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Autore: Ethan Atlas    07/04/2021    0 recensioni
[Post 11x10, spoiler 10x01]
Il Dottor Jack Hodgins, sconfitto e disperato, riflette su cosa fare di ciò che rimane della sua vita.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Jack Hodgins
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
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Ossequi a voi, cari lettori! Io sono Ethan, e come mi piace dire, sono uno scrittore a tempo perso e un perditempo a tempo pieno. Sono un fan di Bones fin da quando ero un piccolo, sadico bambino, ma recentemente ho ricominciato a guardarla con l’obiettivo di vederla tutta, e come era prevedibile il mio eterno amore per Hodgins e Angela si è riacceso all’istante. Una volta arrivato alla fatidica stagione 11, fra il mio stupore e la comprensibile depressione del povero Jack non ho potuto fare a meno di pensare a questa scena, che mi sembra anche molto coerente con i suoi problemi di gestione della rabbia.

Avverto chi non è ancora arrivato a scoprire il motivo del tracollo emotivo del nostro amico (11x10) di non proseguire con la lettura, e ci tengo anche a precisare che c’è anche uno spoiler enorme su Lance Sweets (10x01). Se lo sapete lo sapete, altrimenti fermatevi qui, io vi ho avvertiti.

Inoltre, dato che Hodgins è un chimico e io chiaramente no, tutti i bellissimi termini scientifici che ho inserito provengono quasi esclusivamente da Google e dalle poche conoscenze che ancora conservo dal liceo, perciò se ci sono dei chimici all’ascolto vi chiedo umilmente scusa, non me ne vogliate. Per il resto questa è una storia molto triste e probabilmente un possibile trigger emotivo per chi ha problemi di autolesionismo. Ovviamente questa è solo la mia visione di scrittore, non sono assolutamente un professionista, perciò consideratela solo come ciò che è: una storia di fantasia.

Detto questo, buona lettura e ci rivediamo alla prossima!

-Ethan

 

The scientist in the shower.

 

L’acqua calda gli scorreva addosso, scendendo scrosciante dal soffione della doccia e appannando il vetro, la finestra e lo specchio. Jack Hodgins la sentiva picchiettargli addosso, avvertiva il rumore e il calore e il vapore nell’aria pregna d’umidità che respirava, ed era perfettamente conscio del microscopico strato di calcare e sali minerali che si stavano depositando su tutte le superfici fredde della stanza, sulle quali quel vapore poteva ricondensare. Sentiva la pressione dello smalto inorganico vetroso sulla superficie delle mattonelle, lisce e calde contro la schiena, e il fastidio dei suoi riccioli fradici appiccicati alla fronte.

Jack sentiva tutto sulla parte superiore del suo corpo, ma passato l’osso sacro tutte le sensazioni scomparivano nel nulla.

Osservò con odio e frustrazione la sedia a rotelle abbandonata davanti all’entrata della doccia e le sue gambe, appoggiate inerti in una strana posizione contorta, ridicolmente magre per l’atrofia muscolare dovuta alla paralisi. Di solito Angela lo aiutava, quando voleva lavarsi. Faceva la doccia con lui oppure lo aiutava a sedersi sul gradino di muratura e a tornare sulla sedia a rotelle una volta finito.

Jack ancora non aveva capito come riuscire a farlo da solo: riusciva a spostarsi dalla sedia al gradino, ma poi aveva comunque bisogno di Angela per mettere la sedia fuori dalla doccia. Non essere più autosufficiente era forse la cosa che più lo faceva infuriare. Il fatto poi che la sua mente brillante, tanto acculturata e ingegnosa quando si trattava di escogitare esperimenti in laboratorio, non riusciva nemmeno a concepire un modo per permettergli di lavarsi senza aver bisogno di aiuto non faceva che aumentare il suo astio verso sé stesso e la sua condizione.

