Anime & Manga > L'Attacco dei Giganti
Ricorda la storia  |      
Autore: PerseoeAndromeda    03/04/2021    1 recensioni
[Fanfic scritta per la challenge Brand new obsession del gruppo Hurt/Comfort Italia - Fanart and Fanfiction - GRUPPO NUOVO]
Spalancò gli occhi nel buio quando l’evidenza lo aggredì come una pugnalata in pieno petto e si mise a sedere, il respiro corto, il bisogno di vomitare, per l’ennesima volta da quando si era risvegliato dopo… dopo quello che aveva fatto.
“Sono diventato un titano” urlò una voce dentro di lui. “Ho… ho mangiato Berthold… Erwin Smith è morto… doveva essere al mio posto… sono vivo perché lui è morto e… ho… ho mangiato Berthold!”.
Si portò una mano alla bocca, avrebbe finito per sentirsi male di nuovo.
Genere: Angst, Hurt/Comfort, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Armin Arlart, Conny Springer, Erwin Smith, Hanji Zoe, Levi Ackerman
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Tematiche delicate
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Fanfic scritta per la challenge Brand new obsession del gruppo Hurt/Comfort Italia - Fanart and Fanfiction - GRUPPO NUOVO
 
Autore: Perseo e Andromeda; Heather-chan
Fandom: Attack on Titan
Prompt: 43. Spoglie - Chi c'è: una persona che prende farmaci
Titolo: Accettare
Personaggi: Armin-centric ma presenza di un sacco di altri personaggi
Genere: Angst, introspettivo, H/C, drammatico, death fic
Rating: giallo per la presenza di tematiche delicate
Note: missing moment ambientato nella parte finale della terza stagione, dopo la battaglia di Shiganshina e dopo l’esplorazione nella cantina di Grisha, forse lo stesso giorno o qualche ora dopo
 
ACCETTARE
 
Era impossibile riuscire a dormire, neanche la stanchezza glielo consentiva.
Si rigirò nel sacco a pelo, i brividi che gli scuotevano il corpo.
Entro poche ore sarebbero ripartiti e Mikasa ed Eren si trovavano sotto custodia per essersi ribellati ai voleri dei superiori… e l’avevano fatto per lui.
Avrebbe desiderato rimanere al loro fianco, ma era ancora troppo debole ed era crollato tra le braccia di Jean.
Quando si era ripreso si era ritrovato sotto le coperte, un senso di solitudine, tristezza e smarrimento ad invaderlo.
Cosa rimaneva a tutti loro?
Il comandante Erwin era morto…
Spalancò gli occhi nel buio quando l’evidenza lo aggredì come una pugnalata in pieno petto e si mise a sedere, il respiro corto, il bisogno di vomitare, per l’ennesima volta da quando si era risvegliato dopo… dopo quello che aveva fatto.
“Sono diventato un titano” urlò una voce dentro di lui. “Ho… ho mangiato Berthold… Erwin Smith è morto… doveva essere al mio posto… sono vivo perché lui è morto e… ho… ho mangiato Berthold!”.
Si portò una mano alla bocca, avrebbe finito per sentirsi male di nuovo.
«Armin».
Il sussurro nella notte risuonò spettrale e lui sussultò ma, quando sollevò il viso, la fiamma della lampada gli rivelò i lineamenti contratti di Connie, accovacciato accanto al sacco a pelo poco distante. L’oscillare della fiamma rendeva ancora più evidenti i solchi di stanchezza sotto i suoi occhi.
Stava guardando lui e nel frattempo teneva un poco sollevata la testa di Sasha.
Quella vista riportò alla memoria di Armin gli ultimi eventi.
I lamenti che aveva udito e che si erano infiltrati tra i suoi incubi e le sue visioni confuse erano quelli di Sasha, ferita e febbricitante, che ancora non aveva ripreso lucidità. Connie aveva accostato un bicchiere alle sue labbra e la stava, con ogni evidenza, incoraggiando a bere.
«Come sta?» chiese Armin, indicandola con un cenno.
Connie si strinse nelle spalle e abbassò gli occhi sul viso stravolto della compagna:
«Non molto bene, ha ancora la febbre alta e la ferita si è infettata, ma mi hanno assicurato che se la caverà se riesco a farle prendere questa medicina». Staccò il bicchiere dalle labbra di Sasha. «Solo che…».
