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Autore: Cossiopea    05/04/2021    1 recensioni
[AVVERTENZA: questa storia contiene SPOILER per PJO, HoO, ToA]
[...] - Sei l'eroe di molti, Percy - continuò - La stima è cresciuta attorno alla tua persona, una fama di cui forse non ti rendi neanche conto. Ciò che hai fatto ha scaldato i cuori, illuminato gli animi di candida speranza, ma soprattutto ambizione. L'ambizione rende ciechi, aperti alle minacce più oscure, conduce verso mete ignote, dove la mente può perdersi.
- Continuo a non capire - farfugliai, gli occhi sgranati.
Ecate annuì pacatamente e il fumo si arricciò tra i suoi capelli scuri.
- Non devi capire - bisbigliò, come parlasse a se stessa - Non lo farai mai... I mondi in cui ti stai per inoltrare... - schioccò la lingua - non sono fatti per essere compresi.
Genere: Angst, Avventura, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Altro personaggio, Annabeth Chase, Nico di Angelo, Percy Jackson, Will Solace
Note: OOC | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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3. Percy Jackson


Allora, io non conosco tutti gli dei.

Conoscerli tutti sarebbe letteralmente impossibile, dato che si stima siano migliaia su tutta la superficie terrestre, tra divinità minori di fiumi, laghi, corsi d'acqua, boschi... Da ammattire, davvero.

Però qualcuno ne ho conosciuto. Ho conosciuto quelli peggiori. Beh, perlomeno, quelli che hanno cercato di rovinarmi la vita o mi hanno bellamente ignorato quando avevo bisogno di loro (grazie, papà).

Ma Ecate mai. Cioè, non mi aveva mai attaccato direttamente o lanciato maledizioni mortali, quindi mi ritenevo in buoni rapporti.

Dea della magia; quella strana energia che permea ogni cosa, di cui è intessuta la Foschia, che piega le regole della natura e distorce le percezioni. Ecco, devo ammettere che una cosa del genere un po' mi inquietava.

Ma quando il portale fatto di fumo si spalancò nel bel mezzo della mia stanza e una donna dai sottili capelli grigiastri ne sbucò con un sorriso enigmatico stampato in faccia, mi resi immediatamente conto di essere al cospetto dell'ennesima divinità impicciona. Non è esattamente una novità, ma l'ultima volta Apollo si è presentato davanti a casa mia pretendendo che gli facessi da servitore personale e fregandomi inoltre una delle mie felpe migliori. Non intendevo ripetere l'esperienza.

– Percy Jackson! – la voce della dea aveva un riverbero, come un'eco che mi fece vibrare i timpani nelle orecchie. Non ebbi dubbi sulla sua identità; era come se un'insegna luminosa con il suo nome le lampeggiasse sulla fronte, ma sospettavo che se avesse voluto nascondere la sua vera natura non avrei avuto le capacità di guardare oltre il velo di Foschia che la ricopriva: un dio si mostra solo quando intende farlo.

Ero bagnato fradicio, seduto su un letto altrettanto fradicio a fissare un portale fumoso da cui mi stava sorridendo la dea della magia. Normale amministrazione, direi.

Tirai su col naso e non mi trattenni dallo scoccarle un'occhiata sospettosa. Avevo avuto fin troppe brutte sorprese per quel giorno.

– Divina Ecate – dissi, chinando leggermente il capo.

La veste grigia che la avvolgeva si arricciava in vortici di nubi, confondendosi con l'anello che la contornava, come la cornice livida di un quadro sbiadito.

Sorrise, ma colsi un velo di malizia in quello sguardo, che mi fece irrigidire sul posto.

– Mi dispiaccio di disturbarti con così poco preavviso – esordì. Le parole mi riecheggiarono in testa – Ma necessitavo di parlarti, nonostante le tue abilità siano lungi da ciò che io normalmente cerco in un eroe.

Grazie tante... borbottai tra me.

Il suo sorriso si allargò, come se avesse letto quel pensiero amaro e ciò la divertisse.

– Ho bisogno di un aiuto mortale e tu sei quello che mi serve – continuò, pacata – Necessito che tu ti diriga al Campo Mezzosangue e accolga una delle mie figlie.

Battei le palpebre, perplesso, e una goccia d'acqua attaccata alle ciglia mi cadde sulla punta del naso.

– Divina Ecate – azzardai – Io credo di non capire...

Ero il primo a comprendere quanto contraddire gli dei fosse pericoloso, ma l'irritazione che mi stava sbocciando dentro poteva tranquillamente portare alla mia prematura morte come all'esplosione di altre decine di tubi... Tra un Paul arrabbiato e una dea inferocita preferivo il primo (sebbene con qualche rimorso). Vista la situazione, decisi di provare un approccio diplomatico.

