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Autore: time_wings    08/04/2021    5 recensioni
[AtsuHina]
Per una serie di sfortunati eventi, Atsumu e Hinata si ritrovano nello studio di una psicologa, per fare terapia di coppia.
Il problema?
Non sono una coppia, a dire il vero a stento si conoscono.
Genere: Comico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Atsumu Miya, Keiji Akaashi, Koutaro Bokuto, Osamu Miya, Shouyou Hinata
Note: What if? | Avvertimenti: Spoiler!
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Note false: non è propriamente una AU, ma la partita tra lnarizaki e Karasuno non è mai avvenuta, c'è un altro cambiamento, anche, che qui non posso dire. Rating giallo solo per i pensieri impuri di Atsumu. Gli spoiler sono sul time-skip, fino al volume credo 43 (non ditemi chi ha vinto i nazionali, mi arrabbio). Sono 9001 parole o giù di lì. Brace yourselves, alto contenuto di stupidità.




Modi tortuosi per raggiungere una collina




Atsumu Miya era uno che sbancava.
Vinceva a mani basse al gioco della vita come se fosse nato col talento iniettato al posto del sangue e i pannolini a forma di fortuna.
Il segreto per la vittoria stava nell’atteggiamento. Un pizzico di rilassatezza, una ventata di disinvoltura, frasi ambigue e vagamenti seducenti messe al posto giusto e l’universo faceva il resto: ciò che si allontanava poteva far buon viaggio, ciò che cadeva ai suoi piedi lo raccoglieva e ci costruiva un impero.
Tutto questo impegnarsi per piacere agli altri non portava a nulla se non all’autodistruzione. Ne conseguiva con un’evidenza ridicola da puntualizzare che l’unico modo per vincere al gioco della vita era ignorare gli invidiosi e andare avanti a testa alta.
L’importante, per lo meno, era crederci fino in fondo.
Quando uno sconosciuto superò l’uscio del bar, Atsumu gli lanciò un’occhiata veloce e mandò giù uno degli ultimi sorsi della sua birra, le sopracciglia aggrottate mentre deglutiva come se invece che un essere umano avesse visto una stella con le gambe. “Chi è quello?” domandò accigliato al ragazzo accanto a lui.
Bokuto si voltò di scatto. Dava le spalle alla porta, ma non sembrava aver avuto problemi a ruotare il collo fin quasi a spezzarselo.
Fatti suoi, in fin dei conti.
“Chi?”
“Quello con…”
Bokuto ignorò i chiarimenti di Atsumu perché fu troppo impegnato a saltare giù dallo sgabello come se avesse visto un dio in persona. “Hinata Shouyoooou!”
Il che rispondeva alla domanda.
Hinata Shouyoooou si guardò attorno smarrito per qualche secondo, poi incontrò gli occhi di Bokuto e si illuminò più di… be’, più di prima. Saltò verso di loro e gridò a sua volta il nome di Bokuto come se avessero messo in piedi una specie di rituale di riconoscimento anti-cloni o soltanto molto stupido.
Assordanti.
Atsumu lanciò un’occhiata ad Akaashi. Aveva i gomiti appoggiati al bancone e salutava questo Shouyou con un cenno del capo meno invadente dell’accoglienza di Bokuto ma stranamente altrettanto entusiasta.
Restava il fatto che Bokuto non avesse smesso un attimo di parlare.
“Sono passati due anni! Ti rendi conto?” appoggiò una mano sulla testa di Hinata e gli scompigliò i capelli. “Due anni!”
Atsumu prese un altro sorso dalla sua bottiglia e calcolò che almeno un paio di minuti di quella conversazione sarebbero stati riempiti dalle chiacchiere di aggiornamento tipiche di chi non si vede da un po’. (Non un po’, in realtà, Bokuto l’aveva chiarito più di una volta. Ben due anni!)
Ma Atsumu fece male i suoi calcoli, perché quando abbassò la bottiglia e staccò gli occhi dalle travi a vista del soffitto, si trovò la testa di Hinata davanti agli occhi. Si stava inchinando. Si allontanò col busto e lo guardò raddrizzarsi e allacciare lo sguardo al suo, saldo.
Ora, quello sì che fu strano.
Quello era assoluto e profondissimo pericolo, più di qualunque dose sicura che Atsumu avesse mai emanato per divertimento o che avesse mai sfiorato per amor di rischio.
Rimase a fissarlo, non perché lo trovasse gradevole, interessante, curioso, ma perché non poteva far altro. Finché Shouyou lo guardava, lui era costretto a stare ai suoi modi e ai suoi tempi. Le pagliuzze dorate degli occhi si mescolavano al castano, stringhe di iride si intrecciavano in ellissi strette che avevano la pupilla come unico punto d’arrivo. La luce del bar gli illuminava la spolverata di lentiggini sulle guance, fondeva il colore acceso delle sopracciglia in una sfumatura che non sapeva prendere posizione tra il miele e il rame.
“Hinata Shouyou” si presentò come se non l’avesse appena trafitto.
Atsumu deglutì e si appellò agli anni di automatismi nelle presentazioni per alzare un angolo della bocca e apparire spigliato. “Miya Atsumu, il migliore dei due.”
Quella faceva sempre ridere o incuriosire chiunque.
Hinata non rise e se si incuriosì non lo invitò a spiegarsi.
“Per fortuna vi siete presentati da soli!” si intromise Bokuto, allegro come solo chi sta per sganciare una bomba a mano sa essere. “Non ti sembra che abbiano problemi, Akaashi?”
Atsumu conosceva Bokuto. Lo conosceva bene. Così bene da avere problemi a distinguere nel suo tono la furbizia diluita all’entusiasmo, perché quella era una cosa che lui semplicemente non faceva.
Akaashi incrociò le braccia e annuì gravemente con l’espressione di uno che di problemi ne aveva visti tanti e da più angolature.
“Che significa?”
Era stato Hinata a parlare. Il tono leggero e il sopracciglio alzato tipico di una conversazione personalmente incomprensibile, più che universalmente assurda.
Che genere di problemi? Atsumu non poteva avere problemi con uno che si era appena presentato, per quanto avesse attirato la sua attenzione sin dal primo istante. Forse lo scambio di sguardi prolungato poteva essere considerato un problema, ma i toni del discorso non sembravano andare in quella direzione. Direzione a cui Atsumu non era interessato, per la cronaca. Innamorarsi? No, non aveva tempo, era troppo occupato a sbancare. 
Bokuto scambiò un’occhiata incerta con Akaashi. Qualunque linguaggio segreto e alieno stessero parlando, Atsumu non lo capiva. Non l’aveva mai capito e probabilmente non l’avrebbe mai fatto.
Contenti loro.
“S-sì, hanno proprio problemi, annegano, è una vera tragedia” continuò Bokuto, ingnorando le domande. Se la prima volta era riuscito a sembrare sincero, in quel caso l’esitazione gli costò la facciata sfrontata che aveva miseramente messo in piedi. La verità era che sulla sua faccia campeggiava un’unica grande scritta a neon: non so assolutamente cosa dire. Atsumu ammirò la persistenza, però. “Forse dovreste… sì, non credete che…”
Bokuto fissò un punto davanti a loro, poi sospirò e si voltò ancora una volta verso Akaashi, il viso accartocciato come se qualcuno l’avesse appena costretto a rinunciare al suo gusto di gelato preferito.
“Non ce la faccio, Akaashi” dichiarò, fermo ma anche un po’ lamentoso. Poi fronteggiò Atsumu, Hinata e la loro confusione con rinnovata decisione. “Ci serve una mano.”