Scosse il capo e Armin comprese, senza bisogno di ulteriori spiegazioni, che non riusciva a farle ingerire nulla. Trattandosi di Sasha quello era senz’altro indice di gravità.
Scostò la coperta e sgattaiolò carponi fuori dal sacco a pelo, per avvicinarsi a quello di Sasha.
«Proviamoci insieme».
Si fece passare il bicchiere con il farmaco, le mise una mano dietro la testa, tenendola in modo che il liquido non le andasse di traverso e, in questo modo, con pazienza e attenzione, riuscì a farlo scivolare quasi tutto attraverso le labbra socchiuse. Poi, con mosse delicate, la rimise giù e lasciò che il compagno le pulisse la bocca e il mento con un fazzoletto.
«Grazie» disse Connie, il tono triste e un po’ imbarazzato. «Da solo non riuscivo a combinare niente… anche se mi sono offerto di prendermi cura di lei».
Armin rimboccò le coperte all’amica che si lamentava appena per il freddo e le toccò la fronte: si rasserenò un poco, perché in realtà la febbre sembrava scesa. Forse il giorno dopo sarebbe stata meglio.
Poi chiuse nervosamente i pugni e si strofinò le ginocchia: tutta quella tensione rischiava di farlo impazzire, ma aveva già creato troppi problemi intorno a sé e si limitò a sorridere.
«Dovresti riposare Connie, anche tu sei stanco. Posso stare un po’ io a controllarla».
L’amico lo guardò, poi ricambiò il sorriso:
«Non fingere di stare bene, non oso immaginare come tu…» si bloccò, si morse le labbra e distolse lo sguardo. «Scusami…».
Armin scosse il capo, lo abbassò e trovò il coraggio di esporre un dubbio che lo tormentava da quando aveva aperto gli occhi… un dubbio che era anche un bisogno.
«Connie, secondo te… sarei troppo indiscreto se ora io andassi a…» deglutì, strinse maggiormente i pugni sulle ginocchia fino a farsi sbiancare le nocche e prese un profondo respiro «se andassi… dal comandante?».
Connie lo fissò, rimase qualche istante dubbioso, poi socchiuse le palpebre:
«Se senti di doverlo fare, potrebbe esserti di aiuto».
Armin ricercò i suoi occhi:
«Lo pensi davvero?».
Connie ridacchiò:
«Sei tu quello che sa sempre trovare le risposte adatte, se ti è venuto in mente di volerlo fare, probabilmente è perché senti che è giusto».
Armin sorrise: non gli era chiaro se nelle parole di Connie ci fosse incoraggiamento o si trattasse di un modo per restare sul vago e non esprimere opinioni.
Come dargli torto? Era logico che nessuno di loro, in una situazione simile, avesse le risposte giuste.
Le sue gambe si mossero da sole, si ritrovò in piedi e afferrò il mantello posato poco distante:
«Allora io vado Connie. Quando torno ti do il cambio, promesso».
Sulle labbra dell’amico comparve un ghignetto:
«Non preoccuparti, con Sasha ci sto io».
Armin gli lanciò un’ultima occhiata, consapevole che non sarebbe riuscito a fargli cambiare idea, ma la sua mente era già proiettata su una meta che lo rendeva, al contempo, deciso e molto, molto nervoso.
 
***
 
Aveva paura, ma doveva farlo.
Non importava quanto si sentisse inadeguato, inopportuno, assolutamente indegno di trovarsi lì.
Era immobile davanti ad una porta chiusa, le membra scosse da tremiti incontrollati dovuti al disagio, al malessere di un corpo tornato miracolosamente alla vita, a ciò che aveva scoperto riguardo al destino bizzarro e spaventoso che gli era caduto addosso.
“Perché Eren, Mikasa?” non aveva fatto altro che chiederselo, da quando aveva saputo. “Perché vi siete battuti per me? Perché… mi avete…”.
Arrestò i propri pensieri, terrorizzato dalla piega che stavano prendendo. Era un ingrato, perché una parte di lui si riscopriva arrabbiata, addirittura furiosa con i suoi due amici: era stato per il loro volerlo in vita che lui, ora, doveva sopportare tutto quel senso di colpa, quel rifiuto di se stesso e quella paura… anzi… consapevolezza di non esserne in grado.