Ecate fece oscillare la testa avanti e indietro. Non riuscii a capire se stesse scuotendo il capo o annuendo.

– Credo che tu abbia colto molto bene, invece – replicò lei – Una ragazzina sperduta ha bisogno che un eroe la conduca verso un luogo sicuro, un eroe che possa essere un faro di speranza in mezzo alle sue tenebre.

Mi pulsava la testa, avevo freddo e questa mi stava dicendo di mollare tutto e andare al Campo solo per accogliere una semidea che avrebbe tranquillamente potuto essere aiutata da qualche mio collega ben più vicino di me? Davvero?!

Deglutii, imponendomi di mantenere la calma. In fondo, era una vita che mi ritrovavo ad avere a che fare con questo genere di situazioni bislacche, tipo parlare con qualche divinità poco discreta che ti piomba in casa il sabato sera.

Mi schiarii la voce.

– Ahm... Divina Ecate... – presi un bel respiro – La ringrazio tanto per la possibilità, ma io... – feci un ampio cenno della mano, come ad abbracciare la devastazione che mi circondava, includendo anche i miei vestiti bagnati e le occhiaie violacee sotto agli occhi gonfi – ...non posso – sputai infine, la bocca che si piegava in una smorfia.

La dea mi squadrò in tralice per un silenzioso istante, e in quello sguardo guizzò una scintilla indispettita, quasi non si aspettasse che io facessi veramente resistenza al suo volere.

Che resti tra noi, di solito non mi faccio problemi a dare una mano a degli svogliati esseri superiori, ma non ho mai apprezzato quando mi trattano come uno schiavetto costantemente disponibile ad assecondare i loro capricci.

– Tu non comprendi le forze che sono in atto – la cupezza improvvisa della voce di Ecate mi provocò un brivido lungo la schiena, che nulla c'entrava con la felpa zuppa. Il fumo intorno a lei roteò più vorticosamente – Non è previsto che tu possa rinunciare alla missione che ti è stata posta d'innanzi; l'importanza di ciò grava sul mondo come poche cose lo sono mai...

Prima che potesse continuare il suo monologo molto interessante, alzai una mano per interromperla, sperando nel profondo che non mi riducesse in cenere per questo.

– Mi perdoni – esordii, tossicchiando – ma mi sta per caso dicendo che la terra è di nuovo minacciata da qualche pazzoide nevrotico e io sono chiamato a proteggerla come se non avessi una vita mia?

La dea batté le palpebre e, nonostante il biancore della sua pelle, parve avvampare.

– Come ti permetti? – squittì, stringendo i pugni con fare indignato – Voi semidei dovreste venerarci e prendere le nostre parole come doni inarrivabili! – aveva il respiro accelerato, le labbra strette – Potrei trasformarti in un lombrico per questo affronto, Percy Jackson!

Inarcai un sopracciglio. Evidentemente il mio istinto di sopravvivenza aveva subito dei gravi traumi durante gli ultimi anni, perché risposi:

– Personalmente credo che quello che voi dei ci rifilate sia più simile ai deliri di un pazzo che a vere perle di saggezza da mettere nei cioccolatini.

Mi accorsi solo due secondi dopo di quanto stessi effettivamente osando. Per uno spaventoso attimo mi ritrovai a chiedermi che sapore avesse la terra e se ne esistesse una al gusto mirtillo.

Sembrò che lo sguardo di Ecate stesse tentando di stritolarmi. Il respiro mi si mozzò, anche se non saprei dire se fosse effettivamente per colpa della dea o dell'improvvisa paura verso la mia stupidità.

Poi, con mio esterrefatto sollievo, la divinità sorrise.

Il fumo attorno a lei si tinse di una sfumatura più tenue, lontano dal grigio burrascoso, e nei suoi occhi balenò un lampo divertito.

– I deliri di un pazzo – ripeté, lentamente, come stesse assaggiando il sapore di quelle parole – Trovo ironico come tu abbia intuito ciò che noi spesso possiamo essere, il nucleo di questa impresa – sospirò, ma il suo sguardo era di nuovo serio, anche se non ostile, soltanto malinconico, quasi stesse raccontando di un triste fatto successo tanti anni prima – Ed è per questo che devi andare, Percy Jackson, figlio di Poseidone.

Sbattei ripetutamente le palpebre, sempre più sconvolto. Sinceramente, sarei stato molto meno sorpreso se mi avesse ridotto ad un vermetto mangiatore di fango. Questa sua reazione mi stava abbastanza inquietando.