***

Atsumu Miya era un perdente, dopotutto.
Era seduto su una sedia dall’imbottitura in cotone verde petrolio. I braccioli di legno erano laccati di non so che sostanza lucida e riflettevano la luce abbagliante della lampada da soffitto rivestita di viola. Le mura erano dipinte di un colore chiaro, nudo, scheggiato in alcuni punti come se qualcuno ci avesse tirato contro una di quelle sedie. Nella fila di fronte alla sua, in effetti, ce n’era una in meno. Si immaginò infuriato aprire la porta rossa che dava nell’ufficio della dottoressa, afferrare una di quelle sedie dal bracciolo laccato e scaraventarla gridando insulti e ingiurie. Quello sì che gli pareva terapeutico.
Atsumu teneva le mani giunte in grembo e saltuariamente si guardava accanto, di sottecchi, lanciando occhiate incerte al ragazzo accanto a lui, che al contrario lo ignorava.
Aveva lo sguardo fisso davanti a sé, attento come se da un momento all’altro fosse potuto spuntare uno scoiattolo da afferrare al volo.
Forse semplicemente non amava attendere.
Questa era la prima e unica cosa che Atsumu Miya aveva in comune con Hinata Shouyou.
La porta rossa si aprì lentamente, esitante, timorosa di qualche tipo di vento che potesse riversare fuori troppi segreti. Una donna si fece strada all’esterno con un sopracciglio alzato. Aveva l’espressione seccata di chi lì non avrebbe voluto mai mettere piede, di chi non ci aveva mai neanche pensato, di chi, guardando l’incredibile disegno che formava la trama del destino, si sarebbe stupito più a scoprire quell’evento che la sua stessa morte.
Atsumu Miya si rese conto che quella era la prima e unica cosa che aveva in comune con quella donna e che eguagliava anche il numero di quelle che aveva in comune con Hinata Shouyou.
Quella che stavano facendo era una completa follia, ma qualcosa nel suo stomaco ribollì – aspettativa? Divertimento? Esaltazione da crimine riuscito?
Pochi attimi dopo un uomo seguì la strada della donna. Aveva gli occhi gonfi e le sopracciglia aggrottate. Atsumu pensò che avesse pianto fino a dimenticare anche il suo nome o che avesse bevuto fino a fare la stessa fine.
L’uomo lo considerò brevemente con lo sguardo, occhi liquidi e più facili da leggere, quasi aperti, oscuri in maniera sfacciata. Lanciò uno sguardo anche a Hinata e arricciò il labbro superiore. Cos’era? Disprezzo? Solidarietà? Atsumu non ebbe il tempo di scoprirlo.
La donna che spalancò la porta a quel punto si appoggiò allo stipite, un tacco oltre la soglia e uno che le sfiorava il polpaccio. Una gonna viola le cadeva mollemente lungo i fianchi, il tessuto raso lasciava intravedere l’ombra delle gambe slanciate. Lanciò un’occhiata alla coppia che usciva in silenzio dal suo studio, poi rivolse la sua attenzione ai due ragazzi di fronte a lei, inclinando il viso su un lato. Tra Atsumu e Hinata c’era una sedia non occupata, uno spazio vuoto che lei credeva di dover colmare.
“Accomodatevi” li invitò con un gesto della mano, gli occhi scuri avidi di lettura. Tre bracciali d’acciaio tintinnarono sui suoi polsi sottili.
Sembrava una sensitiva, più che altro.
Atsumu si alzò per primo e si spazzolò i vestiti senza alcuna ragione. Constatò brevemente i palmi inumiditi da qualcosa che aveva una consistenza simile alla soggezione.
Cazzate, pensò d’istinto.
Hinata gli lanciò un’occhiata fugace, poi lo imitò e si mise in piedi. Sorrise alla donna a metà tra il cordiale e il luminoso.
Sorrise alla terapista.
Non alla donna.
Alla terapista da cui erano venuti a fare terapia di coppia.
C’era solo un piccolo, insignificante problema che Atsumu era certo avrebbero potuto trascurare: di Hinata Shouyou conosceva solo il nome e i connotati.
“Salve” salutò Atsumu, superando la soglia della stanza come se invece che affittarla per un’ora se ne fosse appropriato, il tono al limite tra la beffa e il banale buon umore.
La sua specialità.
 