Come avrebbe potuto continuare a vivere con quella pesante eredità?
Si portò una mano al volto: lo avevano fatto perché gli volevano bene, lui avrebbe fatto lo stesso, eppure…
Eppure…
Cercò dentro di sé la risoluzione necessaria per bussare a quella porta. Ci provò più volte, più volte il braccio si sollevò, il pugno chiuso si accostò alla superficie di legno e poi ricadde, sconfitto.
Un tocco sulla spalla lo fece sobbalzare e trattenne a stento un urlo.
«Sei troppo teso, Arlert, devi imparare a rilassarti di più».
«Co… comandante Hanji».
Armin era una persona intuitiva e non gli sfuggì il velo di amarezza che passò negli occhi della donna quando si sentì affibbiare quel titolo.
Il ragazzo stropicciò nervosamente tra le dita gli orli del mantello: aveva sbagliato? Non avrebbe dovuto chiamarla così?
Abbassò lo sguardo.
Avrebbe tanto desiderato darle conforto, ma anche di quello si riteneva indegno.
Lui non era nulla per Hanji, era inutile.
Anzi, lui era la causa principale di quel dolore.
«Arlert!».
Il tono brusco gli provocò un nuovo sussulto e, se possibile, si mise a tremare ancor più di prima.
«Più decisione, ragazzo e smettila di pensare che chiunque stia per aggredirti o ti stia disprezzando!».
Armin sollevò timidamente gli occhi, provò a balbettare qualcosa, ma lei lo prevenne ancora:
«Hai fatto bene a venire».
Il tono si era addolcito.
lo oltrepassò e diede due colpetti alla porta.
«Avanti».
Era una voce profonda quella che rispose, una voce nella quale Armin lesse strascichi di profonda tristezza.
Quando Hanji spinse la porta, lui non trovò il coraggio di muoversi, ma la mano che gli venne posata contro la schiena non gli lasciò scampo: lo proiettò oltre la soglia con una tale energia che a stento il ragazzino mantenne l’equilibrio.
Suo malgrado si ritrovò occhi negli occhi con il capitano Levi e il suo sentirsi fuori luogo, inopportuno, di troppo, raggiunse livelli pressoché insostenibili.
«Armin vorrebbe dare l’ultimo saluto a Erwin» annunciò Hanji.
Erano parole normali, pronunciate con naturalezza, persino gentili, eppure non lo aiutarono a trovare un po’ di tranquillità. Soprattutto perché Levi rimase completamente immobile, l’espressione imperturbabile fissa su di lui.
Era impossibile, per Armin, sostenere quello sguardo, così abbassò il proprio. Ma doveva dire qualcosa, era suo dovere.
«Io… ecco… non era mia intenzione disturbare ma…».
Prima che i suoi balbettii potessero assumere la forma di parole coerenti, l’inatteso movimento di Levi glieli bloccò in gola. Gli occhi continuarono a fissare il pavimento, la testa era rintanata tra le spalle.
In quel suo desiderio di farsi minuscolo e scomparire, ascoltò i passi di Levi che si avvicinavano.
Il capitano giunse al suo fianco e, prima di passare oltre, gli posò una mano sulla spalla: Armin si rannicchiò su se stesso ancor più di prima.
«Non ce ne facciamo niente dei tuoi sensi di colpa… e neanche dei miei».
La morbidezza del tono contraddiceva l’apparente durezza delle parole, tanto che Armin non percepì nessun rimprovero in esse: anzi, gli trasmisero un certo calore, persino comprensione, un voler esprimere che il loro dolore era lo stesso, che erano, in un certo senso…
Più uniti?
La mano sulla spalla scivolò via.
«Grazie per essere venuto Armin. Prenditi il tempo di cui hai bisogno».
La necessità di trovare qualcosa di sensato da dire si fece pressante… ma di abbastanza sensato non trovò nulla, ogni frase di circostanza gli sarebbe parsa inutile e fuori luogo e, soprattutto, si sentiva stupido: si chiese, come gli accadeva spesso, dove la vedessero gli altri tutta la sua intelligenza.