– Scusi? – domandai, incapace di concepire di cosa stesse parlando o come si collegasse a me.
Il suo sorriso si allargò, anche se venato di tristezza. La foschia intorno a lei si annerì.

– Sei l'eroe di molti, Percy – continuò – La stima è cresciuta attorno alla tua persona, una fama di cui forse non ti rendi neanche conto. Ciò che hai fatto ha scaldato i cuori, illuminato gli animi di candida speranza, ma soprattutto ambizione. L'ambizione rende ciechi, aperti alle minacce più oscure, conduce verso mete ignote, dove la mente può perdersi.

– Continuo a non capire – farfugliai, gli occhi sgranati.

Ecate annuì pacatamente e il fumo si arricciò tra i suoi capelli scuri.

– Non devi capire – bisbigliò, come parlasse a se stessa – Non lo farai mai... I mondi in cui ti stai per inoltrare... – schioccò la lingua – non sono fatti per essere compresi.

Fuori pioveva ancora. Una pioggia lieve, composta da una nebbia di fini particelle d'acqua, che sbiadiva la città in un grigiore spento.

Mi si era stretto il cuore nel mollare Paul da solo con una casa allagata e fuggire dalla finestra a sera inoltrata (poiché è a questo che servono le grondaie), soprattutto perché il mio patrigno, per i cinque minuti successivi alla sparizione di Ecate in una nuvola di fumo, aveva continuato a picchiare il pugno contro la porta della mia camera chiusa a chiave, supplicandomi di lasciarlo entrare. Che mi scusava. Che andava tutto bene.

Spoiler: non andava tutto bene. Benché provassi a convincermene, mentre mi aggiustavo lo zaino sulle spalle e avanzavo tra le strade di New York illuminate dagli aloni tremolanti dei lampioni, una parte di me era fermamente convinta che, ancora una volta, facesse tutto schifo.

I soldi che tenevo sotto al materasso si erano miracolosamente salvati dall'inondazione e, tramite quelli, ero piuttosto convinto di poter ottenere un passaggio sicuro per Long Island senza essere ucciso da qualche mostro notturno vagante, sebbene la presenza famigliare di Vortice dietro l'orecchio mi ricordava che la salvezza non era mai esistita davvero.

Sto andando al Campo. Le dita mi tremavano mentre digitavo quel messaggio per Annabeth, le labbra blu per il freddo. Mi dispiace.

Soffocai un singhiozzo e mi feci scivolare il cellulare nella tasca dei jeans.

I fari delle macchine creavano coni di luce eterea nella notte livida, allungando le ombre in sagome grottesche.

Avevo la netta sensazione che se avessi osato guardarmi indietro, sarei scoppiato a piangere. Non capivo neanche cosa mi stesse effettivamente succedendo. Il mio animo eroico sembrava essersi liquefatto sotto la cascata di tenebre e sventure.

Riuscivo soltanto a pensare a quanto avessi sonno e volessi soltanto crollare a terra svenuto. Immacolato oblio.

Era così che aveva detto Ecate, giusto? Oppure l'aveva solo lasciato supporre?

C'entrava qualcosa con la pazzia, qualche cosa a proposito dei deliri di un pazzo. Ma non ero sicuro di aver capito. Le stesse parole degli dei spesso erano facilmente reinterpretabili a seconda di chi le ascoltava.

Mi mordicchiai un labbro, incerto su cosa mi aspettasse, su cosa ci si aspettasse da me. Un'altra profezia, è sicuro, non avrei potuto sopportarla; se avessi avuto Rachel a portata di mano, le avrei appicciato senza esitare un pezzo di scotch sulle labbra per impedirle di vomitare una qualsivoglia previsione criptica sul futuro...

Eppure Ecate non aveva parlato di profezie, mi ricordai con un brivido.

Impresa, sì, ma non profezia.

Sbadigliando, mi domandai come potessero, questi due concetti, essere tanto distanti. Da quanto mi suggeriva l'esperienza, l'una comportava l'altra. Oppure no?

Troppe domande e così poche risposte... Praticamente il riassunto della mia vita.

Il lampo dorato di un taxi mi fece alzare lo sguardo di scatto, distogliendomi da quei pensieri confusi. Per poco non scivolai sull'asfalto bagnato, mentre mi sbracciavo per attirare l'attenzione dell'autista, accecato dal bagliore dei fanali.

La vettura frenò di botto per non investirmi, affiancandosi al marciapiede. Il finestrino, striato da gocce di pioggia, si abbassò con un cigolio, mentre io mi avvicinavo con lo sciaguattare delle scarpe fradice.