Le presentazioni erano state piuttosto formali, quasi scolastiche. La dottoressa li aveva messi al corrente della durata della seduta e le eccezioni al segreto professionale. Parlava con voce calma, musicale, sembrava poggiarsi sulle parole quel tanto che bastava per sussurrarle e poi saltare via. Una coda di cavallo scura le ricadeva mollemente sulla schiena. Una lampada alle spalle del divano foderato di verde su cui si erano accomodati gettava luci calde sulle mura e riccioli d’ombra sull’areca in un angolo.
Tutto, in quella stanza, sembrava mettere sonno.
“Se siete pronti…” iniziò lei, la tranquillità nel tono era un ritmo cadenzato e sommesso “potremmo iniziare parlando del perché siete qui.”
Atsumu ingoiò uno di quei sorrisi famosi per tradire i bugiardi.
Erano lì perché Bokuto, un giorno malaugurato, era finito il cielo sapeva come in un sexy shop. Incuriosito dalla vasta… scelta, era salito fino al quarto piano del negozio ed era entrato nella sezione dedicata al BDSM. Se all’inizio aveva creduto di trovarsi su una scena di un crimine non ancora commesso, dopo essersi avvicinato al bancone aveva capito come andavano davvero le cose in quel mondo pazzo e interessante che chiamavano Terra. Volantini e opuscoli inondavano il banco, pubblicizzando love hotel, SPA e terapie di coppia.
“Terapie di coppia?” aveva domandato a nessuno in particolare.
Un commesso era spuntato dal basso con un salto e gli aveva sorriso cordiale. “Proprio così, possiamo anche prenotarne una per te, se vuoi.”
E Bokuto, dannato Bokuto che sapeva come girava il mondo solo se questo era un pallone, aveva creduto che ‘terapia di coppia’ fosse un nome cordiale per un’esperienza magica e rilassante e aveva pensato che fosse anche l’unica cosa su quel piano che Akaashi avrebbe mai accettato di fare con lui.
(Si sbagliava, ma questa è un’altra storia e ha luogo esattamente tre settimane dopo questo sfortunato incidente.)
“Sì, volentieri!” aveva risposto entusiasta Bokuto.
“Se preferisci pagare la seduta in anticipo, possiamo…”
Un regalo era un regalo, dopotutto. “Sì, assolutamente!”
Poi Akaashi gli aveva spiegato la verità sulle terapie di coppia.
E quello era l’unico e il solo motivo per cui Hinata e Atsumu erano lì: fingere una relazione per non far perdere a Bokuto i soldi spesi per una seduta a cui si rifiutava categoricamente di andare. E anche perché Akaashi aveva decretato che erano gli unici amici che avevano che erano abbastanza stupidi da accettare, cosa su cui Atsumu aveva concordato con orgoglio.
“Siamo qui perché…” Hinata lanciò un’occhiata ad Atsumu, in cerca di un’intesa che non avevano e che avrebbero dovuto fingere di aver rotto.
“Perché…”
La lancetta dei minuti del grosso orologio bianco appeso alla parete scattò. Erano lì da dieci minuti. Già dieci minuti eppure solo dieci minuti.
“Perché noi…”
Atsumu si voltò a dare una rapida occhiata a Hinata. Lasciò scorrere lo sguardo sulla maglietta blu elettrico, il contrasto che faceva con le tende gialle alle sue spalle, la maniera con cui risaltava sulla pelle abbronzata.
Abbronzata.
Una scarica di soddisfazione gli inondò le vene, il compiacimento tipico di chi non sa nulla sulla navigazione ma riesce a prendere buon vento comunque, la gioia della furbizia.
“Perché lui è scappato” lo accusò Atsumu e Hinata sgranò gli occhi sorpreso perché evidentemente era più stupido di lui.
Atsumu gli lanciò un’occhiataccia e sperò che capisse.
Shouyou capì.
“Ti va di spiegare dove sei scappato?” c’era dubbio, nel tono della donna, quando pronunciò l’ultima parola, un’assenza di schieramento quasi confortante.
“Sono andato in Brasile” spiegò Hinata, alzando gli occhi al soffitto e rigirandosi le parole in testa in un tentativo un po’ troppo eloquente di far combaciare la realtà con la sua presunta relazione con Atsumu. “Sono tornato due settimane fa, dopo due anni lontano dal Giappone.”
E poi ben due paia d’occhi scuri furono su Hinata, incorniciati dalle fronti aggrottate di chi sentiva quella notizia per la prima volta.
La dottoressa fece schioccare la lingua e sospirò. “Da quanto tempo state insieme?”
“Tre anni.” Atsumu si mostrò il più deciso possibile. “Due a distanza, ovviamente” cercò di sembrare seccato e quando scoprì di esserci riuscito ci prese la mano. “Lui è andato lì per…”
“Sono andato in Brasile ad allenarmi” gli diede man forte Shouyou, sorridendo come se la vita fosse sgorgata direttamente dalle sue labbra. Ad Atsumu piacque la strategia: per dire la bugia più grossa del mondo bisognava affiancarla al maggior numero di verità possibili. “Per giocare a pallavolo.”
Atsumu sollevò le sopracciglia dalla sorpresa. Tentò di farla sembrare una reazione rassegnata.
“Presumo che sia stata la separazione a farvi allontanare” la donna ruotò la mano come a invitarli a elaborare. I bracciali sui suoi polsi tintinnarono nuovamente.
Atsumu pensò che fosse arrivato il suo momento di brillare.
Quella seduta, in un certo senso, assomigliava davvero a una partita di pallavolo. Lui gestiva l’imprevedibile, le palle difficili che dovevano trovare il modo di piegarsi al suo volere e, non appena riusciva a domarle, Hinata sferrava l’attacco. Semplice, diretto e soprattutto genuino, potente nella sua sincerità.
Oh, bene. Il lavoro sporco lo stava facendo lui ancora una volta.
Che novità.
“Sì, abbiamo parlato poco e niente. Il fuso orario riduceva la possibilità di farlo e poi…”
Atsumu lasciò la frase a metà, in una nuvola di studiata amarezza.
Oh, quello non era lui, quello era il povero ragazzo frustrato che la terapista si aspettava di conoscere. Qualcuno che nascondeva la sofferenza sotto uno strato di pacata aggressività e composta ruvidità. Qualcuno che dava la colpa agli altri per le sue sventure. Atsumu non riusciva a pensare a niente di più lontano dal suo modo di fare.
Lui era uno che stava sbancando, dopotutto.
Quella farsa ruotava attorno a un perdente che non era stato capace di far funzionare neanche una cosa semplice come una videochiamata.
L’immagine di Shouyou in pigiama, la luce che filtrava dalle veneziane di una casa spoglia ma circondata di vita, si sovrappose allo studio accogliente e al contempo asettico della terapista. Si immaginò stravaccato sul divano alle sette di sera, il profilo pixelato di Shouyou che si svegliava all’altro capo del mondo e gli dava il buongiorno.
Un’immagine che lui, che la vita se la mangiava a colazione, non aveva mai visto e che avrebbe lottato per mantenere, se fosse stato davvero lo sfigato per cui si stava spacciando.
“Ne avete mai parlato?”
Atsumu batté le palpebre e la guardò confuso.
“Del Brasile, intendo, di come vivevate le vostre vite nel mentre.”
“Ehm, no, a dire il vero no.”
La donna regalò loro un grande sorriso. Giunse le mani davanti a sé come in preghiera. I bracciali tintinnarono ancora e la gonna lunga frusciò a ritmo dell’improvviso cambio di posizione. “Perché non farlo subito, allora? Le relazioni sono processi dinamici, in continua evoluzione e – perché no? – rivoluzione. Io non sono qui per trovare e stringere i nodi che vi legano, sono qui per guidarvi attraverso emozioni che forse non comprendete fino in fondo. Lo scopo di una terapia di coppia non è necessariamente quello di restare insieme, sapete. Quello che posso proporvi, però, è di ricominciare da capo.”
Accanto a lui, Atsumu sentì Shouyou irrigidirsi e trattenere il fiato. “Da capo?” domandò, il tono stravolto dalla meraviglia o dalla sorpresa, Atsumu lo conosceva troppo poco per capirlo.
La terapista annuì. “Sarà come conoscervi per la prima volta.”
Hinata e Atsumu si scambiarono la prima occhiata d’intesa della loro vita.
Quella era una bella mossa!
Shouyou forse era stato baciato dal sole in ogni senso possibile, ma Atsumu era stato baciato, abbracciato, accolto e amato dalla fortuna. La vita, questo lo sapevano tutti, non aveva mai smesso di fargli regali.
Nella mezz’ora successiva, Hinata si perse nei racconti delle sue avventure brasiliane e Atsumu non ebbe bisogno di fingere interesse neanche per un secondo. C’era qualcosa, nel modo in cui Shouyou si approcciava al mondo, che sembrava pulito, limpido. Le sue corde vocali non vibravano, quando parlava, producevano energia, esplodevano in un calore feroce che faceva venire voglia di venire scottati.
Raccontò dei colori vibranti, di come il cielo, laggiù, sembrasse più profondo, arcuato abbastanza da permettere ai deltaplani di volare sul panorama. Raccontò dell’odore del cibo e del mare, del vociare estraneo all’aeroporto, del sapore del sale marino e della sabbia, quando gli finiva in bocca mentre giocava a beach volley e Atsumu si riscoprì divertito dal modo infantile con cui le sue percezioni si basavano unicamente sui cinque sensi. Raccontò di quanto i temporali fossero diversi, li descrisse come primitivi e Atsumu immaginò la pioggia fendere l’aria e piangere sul mondo come se fosse stata figlia di un dio antichissimo.
Se lo guardò incantato, durante quella magia, non poté farci niente.
Quella che Shouyou emanava era voglia di vivere e Atsumu, vincitore del gioco del mondo, non si era mai reso conto di quanto ne fosse a corto.
“E tu?” soddisfatta dal buon umore che Shouyou aveva portato nel suo studio, la terapista si rivolse ad Atsumu. “Che hai fatto in questi due anni?”
“Io?” Atsumu si indicò, indeciso su come riassumere a due persone che non sapevano nulla di lui lo schiacciante successo che era la sua vita. “Io ho aiutato mio fratello ad aprire un ristorante. Siamo gemelli, ma sanno tutti che sono il migliore” la dottoressa alzò un sopracciglio sinceramente divertita, ma qualcosa simile a disagio si stese sull’atmosfera del suo studio.
Strano.
“Ho avuto un canarino per due mesi, poi è volato via,” l’aveva liberato, in realtà, ma si sarebbe portato quel segreto nella tomba, “ho letto ben tre libri, mi sono rotto il crociato sinistro, ho visto ‘Love, Actually’ a Natale e ho riso a ogni battuta di Billy. Una volta ho fatto partire i fuochi d’artificio in orizzontale e ho quasi ammazzato Omi.” Atsumu si prese una pausa, ricordando i tempi andati. “Divertente, dopo voleva uccidermi” commentò con una risata.
Nessuno gli fece eco.
Hinata alzò un sopracciglio e Atsumu scoprì uno dei tratti della sua personalità che avrebbe finito, nel corso del tempo, per odiare con un’intensità tipica solo dell’amore: la schiettezza. “Ti sei rotto un legamento?” Poi sembrò ricordarsi della loro missione segretissima e sgranò gli occhi per qualche secondo di esitazione, prima di aggiungere: “E non me l’hai detto?”
Atsumu fece schioccare la lingua e si voltò per la quarta volta durante quella seduta verso il comò accanto al divano. Perché diavolo bisognava sporgersi per dare un’occhiata all’orologio di un terapista che lavorava a tempo? Era come nascondere il tassametro durante la corsa! “Già, non ti ho neanche detto del canarino e di ‘Love, Actually’, in realtà.” Non c’era più tempo, non c’era neanche più il rischio che quei due si facessero i fatti loro. “Tu non mi hai detto di Paolo.”
“Pedro” lo corresse Hinata.
“Quello che è, ma ormai abbiamo finito il tempo.”
La dottoressa sospirò e allargò entrambe le braccia. “Questo è vero.” Ad Atsumu non piacque il tono che aveva usato. In quale altra occasione aveva mentito, se non tutte? “Quando fissiamo la prossima seduta?”
Per un attimo, Atsumu rinsavì. Gli passarono davanti alla parte di cervello che corrispondeva alla fronte la quantità di scenari terribili a cui poteva portare un’altra seduta.
Ma la sanità di Atsumu ebbe vita breve. Si voltò a guardare Hinata allarmato e, veloce com’era apparso, tutto quell’allarme gli scivolò via dal viso.
Se c’era un modo di conoscere Shouyou a fondo, sentirlo parlare di Brasile, pallavolo e altre forme di luci, era quello.
Si voltò di scatto verso la donna, l’agenda già aperta sulle sue gambe e pronta a barcamenarsi tra le loro disponibilità.
“Io sono libero giovedì alle cinque” sputò fuori.
Forse era stato egoista? Avventato? Prevaricatore? Un po’ antipatico? (No, quello mai.) Forse avrebbe dovuto consultarsi con Shouyou, prima? Forse non gli importava un fico secco, tutto ciò che voleva era un’altra ora con lui, a vederlo spogliarsi davanti ai suoi occhi nel suo nuovo significato preferito del termine?
Decisamente.
Shouyou, però, non si alzò di scatto, dichiarando che quella era stata una farsa, non declinò neanche gentilmente l’invito con una promessa di tirata d’orecchie ad Atsumu. No, ancora una volta Atsumu, vincitore speciale al gioco del mondo, fu sorpreso.
Shouyou si mise a ridere
e il mondo aggiunse un nuovo colore alla sua tavolozza.
“Giovedì alla cinque va bene.”
Oh, quindi era quello che intendevano gli scemi, quando dicevano che sentivano lo stomaco contrarsi dall’entusiasmo.
Buono a sapersi.
Quando varcarono la soglia della porta dello studio, ad Atsumu sembrò di essere lui quello con gli occhi gonfi e facilmente leggibili.
Dannati strizzacervelli.