Così fu incapace sia di parlare che di sollevare lo sguardo e temeva che, se si fosse mosso, sarebbe crollato a terra come un fuscello. Poi la porta si chiuse e lui rimase solo nella stanza.
Solo insieme al corpo adagiato sul letto che, seppur senza vita, imprimeva il sentore della sua presenza e della sua essenza in tutta la stanza.
Armin fece qualche passo, lasciò correre gli occhi su ogni centimetro di quella figura possente, che neanche la morte aveva spogliato di dignità, serrò un attimo le palpebre, le riaprì, strinse le labbra a soffocare un singhiozzo.
Come avrebbe dovuto sentirsi?
Il silenzio tutto intorno e nel suo cuore si fece pesante, la stanza era in ombra, solo le fiamme delle candele proiettavano i loro riflessi danzanti sulle mura e sulle spoglie del comandante, creando bizzarre illusioni di movimenti irreali.
Senza capire perché lo stesse facendo, allungò una mano sul mantello che copriva il volto di Erwin, ne sollevò un lembo, gli occhi chiusi sembrarono ammiccare verso di lui in un lampo di rimprovero. Sussultò, il senso di colpa lo invase e immediatamente lo ricoprì. Se fosse giunta una maledizione a tagliare quella mano che aveva osato tanto lo avrebbe accettato, avrebbe voluto farlo lui stesso.
Le ali della libertà sul mantello del comandante sembrarono dispiegarsi come un monito e la vista di Armin si annebbiò, non sapeva neanche lui se per le lacrime o per il capogiro che lo colse.
Si portò le mani al volto e tirò su col naso.
«Avvicinati».
Lasciò scivolare le mani verso il basso, fino a scoprirsi gli occhi, ancora lucidi di lacrime e confusione.
«Avvicinati Armin… non devi aver paura di me».
Le mani ricaddero lungo i fianchi e lui si ritrovò a fissare il corpo.
Non era possibile, vero?
Lui era una persona razionale, non era assolutamente possibile che avesse udito la voce di Erwin.
Erwin Smith era morto…
Per colpa sua…
E tutto quello che restava di lui era quella salma immota, strappata ingiustamente a un mondo che aveva ancora bisogno della sua presenza.
«Non sei abbastanza razionale da capire che non sono morto a causa tua, sembra».
Aprì la bocca e gli sfuggì un piccolo gemito di sorpresa: era sconvolto e la sua mente gli giocava scherzi tremendi.
Eppure l’anima non moriva davvero, non serviva la ragione per saperlo, bastava credere: lui era razionale, ma sapeva anche che c’era qualcos’altro al di là della concretezza, al di là della materia, qualcosa che, forse, era valido solo per il cuore.
Ma era pura presunzione la sua: il comandante Erwin che gli parlava attraverso il cuore?
Non poteva che trattarsi di illusione, perché lui non era nessuno, non era degno, non lo sarebbe mai stato.
«Sei solo un piccolo stupido, Armin… l’intelligenza la metti da parte quando si tratta di te».
La voce era diversa adesso, o forse era un insieme di voci che giungevano alla sua mente stravolta e smarrita: la sensazione che ci fosse qualcuno, oltre a lui, si fece strada… qualcuno dentro di lui, nella sua mente.
Le gambe gli tremarono così forte che cedettero e lui si ritrovò in ginocchio, la testa tra le mani che vorticava e pulsava.
«Comandante Erwin… Berthold…» mormorarono le sue labbra.
Senso di colpa, smarrimento, certezza che non ci fosse niente di giusto: non avrebbe dovuto trovarsi lì, vivo, era tutto sbagliato.
La morte di Erwin… l’aver divorato Berthold…
Tutto sbagliato.
Ogni cosa intorno a lui vacillò, l’oscurità si fece tenebra, i muri, il soffitto, il pavimento sotto di lui e anche il letto su cui Erwin giaceva svanirono.
Sollevò lo sguardo, lo fece correre da una parte all’altra e in quella tenebra fitta, lentamente, un alone di luce cominciò a prendere forma, dapprima soffusa, poi alcune figure si delinearono, sempre più distinte, come se il buio le stesse disegnando, frammento dopo frammento, davanti ai suoi occhi.
