo volevo morto. Forse aveva semplicemente smesso di importarmi.
Senza degnarlo di una risposta, mi rialzai, lo afferrai per il retro della maglia e lo trascinai verso l'uscita. Con mia grande sorpresa, Fox non oppose quasi nessuna resistenza: sembrava svuotato, paralizzato come Buffalo. Attraversai tutta la stanza senza che lui si divincolasse e, una volta arrivato alla porta, lo gettai fuori come spazzatura, in pasto ai poliziotti che sicuramente avrebbero saputo cosa farne. Ma nessuno si avvicinò, almeno non subito. Quando alzai lo sguardo, lessi paura e incertezza nei loro occhi. Paura non solo di Fox, ma anche di me. E come biasimarli? Arretrai lentamente, fermandomi appena dietro l'uscio della porta. Era strano, ma nonostante tra me e gli altri ci fosse solo un varco, per di più aperto, sentivo come se fossimo separati da una barriera invalicabile. Era così che doveva essere.
Tra gli altri, cercai con lo sguardo soltanto Hiroto, ma non riuscii a trovarlo da nessuna parte. Speravo solo che stesse bene e fosse al sicuro. Non chiedevo altro.
Quando mi girai per tornare dentro, qualcuno mi chiamò.
-Agente Midorikawa!- Era Hitomiko. La guardai. Si era fatta largo tra le divise blu per raggiungermi, ma neanche lei osava avvicinarsi troppo. Leggevo nei suoi occhi l'incomprensione e, al tempo stesso, la consapevolezza che stava per accadere qualcosa da cui non avremmo più potuto tornare indietro.
-Agente Midorikawa, questo è un ordine. T-torna indietro- disse Hitomiko, cercando di tenere la voce ferma, ma le sfuggì un tremito alla fine. Feci un altro passo, mi chinai a raccogliere la pistola e mi girai di nuovo verso di lei.
-Mi dispiace, Hitomiko-san. Questo è l'ultimo dei tuoi ordini a cui disobbedisco, te lo prometto- risposi, poi alzai il viso verso l’arco superiore della porta, sollevai la pistola e sparai.
Il colpo vibrò in aria con il fischio di un fuoco d'artificio ed esplose contro la parte superiore della porta, facendola cadere a pezzi; il muro si spaccò con il brontolio di una frana. Mi allontanai per evitare di finirci sotto e rimasi a guardare mentre blocchi di cemento si schiantavano al suolo, accompagnati da una pioggia di detriti. Come speravo, anche chi stava dall’altra parte si scansò. Desarm tirò via Hitomiko, schermandola tra le sue braccia, ed entrambi rimasero a fissarmi impotenti.
Per un attimo vidi anche Kazemaru: il suo sguardo mi diceva che aveva capito, e che aveva paura. Nonostante poco prima si fosse staccato da me, adesso mi stava tendendo la mano, come se avesse potuto afferrarmi davvero. Poi anche quel varco si chiuse, e decisi di non farmi più distrarre.
Girai la pistola per vedere quanti colpi avevo a disposizione e di colpo mi accorsi che era una Smith&Wesson. La mia. Kazemaru doveva averla portata qui per me, e non riuscii a non provare un leggero senso di soddisfazione al pensiero che, dopo tante missioni assieme, sarebbe rimasta con me fino alla fine. Ne accarezzai il dorso mentre la giravo per verificare quanti colpi c’erano dentro. Era stata caricata da poco, probabilmente subito prima di venire lì, perciò solo una camera di scoppio su cinque era vuota. Avevo altri quattro colpi, un numero più che sufficiente per quello che dovevo fare. Mi girai e sparai il secondo proiettile sulla parete sopra alla finestra, in modo da tappare anche quell’entrata, poi andai nel corridoio dove Jackal era stato trovato. Mi fermai e mi guardai intorno. Dove poteva essere andato Kenzaki? Mi costrinsi a pensare come lui. Di certo cercava una via di fuga, ma doveva esserne una che soltanto lui conosceva, una che gli avrebbe permesso di lasciare quel posto indisturbato, senza lasciare tracce…
Il mio sguardo cadde sullo sgabuzzino alla mia sinistra. Sbirciando all’interno, appariva come una stanza normalissima; tuttavia, fece scattare subito qualcosa in me. Una sensazione di deja-vu… un ricordo. La stanza in cui io e mia madre venivamo rinchiusi era sempre buia e puzzava di umido e muffa. Perché si trovava sottoterra.
Tirai un calcio alla porta e la sfondai, poi entrai sbattendo i piedi a terra. Dai pannelli del pavimento veniva un rumore sordo e, se ci si faceva caso, anche un filo d’aria fredda. Come sospettavo. Cercai con lo sguardo il modo per spostare un pannello, finché non trovai una sorta di incanalatura che avrebbe potuto essere una maniglia, ci infilai la mano e spinsi: il pannello mobile si spostò in avanti come una porta scorrevole, rivelando delle scalette di metallo che si srotolavano verso il basso, come le spire di un lungo serpente. Dal fondo, un pozzo nero di oscurità, venivano aria fredda e puzza di muffa. Mi rialzai e tornai indietro, all’imboccatura del corridoio; da lì, caricai un colpo e sparai verso l’alto. La pallottola sfondò il soffitto e il piano superiore e schizzò ancora più su, creando onde d’impatto attorno a sé, finché non si schiantò contro il punto più alto che potesse raggiungere e si distrusse in un’esplosione di fuoco e scintille. Era un segnale che non esitai a cogliere: di lì a poco, la devastazione sarebbe stata dappertutto e la palazzina sarebbe collassata su se stessa, come speravo.
Dopo aver messo la sicura alla pistola, tornai allo sgabuzzino, mi calai nell’apertura e cominciai a scendere le scale un piolo per volta, stando ben attento a dove mettevo i piedi. Non mi preoccupai di chiudere il pannello. Chi avrebbe potuto seguirmi laggiù? E poi, quella che veniva dall’alto, era l’unica luce che avevo. Più andavo in basso, più l’odore nauseabondo di umidità e muffa aumentava, il che significava che ero sulla strada giusta. Il passaggio era largo a stento per una persona sola e il senso di claustrofobia mi stringeva il petto. I miei piedi scivolavano facilmente sul metallo freddo e sudicio. Fu solo con un enorme sforzo di volontà che riuscii a impormi la calma e a continuare la discesa, e nonostante tutto non potei trattenere un sospiro di sollievo quando toccai terra con la pianta di un piede.
Girandomi, mi trovai davanti alla bocca di un tunnel che curvava verso destra. Sapevo che doveva per forza portare ad una stanza, perciò strinsi la pistola tra le dita e imboccai il tunnel, muovendomi a tentoni nel buio come facevo da bambino. L’unica luce era un debole bagliore ovattato alla fine del cunicolo; seguendola, arrivai finalmente in una stanza ovale e stretta. Dalle tubature sul soffitto gocciolava dell’acqua putrida e verdastra, che si raccoglieva a terra nelle sporgenze di roccia; quando finii per sbaglio con un piede in una pozza, riuscii a trattenere a stento un brivido di disgusto. Davanti a me, girato di spalle e ricurvo su un tavolo di metallo, c’era Kenzaki, apparentemente intento a scribacchiare qualcosa su un foglio. Accanto alla sua mano una torcia emanava la debole luce che mi aveva fatto da guida.
Non appena sentì i passi alle sue spalle, Kenzaki si voltò di scatto. Aveva i capelli spettinati, i vestiti stropicciati, e le sue pupille si assottigliarono con un senso di panico, i suoi lineamenti tesi per la paura e lo shock che qualcuno avesse potuto seguirlo fin lì. Quando vide che ero io, la sua espressione cambiò leggermente e nei suoi occhi vidi comparire un barlume di confusa felicità. Le sue labbra sottili si distesero in un sorriso.
-Ryuuji… mi hai seguito? Sei intelligente… come c’era da aspettarsi da te- soffiò, con voce ossequiosa. Mentre parlava, con una mano accartocciò il foglio, mentre con l’altra cercava a tentoni una sorta di faldone dall’aria molto piena; appena lo sentì sotto le dita, lo attirò a sé e lo strinse contro il proprio fianco. Il movimento non mi sfuggì. Non avevo dubbi che in quel faldone ci fosse il materiale per la sua ricerca: statistiche, dati e suoi appunti a riguardo.
Senza esitare, puntai la pistola contro di lui, facendo scattare, al contempo, la sicura. Per un attimo Kenzaki mi fissò a occhi sgranati, con quel sorriso ebete ancora sulle labbra. Lo scatto della pistola sembrava averlo destabilizzato.
-Ryuuji… cosa stai facendo? Non vorrai... uccidermi…?- domandò con voce tremula.
Non gli risposi. Quando capì che ero serio, il suo viso diventò di un pallore mortale e il sorriso gli scivolò per un attimo dalle labbra; lasciò il foglio accartocciato e si aggrappò al tavolo con la mano tremante, come se avesse bisogno di un supporto per non cadere a terra. Da come mi guardava, incredulo, sembrava davvero non capire perché fossi venuto a ucciderlo. -No… no… Hanno rovinato i miei piani, ma posso… posso ancora…- farfugliò sottovoce, mentre istintivamente, i suoi occhi scattarono verso una porta di ferro pesante alla sua destra. Quello sguardo mi disse tutto ciò che c’era da sapere: quella porta, che doveva in qualche modo portare all’esterno, era la sua unica via di fuga.
-Non puoi fare nulla- lo interruppi, gelido -perché morirai qui e adesso.
Feci un passo verso di lui e Kenzaki indietreggiò d’istinto, andando a sbattere contro il tavolo.