*** 

Atsumu Miya non era certo di essere un perdente né uno che sbancava.
Osservò la luce del pomeriggio filtrare attraverso le veneziane. Atterrava a striscioline sui suoi libri, mescolandosi a numeri e grafici; bagnava il portamatite storto, una spirale arcobaleno che non era mai riuscito a far scendere per più di due gradini e un salvadanaio brutto.
Immaginò delle sbarre, al posto della plastica delle tapparelle. Sbarre verticali e tondeggianti in cima al muro di una palestra, i raggi che passavano loro attraverso e si allargavano mescolandosi al nastro adesivo colorato, spandendo l’odore di sudore e gomma. Immaginò una rete ben tesa, le potenzialità vive e vibranti oltre il nastro.
Poi i suoi intrecci squadrati si diluirono nei quadretti del suo quaderno. Un brivido gli si insinuò tra le scapole, si agganciò alla nuca e si fermò sulle guance. La macroeconomia smise di avere un senso (l’aveva mai avuto?). Quella scrivania era un porcile, c’era anche una tartina al salmone, da qualche parte.
Concentrarsi gli veniva facile, quando l’obiettivo era migliorarsi, ma negli ultimi mesi era diventato eccezionalmente stressante trovare un motivo per sedare quella fame.
Quel grafico era uno strazio, non gliene fregava niente. Qualcuno, oltre la finestra, stava sbattendo ripetutamente una palla contro un muro e forse la voglia di irritarsi e lanciargli appresso un vaso di fiori per farlo stare zitto non superava quell’irrequietezza immotivata che non lo voleva legato alla sedia.
Si alzò senza la minima traccia di stress sui lineamenti, il talento innato di mostrare una presa ferrea sulla situazione anche quando non c’era nessuno a guardarlo.
Afferrò una giacca antivento e si diresse al ristorante di suo fratello, il grafico lasciato sulla scrivania a capirsi da solo.
 
“No.”
Osamu alzò una mano non appena notò suo fratello varcare la soglia della porta del suo negozio. Sventolò uno strofinaccio come se Atsumu fosse stato una mosca antipatica e particolarmente persistente. Era sia antipatico che particolarmente persistente, dopotutto.
“Siamo pieni.”
Atsumu aggrottò le sopracciglia e si guardò intorno. “Ci sono letteralmente…” lasciò vagare gli occhi sulle teste che riusciva a contare “sette persone e una è un burattino.”
L’uomo che governava il fantoccio fece in modo che questo alzasse una mano in segno di saluto. Atsumu si morse un labbro e gli sorrise, in un gesto che sembrava cordiale ma che sembrava anche stronzo.
“Hai idea di quante siano otto persone se una di queste sei tu?”
“Una benedizione? Raggi di luce in mattine piovose? Apparizioni divine?”
“Un treno in faccia.”
Atsumu si strinse nelle spalle. “Sempre in cielo ti porta.”
Osamu incrociò le braccia al petto, ma prima che potesse ribattere venne interrotto da suo fratello, ormai già al bancone.
“Giornata di tonno e onigiri.”
Osamu si rimangiò la battuta sprezzante che avrebbe voluto fare un attimo prima con una punta di rammarico. Se c’era una sola cosa che odiava rimangiare, in fondo, erano i commenti contro suo fratello. Esitò per un attimo con lo sguardo nel suo, valutandolo come se avesse potuto conquistare l’accuratezza di una radiografia. “Davvero?”
“Davvero.”
Osamu fece schioccare la lingua e mise mano a piatti e stoviglie senza aggiungere altro. C’era una linea che separava la quotidianità da una chiacchierata urgente tra gemelli e quella linea era una striscia di tonno e riso d’onigiri. Poche storie, le cose funzionavano così.
Quando Atsumu si ritrovò davanti il tonno migliore e il riso più fresco di Osamu, ovviamente non iniziò a parlare, ma ad addentare il suo pranzo in ritardo. Era stressato, mica stupido. Alzò gli occhi su suo fratello, sembrava in attesa, lo fissava con un pizzico di maturità in più, di esperienza sul mondo. In realtà era solo un po’ scemo, secondo Atsumu.
“Bokuto è andato in un sexy shop” affermò attorno a un boccone di riso. Qualche chicco gli volò via di bocca, ma Osamu lo ignorò.
“Eh?”
Atsumu sventolò una mano davanti alla faccia del fratello e ingoiò il suo tonno nel mentre. “Poi, nella sezione BDSM ha comprato…”
“Ma almeno abbassa la voce.”
“Una seduta per una terapia di coppia, allora ha deciso che ci saremmo dovuti andare io e Shouyou e lasciati dire che è stata proprio un’esperienza.”
Atsumu procedette a ficcarsi altro riso e tonno in bocca. “Nulla di quello che hai detto ha senso” constatò Osamu, fissandolo con un certo grado di chiarezza negli occhi, per uno che non ci aveva capito niente.
Atsumu alzò un sopracciglio, ma anche volendo non avrebbe potuto replicare.
“Che ci fa una seduta psicologica in un sexy shop? Perché, se Bokuto l’ha pagata, ci sei andato tu? E chi diavolo è Shouyou?”
“Pensava che la terapia di coppia fosse un gioco erotico. Shouyou è un amico suo che gioca a pallavolo.”
Osamu inarcò un sopracciglio. “Perché non lo conosco?”
“Perché è stato due anni in Brasile.”
Osamu assottigliò gli occhi per qualche secondo, poi li sgranò di scatto mentre i ricordi gli venivano in aiuto. “Ahh, l’amico brasiliano!”
“Non è brasiliano.”
“Quello che è.”
“Lo conosci?” Atsumu si concesse un boccone più dignitoso di onigiri. Forse era tornato a sembrare umano. Forse.
“Ma sei stupido?” Osamu aspettò che rispondesse. Atsumu non gli diede alcuna soddisfazione. “C’eri anche tu quando Bokuto e Akaashi ne hanno parlato.”
“Ah” commentò soltanto Atsumu, ripulendo il riso rimasto nel suo piatto con un dito e succhiandolo via. Si riscosse dalla fine di quella parte di conversazione con un nuovo sospiro. “Comunque domani abbiamo un altro incontro.”
Osamu sgranò gli occhi e lo guardò come se, nei giorni in cui non si erano visti, avesse raggiunto nuovi livelli di sconsideratezza. Constatò che era andata proprio così. “Scusa se mi permetto di ficcare il naso negli affari tuoi…”
“Lo fai sempre, ‘Samu.”
Osamu lo ignorò. “Ma perché vai da un terapista, con una persona che non conosci, per la seconda volta?”
“Perché Shouyou è simpatico e voglio sapere di più su di lui, però così devo parlare di me. Questo è il problema.”
Se c’era un modo per diventare una fetta di carne da prendere a schiaffi, Osamu tentò di metterlo in atto immediatamente. Si batté entrambe le mani sulle guance e distolse lo sguardo da suo fratello perché era troppo doloroso guardare una cosa così simile a lui ma con trenta punti in meno di quoziente intellettivo. “Ti sei scavato la fossa, ‘Tsumu” constatò. Commise l’errore di abbassare lo sguardo sul ginocchio sinistro di suo fratello. Per fortuna fu rapido abbastanza da spostarlo più in là, facendo passare quell’occhiata per un controllo casuale della situazione nel suo ristorante.
“Lo so, ma tu devi aiutarmi.”
“Cosa vuoi che faccia? Non posso andare lì al posto tuo.”
“In realtà tu sei…” Atsumu scosse la testa e osservò la sua ciotola vuota. “Ovvio che no, ti manca il fascino” ribatté con la naturalezza di una cosa nota.
“Magari ti farà bene.”
“Parlare della mia relazione falsa?”
Osamu si riappropriò di ciotole, piatti e stoviglie. “Parlare delle tue bugie in generale.”
E, con quello, Osamu guadagnò un biglietto di sola andata per la ridente località di Quel Paese. Un posto in cui Atsumu l’aveva mandato spesso.
Almeno nel suo ristorante sarebbe tornata di nuovo la calma.
Il burattinaio attirò l'attenzione di Osamu dal suo tavolo nel locale. Indicò con un pollice il vetro oltre il quale Atsumu stava tornando a casa. “Vorrei quello che ha preso lui.”