Il volto emaciato del tassista mi regalò un sorriso sghembo attraverso un reticolo di rughe sottili. Aveva i capelli brizzolati, neri con venature argentee, e gli occhi scuri e gentili del vecchietto di città. Sembrava una calcolatrice luminescente... Non sapevo perché una calcolatrice luminescente... Ultimamente avevo troppi pensieri assurdi per la testa.

– Ragazzo – gracchiò l'uomo – Ho già dei passeggeri ed è piuttosto urgente – mi informò, indicando con il pollice dietro di sé, dove mi accorsi solo in quel momento delle figure indefinite che si muovevano nella penombra dei sedili posteriori – Dove devi andare?

Deglutii.

– Long Island – risposi in un soffio, tornando a guardarlo, poi gli snocciolai l'indirizzo della fattoria che i mortali legavano al Campo Mezzosangue.

In risposta, l'uomo aggrottò la fronte, e le ombre sul suo viso si inspessirono.

– Strano – borbottò, il tono talmente basso e pensieroso da confondersi con il brontolio del motore acceso. Increspò le labbra in una smorfia confusa, per poi voltare la testa in direzione del retro della macchina – Ehi, voi – esclamò mentre io sussultavo (non credo lui abbia notato i riccioli di pioggia che si arrotolarono in aria attorno al mio viso) – Conoscete questo ragazzo? Dovete andare nello stesso posto.

Le sagome, attraverso il buio del finestrino, si agitarono, animate da un tetro mormorio.

Un secondo dopo, con mia sorpresa, lo sportello posteriore si spalancò con uno schiocco e un volto famigliare, incorniciato da morbidi riccioli biondi, si affacciò dall'abitacolo.

Alla luce fievole e incorporea dei lampioni, Will Solace sembrava invecchiato di dieci anni; impressione aggravata dall'espressione di rigida serietà che gli raffreddava lo sguardo celeste.
Un lampo d'incredulità lo attraversò e la bocca gli si spalancò appena mentre mi scrutava, come stesse guardando un fantasma.

– Percy? – il mio nome gli uscì dalle labbra in un sussurro.

Battei le palpebre, parzialmente sconvolto.

– Will? – feci a mia volta, stranito.

Da quanto riuscissi a ricordare, il figlio di Apollo era al Campo, l'ultima volta che ci ero stato, due settimane prima. Quel posto era praticamente la sua casa: non riuscivo a immaginare una ragione meno imminente di una battaglia per il bene del mondo per cui quel semidio dovesse uscire da quel sicuro confine.

Un gemito infantile proveniente da dietro di lui interruppe bruscamente le mie vaneggianti teorie.

Il ragazzo si voltò di scatto verso chiunque gli sedesse accanto, schioccando la lingua.

– Va tutto bene – bisbigliò – Adesso ripartiamo...

– Non c'è più tempo – sibilò una terza voce, appartenente a qualcuno probabilmente seduto vicino all'altro finestrino – Sta male, Will.

Sobbalzai, sporgendomi in avanti e stringendo gli occhi per scrutare attraverso il velo di oscurità che avvolgeva quelle figure.

– Nico? – chiesi, esitante.

– La tua perspicacia mi commuove, Percy – replicò amaramente il figlio di Ade, ammontato di tenebre.

Un altro lamento sofferente eruppe nel posto centrale tra i due ragazzi, costringendomi a fare un passo indietro, allarmato.

Will tornò a guardarmi, gli occhi lampeggianti di inquietudine.

– Sali. Non posso spiegarti adesso – disse, il tono afflitto ma deciso di un medico intento a compiere un delicato intervento. Si rivolse all'autista – Mi scusi, lui può sedersi davanti?

L'uomo mi scoccò un'occhiata, poi tese un angolo della bocca, un sorriso che apparve inquietante nel semibuio.

– Vieni – mi invitò con un cenno.

Con la testa che vibrava di punti interrogativi, feci un giro della macchina, calpestando con uno sciaguattamento delle basse pozzanghere di melma. Aprii lo sportello e mi infilai sullo sgualcito sedile di pelle sintetica, sentendolo stridere sotto i vestiti bagnati.

L'abitacolo odorava di pungente deodorante per ambienti alla vaniglia, mischiato ad un persistente profumo di pioggia.

Mi irrigidii mentre il tassista rimetteva in moto, lo sguardo fisso sulla strada illuminata dai fari e attraversata da gocce sottili.

Dietro di me, Will iniziò a mormorare indefinite parole di conforto, mentre altri sinistri singhiozzi strozzati mi scivolavano lungo la schiena come gelidi brividi.

   
 
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