Ma questa volta, seduto a terra, in diagonale sul pavimento della doccia e con il suo rasoio a mano libera stretto fra le dita della mano sinistra, così forte da farsi sbiancare le nocche, aveva fatto tutto da solo. Ne andava quasi orgoglioso, in un qualche strano e sadico modo. Si lasciò persino scappare uno sbuffo divertito mentre si immaginava a dirlo ad Angela. “Sai Angie, sono entrato nella doccia da solo oggi. Non ti ho chiesto aiuto perché pensavo di tagliarmi i polsi, ma hey, è sempre un progresso no?”

Scosse la testa. Era riuscito a fare qualcosa da solo, ma non poteva dirlo ad Angela. Era come se l’universo gli ridesse in faccia, sbeffeggiandolo.

Allentò un po’ la presa sul rasoio, e i suoi polpastrelli lo ringraziarono. Osservò lo strumento, con la sua solita immortale curiosità e con la scrupolosità che la carriera di scienziato gli aveva impartito. Il manico di ebano era sigillato e lucidato così bene che il legno nero non cambiava minimamente colore da bagnato, e la lama di acciaio di Damasco era eternamente segnata dalle striature del processo di ripiegatura del metallo, caratteristico della forgiatura giapponese. La sua mente formulò all’istante un’immagine incredibilmente precisa del profilo spettroscopico che avrebbe ottenuto se avesse effettuato una spettroscopia di massa su quell’acciaio, di tutti i dati che avrebbe ricavato analizzandolo se quella lama affilata fosse stata l’arma di uno dei loro soliti machiavellici delitti.

Aveva acquistato quel rasoio per una cifra ridicola da un vecchio artigiano di katane di una cittadina poco a nord di Nagoya, quando da ragazzo, subito dopo il college, era andato in Giappone coi suoi amici. Ricordava ancora le loro facce esterrefatte quando, col suo solito sorriso sornione, dopo quasi tre ore di trattative aveva consegnato a quel vecchio maestro con la barbetta da capra una busta ingiallita gonfia di Yen fino a scoppiare in cambio di una misera scatoletta di ottone e mogano laccato. Trovò ironico che un oggetto con una storia così curiosa, così famoso nella sua compagnia di amici, alla fine lo avrebbe ucciso. Chissà dov’era finito quell’artigiano, o se era ancora vivo. Chissà se avrebbe mai saputo di aver venduto a quel ragazzino brillante e cocciuto lo strumento con cui un giorno si sarebbe tolto la vita.

Si fissò i polsi. Numerose vene, morbide e verdastre, sporgevano gonfie sotto la pelle arrossata dall’acqua calda, ma era sicuro che quelle fossero vene e non arterie. Tagliare quelle gli avrebbe solo procurato una bella gita al pronto soccorso e un paio di cicatrici.

Gli sfuggì un altro sbuffo al pensiero delle sue tre lauree e dei suoi tre dottorati, ora completamente inutili. Se avesse studiato medicina come gli aveva detto suo padre ora avrebbe saputo dove tagliare. “Se avessi studiato medicina ora non sarei qui.” si disse, ripensando a quel cadavere pieno di vermi in quell’aiuola al lato della strada, alle urla di Aubrey quando aveva visto i fili della bomba.

La Brennan non avrebbe avuto dubbi. Ridacchiò di nuovo immaginando cosa avrebbe risposto se le avesse chiesto aiuto, “…solo a scopo puramente scientifico, ovviamente, Dottoressa.”. Probabilmente gli sarebbe bastato assicurarle che era una solo un’innocente curiosità personale per convincerla a spiegargli nel dettaglio dove si trovava l’arteria radiale e come raggiungerla. Cam, invece, per una domanda simile lo avrebbe come minimo fatto internare nel miglior reparto psichiatrico del paese.

Si chiese che cosa sarebbe stato peggio per Angela, organizzargli il funerale o sopportarlo sapendo che aveva provato a suicidarsi e non ci era riuscito. Si sentì uno stronzo al pensiero che l’avrebbe costretta a pulire il suo sangue dal pavimento.