***
 
Atsumu Miya era un coglione.
Glielo avevano detto un sacco di persone e forse qualche volta se lo era anche detto da sé, ma mai ad alta voce.
Era un coglione perché, nonostante la personalità eccentrica della psicologa, il suo ufficio era un luogo accogliente, ma anche un po’ asettico. L’areca era carina, il divano era colorato, le cinque erano un orario che ad aprile lasciava abbastanza luce per sentirsi speranzosi e abbastanza ombra per scavare nel marcio. Ma restava un ufficio. La consapevolezza che su quello stesso divano si sedessero altre persone, l’idea che quelle mura avessero ascoltato altre storie, altre lacrime, altre risate, in qualche modo era scomoda.
Era un coglione perché pensava che, nonostante tutta la formalità che la terapista tentava di reprimere, l’unico reale e autentico tocco di colore in quella stanza fosse Shouyou.
Indossava una maglietta bianca a mezze maniche e sembrava arrivata l’estate.
Atsumu Miya, oltre che essere un coglione, era anche furbo. Apparteneva a quella categoria di persone che possedevano una certa sconveniente astuzia affilata. Le persone come lui aggiravano gli ostacoli, ombreggiavano le magagne, nascondevano le vere intenzioni e non avevano mai bisogno di sgomitare.
Le persone come lui, però, avevano un effetto collaterale non trascurabile: se non potevano venire fregati dagli altri, potevano farlo da soli. E il risultato era sempre una catastrofe.
Aveva avuto un piano, quando si era lanciato in quell’esperienza suicida con due sconosciuti a cui avrebbe dovuto mentire? No, assolutamente no. Non c’era stata traccia di tattica, furbizia e altre declinazioni di intelligenza.
Il che lo riportava al primo punto.
Era un coglione, ma non l’avrebbe mai detto ad alta voce perché dare ragione a Osamu era peggio che riscoprirsi falliti.
Quindi Atsumu, dopo i convenevoli all’inizio della seduta, sfruttò l’elefante nella stanza: il fatto che fossero lì per gioco.
“In questa settimana non abbiamo parlato affatto” informò la dottoressa come se le avesse messo in mano una manciata di spago e le avesse chiesto di tirarne fuori un arazzo. “Credo che questa… cosa” accennò con le mani alla stanza “non funzioni.”
La donna gli sorrise tenera, quasi materna, le linee scure di trucco ai lati degli occhi si corrugarono in un tratto ondeggiante. “Una terapia di coppia è un processo, non un punto d’arrivo. Essere qui è un passo avanti, non il traguardo. Ti aspetti di vedere il tuo fisico cambiare dopo un solo allenamento in palestra? Ti aspetti di diventare bravo in qualcosa non appena ci provi?”
Uno spillo lo trafisse. Era dolore, ma lo tradusse in irritazione. “Non sono qui per essere psicanalizzato.”
“In realtà…” Hinata si schiarì la gola con un colpo di tosse “sei qui proprio per questo.”
Gli occhi della terapeuta esitarono per qualche altro secondo in quelli di Atsumu, come se quello fosse stato il momento perfetto per carpire informazioni.
“Tu da che parte stai?” domandò lui a Shouyou.
Ora, dall’esterno quella domanda sarebbe potuta sembrare un po’ fuori luogo. Ma il punto era che Atsumu, in realtà, non era lì per essere psicanalizzato e Hinata lo sapeva benissimo!
“Da nessuna! Era solo una frase molto stupida, la tua” gli fece notare Shouyou.
E forse quella maglietta bianca e perfettamente ordinaria faceva risaltare l’abbronzatura invidiabile (o baciabile?) delle sue braccia, forse gli faceva anche brillare gli occhi e giocava con i raggi che scappavano dalla tenda e si infrangevano sui capelli color carota, ma non bastava certo a dissuaderlo dal pensare che fosse veramente irritante, con questo suo modo cristallino e non filtrato di dire le cose.
Ci voleva altra tragedia, altre storie da televisione spazzatura con doppiatori inutilmente drammatici e trame prevedibili, perché quelle sedute avvenivano per mille ragioni tranne che per la verità. Si dà il caso che Atsumu avesse un’arma per evocare la giusta dose di teatralità.
“Allora possiamo tornare alla parte di Paolo.”
“Pedro” lo corresse Hinata “e che c’entra Pedro, adesso?”
Se fosse genuinamente confuso o cosciente del gioco, ad Atsumu non fu chiaro. Il problema con Shouyou era che non sembrava curarsi di facciate e apparenze e le bugie gli stavano male addosso. Questo, pensò con una punta di rammarico, metteva anni luce di distanza tra loro.
“Era solo il mio coinquilino e non è che sia stato molto d’aiuto” gli fece notare, scrollando le spalle con un’innocenza così palese da mettere Atsumu in difficoltà. “Se sei geloso è un problema tuo.”
Aaaah! Allora Hinata sapeva che era una messinscena e che erano lì per divertirsi e che non c’era alcuna possibilità che si mettessero a dissotterrare questioni in sospeso e che di certo non si sarebbero avventurati tra gli scheletri dei loro armadi! Eh, bastava dirlo.
Una scintilla di divertimento puro si accese da qualche parte nello stomaco di Atsumu. Era piacevole l’idea di avere un compagno di scorribande, un complice sconosciuto. Assumeva più i tratti di uno scherzo, cementava un futuro e non testimoniava il passato.
Il problema di quello studio – e questo gli parve così chiaro con la sfacciata complicità di Shouyou – era che tutto sembrava concentrarsi sul passato.
“Io. Non sono. Geloso.” scandì Atsumu e sgranare gli occhi gli parve una bella chicca. “Perché mai dovrei esserlo?”
Shouyou lo guardò. Avvenne troppo in fretta e in maniera troppo radiografica. Aggrottò le sopracciglia come se gli avesse scovato i migliori punti di pressione e glieli avesse anche premuti, costringendolo a non poter fare altro che sperare di non essere schiacciato.
Rischioso, forse per questo irrinunciabile.
Ma faceva parte dello spettacolo, giusto?
“Tu non sei poi così sicuro di te.”
Giusto?
Se Shouyou voleva giocare d’astuzia voleva anche perdere.
“Cosa ne sai tu, eh? Sei stato due anni in Brasile, è come se non ci conoscessimo.”
Fu solo allora che la psicologa li interruppe. Un sorriso pratico e soddisfatto insieme piantato in faccia. “Visto?” guardò Atsumu. “Ecco la vostra comunicazione settimanale.”
Atsumu abbozzò un sorriso, poi alzò gli occhi al cielo.
“C’è qualcosa che avreste voluto approfondire, mentre parlavate, e che la voglia di vincere la conversazione ha oscurato?”
“Perché non è stato molto d’aiuto?” domandò Atsumu, sconfitto. Si concesse un’altra occhiata in direzione di Shouyou e lo guardò aggrottare le sopracciglia.
“Eh?”
“Hai detto che Paolo era il tuo coinquilino, ma che non è stato molto d’aiuto.”
Una cosa importante da sapere su Atsumu era che il sacro ‘occhio per occhio’ gli scivolava addosso. Voleva sapere ogni segreto di Hinata, spogliarlo, leggergli l’anima, bere la sua sincerità, vederlo brillare? Benissimo, lui non avrebbe fatto lo stesso. Questo comportava domande scomode che andavano oltre la messinscena e delle quali non si sarebbe pentito neanche sforzandosi.