-Aspetta, aspetta, Ryuuji, potrei avere informazioni... sì, informazioni preziose!-cominciò a farfugliare di nuovo. Stringeva febbrilmente il faldone al petto come un tesoro prezioso, e lo guardai con evidente disgusto.
-Non mi importa che hai da dire- sbottai, con tanto veleno che Kenzaki mi guardò smarrito per un momento. Ma subito si riprese, gli occhi illuminati da un guizzo di vita improvviso.
-Neanche se ti dicessi che tua madre potrebbe essere ancora viva?
Non me lo aspettavo. Le sue parole furono una doccia gelata, e il dito mi scivolò dal grilletto.
-Cosa?- Non volevo rispondergli, ma non riuscii a trattenermi. Le labbra violacee di Kenzaki si piegarono in un sorriso quasi comprensivo.
-Avevo spiegato nei dettagli il mio piano ai miei sottoposti, ma non avrei dovuto dare per scontato che persone inferiori sapessero riconoscere il talento… Quella notte c’è stato un malinteso, e loro hanno buttato via… soltanto te- spiegò, con una punta di disappunto. Lo fissai
pietrificato mentre cominciavo a capire.
-Pensavano che fosse lei… che lei fosse la drifter- dissi con un fil di voce.
Kenzaki annuì con aria affranta.
-Sì. Tragico- mormorò in tono laconico. -In verità, io desideravo salvare entrambi. Volevo solo il meglio per te, Ryuuji, devi credermi. Sapevo che non avresti mai voluto che tua madre… sparisse così-. Sembrava veramente dispiaciuto, ma sapevo che la sua tristezza era falsa, come tutto il resto di lui. Sapevo di non dovermi fidare dei suoi discorsi, per quanto ben costruiti e recitati. Ma per un momento abbassai comunque la pistola.
Il pensiero che mia madre potesse essere ancora viva… il pensiero che Kenzaki sapesse dov’era, e che io potessi ancora salvarla… non potevo ignorarlo così facilmente. Ripensai alla vita che aveva fatto per colpa mia. Una vita da prigioniera, da criminale, quando l’unica cosa che avesse mai fatto era stata partorirmi. Lei meritava di meglio, eppure non me l’aveva mai fatto pesare; ricordavo vividamente quanto mi adorava, le sue mani che stringevano le mie quando aveva paura, la sua voce morbida mentre cantava per farmi addormentare… Ma poi affiorarono anche altre immagini. Lei che mi stringeva forte nel letto, fingendo che stavamo dormendo, sperando che quel giorno avrebbero desistito (non lo facevano mai). Lei che mi sussurra di non uscire di nascosto così spesso, che se mi avessero preso ci avrebbero fatto ancora di più del male… Mia madre aveva paura. Era diventata una vittima per colpa mia. Se c’era anche solo una possibilità di salvarla…
Con la coda dell’occhio intravidi un movimento, un guizzo scuro riflesso in una pozzanghera. Alzai il capo verso Kenzaki e riconobbi, nei suoi occhi, un’emozione che oscillava tra la vittoria e la furia. E capii che non dovevo esitare.
La pallottola lo sorprese a metà movimento, mentre già tentava un passo verso la porta, e gli passò la spalla da parte a parte. Il sangue schizzò sulla parete alle sue spalle e sul tavolo, mentre il faldone gli cadde di mano e si aprì; alcune delle carte si sparpagliarono a terra, altre finirono nell’acqua e cominciarono rapidamente ad assorbirla, diventando niente più che carta straccia. Kenzaki si afferrò la spalla ferita con un urlo stridulo e barcollò, ma nonostante le gambe molli riuscì a reggersi in piedi. Anche quella debole scintilla di vittoria che aveva stretto per un istante era scomparsa dal suo sguardo, che ora tradiva solo paura. Mi guardava come se non mi avesse mai visto prima, come se prima non avesse creduto davvero che avrei sparato. Ma, benché non fosse caricata con il mio potere, quella pallottola avrebbe comunque potuto ucciderlo.
-Non ti credo- gli sibilai, furioso che avesse cercato di distrarmi con un trucco tanto semplice e che io, anche se solo per un momento, ci fossi cascato. Mia madre non poteva essere viva. Ammesso che fosse andata come diceva lui, non potevano averla risparmiata; era una testimone scomoda, una pedina di cui Kenzaki non aveva realmente bisogno. Pensava che io fossi morto. Non aveva ragione di tenerla in vita. Era così evidente. Come avevo potuto sperarci?
-Non ti credo- ripetei, con tutto il veleno di cui ero capace.
-Aspetta, aspetta, aspetta!- strillò Kenzaki, come ricordandosi di qualcos’altro. -Non uscirai vivo da qui! Solo io conosco la strada per uscire! Se mi uccidi, morirai anche tu…!
Questa volta era il mio turno di sorridere. Scoppiai in una risata vuota.
-Non mi importa. Non hai ancora capito? Nessuno di noi due uscirà vivo da qui- mormorai. Guardando nei suoi occhi, mi accorsi che finalmente stava capendo, e che era terrorizzato. Era stato convinto di essere superiore agli altri per tutta la vita, ma alla fine aveva paura della morte esattamente come tutti coloro che tanto disprezzava. 
-Io l’ho accettato. Dovresti farlo anche tu- gli dissi, gelido, e sparai, convinto di farla finita.
All’ultimo secondo, invece, qualcuno mi afferrò il braccio, spostando la canna della pistola verso l’alto. Il colpo esplose dalla canna e venne inghiottito dall’oscurità delle tubature. Preso alla sprovvista, rimasi a fissare il vuoto per un istante, poi abbassai lo sguardo di scatto e il cuore mi saltò in gola.
Hiroto non avrebbe dovuto trovarsi lì. Non aveva alcun senso.
Per un istante rimasi a bocca aperta a fissarlo, scioccato e stordito. Nella semi-oscurità, vidi che aveva un labbro spaccato e diversi graffi sul viso. I miei pensieri precipitarono in una spirale di panico. Cosa gli era successo? Era ferito? Perché era lì? Perché mi aveva fermato?
Il tempo sembrava essersi congelato per noi due. Le dita di Hiroto erano strette attorno al mio polso. La mia mano tremava per il rinculo del colpo.
-Perché…- rantolai a stento.
-Sono venuto ad aiutarti- sussurrò Hiroto. Lo guardai, smarrito. Allora perché mi stava ostacolando? Non riuscivo a capire.
Un tonfo nell’acqua poco distante mi fece sobbalzare. Mi girai di scatto e vidi con orrore che Kenzaki stava approfittando della nostra distrazione per raccogliere i fogli e ficcarli di nuovo nel faldone, anche se zuppi e illeggibili, come preso da una furia maniacale. Il mio sguardo guizzò verso la porta di ferro. Sapevo che se Kenzaki fosse riuscito a scappare per di là, non sarei stato in grado di acchiapparlo. Ma avevo ancora una pallottola, ero ancora in tempo. Quando scattai verso di lui, però, uno strattone mi ricordò che Hiroto mi teneva ancora stretto il polso. Mi voltai verso di lui, irritato.
-Lasciami- soffiai tra i denti, tirando per liberarmi, con il risultato che Hiroto lasciò andare me e afferrò invece la canna della pistola nel tentativo di togliermela. Gli afferrai la mano con entrambe le mie e tirai, sperando che non partisse per sbaglio l’ultimo colpo che avevo a disposizione. Non volevo sprecarlo.
D’un tratto, la stanza in cui ci trovavamo piombò nella semi-oscurità. Mi girai e vidi una debole luce verdognola introdursi nella stanza attraverso uno spiraglio della porta, uno spazio tra parete e porta, largo appena quanto una persona, nel quale la luce della torcia di Kenzaki s’infilò e sparì con lui. Doveva essere riuscito a sgattaiolare verso la porta e a smuoverla mentre ero impegnato a lottare con Hiroto. Al pensiero che l’avrebbe fatta franca, il sangue mi andò alla testa e fu questo a spingermi a una decisione drastica. Lasciai la pistola di colpo, rinunciando così all’unica arma che avevo, e al tempo stesso spinsi via Hiroto; poi, mentre lui barcollava all’indietro, preso alla sprovvista, io mi gettai all’inseguimento di Kenzaki. M’infilai rapido nello spazio della porta e mi trovai davanti a un lungo tunnel scavato nella roccia, con due stretti marciapiedi di cemento che racchiudevano un canale d’acqua verde petrolio. Dall’acqua saliva un odore pungente. Aveva un’aria malsana, con una leggera schiuma bianca in superficie, causata da medicinali, detersivi e liquami vari che dalla clinica si riversavano là dentro. I cunicoli non erano del tutto bui, ma alcuni fanalini al neon fissati alle pareti li rischiaravano con una spettrale luce verdognola. Ai miei piedi, appoggiato a una parete, giaceva abbandonato un mucchio di pezzi di ferro arrugginiti, tra cui interi segmenti di tubature.
Guardandomi rapidamente attorno, notai un’ombra infilarsi in un cunicolo e mi gettai subito all’inseguimento; quando svoltai di corsa per infilarmi nel passaggio, qualcosa di stretto e lungo entrò nel mio campo visivo e fu solo grazie ai miei riflessi che riuscii ad abbassarmi e a scansare il colpo. Rialzai il capo, preparandomi a combattere, e vidi che Kenzaki brandiva come un’arma un tubo di ferro sporco e spezzato. Nella pallida luce verde del tunnel, il suo viso appariva ancora più bianco e i suoi occhi ridotti a fessura ricordavano quelli di un serpente.
-Sei disarmato, eh? Le posizioni si sono capovolte!- Sogghignò, ma era più spavalderia che altro. I suoi movimenti erano lenti per via del dissanguamento. Alzò il tubo sopra la testa e lo brandì di nuovo contro di me, ma anche questa volta riuscii a evitarlo con facilità.