“Sono… dentro un mio sogno?” si chiese. “O sto semplicemente impazzendo?”.
Niente di strano dopotutto.
Era possibile non impazzire dopo essersi trasformati in titani e aver mangiato un essere umano?
Eren però non era impazzito.
Non lo sembrava.
Il suo capo si levò verso l’alto e lo vide: il titano colossale.
Nel buio si delineavano appena i contorni della sua testa enorme ed Armin rimase immobile a fissarlo.
Ricordò l’effetto che gli aveva fatto la prima volta, ricordò l’orrore, il tremore che non si fermava, il sentirsi paralizzato a tal punto da aver quasi perso la risoluzione di scappare.
All’epoca non aveva fatto caso a quell’espressione sul volto del colossale, come avrebbe potuto? All’epoca aveva visto solo un mostro portatore di morte.
Adesso vedeva una creatura triste.
L’essenza stessa del dolore si palesava in quei lineamenti. Gli occhi davano l’impressione di essere sul punto di piangere.
Eppure quello era il mostro che, comparendo la prima volta al di sopra del Wall Maria, gli aveva distrutto la vita. Come poteva provare pena per lui?
«Berthold…» mormorò.
«Non aver paura…».
Portò lo sguardo più in basso e Berthold era lì, anche lui torreggiava su Armin, che rimaneva in ginocchio e si sentiva minuscolo più che mai, insignificante, un mucchietto tremante che si sentiva solo un niente.
«Non aver paura» sentì ripetere, ma questa volta non venne da Berthold.
Era dietro di lui, percepì la presenza, anche se non la vedeva, ne sentiva sulla pelle la regalità, una maestosità in grado di risultare preponderante anche più del colossale.
Poi si sentì avvolgere in un abbraccio, due ali immense che lo racchiudevano e inondavano di luce.
Le Ali della Libertà, pensò Armin, la loro essenza, il nostro simbolo… la nostra guida.
«Comandante… Erwin…».
Non lo vedeva, ma sapeva.
«Non sentirti insignificante, sei parte di noi anche tu Armin, sei parte di questo tutto che ti circonda e parte della nostra storia. Ne sei e ne sarai una parte importante, tu, proprio tu, Armin Arlert. Ti sei sempre fidato delle mie decisioni, continua a farlo».
L’abbraccio alle sue spalle, il colossale e Berthold davanti a lui…
Le labbra di Berthold si schiusero, diedero vita a nuove parole, che affondarono nel cuore provato del ragazzino, fino a fargli male:
«Aiutami Armin… ti prego…».
Era davvero Berthold o era quel triste titano che gli chiedeva aiuto?
Ma non era forse la stessa cosa?
«Rendimi degno di te». Le parole di Erwin erano una carezza sul cuore che andava in pezzi. «Ma lo sono già in fondo. Non potrei esserlo di più».
Non aveva nulla di fisico quell’abbraccio, ma possedeva una sua consistenza, era un lambire con un’autorevolezza che ad Armin sembrò dolce, ciò di cui aveva bisogno.
«Armin… adesso alzati».
Lo fece, disobbedire gli era impossibile e le gambe non tremavano più.
L’abbracciò di quelle ali di luce mutò in due mani posate sulle spalle che gli trasmisero forza, lo resero stabile nell’equilibrio fisico, come nello spirito.
I suoi occhi rimasero puntati su Berthold, che spostò i propri verso l’alto.
Il ragazzo seguì la direzione del suo sguardo, finché si specchiò nelle iridi immense del colossale.
Lì lo mantenne senza più esitazione: in quegli occhi si riconosceva ed era spaventoso.
Eppure lo accettò, consapevole di non avere scelta.
Il tocco sulle spalle si fece ancora più concreto e solido. Armin avrebbe voluto voltarsi e cercare lo sguardo di Erwin, ma Berthold e il colossale calamitavano i suoi occhi e dopotutto, nonostante la sicurezza che sentiva crescere dentro di sé, di guardare Erwin faccia a faccia continuava a non sentirsi degno.
«Sei degno Armin, devi solo riconoscere te stesso e accettare… accettare tutto quello che ti aspetterà da questo momento in poi. E sarai degno di qualunque cosa, io lo so».