“L’hai detto tu” gli ricordò, perché comunque apparire seccati era il tratto distintivo del suo personaggio.
“Sì, ho… avuto qualche problema ad ambientarmi, all’inizio. Ho provato a parlare con Pedro, non lo so, a legare, ma…” Hinata ridacchiò, grattandosi la nuca “non gliene fregava niente. Mi mancava casa.”
L’ultima frase la disse con così disarmante sincerità da togliere ad Atsumu ogni speranza che aggiungesse qualcosa di più drammatico e costruito come un bel ‘mi mancava casa, mi mancavi tu’.
Quello era il prezzo della verità, immaginò.
“Forse è un po’ stupido” sorrise, uno di quei sorrisi che servivano a sollevare la pesantezza da un argomento pesante, uno di quei sorrisi iceberg: solo in minima percentuale autentici. Atsumu trovò che dovesse smetterla di farne: su uno come lui erano semplicemente inefficienti. “Cioè, è proprio stupido” parlò ancora e forse, in quella stanza, ormai era solo “però sembra tutto brutto quando non sei felice.”
La terapeuta si accigliò. “Spiegati.”
Atsumu non osò neanche espirare.
Ti prego, spiegati.
“Dico che è difficile rimanere entusiasti quando sei a ventimila chilometri da casa e tutti stanno dormendo. Sei completamente solo e, se prima ogni lampione sembrava una scoperta, quando lo guardi bene ti sembra solo estraneo. Forse un po’ troppo. Ed è… brutto.”
Atsumu realizzò cosa intendesse per brutto quasi per errore. Era un’interpretazione che gli pareva di aver afferrato prima che svanisse davanti ai suoi occhi, fievole, fuggevole, quasi invisibile. Intendeva letteralmente brutto. Antiestetico, spiacevole da vedere.
Brutto come Osamu, tipo.
Nello studio calò il silenzio. Atsumu non aveva mai provato nostalgia di casa un solo giorno della sua vita. Neanche quando la vita non gli piaceva più. La solitudine non sapeva neanche che forma avesse. L
ultimo giorno in palestra, Atsumu non era stato solo. Dal radiologo, Atsumu non era stato solo. Quando aveva messo piede per la prima volta in un campo, Atsumu non era stato solo. Prima ancora di sviluppare dei polmoni, un cuore pulsante, un cervello bacato, Atsumu non era stato solo.
Quando era stato una cellula, Atsumu aveva comunque avuto compagnia.
Non poteva capirlo, era qualcosa che non aveva mai sperimentato e i suoi livelli di empatia non avevano buona reputazione.
Eppure…
Sembra tutto brutto quando non sei felice.
Quello, lo capiva così bene da aver avuto problemi a capirlo.
“Che ne pensi?” domandò la psicologa e Atsumu realizzò che lui aveva voce in capitolo. Teoricamente, era causa e protrattore della solitudine di Hinata.
“Penso che sia… nuovo?”
Lei annuì e, nonostante le bugie, sembrava aver capito molto di più.
“Atsumu.”
Okay, fooorse se il suo nome lo diceva Shouyou diventava quasi bello.
“Il crociato sinistro.”
Quello aveva un suono di merda sempre, invece.
Strinse il bracciolo del divano verde e a ‘fanculo i colori, le luci, la sonnolenza di quello studio, la maglietta bianca di Shouyou e il suo sorriso. La seconda seduta era stata una delle idee peggiori della sua vita.
“No.”
Shouyou non aveva diritto di chiedere e quella messinscena poteva anche finire per sempre, mostrarsi per quella che era: una battuta, uno scherzo, il risultato dell’escursione scandalosa di Bokuto tra cazzi vibranti di plastica e corde di velluto.
La dottoressa accavallò le gambe e si strinse nelle spalle. “Due anni sono tanti per i silenzi. La comunicazione è una parte import…”
“Qui vi aspettate che sia l’unico a parlare!”
“Solo perché la sofferenza degli altri diverge dalla tua non significa che non sia difficile da ammettere o da digerire.” Atsumu lanciò un’occhiata rapida a Shouyou, perché forse era stato un po’ scortese minimizzare la sua confessione. “Nessuno ti costringe a fare nulla, però.”
“Neanche a stare qui, vero?”
Hinata e la psicologa si scambiarono un’occhiata, poi lei annuì. “Vero.”
“Un po’ ingiusto” commentò Shouyou, a bassa voce, come i codardi o gli ingenui. E purtroppo lui non era un codardo.
“Ingiusto cosa? Non sai neanche cosa studio” ribatté Atsumu e gli sorrise come a spronarlo a provocarlo, sicuro di vincere anche mentre perdeva. Se c’era una cosa che sapeva fare era tentare l’impensabile nei momenti più sconvenienti. E di solito era questo a renderlo grande.
Shouyou, però, era la carta inaspettata, l’ultima del mazzo, dimenticata nel tentativo di ricordare tutte le altre.
Shouyou ti costringeva a sottovalutarlo e poi ti stracciava.
“Hai iniziato tu a fare domande vere!”
Poi si guardarono e sgranarono gli occhi.
Stavano litigando, come una vera coppia, in uno studio di una psicologa che avrebbe dovuto risolvere i loro problemi. E la loro copertura era appena saltata in aria.
“Ops” sussurrò Atsumu e conquistò un nuovo livello di intesa con Shouyou, quando si voltarono simultaneamente verso la dottoressa, mortificati. “Era un… esperimento sociale?”
“Avevo scommesso su quattro sedute, ma vi siete traditi molto prima.”
Shouyou sgranò gli occhi, ma sembrava più felice che altro. “Che occhio! Quindi lo sapeva!”
“Allora noi… togliamo il disturbo.”
“Non lo so, secondo me è brava, Atsumu.”
La psicologa slash sensitiva sicuramente slash mica era evidente che non si fossero mai visti prima di qualche sera prima, alzò un sopracciglio e li accompagnò alla porta. “A volte la verità è solo a un passo da dove la cercate” li informò, dopo che entrambi ebbero superato la soglia. “Mi concedi due secondi in più?” domandò a Hinata. “Da soli” chiarì quando Atsumu non accennò a dirigersi verso l’uscita.
Atsumu scambiò un’occhiata con l’uomo e la donna che aveva visto la settimana prima e che in quel momento erano in sala d’attesa. Gli occhi di lui sembravano tornati illeggibili, muri di metallo alti e impenetrabili. Gli occhi di lei, invece, mostravano tutto quello che la sicurezza e il disinteresse avevano cercato la volta precedente di reprimere. Si chiese come dovessero sembrare i suoi, di occhi, se li avesse anche lui così aperti, se fosse capace di mostrarsi vulnerabile. Si chiese da quanto si conoscessero, cosa li avesse portati ad avere problemi, chi avesse proposto una terapia, come stesse andando. Si chiese se anche loro avevano dovuto rinunciare a una cosa importante come l’ossigeno, se l’avevano superata, se l’avevano rivelata alla psicologa, se erano stati in grado di sostenersi l’un l’altro.
“Non era una terapia senza schieramenti?” domandò Atsumu alla psicologa.
Lei gli sorrise, uno di quelli profondi, di chi ha capito come prenderti e come provocarti. “Non era una terapia di coppia?” gli rispose e Atsumu ricambiò il sorriso e si diresse alla porta d’ingresso.