In quello stesso momento Hiroto comparve all’apertura del tunnel: ci guardò per un momento, poi senza esitare colpì Kenzaki al braccio ferito. Kenzaki ululò di dolore e lasciò cadere l’arma improvvisata, ma Hiroto non gli diede tregua. Lo colpì con tutta la sua forza ed entrambi caddero, andando a sbattere contro una parete e poi a terra. Non riuscivo a capire chi dei due stesse avendo la meglio e, d’un tratto, mi resi conto che Hiroto cercava di sfilargli i guanti o tirargli via la giacca: cercava un contatto diretto, pelle contro pelle, per usare il suo dono. Sarebbe stata una buona strategia, se Kenzaki non avesse saputo del suo potere, ma purtroppo l’uomo capì le sue intenzioni e iniziò subito a ribellarsi, coprendosi il volto per impedire a Hiroto di toccarlo, finché non riuscì a dargli un calcio nello stomaco. Hiroto rotolò all’indietro, sbatté in una parete e rimase immobile. Il cuore mi saltò in gola. Nel buio non riuscivo a capire se stesse perdendo sangue. Istintivamente mi gettai a terra per aiutarlo, ma quando lo feci avvertii un forte strattone alla testa, seguito da una fitta di dolore. Kenzaki mi aveva preso per i capelli e, con il faldone sotto il braccio sano, tentava di trascinarmi con sé mentre borbottava tra sé e sé che doveva salvare la propria ricerca, con uno sguardo vacuo e distante.
Scoccai un’occhiata allarmata a Hiroto, che giaceva ancora esanime contro la parete. Se solo avessi potuto usare il dono… ma era troppo rischioso, avrei coinvolto anche lui. Presi quindi a divincolarmi, anche se ogni movimento mi dava una fitta di dolore, e i miei piedi si tagliavano sulla roccia a forza di impuntarsi. Irritato dalla mia resistenza, Kenzaki si riscosse dai propri pensieri e mi strattonò più forte.
-Come osi, come osi ribellarti- sputò tra i denti, con tutto il veleno di cui era capace. -Piccolo ingrato… Io, io ti ho fatto diventare ciò che sei… Se io non ti avessi scoperto, saresti ancora un nessuno, invece io ti ho fatto diventare l’oggetto della mia ricerca, ti ho dato una chance…!
Avrei voluto mandarlo al diavolo, ma mi costrinsi a risparmiare il fiato e le energie per resistergli. Eravamo quasi alla fine del tunnel, quando Hiroto apparve all’improvviso dietro di noi, si buttò addosso a Kenzaki e lo afferrò per le spalle da dietro. Kenzaki mollò la presa su di me per cercare di colpirlo. Scivolai a terra e, anche se mezzo stordito, alzai la testa per vedere che Hiroto stava trascinando Kenzaki per la strada da cui eravamo venuti, forse per ridurre le possibilità che raggiungesse l’uscita nel caso fosse riuscito a metterci entrambi al tappeto. Kenzaki si dibatteva furiosamente, respirando a fatica, con le narici dilatate e i denti digrignati. La manica del completo e il guanto sinistro erano ormai fradici del sangue che dalla spalla gli colava lungo tutto il braccio. Fu proprio a causa del sangue che Hiroto perse la presa: le sue dita scivolarono, e Kenzaki riuscì a dargli una gomitata nel petto. Hiroto barcollò all’indietro, senza fiato, mentre Kenzaki si chinava a raccogliere un pezzo di tubatura lungo almeno dieci centimetri. Capii cosa voleva fare e balzai in piedi, ma una fitta di dolore mi fece barcollare e dovetti appoggiarmi a una parete per reggermi in piedi. Avevo la vista appannata e un ronzio mi riempiva le orecchie. Kenzaki mi gettò un’occhiata e sorrise.
-Un attimo solo, Ryuuji… Fammi liberare di questa seccatura…- mormorò.
Vedendolo sollevare il tubo sopra la testa, pronto a vibrare il colpo di grazia su Hiroto, il sangue mi andò al cervello e mi diede una scarica di adrenalina.
-Non osare toccarlo!- Con un singhiozzo di rabbia, mi lanciai su Kenzaki, afferrai l’altra estremità del tubo da dietro e gli diedi uno strattone tale da fargli perdere l’equilibrio. Kenzaki ringhiò e cercò di spingermi via, di prendermi per la maglia e spingermi verso il canale accanto a noi. La mia collera esplose quando mi resi conto che cercava di gettarmi in acqua. Nessuno lo avrebbe mai fatto, mai più. Con un altro strattone, riuscii a togliergli il tubo di mano, perdendo però anche la presa che avevo su di lui. Entrambi perdemmo l’equilibrio e, mentre io sbattevo per terra, aprendomi le ginocchia sul marciapiede, Kenzaki indietreggiò e inciampò nei tubi di ferro. Il faldone gli volò dalle mani e la sua bocca si spalancò in un urlo silenzioso mentre il suo tesoro più prezioso si librava in aria, per poi precipitare nel canale con un tonfo sordo. Kenzaki non esitò a sporgersi per cercare di prenderlo. Lo mancò per pochi secondi, inciampò nei propri piedi e cadde in avanti; poi, dopo aver sbattuto il lato della testa contro il bordo, scivolò sulla superficie dell’acqua e affondò come un sasso. Nel punto in cui era caduto salì a pelo d’acqua una macchia di sangue, poi alcune bollicine d’ossigeno. Intravedemmo anche il movimento di un braccio, un gomito, un lembo di vestito. Poi più niente.
Restammo in silenzio, immobili, per lunghi minuti. Era accaduto tutto troppo in fretta, e ora… c’era solo calma piatta. Solo un attimo prima avevamo visto riaffiorare qualcosa, ma adesso c’era soltanto acqua scura, senza la benché minima increspatura. Mi accigliai. Quanto poteva essere profondo quel canale? Forse Kenzaki stava raschiando il fondo del canale nel tentativo di salvare fino all’ultimo fogliettino, ma per un istante mi venne anche il dubbio che ci fosse, là sotto da qualche parte, una grata, un tombino, un qualsiasi tipo di passaggio verso l’esterno. E se fosse riuscito a nuotare via, a scappare da lì? Era improbabile, ma non impossibile. Spazientito, mi affacciai oltre il bordo e scrutai la superficie piatta e oleosa dell’acqua, ma era troppo sporca per poterci vedere attraverso. Come leggendomi nel pensiero, Hiroto strinse la presa sul mio braccio per paura di vedermi tuffare.
-E se…- cominciai, irritato, ma le mie parole furono coperte da un rombo assordante sopra le nostre teste. Alzammo gli occhi allo stesso tempo. Il soffitto stava cedendo.
-Dobbiamo tornare indietro- disse Hiroto. -Corri!
-Indietro dove?! Non possiamo risalire!- gli gridai in risposta, ma lui non mi ascoltò. Fui costretto a seguirlo comunque verso la stanzetta sotterranea proprio sotto la clinica. Arrivati alla porta, mi girai indietro a guardare il canale e la pioggia di detriti e pezzi di ferro che si stava depositando nell’acqua e mi morsi il labbro per la frustrazione di non poter verificare che fine avesse fatto Kenzaki. Poi Hiroto mi tirò dentro e chiuse la porta. Il buio piombò su di noi, ma solo per un attimo: Hiroto tirò fuori dalla tasca una torcia e la accese, puntandola verso l’alto. Mi accorsi che scrutava con aria preoccupata il soffitto.
-E adesso che facciamo? Kenzaki…- sbottai, irritato che mi stesse ignorando.
Hiroto non si mosse.
-È probabilmente morto- mormorò. Scosse la testa. -Non è quello che volevo.
Scoppiai in una risata isterica e vuota. Morto? Poteva esserlo davvero? Quasi non ci credevo. Era assurdo credere che fosse accaduto in modo così rapido, quasi indolore. Kenzaki era morto, e io lo volevo, ma non volevo che andasse così. Il mio piano era stato un fallimento: lo provava il fatto che fossi ancora lì, vivo e vegeto, che fossi sopravvissuto. E in più avevo trascinato Hiroto in quel casino. Non avendo più un obiettivo su cui scaricarla, la mia furia si spense come un fuoco senza ossigeno e, al suo posto, arrivò la morsa della paura, gelida e soffocante. Il pensiero che Hiroto sarebbe morto lì, a causa mia, era paralizzante. Eravamo topi in trappola. Non riuscivo a pensare a niente, una sola voce nella mia testa gridava è colpa tua colpa tua colpa tua… Mi strinsi le braccia al petto, trattenendo a stento i tremiti.
-Perché? Perché sei qui?- chiesi con voce stridula.
Hiroto abbassò lentamente lo sguardo su di me. Per quanto assurdo potesse sembrare, non era spaventato e la sua voce, quando parlò, era del tutto calma.
-Perché tu sei qui- mi rispose semplicemente, sospirò.
-Ti ho osservato tutta la sera. Purtroppo nella confusione ho perso di vista sia te che Kenzaki, e intanto Jackal mi ha attaccato... Dopo che l’ho messo K.O., ho cominciato a sentire le scosse e ho capito che eri tu. Subito dopo, infatti, ti ho visto comparire... Ti ho visto aprire la porta e trovare la botola e ho deciso di seguirti fin qua... Sapevo che avresti affrontato Kenzaki con qualsiasi mezzo- raccontò e, mentre parlava, spostò la torcia verso il pavimento. Seguendo con gli occhi il fascio di luce, vidi brillare per un attimo il dorso della pistola che lui mi aveva strappato di mano, per poi abbandonarla sul pavimento di quella stanzetta umida e soffocante.