Forse i suoi dottorati non erano del tutto inutili, dopotutto. Scartò quasi all’istante l’idea di farsi pungere da un insetto: la mosca tse-tse causava una raccapricciante febbre emorragica, il calabrone giapponese e il ragno violino portavano a una morte lenta e dolorosa per necrosi tissutale e la vedova nera aveva un veleno neurotossico che causava orrendi spasmi simili a quelli del tetano.

Anche buona parte delle piante velenose a cui riusciva a pensare, come l’aconito o l’oleandro, causavano svariati, dolorosi minuti di vomito e crampi prima di portare alla morte, ma poteva sempre puntare su veleni alcaloidi come la cicuta o le bacche di tasso, che lo avrebbero fatto semplicemente addormentare.

Seneca si era suicidato bevendo cicuta. “Seneca si è anche tagliato le vene.” pensò, distrattamente. Si ricordò del suo professore di latino al college, mentre spiegava alla classe orripilata come quel povero vecchio bastardo si fosse avvelenato perché dalle sue vene rattrappite non usciva abbastanza sangue e di come il veleno fosse comunque sgorgato fuori prima di poter fare effetto… e di Isabelle Gagnòn, che era corsa fuori dalla classe in preda ai conati vomito. Ripensò al bronzo del Seneca Morente, al Louvre di Parigi, quando quella stessa storia l’aveva raccontata ridendo ad Angela.

Seneca gli ricordò Alan, un ragazzino tetraplegico di Seattle conosciuto la settimana prima sulla chat del sito di un gruppo di sostegno, che studiava letteratura antica e filosofia ad Harvard. Gli sfuggì un’altra risata al pensiero che se non avesse avuto l’uso delle braccia non avrebbe nemmeno potuto uccidersi senza dover chiedere aiuto. “Ma quanto sono fortunato…” pensò, amaramente ironico.

Tornò a guardarsi gli avambracci, la pelle chiara e morbida, umida d’acqua. I suoi polpastrelli si stavano raggrinzendo per l’umidità, le dita ancora strette attorno al manico del rasoio.

Si chiese che cosa avrebbe detto Sweets se l’avesse visto così, che cosa avrebbe pensato dei suoi istinti suicidi e del motivo recondito della sua apparente incapacità di portarli a termine. Forse non voleva davvero farlo o forse non ne era capace. La verità era che lui non ci aveva mai capito un emerito cazzo di psicologia, e a dir la verità non capiva nemmeno più nulla della sua stessa mente. Sweets avrebbe saputo esattamente cosa dirgli, come aiutarlo a districare quella massa incolta senza capo né coda che era diventato il suo cervello…  avrebbe saputo come fargli cambiare idea. Quel ragazzino sapeva sempre tutto di queste cose. Jack avrebbe dato quasi qualsiasi cosa per poter andare a parlargli, nel suo ordinato e asettico ufficio all’FBI, ma non poteva. Sweets era morto.

Gli balenò nella mente l’immagine del suo corpo, giovane e snello, sdraiato nudo all’interno di un sacco per cadaveri sul tavolo di acciaio inossidabile della sala autopsie del Jeffersonian. Ricordava ancora perfettamente il suo viso delicato mentre Cam eseguiva l’autopsia, perché per tutto il tempo che ci era voluto lui era rimasto lì in piedi, come paralizzato, a fissare i suoi occhi scuri spalancati in quell’etereo pallore che solo la morte sa dare a un viso umano. Ricordava l’incisione a Y che l’autopsia aveva lasciato per sempre impressa sul suo torace, le sue labbra spaccate e il rivolo di nero sangue secco che gli scendeva dall’angolo della bocca. Ricordava i singhiozzi disperati di Daisy e gli occhi colmi di lacrime di Booth. Quella era stata l’unica volta che aveva visto Booth piangere. Jack lo ricordava perfettamente, nonostante tutti i suoi sforzi per dimenticarlo.

È così che finirò io? Sdraiato nudo su un tavolo d’acciaio? Angela sarà davvero perseguitata dall’immagine della faccia pallida del mio cadavere per il resto della sua vita?”