***
 
Atsumu Miya era un bugiardo.
Non era una scelta, più un impulso.
Era un bugiardo perché nella vita aveva avuto due talenti e uno gli era stato asportato come un organo, eppure nessuno aveva mai visto niente.
Questo era il secondo talento, temprato da batoste sotterrate sotto strati di mine in un campo di fiori pretenziosi, enormi, sfacciati. La regola d’oro, quando si voleva nascondere qualcosa, era metterla sotto gli occhi di tutti, riempire la strada di cartelli, mandare inviti, magari anche mostrarsi insistenti, indistruttibili, sicuri.
Atsumu, in questo, era impareggiabile.
Così esagerato da renderlo ovvio. Nessuno poteva essere così spensierato, nessuno poteva essere così arrogante. Eppure esasperare due caratteristiche così irrealistiche in qualche modo le silenziava, le faceva passare inosservate.
E quindi Atsumu Miya era il migliore esemplare d’essere umano che avesse mai messo piede sul pianeta Terra. Il mondo era un tappeto rosso che veniva srotolato ai suoi piedi e lui ci aveva camminato sopra tronfio anche quando non era riuscito letteralmente a stare in piedi.
Eppure aveva altri pregi, quiescenti, in un angolo remoto della sua forza di volontà: il coraggio e la fame di vincere.
Per questa ragione…
“Ciaooo!”
Atsumu si voltò verso il proprietario di quella voce. Fosse stato sott’acqua e a occhi chiusi, l’avrebbe riconosciuto comunque per la potenza delle vibrazioni.
Pazzoide.
“Shouyou” si voltò a guardarlo.
Brillava.
Lo osservò avvicinarsi, l’incarnato almeno due toni più scuri del solito gli fece venir voglia di pregarlo di viaggiare insieme, andare lontano, dove non aveva bisogno di ricordi.
Invece gli porse un casco, l’unica promessa che un povero bugiardo poteva augurarsi di mantenere, ma Shouyou lo accettò come se valesse molto di più, come se lui valesse molto di più.
Hinata gli sorrise, poi urtò la spalla contro la sua. “Ti ho chiesto di uscire insieme, non di fissarci in silenzio. L’abbiamo già fatto troppo, no?”
Atsumu si riscosse e si issò sul suo motorino, poi sventolò la mano per invitarlo a salire, in un gesto di studiata noncuranza. In realtà era arrossito.
Ecco, riguardo la questione dell’uscire insieme, Atsumu avrebbe voluto troppo prendere l’iniziativa, ma – wow! – Shouyou era stato velocissimo, un fulmine, non aveva resistito un secondo al suo fascino immortale e quindi aveva finito per pregarlo di uscire insieme. Atsumu, ovviamente, avrebbe mai potuto negargli questo lusso?
No.
I requisiti alle porte del paradiso erano misericordia e charme e lui doveva fare pratica con il primo punto.
E quindi ecco il motivo della gentile concessione del suo tempo.
Infatti era proprio per questo che, mentre sfrecciavano per le strade in salita del tardo pomeriggio, Atsumu stava innaffiando il manubrio della sua moto con i palmi sudati perché Shouyou lo stava abbraccian- stava evitando di perdere l’equilibrio allacciando le braccia intorno alla sua vita.
Arrivarono in cima alla collina delle margherite quando il famoso tardo pomeriggio aveva già ceduto il posto a un tramonto rosato.
Atsumu non aveva idea di quale fosse il vero nome di quella collina, ammesso che ne avesse uno. Tutto ciò che sapeva era che un sentiero asfaltato si inerpicava sui suoi fianchi e conduceva a una stazione di servizio nel bel mezzo del nulla, così sola da essere stata presto ritenuta inutile e quindi chiusa.
Oltre la stazione, uno slargo lasciato a se stesso ospitava un grosso albero, una manciata di margherite selvatiche e un panorama mozzafiato.
Atsumu l’aveva scoperto in un giorno qualunque che per lui aveva significato tutto e quindi portarci Shouyou gli era sembrato il modo più bello per ribattezzarlo.
Parcheggiò accanto a una pompa di benzina fracassata e ovviamente, quando si voltò a guardare Shouyou per fargli cenno di scendere in un gesto molto disinvolto e affascinante, finì al contrario per far scontrare i loro caschi, in un clack che poté giurare essere assordante.
“Ahi!”
Stupido, stupido cretino!
Però poi Shouyou si mise a ridere e Atsumu pensò che forse avrebbe fatto meglio a dargli un’altra testata. Giusto per sentirglielo fare ancora.
 
Si sedettero sotto l’albero e tra le margherite, solo a qualche metro dal fianco ripido della collina. Il vento doveva averne corroso il profilo e averlo reso scabro e appuntito.
Atsumu scartò un pacchetto di sushi e onigiri e lo porse a Hinata.
La cosa si rivelò una catastrofe, perché, nello stesso momento, tentò anche di stendere le gambe e incrociarle davanti a sé. Il tutto, di nuovo, cercando di apparire disinvolto, sciolto come un laccio di scarpe, insomma. Un onigiri cadde rovinosamente sul prato e Atsumu ringraziò mentalmente suo fratello per avergliene dati un po’ in più.
“Scusa” mormorò mentre Shouyou – eh, sì, tanto ormai era lì per fare il giullare – si faceva un’altra risata e favoriva dal vassoietto di plastica “è che i cambi di quota mi rendono un po’...” Atsumu fece una pausa, valutò se fosse il caso. Era il caso: “sushettibile” e poi guardò Hinata riempirsi la bocca di cibo e alzare lo sguardo su di lui.
Inclinò il viso su un lato e masticò lentamente.
“L’hai capita?”
Shouyou annuì, poi sorrise attorno al suo riso. Atsumu si concesse una risata – sì, alla sua stessa battuta – perché era fottutamente divertente e perché Hinata era carino.
Deglutì, Atsumu seguì il suo pomo d’Adamo e si impose di non farsi notare troppo. “Non sapevo di poter sushitare simili reazioni, dove sei stato per tutto questo tempo?”
Quindi Shouyou rise davvero, di una risata piena, alta, cristallina. “In Brasile!”
“Vero.”
“Senti…” iniziò Hinata. Sembrava propositivo, come sempre, come se gli stesse per suggerire di andare in gita. C’era un tocco di diplomazia, però, il genere di coscienza che si raggiunge solo dopo anni passati a offendere ingenuamente la gente. Affondò una mano nella tasca posteriore dei suoi pantaloni e Atsumu, nel tempo irrisorio che ebbe per chiedersi cosa stesse per tirare fuori, si diede uno schiaffo metaforico per aver pensato a un preservativo.
Era un biglietto da visita.
“È presto per dirlo a me, ma perché non provi a dirlo a lei? Me l’ha dato per questo.”
Atsumu accettò il cartoncino e riconobbe il nome della loro terapista. “Cosa?”
Shouyou lo guardò soltanto. Poteva sembrare un po’ svampito, appena lo si conosceva, ma quell’occhiata era tutto fuorché inconsapevole. “Si può tornare in forma, dopo la rottura del crociato.”
Atsumu distolse lo sguardo e per un minuto non si udì altro che lo sfrecciare di auto invisibili in lontananza.
Fosse solo questo.
“Ho ancora fame” lo informò poi Shouyou, un cambio netto nel tono e una mano che già puntava alle prelibatezze nel contenitore.
Anche Atsumu aveva ancora fame.
“Tuo fratello sa proprio il fatto suo!” commentò, masticando il suo onigiri.
“Te lo ricordi!”
“Ti ho ascoltato” Shouyou scrollò le spalle e lasciò scorrere lo sguardo sul mondo davanti a sé. Il tramonto si divideva in getti arancioni e salmone, diffondendosi sul suo viso e seguendo dolce la linea del naso. Atsumu pensò che sapesse di polvere e sabbia, una nostalgia che gli sembrava di aver sempre provato e mai notato e che ora pareva curata. “Anche la parte su quel film… Non l’ho mai visto.”
“‘Love, Actually’ è un bellissimo film!” Atsumu sgranò gli occhi e scosse la testa. “In pratica è Natale e c’è un sacco di gente che all’inizio del film è sola, ma poi alla fine tutte le loro storie si intrecciano e…”
Shouyou sgranò gli occhi e, con una traccia di ironia nel tono, domandò: “È un film romantico, per caso?”
Atsumu esitò, staccando distrattamente una margherita dal prato. “Oh, mmmh, no. No, no, no, no. No, è un film per duri. Per durissimi. Ci sono un sacco di…” esitò, gesticolando animatamente e senza motivo “Ci sono un sacco di pugni e… calci, macchine, scontri tipo con fucili. Fucili belli grossi. Poi c’è anche un tizio che salta dal settantesimo piano di un grattacielo e si fracassa la testa. Quindi sangue, interiora, non un bello spettacolo per gli stomaci deboli, ma io, oh, hai mai visto il mio stomaco? Cioè, ti auguro di no ma… puro acciaio, modestamente, ho anche…”
“Ma tu parli proprio un sacco!” notò Shouyou, una risata poggiata sulle labbra che però non riuscì mai a scappare, perché si scontrò con le labbra di Atsumu.
Oddio!
Quello era un bacio?
Oddio, sì!
Atsumu serrò gli occhi di scatto e si convinse che non potesse essere altro. Se non era un bacio allora era la morte. Morte che fu certo di aver sfiorato, perché lui non baciava qualcuno da un po’, ma poteva certamente affermare che non si fosse mai sentito così… vero.
Fu un contatto bello.
Nel senso superficiale del termine, quello che Hinata aveva dato alla felicità e aveva tolto ai lampioni brasiliani. Quello associato alla completezza e sottratto alla solitudine.
Atsumu si sporse in avanti, gli sfiorò una guancia, sperò di poter tracciare le lentiggini solo con i polpastrelli.
“Sì, è un film romantico” sussurrò sulle sue labbra, quando uno schiocco gli fece capire che erano separate. La sua pelle ne conservava ancora il ricordo “non dirlo a Osamu, però. Neanche a Omi. A Bokuto puoi dirlo, l’ho visto con lui.”
“Lo vedi che parli troppo?”
E Atsumu, che era tante cose (bello, intelligente, affascinante, simpatico, modesto, fortunato, talentuoso, sicuro di sé, elegante, poliedrico…), ma non era stupido, chiuse la bocca e lasciò che Shouyou lo baciasse ancora
e ancora.
Poco dopo lasciarono che il tramonto si esaurisse sotto la ruota posteriore della motocicletta di Atsumu. Il vento era più rigido, graffiava la pelle scoperta e dava l’impressione sconcertante che tutto quello che avevano vissuto fosse stato vero.
“Shouyou,” mormorò Atsumu contro il vento, ma Hinata lo udì lo stesso “prima o poi alzerò per te.”
Perché forse si erano conosciuti nel modo più stupido sulla faccia della Terra, ma una cosa autentica era venuta fuori e anche chiaramente: a volte la verità è solo a un passo da dove la cerchiamo.
E Atsumu Miya aveva veramente sbancato.