-Non sapevo che avessi una pistola, però- mormorò Hiroto. Strinsi i denti e voltai lo sguardo.
-Quella... l’ho presa a Kazemaru.
-Ovviamente- rispose lui con amarezza. Aveva capito anche quello. Il cuore mi batteva a mille e il ronzio alle orecchie era tornato. Possibile? Possibile che avesse capito il mio piano? Sì, dalla sua espressione mi era chiaro che sapeva tutto, tutto.
-Sei venuto a fermarmi- dissi.
-Sono venuto ad aiutarti- mi corresse, puntando la luce sulle nostre scarpe. Scossi il capo.
-Da quanto...- Mi fermai, presi fiato. -Da quanto lo sai? Quando lo hai capito?
Hiroto scrollò le spalle.
-C’erano... tante piccole cose che non tornavano. Ma ho iniziato a sospettare davvero quando hai rotto quel vaso- disse. -Avevo questa sensazione, che... che qualcosa fosse fuori posto. E poi ho capito. Eri tu. Sei sempre stato tu… Il tuo dono prende energia da ciò che ti circonda. Stavi recuperando le energie. Ne ho avuto la certezza quando ho sentito le scosse.
Mi guardò con tristezza.
-Forse è perché ti conosco da un po’ di tempo- mormorò. -Per questo ho capito che ti saresti sacrificato per mettere fine a tutto. Non avevo altra scelta che seguirti.
Mi morsi il labbro e tenni lo sguardo basso. Aveva davvero indovinato tutto. Come c’era da aspettarsi da lui... Scossi il capo, trattenendo a stento le lacrime.
-Non avresti dovuto- dissi a fatica. Non riuscivo a respirare.
Nel riflesso dell’acqua lo vidi tendere una mano verso di me, ma l’ultima cosa che volevo in quel momento era che mi consolasse; balzai all’indietro e arretrai, brancolando nel buio e quasi inciampando nei miei stessi piedi, fino ad addossarmi a una parete. Provai a parlare, ma la voce mi rimase incastrata in gola. Da lontano, ma non così tanto, proveniva un sinistro brontolio, come un’avvisaglia di ciò che sarebbe successo di lì a breve. Dovevo trovare il modo di far uscire Hiroto da lì al più presto, ma, per quanto mi lambiccassi il cervello, non riuscivo a farmi venire nessuna idea. Infine mi arresi, esausto: non c’era soluzione. Scivolai lungo la parete e mi raggomitolai a terra, tappandomi le orecchie con le mani. Il rombo del crollo sopra le nostre teste mi ricordava lo scrosciare dell’acqua e mi metteva in agitazione; l’aria gelida e l’umidità nella stanza sembravano penetrare fin dentro le ossa.
Dai tonfi nell’acqua capii che Hiroto si stava avvicinando. Alzai debolmente una mano, come a voler innalzare una barriera invisibile tra noi e, socchiudendo gli occhi, spiai il suo volto con discrezione. Anche nella semioscurità, vedevo la determinazione nel suo sguardo. E, ovviamente, stava ignorando il mio tentativo di mettere distanza tra noi.
-Non puoi tenermi lontano. Sono pronto a correre ogni rischio per te.
-È proprio quello il problema- soffiai, distogliendo lo sguardo.
Hiroto si fermò davanti a me, si sedette sui talloni e prese la mano che non avevo ancora abbassato. Intrecciò le nostre dita con delicatezza, come per suggellare una promessa.
-Ryuuji- mi pregò, con una serietà tale che non potei ignorare la richiesta contenuta in quella singola parola. Alzai lo sguardo e incontrai il suo.
-Ce ne andremo insieme- mi disse con voce ferma, che non ammetteva discussioni. Capii allora che non c’era niente che potessi fare o dire per convincerlo del contrario. Per salvarlo, dovevo scendere a patti con lui. Feci un sospiro che esprimeva tutta la mia insofferenza.
-Cosa devo fare?- chiesi senza mezzi termini. Hiroto era così sicuro di sé che doveva per forza aver già pensato a un piano. Era sempre stato bravo a trovare la soluzione ai problemi, anche in faccia alle difficoltà.
-Scusami per quello che sto per chiederti- disse Hiroto. -Ma dovrai usare il tuo potere, ancora una volta. Dovrai usarlo molto più di quanto tu abbia mai fatto finora... Se non c’è via d’uscita, ne creeremo una. Io ti aiuterò a controllare il tuo potere.
Lo guardai, incredulo.
-Vuoi che usi il mio potere... per farci uscire di qui?
Hiroto annuì. Non era difficile capire cosa avesse in mente, ma sembrava una pazzia: c’era più margine d’errore che garanzia di successo. Un solo sbaglio avrebbe potuto farci inghiottire dal crollo, o peggio, risucchiare dal mio potere. Certo, una situazione disperata richiedeva una strategia disperata, ma era comunque un rischio enorme.
Stavo per fare le mie obiezioni, ma fui subito interrotto da un rombo assordante. Un lato della palazzina doveva essere crollato definitivamente. Capii che non avevamo molto tempo per uscire e d’istinto strinsi la mano di Hiroto.
-Va bene- acconsentii, seppur riluttante. -Facciamolo.
Hiroto sorrise. Come poteva farlo? Io mi sentivo soltanto schiacciato dall’angoscia. Ma dovevo darmi una mossa. L’unica cosa importante era salvare Hiroto. Ne feci la mia priorità e, mentre lui mi prendeva anche l’altra mano, chiusi gli occhi e cercai di fare il vuoto dentro di me, di sgombrare la mente da pensieri inutili per concentrarmi sul mio potere. Lo sentivo formicolare nelle mie vene come corrente elettrica, impaziente di essere liberato, e ci volle tutta la mia concentrazione per incanalare quell’energia in un posto solo. Sollevai una mano verso la parete che avevo davanti e pensai, Sparisci.
Appena lasciai la presa, tutta quell’energia si rovesciò all’esterno come un fiume che esce dagli argini. Mi sentii subito schiacciato dalla pressione e, per un attimo, sentii una sensazione simile all’affogamento; ma al contrario dell’acqua, che quando si ritira restituisce sempre qualcosa, il mio potere non lasciava nulla indietro. Era pura distruzione. Esattamente quello che ci serviva in quel momento. In pochi secondi, infatti, lo spazio circostante cominciò a piegarsi alla mia volontà: nel soffitto si formò una crepa sempre più estesa, che si andava allargando in tutte le direzioni, finché la pressione non divenne tale da far esplodere la parete in una miriade di schegge. Il rumore dell’esplosione ci assordò, ma non mi fermai. Feci sparire ogni singolo detrito. Un largo pezzo di parete si staccò e ci volò addosso; ridussi in briciole anche quello. Niente poteva toccarmi senza finire distrutto: quella era la portata del mio dono, che collassava ancora e ancora su se stesso come un gigantesco buco nero.
Da lì a poco si formò un vero e proprio vortice di energia, simile a una tromba d’aria. Tutto il mondo cominciò a turbinare davanti ai nostri occhi mentre la palazzina si piegava e si apriva, malleabile come ceramica. Pezzi di ferro e cemento venivano strappati via e sollevati in aria come se fossero stati comuni fili d’erba. Potevo sentire il fischio del vento, un risucchio verso l’alto. La polvere turbinava nell’aria prima di essere a sua volta assorbita e, tra le crepe, in ogni spiraglio, si insinuava la luce. Non sapevo cosa avrei trovato, una volta fuori di lì, e avevo paura. Ormai il mio potere era al suo massimo e il vento si sollevò con una forza tale che avrebbe potuto spazzarci via; i nostri capelli si sollevarono verso l’alto come se la gravità stessa fosse stata annullata. Hiroto, però, mi teneva saldamente, ancorandomi a terra. D’un tratto avvertii come un’energia estranea sfiorarmi, abbracciarmi, e capii che era il suo dono che entrava in contatto con il mio. Ne rimasi sorpreso: anche se lo chiamavano il tocco mortale, non era freddo come la prima volta che l’avevo sentito, anzi. Era un tocco gentile, caldo, quasi come una carezza, un bacio della buonanotte. Aprii gli occhi e guardai Hiroto con incredulità, chiedendomi se lui potesse avvertirlo. Come poteva non saperlo? Come poteva non sapere di essere bellissimo, meraviglioso? Cominciai a piangere, quasi senza accorgermene, e anche le mie lacrime si separarono da me e cominciarono a galleggiare nell’aria.
Quando tutto si esaurì e non ci fu più nulla da distruggere, Hiroto mi fermò. Per un momento tutto rimase immobile: non c’era neanche un filo di vento. Mi guardai attorno. Eravamo in un cimitero di macerie, tubature spezzate e fili elettrici interrotti, ma alzando la testa si vedeva perfettamente il cielo indaco. Con la notte agli sgoccioli, i colori dell’alba cominciavano a penetrare nella fortezza sgretolata. Il pericolo del crollo era passato, la morte di Hiroto era stata sventata. Non era ancora il momento di essere sollevati, però: eravamo ancora sottoterra, intrappolati sul fondo di una sorta di cono di roccia.
Poi sentimmo un vocio, sempre più forte, e un soccorso insperato arrivò dall’alto.
Attraverso la bocca del cono scese su di noi una grossa mano di luce gialla, che ci avvolse e ci offrì il palmo aperto come appoggio. Hiroto la guardò con sollievo, poi mi ci trascinò sopra. Appena ci sedemmo sul palmo, le dita si chiusero delicatamente attorno a noi, in un pugno che ci portò fuori dal cono e ci poggiò sul terreno, accompagnandoci piano, come si fa quando si libera una coccinella. Alzando gli occhi, vidi come prima cosa il volto sollevato e preoccupato di Endou; dietro di lui c’erano anche gli altri. Tutti tacevano, qualcuno persino tratteneva il respiro.