Si morse il labbro soffocando un singhiozzo, poi tentò finalmente di voltarsi, ma il terreno gli mancò sotto i piedi, barcollò e furono quelle mani ad impedirgli di cadere.
Ma colui che trovò a sostenerlo non era Erwin: Armin spalancò gli occhi pieni di stupore sul volto del capitano Levi.
Poi si guardò intorno, smarrito: lo strano ambiente era scomparso.
Era tornato nella stanza, accanto al letto e non ebbe bisogno di accertarsene: sapeva perfettamente che il comandante era su quel letto, immobile, il volto coperto.
Cos’era successo?
Aveva sognato?
«Ca… capitano…».
Le mani sulle sue spalle, gli occhi di quel blu opaco fissi nei suoi in un’espressione che, a prima vista, poteva sembrare impassibile, ma non per Armin: c’era una luce là in fondo, nelle pozze di oscurità e tristezza.
«Sei più tranquillo?» chiese l’uomo, il tono fermo ma pacato, quasi dolce.
Armin abbassò lo sguardo, annuì.
«Gra… grazie».
Quando lo risollevò, Levi annuì a propria volta.
«Non devi ringraziarmi. Ho solo eseguito il volere del mio comandante».
Gli occhi di Armin si fecero più grandi, schiuse le labbra in una domanda che, tuttavia, rimase muta.
Le sopracciglia di Levi si corrugarono in un moto di sorpresa.
Le mani scivolarono via dalle spalle di Armin, poi il capitano tornò a prendere posto su quella sedia dalla quale, il ragazzo ne era certo, non si sarebbe più mosso fino al momento della partenza.
Levi nascose le mani tra le ginocchia, i suoi occhi si posarono sulle spoglie di Erwin e la sua figura si incurvò, tanto che ad Armin sembrò un po’ più vecchio…
Più triste…
E più solo.
Avrebbe tanto voluto avvicinarsi, toccargli le spalle come Levi aveva fatto con lui, dargli un po’ di conforto, di calore.
Ma non riusciva a trovarlo quel coraggio, non con Levi, nonostante tutto si sentiva ancora un nulla, qualcuno che non avrebbe mai potuto confortare persone simili, non lui.
Inoltre, da quando la sua attenzione si era concentrata su Erwin, Levi dava l’impressione di essersi estraniato del tutto. Non esisteva nient’altro, in quella stanza, se non lui ed Erwin, tutto il resto troppo distante perché potesse avere un posto lì accanto a loro.
Armin era di troppo, si sentiva di troppo.
Aveva fatto bene a venire, ma adesso avrebbe fatto bene ad allontanarsi.
Fece qualche passo all’indietro, chinando il capo in segno di rispetto, poi si ricordò che Levi non avrebbe visto il suo gesto.
Ma anche pronunciare parole di commiato avrebbe recato disturbo a quel raccolto silenzio, a quella solitudine che il capitano pretendeva per se stesso e per Erwin.
Era sul punto di aprire la porta ed uscire quando, di nuovo, la voce del capitano lo fece bloccare sul posto:
«Grazie ancora per essere venuto, Armin e grazie per quello che hai fatto oggi, sei stato indispensabile. Ora vai a riposare, ne hai più bisogno di chiunque altro, tra qualche ora dovremo metterci in cammino».
Levi aveva distolto lo sguardo dal corpo di Erwin per portarlo su di lui e si trattava di uno sguardo intenso che, insieme a quelle parole, per Armin valse tanto quanto l’abbraccio di cui avrebbe avuto bisogno.
Strinse le labbra, le lacrime gli pizzicarono gli occhi, ma riuscì a trattenerle, almeno fino a quando, dopo aver ringraziato e salutato, sgattaiolò fuori dalla stanza.
Solo allora, dopo aver fatto qualche passo, i singhiozzi esplosero senza preavviso e lui sentì il bisogno di correre, nonostante la stanchezza, nonostante i dolori diffusi in tutto il corpo.
Voleva solo correre, piangere, fino a crollare a terra senza più forze.
 
 
 
 
   
 
Leggi le 1 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Anime & Manga > L'Attacco dei Giganti / Vai alla pagina dell'autore: PerseoeAndromeda