***
 
Atsumu Miya era una testa di cazzo.
Bokuto lo sapeva da tempo, ma non era mai stato nella posizione di sparare sentenze.
Si lasciò cadere sul letto esausto, i muscoli rilassati dalla doccia e i capelli ancora bagnati.
“Akaaaashi?” canticchiò, chiudendo gli occhi e abbandonando una gamba addosso a quella del suo ragazzo, per il gusto del contatto fisico e perché poteva farlo. Poggiò un avambraccio sugli occhi gli mostrò lo schermo del suo cellulare. “Chiamami Cupido.”
“Stai bagnando le lenzuola e non vedo niente, si è spento lo schermo.”
“Ops” Bokuto si tirò a sedere e schiacciò il tasto di blocco. “Chiamami Cupido” ripeté, con un sorriso enorme.
Nella foto, Atsumu e Hinata sorridevano seduti su un prato al tramonto. “Stucchevole” commentò Akaashi.
Bokuto scoppiò a ridere. Forse le pareti tremarono, forse solo il suo cranio.
“Ma tu hai solo sbagliato nella comprensione del testo, niente Cupido.”
“Secondo te non so cos’è una terapia di coppia, Akaashi?”
Il ragazzo mise giù il libro, che comunque non avrebbe avuto modo di continuare a leggere, e mise gli occhiali da parte. “Lo sapevi? Che senso aveva, allora?”
“Era uno scherzo, non pensavo funzionasse davvero! Incredibile, vero? Sono incredibile!”
“Cioè…” Akaashi lo fissò per qualche istante, sconcertato “il tuo scherzo era far fare agli altri uno scherzo?”
Bokuto sembrava particolarmente fiero di se stesso. “Geniale, vero? Se non vuoi ammetterlo mi accontento di un bacino, tranquillo.” Quando Akaashi non fece niente per esaudire la richiesta, Bokuto ci rimase un po’ male. Solo un po’. “Non potevo uscire da un sexy shop senza niente in mano, sarei sembrato un cretino.”
“Quindi hai comprato una terapia di coppia.”
“Eh, c’erano cose strane. Come minimo mi avresti cacciato.”
“E questo chi te l’ha detto?”
Si guardarono per qualche secondo. Nessuno disse niente. Un paio di gocce scapparono dai capelli di Bokuto e si infransero sulle lenzuola con un bop attenuato dal materasso. “Aspetta, tu…” si coprì la bocca con una mano. “Nooooooo.”
Akaashi rise. Bokuto, invece, starnutì.
“Okay, mi devo asciugare i capelli” iniziò, alzandosi dal letto “tu aspettami, eh, aspettami” proseguì, ormai sulla soglia della porta, indicando Akaashi come se avesse davvero avuto intenzione di muoversi “aspettami, ne dobbiamo riparlare!”
E, con questo, Bokuto fu fuori dalla stanza.
Akaashi iniziò a cercare la pagina in cui aveva interrotto la lettura, un solo pensiero ancora in testa, che esternò nella forma di un sussurro.
“Ma non poteva organizzare un appuntamento al buio e basta?”







 

Note vere: Benvenuti alla fine del tunnel! Ce l'avete fatta!
Io se non parlo a fine storia mi sento male, quindi sopportatemi o scappate pure a leggere qualcosa di buono, avete tutta la mia solidarietà.
Allora, vidi questo prompt una vita fa da qualche parte, poi ieri RAGA ieri mi è comparso su facebook, ma era diverso! Roba da matti.
Mi scuso veramente per il testo scritto proprio strano, ero in blocco, rischiavo di restarci a lungo e avevo bisogno di impazzire. Secondo me si vede proprio, ho violato almeno due delle sacre regole del bravo scrittore, ma noi non siamo bravi scrittori e quindi ce ne fottiamo. Allora, alcuni psicologi mettono l'orologio in posizioni in cui il paziente non può arrivare con lo sguardo perché l'idea è che il tempo è un problema del terapista e non del paziente, che deve solo preoccuparsi di avere il suo spazio per fare quello che deve fare.
Spero non sia passato il messaggio sbagliato sulla psicologia! Dovevo scherzare, il punto era questo, ma volevo anche lasciare un messaggio positivo sull'esperienza. In realtà potrebbe essere stata o una gran cazzata o una grande idea, quella di mescolare il dolore e l'ironia, MA CHI MEGLIO DI ATSUMU POTEVA CONCEDERMELO? Vedete Love, Actually, è il mio film di Natale preferito, sì quella era una citazione al Trono del Muori e poi "vorrei quello che ha preso lui" è una citazione di Harry, ti presento Sally a casissimo. Mi hanno detto che le battute brutte sono una cosa canon su Atsumu, nel caso in cui Juriaka sia stata modesta e non si sia presa i meriti, CREDITI A LEI.
Rega, io ho fatto 2000 ricerche ortopediche, se c'è qualche idiozia ditemelo, se non è troppo grave CAMBIOOO. Mantenere nascosta la verità sull'infortunio è stato un sacrificio che ho dovuto fare, ma la storia non parlava di questo e non volevo approfondire. Comunque se mai un giorno mi tornasse la sete di comico che non fa ridere nessuno ho mille modi per scrivere un seguito (MA CHI LO VUOLE CHIIIII AHAHAHAHA)
Grazie per aver letto e per essere arrivati alla fine di una storia che ha mille difetti, ma mi ha lasciato la possibilità di sentirmi libera anche mille metri fuori la mia comfort zone.
A prestoooo

El.
   
 
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