Poi Hitomiko si fece largo tra la gente e si gettò a terra per stringere il fratello tra le braccia, singhiozzando. Doveva averlo perso di vista nella confusione e, vedendo il palazzo crollare, aveva temuto il peggio. Hiroto ricambiò l’abbraccio con una mano sola, mentre con l’altra stringeva ancora la mia, come per impedirmi di scappare. Era stupido, pensai, rassegnato. Anche volendo, non potevo andare da nessuna parte. L’adrenalina era finita, e non avere più un obiettivo mi aveva lasciato sfinito, per non parlare di tutta l'energia appena usata.
Hitomiko continuò a stringere Hiroto finché lui non si lasciò sfuggire un flebile verso di dolore. Sia io che lei scattammo. In tutto quel caos mi ero quasi dimenticato che Hiroto era ferito. Quando se ne accorse, Hitomiko si girò allarmata verso gli altri, cercando qualcuno in particolare. -Maki!- chiamò, con un tremito nella voce. -Fatela passare! Maki, presto!
La piccola folla di poliziotti e agenti, si divise subito in due per fare strada a Maki, che senza dire niente si apprestò a raggiungere Hitomiko e Hiroto e si gettò in ginocchio accanto a loro. Fu in quel momento che mi vide. I suoi occhi si riempirono di lacrime all’istante. Scossi il capo e feci un cenno verso Hiroto. Maki capì e, reprimendo i suoi sentimenti, rivolse tutta la sua attenzione verso Hiroto.
-Dove ti fa male? Ferite gravi?- chiese in un sussurro.
-Nulla di grave- assicurò Hiroto, sorridendo nonostante il labbro spaccato. -Scusa per averti fatto preoccupare. Sto bene. Qualche livido, tutto qui…
Hitomiko singhiozzò e abbassò la testa, portandosi la mano di Hiroto alla bocca e baciandola più e più volte. Aveva il volto bagnato di lacrime e gli occhi rossi.
-Grazie al cielo. Grazie, grazie- mormorò. Poi, mentre Maki cominciava a sistemare i tagli che Hiroto aveva sul volto, si girò finalmente verso di me. Mi irrigidii. Nei suoi occhi leggevo l'accusa che le ferite di Hiroto erano colpa mia.
Quando Hitomiko alzò la mano verso di me, ero sicuro che mi avrebbe tirato uno schiaffo, invece lei la poggiò solo sulla mia fronte, come per controllarmi la temperatura. La guardai, confuso. Hitomiko mi fissò in volto ancora per un momento, poi notò i miei piedi e le ginocchia insanguinate e si accigliò.
-Ci serve un infermiere- disse, alzando un po' la voce. Un brusio si diffuse tra i presenti.
Notai in quel momento che sul posto c’erano anche degli infermieri, le cui uniformi bianche spiccavano tra le divise blu della polizia come spuma nel mare. Nonostante il richiamo di Hitomiko, nessuno si mosse. Avevano troppa paura di me per avvicinarsi. 
Tutto rimase immobile per qualche secondo; poi Reina uscì dalla folla e mi venne vicino.
-Riesci ad alzarti?- mi sussurrò, chinandosi verso di me. Annuii senza guardarla negli occhi.
Senza dire altro, Reina mi passò un braccio attorno alla vita e mi aiutò a tirarmi su. Solo a quel punto Hiroto lasciò la mia mano: per un momento lui e Reina si fissarono intensamente in silenzio, come se Hiroto mi stesse affidando a lei. Nel frattempo accorse anche Zell per darci una mano e, mettendosi dall’altro lato, mi fece da seconda stampella.
Attraversammo così quello che una volta era stato il cortile posteriore della clinica, ora una pianura brulla e apparentemente sconfinata che si fondeva con la campagna circostante. Poco distante dal lotto era parcheggiata un’ambulanza con le porte posteriori aperte, pronta ad accogliere feriti. Vedendomi arrivare con Reina e Zell, gli infermieri parvero tranquillizzarsi sulla mia innocuità e mi aiutarono a sedermi sul bordo della vettura, facendomi appoggiare la testa contro il lato di una portiera. Quando tentarono di toccarmi, però, opposi un’ostinata resistenza, assicurando che non avevo bisogno di nulla, finché non mi lasciarono in pace.
Il cielo, intanto, si era schiarito ulteriormente e ora virava verso un color lavanda a tratti striato di rosa, con sprazzi di giallo e arancio attorno al cerchio luminoso del sole. Chiusi gli occhi e tirai un sospiro. A parte i lividi e qualche graffio, non avevo riportato ferite fisiche; ero solo esausto, sia fisicamente che mentalmente. Più che dell'ambulanza avrei avuto bisogno di un letto.
Cosa ci facevo lì? Fino a solo un’ora prima, non avrei mai pensato di poter vedere un’altra alba. Invece, in qualche modo, ero sopravvissuto di nuovo. Avevo fallito, anche se Kenzaki era stato sconfitto. Ammesso che non fosse morto sul colpo, non c’erano speranze che fosse uscito vivo dalle fognature dopo il crollo. Ma era una magra consolazione. La sua morte non avrebbe portato indietro le vittime e, soprattutto, la sua ricerca era ancora viva, più viva che mai, e un giorno avrebbe fatto ancora del male a qualcuno. Il solo pensiero mi toglieva il fiato.
Quando una mano mi sfiorò la schiena, sussultai e, voltandomi di scatto, afferrai il polso di quella persona con riflessi che sorpresero anche me. Mi accorsi subito che la mano che stringevo stava tremando. Alzai la testa e mi trovai faccia a faccia con Kazemaru, che mi fissava a occhi sgranati, come se avesse visto un fantasma. D’istinto scoccai un’occhiata alla sua gamba, ben visibile a causa del pantalone strappato: l’unica traccia rimasta della ferita era una lunga linea rosa che andava dal ginocchio fin quasi all’inguine, una cicatrice che neppure Maki aveva potuto cancellare. Era probabile che Kazemaru fosse lì a riposare da prima di me, ma, preso dai miei deliri, non ci avevo fatto neppure caso.
Lasciai andare la sua mano, senza staccare gli occhi da lui. Kazemaru aprì la bocca, la richiuse, inspirò bruscamente. Aveva gli occhi gonfi e arrossati, il viso di un pallore mortale. Mentre le lacrime riprendevano a scorrere, mi avvolse tra le braccia e affondò il viso nella mia spalla, poi, a voce bassa e tra i singhiozzi, cominciò a scusarsi a ripetizione. Il pianto gli rompeva la voce e il respiro. Non ricambiai l’abbraccio, ma non ebbi la forza di respingerlo, perché mi sentivo in debito con lui. A scusarmi avrei dovuto essere io, era colpa mia se Fox lo aveva attaccato. Le ferite di Kazemaru e di Hiroto erano una mia responsabilità.
Cominciavo a sentirmi sempre più pesante. A quanto pareva, il mio corpo reclamava il sonno che gli era stato promesso. Non sarebbe stato male stendermi un po’ e recuperare le forze; se avessi finto di dormire, inoltre, avrei avuto il tempo di riordinare le idee e progettare la mia prossima mossa. Mentre mi intrattenevo con quelle fantasie, qualcuno si avvicinò all’ambulanza. Con la coda dell’occhio intravidi una punta di violetto, ma nessuna divisa bianca o blu.
-Ryuuji- disse Kudou, a pochi metri da noi. Il suo volto era pallido, tirato, con pesanti occhiaie scure; i suoi capelli viola erano spettinati, come se ci avesse passato più volte le dita, nervosamente, e la sua barba sembrava meno pulita del solito.
-Mi riconosci?- chiese in un fil di voce, quasi imbarazzato. Nei miei ricordi Kudou era sempre stato freddo e controllato, il totale opposto rispetto alla timida versione che avevo davanti. Ma non voleva dire che non l’avevo riconosciuto.
In un attimo mi divincolai dall'abbraccio di Kazemaru e balzai giù dall’ambulanza. Non appena i miei piedi toccarono terra, avvertii un senso di vertigine, ma ignorai tutti i campanelli d’allarme che il corpo mi lanciava e mi avvicinai a Kudou con passo svelto e deciso. Poi gli diedi un pugno in faccia. Quando lui barcollò all’indietro, colto alla sprovvista, lo atterrai e mi avventai su di lui come un leone con la preda. Kudou provò a dire di nuovo il mio nome, ma lo afferrai per le spalle e lo sbattei a terra, togliendogli il fiato.
-Tu… Tu! Come osi… come osi venire qui… e rivolgermi la parola…! Tu l'hai lasciata morire!
Le mie grida attirarono l’attenzione di altre persone. Alcuni infermieri accorsero per aiutare Kudou, cercarono di afferrarmi e trascinarmi via da lui, ma io mi aggrappai al suo corpo, ai suoi vestiti, al terreno; feci di tutto pur di non mollare la presa, ribellandomi a qualunque mano cercasse di afferrarmi.
-Non fategli del male! Vi prego, non fategli del male!- urlò Kazemaru, disperato, ma nessuno gli diede retta, perché al momento c’erano molte più possibilità che a farsi male fosse Kudou. Lo tenevo bloccato sotto di me, così da impedirgli di fuggire, ma in realtà Kudou non ci stava neanche provando: si limitava a fissarmi, atterrito e sgomento, con un rivolo di sangue che gli colava dal naso. Vederlo così inerme mi irritava ancora di più.