Il suo stomaco sprofondò sottoterra al ricordo del rumore straziante e insopportabile del pianto di Daisy, e il suo cuore mancò un battito quando per un orrendo istante immaginò Angela piangere allo stesso modo.

Il volto senza vita di Sweets venne sostituito da quello di Angela, vivo e sorridente. I lineamenti graziosi e la pelle vagamente olivastra, i suoi capelli morbidi mossi dal vento in cima alla Torre Eiffel, i suoi occhi scuri pieni di meraviglia nella calda penombra della cattedrale di Notre Dame, i meravigliosi, coloratissimi dipinti che spargeva ovunque, a casa loro, in quella di Booth e Brennan, nel suo ufficio al Jeffersonian.

All’improvviso realizzò che da circa un anno i dipinti di Angela erano quasi tutti in bianco e nero. Una lacrima colpevole andò a mischiarsi all’acqua calda sulla sua guancia mentre si rendeva conto che era colpa sua.

Ripensò alle foto che le aveva fatto sulla Quai de Montebello, il lungofiume sulla Senna nel quartiere della Sorbonne, la maestosa cattedrale come sfondo, con un fiore d’oleandro bianco fra i capelli e quel vestito giallo canarino che lo faceva impazzire, mentre lei gli spiegava ridendo come usare la sua macchina fotografica e lui riusciva solo a pensare che era bella da togliere il fiato.

Ripensò alla prima volta che aveva preso in braccio Michael Vincent, i suoi occhioni brillanti che lo fissavano da sopra le sue adorabili guanciotte paffute. Pensò a quel bambino, quel povero, meraviglioso, incredibile bambino, il suo bambino, che sarebbe rimasto senza un padre.

All’improvviso scagliò lontano il rasoio, come se scottasse, tornando in sé. “Ma che cazzo sto facendo?”

Si allungò verso l’alto per chiudere l’acqua e si trascinò fuori dalla doccia, spingendo di lato la sedia a rotelle terrorizzato e nauseato dal pensiero di essere andato così vicino al togliersi la vita. Prese il rasoio e lo scrollò un po’ per asciugarlo, dopodiché lo ripose nella vecchia scatoletta di mogano e lo ficcò bene in fondo al suo cassetto, sotto il lavandino.

Si rese conto con una punta d’orgoglio di essere arrivato dall’altra parte del bagno tutto da solo, e fu quasi sollevato di ricordare che non aveva preso un asciugamano con sé dato che gli dava un ottimo pretesto per chiamare Angela.

-Angie! Angie puoi venire un attimo?- chiamò a gran voce. Sentì dei rumori ovattati e uno scalpiccio agitato.

-Jack! Jack, tesoro, dove sei?- chiamò spaventata, non trovandolo in camera.

-Bagno!- Fece appena in tempo a dirlo che la porta scorrevole si spalancò.

-Oddio tesoro, stai bene? Sei caduto? Cos’è successo?- Si inginocchiò di fronte a lui, coperta di vernice dalla testa ai piedi, un lungo pennello ancora stretto nella mano destra, e lo stritolò in un abbraccio non appena ebbe constatato che respirava ancora.

-Nulla, sto bene, io… Io non arrivo agli asciugamani.- mormorò.

-Tesoro hai… Hai fatto la doccia da solo?- gli chiese, estasiata.

-Beh, ci ho provato, ma poteva andare meglio…- sbuffò, mentre lei lo avvolgeva in un morbido asciugamano bianco.

-Oh no, non dire così, sei stato fantastico tesoro! Ci riuscirai vedrai, sono così orgogliosa di te.- gli disse, stringendolo e cullandolo. -Sei stato bravissimo…-

Lui si abbandonò contro il suo petto, bagnando la sua camicia grigiastra con i suoi riccioli fradici e beandosi del suo profumo dolce, mentre le mani di Angela inavvertitamente gli sporcavano di nuovo i capelli di vernice che, dopo mesi di grigio, era finalmente tornata di un bellissimo giallo limone.

   
 
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