-Perché non l’hai salvata?!- continuavo a urlare. -Tu avevi… avevi il potere di farlo… e non l’hai salvata! Mia madre era innocente, ma tu hai lasciato che la uccidessero! Perché… perché…?!
Stavo per dargli un altro cazzotto quando all’improvviso qualcuno mi colpì alla nuca. Sentii una fitta di dolore, poi il cerchio alla testa. Caddi a terra, ma riuscii comunque a strisciare verso Kudou e a stringere un pugno nel collo della sua maglia.
-Perché…?- mormorai. La figura davanti a me si stava già offuscando e non riuscivo a restare sveglio, perciò mi rannicchiai sul terreno, respirando a fatica e sperando soltanto che tutto finisse in fretta. Persi conoscenza ancora prima di accorgermene.


 
xxx

 
 
Nella mia stanza non erano permesse visite. Lo capii al terzo giorno di ricovero, quando ormai tutte le ferite e le contusioni erano state medicate e divenne perciò chiaro che l’unica ragione per tenermi a letto era assicurarmi che io non mi muovessi da lì. Sinceramente, fu un sollievo. Avevo ancora la mente confusa e non volevo essere costretto a dare spiegazioni a nessuno. Mangiavo poco e dormivo molto. Da quando avevo riaperto gli occhi, ero stato investito da un senso di futilità: il mio piano era fallito, non ero riuscito a morire e non sapevo ancora se fosse stato un bene o meno. E non volevo nemmeno pensarci.
Una mattina, mentre finivo la colazione, le cose presero una brusca svolta.
Sentii un vocio venire dal corridoio, poi l’infermiera che si occupava di me nelle ore diurne aprì la porta a scorrimento. Mi accigliai. Non avevo ancora finito di mangiare. Ma lei non era venuta a portare via i piatti. Era una donna piuttosto avanti con gli anni, sempre impassibile e perfettamente controllata, così che capire cosa succedeva dalla sua espressione era praticamente impossibile; ci avevo rinunciato al primo giorno.
Quando si spostò di lato per far passare qualcuno, rimasi con il cucchiaio di zuppa sospeso in aria per la sorpresa, mentre fissavo la porta a bocca aperta. Avevo visite.
Dalla porta entrò prima Hitomiko, poi un uomo che aveva un volto familiare. Portava degli occhiali rettangolari con montatura rossa, capelli castani lasciati lunghi sul capo e rasati dalle tempie in giù, e dei baffi con pizzetto che gli circondavano la bocca. Sapevo di averlo già visto da qualche parte, ma mi sfuggiva dove. L’uomo fece un cenno all’infermiera, la quale rispose con un inchino di rispetto e poi si dileguò, lasciandomi solo con quei due.
Hitomiko mi scrutò e aggrottò la fronte. Il suo sguardo cadde sul mio pranzo.
-Mangi abbastanza? Sei molto pallido- osservò con una nota preoccupata. Mi resi conto che avevo ancora il cucchiaio sospeso a mezz’aria e d’un tratto mi sentii molto stupido. Vedendo l’espressione di Hitomiko, decisi di finire velocemente la zuppa, anche se non avevo per nulla fame e mangiare davanti a loro era parecchio imbarazzante. Dopo l’ultimo sorso lasciai il cucchiaio nel piatto e allontanai il vassoio da me spingendo via il carrello. Guardai Hitomiko e poi l’uomo con sguardo interrogativo. Lui parve finalmente capire.
-Ah, forse non ti ricordi di me. Mi hanno avvisato del fatto che hai un po’ di confusione in testa, e non abbiamo mai parlato, quindi c’era da aspettarselo. Hai conosciuto mia figlia, però- disse con un sorriso comprensivo. Prese una sedia e la trascinò accanto al mio letto, spostando il carrello più in là per farsi spazio, poi si frugò nella tasca della giacca. Aveva indosso un completo interamente grigio, con una camicia bianca e una cravatta rossa. Quando tirò fuori il suo distintivo, mi tornò subito la memoria: Raimon Souichirou. Una Spy Eleven. Avevo davvero conosciuto sua figlia, Natsumi, che per un breve periodo si era occupata dei nostri addestramenti.
-Signore- mormorai e chinai il capo in un saluto educato, ma lui sollevò una mano come per dirmi che non era importante.
-Preferirei passare direttamente al sodo. Kenzaki Ryuuichi è morto- parlò lentamente, osservando la mia reazione alle sue parole.
Rimasi a fissarlo senza parole. Me l’ero chiesto spesso, in quei giorni, se nonostante tutto fosse riuscito a sopravvivere anche lui; e adesso mi veniva data la risposta su un piatto d’argento. Era così ovvio, eppure una parte di me rifiutava di accettarlo. Mettere la parola “fine” a quella storia non poteva essere così facile. Strinsi le dita nel lenzuolo e, consapevole che il signor Raimon mi stava fissando con attenzione, cercai di controllare la mia voce.
-Ne siete… proprio sicuri?- domandai. Lui annuì.
-Sicurissimi. L’agente Kiyama ci ha riferito cos’è successo laggiù. Ma, anche senza la sua testimonianza, presto o tardi saremmo comunque arrivati a questa conclusione. I vigili del fuoco hanno scavato tra le macerie della clinica e controllato il sistema fognario da cima a fondo. Hanno trovato il corpo- mi spiegò.
Mi sfuggì un sospiro che non sapevo di star trattenendo.
Avevano trovato il corpo. Non c’erano dubbi.
Provai all’istante un senso di liberazione, come se mi fosse stato tolto un enorme macigno dalla schiena; il mio sollievo, però, si spense non appena realizzai cosa Raimon aveva detto.
-Cosa vi ha detto Hiroto?- chiesi, senza riuscire a fermarmi. Mi girai verso Hitomiko, ma lei evitò il mio sguardo.
-La collaborazione dell’agente Kiyama è stata essenziale- disse Raimon al suo posto. -Non solo è stato in grado di darci una versione dei fatti attendibile, come testimone diretto, ma è anche riuscito a sottrarre a Kenzaki la sua agenda, grazie alla quale stiamo risalendo ai nomi degli altri ragazzini rapiti.
Lo fissai stranito, come se avesse parlato un’altra lingua. Hiroto aveva preso l’agenda di Kenzaki? E quando era successo? Quando aveva avuto il tempo di prenderla? Anche se ero stato tutto il tempo con lui, non mi ero accorto di nulla; ero troppo stordito, troppo concentrato su me stesso e sulla mia missione per pensare ad altro. Hiroto, invece, aveva pensato a tutto.
-È straordinario- sussurrai sottovoce, più a me stesso che ad altri, ma Raimon mi rispose comunque.
-Oh sì, il giovane Kiyama è un ragazzo veramente straordinario. Sono sempre più convinto che sarà una splendida Spy Eleven. Vorrei che Seijirou fosse qui per vederlo- osservò con un sorriso bonario e un filo di nostalgia.
-Con Seijirou intende…
-Sì. Il tuo ex-capo.-Raimon annuì. -Non credo tu abbia un'opinione molto alta di lui, ma è stato mio amico per molto tempo. Ha aiutato parecchie persone, ma non si è mai lasciato aiutare da nessuno, né ha mai tentato di risolvere i malintesi. Se solo mi avesse confidato i suoi problemi…
-Credo che tu non lo sappia, Midorikawa, ma Seijirou aveva ricevuto da Kenzaki la proposta di comprare la ricerca in cambio di favori personali. Seijirou rifiutò, per cui la stessa ricerca fu venduta a Garshield Bahyan, che l’ha usata per creare il suo… personale esercito. E per indebolire Seijirou, che aveva ancora molta influenza in polizia, uccisero suo figlio in un finto incidente-. Quando Raimon finì di parlare, mi girai d’istinto verso Hitomiko, cercando conferma da lei. Ci ascoltava appoggiata al davanzale della finestra, con le mani intrecciate davanti a sé e lo sguardo basso. La sua espressione mi diede tutte le risposte.
-Mio padre non è più stato lo stesso da allora- mormorò, senza alzare gli occhi.
-Stiamo ancora conducendo le nostre indagini. Il caso Kenzaki ha fatto emergere nuovi collegamenti con Bahyan che non avevamo preso in considerazione- spiegò Raimon.
-A tal proposito, abbiamo saputo dai tuoi compagni che uno dei… discepoli di Bahyan è morto l’altra notte. Credo dovresti sapere che anche Bahyan è morto la stessa notte. È stato avvelenato mentre era nella sua cella e un uomo ha confessato sotto interrogatorio di averlo fatto dietro pagamento di Kenzaki.
Annuii. Lo avevo immaginato.
-Che fine hanno fatto gli… gli altri ragazzi di Garshield?- chiesi, pensando a Fox.
-Li abbiamo presi sotto custodia. La maggior parte di noi sono a favore di una riabilitazione, per cui faremo il possibile per cercare di recuperarli… ma, onestamente, non ci sono molte speranze. Non ricordano niente della loro vita prima che Garshield li trovasse. Erano probabilmente orfani, o le loro famiglie sono state tolte di mezzo, e non riusciamo a risalire alle loro vere identità. Le indagini su di loro al momento sono in stallo-. Raimon scosse il capo, amareggiato. -Quei ragazzi non avevano doni naturali, ma li hanno acquisiti per via artificiale, tramite esperimenti disumani. Quando hanno superato i propri limiti, i loro corpi si sono... ribellati. Potremmo quasi dire che è stata una sorta di reazione allergica. Non avevamo mai visto una cosa simile prima, ma Kudou Michiya ci sta aiutando a capirci di più- spiegò a voce bassa.
Sentire quel nome mi fece irrigidire. Raimon lo notò subito.
-A tal proposito, Kudou Michiya vorrebbe incontrarti.
Serrai la mascella.
-Beh, io no- soffiai a denti stretti.
-Credo che tu non abbia scelta- mi contraddisse Raimon con la massima serenità -perché è già qui. Vieni pure, Kudou.
Silenzio. Dopo un battito d’esitazione, la porta si aprì. Vedendolo entrare sobbalzai dal letto. Kudou entrò nella stanza a capo chino, per non incrociare i miei occhi, e rimase a distanza di sicurezza dal letto. Forse temeva che lo avrei aggredito di nuovo e faceva bene, perché la sua sola vista mi faceva ribollire il sangue nelle vene.
-Credo che tu abbia un’idea sbagliata su Kudou- osservò Raimon. Gli scoccai un’occhiata truce.
-Ha partecipato a quegli esperimenti. Ha lasciato che uccidessero mia madre. È uguale a tutti gli altri- protestai, provando una leggera soddisfazione nel vedere Kudou sussultare, arrossire e infine impallidire come se avesse ricevuto un colpo mortale. 
Raimon, invece, mantenne la massima calma.
-Per l’appunto, hai un’idea sbagliata- disse.
-La prego, non mi giustifichi- borbottò Kudou, ma Raimon scosse il capo.
-Non giustificazioni, ma fatti- lo liquidò. -Kudou ha collaborato fin dall'inizio. È stato lui a passarci le informazioni che ci hanno permesso di stanare Kenzaki anni fa. Senza di lui non avremmo potuto salvare nessuno.
-Avrei dovuto fare di più- borbottò Kudou.
-Avremmo tutti dovuto fare di più. Se fossimo riusciti a fermare Kenzaki prima, Midorikawa non avrebbe dovuto rivivere quest'incubo. Di questo mi rammarico molto, ti chiedo scusa, Midorikawa- disse Raimon con un cipiglio cupo. -Ma se non credi a me, puoi usare la tua empatia su Kudou. Vedrai che non ha assolutamente cattive intenzioni.
A quelle parole, Kudou si irrigidì. Non osava ancora guardarmi, e questo ai miei occhi lo rendeva sospetto. Ma le mie convinzioni cominciavano già a vacillare.
Osservandolo, cercavo di far combaciare l'immagine che avevo di lui con quella che Raimon mi aveva appena descritto. Possibile che mi fossi davvero sbagliato sul suo conto? Forse quello che vedevo in lui era davvero solo rimorso. Non sapevo che pensare. L’idea di doverlo perdonare mi lasciava smarrito, svuotato. Ora che non c’era più nessuno su cui scaricarli, cosa avrei dovuto fare con tutto l’odio e la rabbia che provavo?
L’unica cosa che ottenni da Kudou fu il silenzio, perciò mi tirai indietro, stanco.
-No- dissi infine. -Non posso. Non riesco a usare il mio potere, e questa volta è la verità… È come se da quella volta la mia mente si fosse chiusa.
Scioccato, Kudou alzò la testa di scatto e, per la prima volta da quando era entrato, mi guardò apertamente. Anche Hitomiko sembrava sorpresa. Raimon, invece, mi fissava mentre con una mano si grattava il pizzetto con fare pensieroso.
-Capisco- mormorò tra sé e sé, e non aggiunse altro perché in quel momento l'infermiera aprì di nuovo la porta. Impassibile come al solito, attraversò la stanza, prese il carrello, salutò con un inchino i presenti e poi uscì. Hitomiko lanciò uno sguardo a Raimon e, quando lui le fece un cenno d'assenso, andò a chiudere la porta, restando lì davanti. Con quel semplice gesto, l'atmosfera nella stanza cambiò. Capii che stavano per gettarmi addosso un’altra schiacciante verità e d’istinto mi raddrizzai.
-C’è un’altra cosa importante di cui devo parlarti, Midorikawa, e voglio che ascolti con molta attenzione. Riguarda il tuo futuro- disse infatti Raimon con aria grave. -Prima di cominciare, però, devi sapere una cosa… Non so come dirlo, ma sarò breve.
Annuii, impaziente. Ma non ero per niente preparato al dopo.
-Tua madre non è morta, Midorikawa.
Per un attimo lo guardai senza capire, poi iniziai a tremare. Aprii la bocca, ma riuscii a stento a balbettare qualcosa.
-Mia… cosa? Come…
-Fai un bel respiro, Midorikawa. So che non è facile, ma devi ascoltare tutto quello che ho da dire- rispose Raimon con inaspettata dolcezza. Chiusi la bocca e deglutii. Lui si schiarì la gola.
-Sai già che Kenzaki assoldò degli uomini per… occuparsi di te e di tua madre. Ma loro sbagliarono e si liberarono solo di te. Forse pensavano che tua madre fosse la drifter… Per questo la portarono fuori con loro- cominciò, e subito pensai a quello che Kenzaki mi aveva detto nel sotterraneo. Quindi alla fine era la verità. A ben pensarci, Kenzaki era pazzo, ma non mi aveva mai mentito davvero.
-Non sapevano però che, una volta arrivati in superficie, avrebbero trovato la polizia. Grazie alla soffiata di Kudou, siamo riusciti ad arrestare tutti quelli coinvolti nel progetto di Kenzaki… meno lui, come sai. Dal momento che il colpevole principale era ancora in libertà, abbiamo raccolto le testimonianze e offerto alle vittime la possibilità di trasferirsi altrove, con una nuova identità, nascosti allo sguardo di Kenzaki. Hanno accettato tutti… anche tua madre-. Raimon fece una pausa e mi guardò con compassione.
-Non si è mai rassegnata al fatto di averti perso, perciò mi ha chiesto di venire con me in Europa. Voleva restare il più possibile aggiornata sulle indagini… Non era in linea con il protocollo, ma quando ho pensato a cosa avrei fatto, se la mia Natsumi fosse scomparsa… non ho avuto dubbi. Ho accolto la sua richiesta.
-Quindi…- lo interruppi, incerto, e Raimon abbozzò un sorriso.
-Tua madre è viva ed è stata in contatto con me per tutti questi anni, Midorikawa. E adesso sa che anche tu sei vivo- mi disse.
Mi sentivo girare la testa.
-Posso… posso vederla…?- chiesi con un filo di voce. Raimon non mi rispose subito. Lo guardai confuso, poi spostai lo sguardo da lui agli altri due; con mia grande sorpresa, Hitomiko e persino Kudou avevano gli occhi lucidi, velati dalle lacrime. Il mio battito accelerò quando mi resi conto che qualcosa non andava. Mi girai di nuovo verso Raimon, impaziente.
-Non posso…?- mormorai. Raimon sospirò, corrugò la fronte e intrecciò le mani in grembo.
-Qui viene il difficile, Midorikawa. La verità è che… per come stanno adesso le cose, io non posso farvi incontrare- ammise. -Oltre ad aggiornarci su Bahyan e Kenzaki, c’è un altro motivo per cui le Spy Eleven si sono riunite. Ed era per decidere cosa fare con te.
-L’agente Kiyama ci ha raccontato che la morte di Kenzaki è stato un incidente per legittima difesa. E tendenzialmente, pur tenendo conto dell’affetto che lo lega a te, noi gli crediamo, perché Kiyama ha già dato prova di grande responsabilità. Ma anche dando per vera la sua testimonianza, non possiamo passare sopra ad altri… fatti- continuò in tono grave.
-Hai mentito ai tuoi compagni e al tuo capo e ti sei lanciato in una missione suicida, che potenzialmente avrebbe potuto causare molte più vittime. Per non parlare di quanto sia pericoloso il tuo dono, e quanto poco affidabile sia il tuo autocontrollo. Allo stato attuale delle cose, non possiamo far altro che considerarti un pericolo pubblico, Midorikawa. E non possiamo assolutamente lasciarti libero.
Il signor Raimon si fermò e mi scrutò in volto. Ressi il suo sguardo, stringendo un pugno di lenzuola tra le mani così forte che le mie dita divennero bianche. Per un momento mi ero lasciato accecare dalla speranza, ma naturalmente Raimon aveva ragione. Non potevo incontrare mia madre e metterla in pericolo di nuovo. Ancora una volta, mi colpì il pensiero che senza di me avrebbe avuto una vita normale. Avvertendo l’ormai familiare bruciore agli occhi, alzai le mani e mi coprii il volto: per quanto stupido, non volevo che mi vedessero piangere.
Il silenzio si protrasse per alcuni minuti, che parvero interminabili. Sembrava che Raimon stesse aspettando che io mi calmassi, e non disse niente finché non smisi di tremare. A quel punto, mi posò una mano sulla spalla e mi diede una leggera stretta.
-Non tutto è perduto, Midorikawa. C’è ancora speranza.
-Come può esserci speranza?- ribattei con voce rotta.
-C’è sempre speranza, finché siamo vivi e possiamo lottare.
Abbassai un po’ le mani e lo guardai, esausto e leggermente irritato.
-Lottare? E come si può lottare quando non sei grato di essere vivo? Come dovrei vivere la mia vita da ora in poi?
-Questo non lo so. La risposta dovrai trovarla da solo, suppongo, come facciamo tutti. Ma le Spy Eleven vogliono darti una possibilità. Infatti, sono venuto a farti una proposta… A proporti uno scambio, se vogliamo- disse Raimon.
-L’unico modo di reintegrarti in società è immetterti in un percorso di riabilitazione. Esiste una possibilità del genere dove lavoro. Se accetti, dovrai venire con me. Sotto la mia costante supervisione, ti allenerai per imparare a controllare e usare al meglio il tuo dono, mentre allo stesso tempo seguirai una rigida terapia psicologica- proseguì. -In cambio di tutto questo, e ovviamente quando lo riterrò opportuno, ti sarà concesso di vedere tua madre e, un giorno, di condurre una vita normale.
Gli rivolsi un’occhiata incredula.
-E quanto dovrebbe durare tutto ciò?
-Volendo essere ottimisti, non meno di cinque, sei anni. Molto dipende dalla tua capacità di adattamento e di crescita- ammise il signor Raimon. -Sono sicuro che hai i tuoi dubbi a riguardo, quindi sarò totalmente onesto con te. Ucciderti non è mai stato nei nostri interessi. Infatti siamo convinti, io per primo, che il tuo dono sia estremamente utile, se guidato e orientato dalla parte giusta. Certo, non sei l’agente più disciplinato del mondo…- Mi scoccò un’occhiata di rimprovero che mi fece arrossire. -Ma hai ottime potenzialità e il tuo cuore è al posto giusto. Per questo abbiamo deciso di darti un’occasione per redimerti. Cosa ne dici?
-Cosa...- esitai, mi morsi il labbro. -Cosa mi succederà se non accetto?
Raimon aggrottò le sopracciglia.
-Ah... Beh, se non concludi il percorso di riabilitazione, non possiamo farti tornare in servizio. Ma non è solo questo, certo- disse con aria grave. -Ti renderai conto che non possiamo lasciarti a piede libero, saresti troppo pericoloso. Quindi dovremmo probabilmente tenerti rinchiuso in qualche centro, come i ragazzi di Garshield. Non potrai più avere una vita normale.
-Normale- ripetei, soffocando a stento una risata. -Continua a ripetere quella parola. Ma si rende conto che non ha senso? Quando mai la mia vita è stata normale? Lei lo sa cosa si prova quando da un giorno all’altro non sei più te stesso? Quando all’improvviso un potere magico piove dal cielo e decide di renderti la vita impossibile? Lo sa quanto io...- Non riuscii a trovare parole per continuare. Mi morsi il labbro e abbassai lo sguardo.
Raimon sospirò. -No, Midorikawa, non lo so. E ti chiedo scusa se in qualche modo ho sminuito i tuoi sentimenti. Ma ti prego di pensarci seriamente. Ti stiamo dando una grande opportunità. Se non accetti, dovrai rinunciare a tutto... non solo all’agency, ma anche ai tuoi affetti- disse in tono grave.
-In considerazione dei tuoi sentimenti, vorrei darti qualche giorno per pensarci, ma dobbiamo pianificarlo per bene. Domani lascerai l’ospedale e dobbiamo essere sicuri che sarai in un posto dove possiamo tenerti d’occhio...
-Dato che in ogni caso è sospeso dal servizio, può tornare a casa per due o tre giorni. Posso chiamare oggi stesso per avvisare- suggerì Hitomiko inaspettatamente. Mi voltai verso di lei con un’espressione stupita.
-A... casa?
Hitomiko annuì e si mise le mani sui fianchi.
-E sia chiaro che quando dico che puoi tornare a casa, intendo che devi restarci fino a nuovo avviso- disse con voce ferma. -Non voglio vedere la tua faccia in giro neanche di striscio. È un ordine, e tu mi hai promesso che quello dell’altra volta sarebbe stato l’ultimo ordine a cui avresti disobbedito.
Aggrottai ancora di più la fronte, sicuro che me lo stesse rinfacciando. Non che non lo meritassi. Non feci altre obiezioni e mi limitai ad annuire mentre nella mia mente si insinuava una nuova ansia: come dovevo comportarmi una volta a casa? Non ci tornavo da tantissimo tempo e non ero sicuro di come sarei stato accolto. Cosa avrei fatto in quei giorni?
Mentre rimuginavo in silenzio, Kudou fece un passo avanti, titubante.
-Midorikawa… Non so se ti fidi di me, ma… ho una cosa che potrebbe esserti utile- disse. Si frugò in tasca e tirò fuori un braccialetto di metallo con un’apertura laterale. -È un inibitore di mia invenzione. Ti proteggerà- mormorò, poi indicò il mio braccio come per chiedere il permesso di metterlo. Glielo diedi tendendo la mano, e lui mi infilò al polso il bracciale, che si chiuse con uno scatto non appena il metallo venne in contatto con la mia pelle. Sul lato si accese una lucina rossa; immaginavo significasse che era in funzione. Lo osservai con una smorfia. Non mi piaceva l’idea, ma era meglio di niente.
Intanto, il signor Raimon si era alzato dalla sedia. Con nonchalance, andò alla finestra e aprì uno dei battenti per cambiare aria, facendo entrare nella stanza la brezza primaverile con il suo odore di fiori e la calda luce del sole. Dopo aver preso una bella boccata d’aria fresca, si girò di nuovo verso di me con uno sguardo serio.
-Va bene, faremo così- affermò. -Vai a casa domani e fra tre giorni esatti ci rivediamo. Spero che per allora avrai trovato una risposta, Midorikawa.
Annuii. Non ne ero sicuro, ma avrei potuto provarci. Che altra scelta avevo?
 
 
 
xxx
 


Tornai all’agency la mattina dopo, accompagnato da Hitomiko, soltanto per fare “la valigia”, ossia infilare tutta la roba che avevo lasciato al dormitorio in una borsa, alla rinfusa e il più velocemente possibile. Sulla strada non incrociammo nessuno, perché erano tutti impegnati ad assistere a una videoconferenza a cui avrebbero partecipato tutte le Spy Eleven mondiali. Apparentemente le indagini su Garshield e Kenzaki erano tutt’altro che chiuse e quella riunione straordinaria, indetta all’ultimo momento, serviva appunto per ridefinire il ruolo che ogni agency avrebbe avuto da quel momento in poi; ovviamente il ruolo da protagonista spettava alle due agency di Tokyo e Hokkaido, che avrebbero dovuto, per prima cosa, rintracciare tutti i laboratori di Kenzaki e altre possibili vittime dei suoi piani.
Ebbi la netta sensazione che portarmi a prendere le mie cose proprio il giorno in cui erano tutti via non fosse stata una casualità, ma qualcosa di programmato. In un certo senso, ne fui sollevato. L’ultima cosa che i miei compagni avevano saputo di me era che avevo cercato di farmi saltare in aria assieme a un palazzo, con Kenzaki e tutta la sua ricerca. Cosa avrei dovuto dire, se pure li avessi incrociati? Scusatemi per aver piantato su tutto quel casino, per il quale tra l’altro non provavo rimorso? No, era mille volte meglio non doversi scusare.
Così, Hitomiko ed io lasciammo l’agency prima che gli altri tornassero. Mentre ci infilavamo nella macchina della sicurezza e mentre viaggiavamo con i finestrini oscurati per le strade della città, mi chiesi quale sarebbe stata la reazione di Kazemaru nel trovare il mio lato dell’armadio e i miei cassetti svuotati. Se anche Hitomiko non gli aveva spiegato bene la situazione, sarebbe comunque venuto a saperlo presto.
La macchina si fermò davanti a un vialetto semi-vuoto. Non c’erano molte persone in strada. Era un quartiere residenziale, abitato ormai soprattutto da anziani, che a quell’ora erano raccolti perlopiù nella zona del mercato. Scesi dalla macchina trascinandomi dietro la borsa e mi guardai attorno: nulla era cambiato da come lo ricordavo. La casa era a due piani, con un tetto a triangolo e le mura esterne tinte di azzurro pastello; come tutte le case del quartiere, era circondata da un muretto di siepi, che si interrompeva solo all’altezza del cancello. Un tempo quel muretto mi appariva insormontabile, ma ora mi arrivava all’altezza della testa, così che, salendo un po’ sulle punte, riuscivo benissimo a sbirciare nel giardino. Anche la loro macchina, parcheggiata proprio davanti casa, era la stessa da almeno dieci anni. C’era qualcosa di rassicurante, nel ritrovare tutto esattamente come me lo ricordavo.
Varcare il cancello e percorrere il breve vialetto di ciottoli che tagliava in due il giardino mi diede un senso di déjà-vu. Dopo aver bussato il campanello, restammo in attesa e, ascoltando lo scalpiccio di passi che si affrettavano a venirci incontro, il battito del mio cuore accelerò. Avevo paura di come sarei stato accolto; in più, l’aria umida, che prometteva pioggia nel resto della giornata, mi innervosiva. Non avevo quasi più messo piede lì da quando ero diventato un agente, ma quando lo sguardo mi cadde sulla targhetta di metallo attaccata proprio sopra il campanello, avvertii subito un nodo alla gola. Passai le dita sulla targa, mimando con le labbra i kanji, senza osare leggerli ad alta voce. Kazemaru. Non era così che avevo immaginato il ritorno al luogo in cui ero cresciuto. Ma adesso ero lì. Ero tornato a casa.




 
**Angolo dell'Autrice**
Buona Pasqua, gente!
Spero che questo capitolo vi sia piaciuto. Credo che sia in assoluto il più lungo che ho scritto (con grande gioia della mia ohana che spesso mi fa da beta) e forse anche il più difficile...? Diciamo che 51 e 52 se la giocano, va'. Sono sicura che il 51 vi aveva lasciati molto perplessi, ma era necessario un certo... velo di mistero, per non farvi capire subito il piano di Midorikawa. Vi aspettavate questa decisione da lui? Per scrivere il suo Arc, ho dovuto riflettere tanto su cosa volevo fare con il personaggio... Poi ho deciso di rileggere l'intera fic e ho capito che non poteva andare altrimenti, almeno secondo me. Midorikawa è sempre stato guidato da un fortissimo senso di giustizia e di sacrificio; per questo Hiroto, che affronta le cose con più razionalità, gli fa da contrappeso. 
Allacciate le cinture per il 53, perché arriva il gran finale!
Un abbraccio,
    Roby


 
   
 
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