A te che te ne sei andato.
Avrei voluto prenderti per mano
e convincerti a restare.
Costruivo
sogni su di te.
Il dopo non è un ricordo confuso per Rey e forse è questa la parte
peggiore. L'assoluta lucidità, la sua capacità di mantenersi in piedi quando
tutto ciò che vorrebbe fare è rannicchiarsi su sé stessa e piangere e gridare,
disperandosi per quanto ha perso e non tornerà più, mai più.
La fine della guerra segna un nuovo inizio per chiunque, che lo si
voglia oppure no.
È la fine di una storia che si è ripetuta una, due, centinaia,
migliaia di volte. Per evitare che accada di nuovo già si vocifera di una Nuova
Repubblica, di nuovi Senatori, giovani e volenterosi come un tempo è stata Leia
Organa, la cui tempra rimane una leggenda ineguagliabile.
Non importa. Il pensiero ha un che di cinico. Non importa.
Se deve accadere, accadrà.
*
Contrariamente a quanto aveva creduto, non è quasi mai sola. Gli
spiriti si presentano con regolarità; vengono a trovarla quotidianamente, soli
o a gruppi, scandendo i ritmi delle sue giornate con la loro presenza
ricorrente.
Rey trascorre le prime ore del mattino meditando con Maestro Yoda
o con Maestro Qui-Gon.
Prima di pranzo cerca di svolgere la maggior parte dei lavori
nella fattoria, accompagnata da Maestro Luke e quando necessario - o quando
semplicemente la solitudine e il desiderio di contatto con la frenesia del
mondo esterno diventa troppo forte - si spinge con il suo speeder fino ad
Eisley o Anchorhead. I pomeriggi li trascorre allenandosi e le sere, quiete,
sono per Leia.
Se si concentra abbastanza, ci sono giorni in cui riesce a
dimenticare la clamorosa assenza tra gli spiriti, quello che significa e il
conseguente panico che comporta per lei.
Non importa, si dice. È diventato il suo mantra ormai. Se lo
ripete abbastanza, finirà per crederci. Non importa. Non importa.
*
I fantasmi sono diventati presenze abituali, sagome di un altro
piano di realtà che si impongono sul suo e che lei cattura con la coda
dell'occhio, ormai senza dar loro peso o importanza tanto naturali e frequenti
sono diventate le loro interazioni.
Alcuni di loro rimangono estranei di cui conosce solo le voci,
come echi di sogno o storie che le sono state raccontate e che si sono impresse
indelebilmente nella sua memoria. Sono stati con lei nel momento del bisogno,
parte di lei, ma cosa sa davvero di loro, delle esistenze che hanno vissuto,
delle imprese che hanno compiuto, delle persone che sono state quando erano
vivi?
Non sa nulla, esattamente come loro non sanno nulla di lei.
Conoscono la Jedi, ma non conoscono il suo struggimento, non davvero.
*
Dapprincipio non lo nota. A differenza degli altri spiriti quando
cercano la sua compagnia, lui non ha aneddoti da raccontare o lezioni da
impartire, consigli da darle. Il suo sguardo è fisso e penetrante. Vivace o
cupo a seconda dei casi.
Sa chi è. Come non potrebbe? Gli assomiglia in modo impressionante.
I suoi occhi sono esattamente gli stessi, bruciano di un intenso fervore,
carichi del sentimento che li anima. Le riportano alla mente quelli di lui, la
gioia e l'affetto con cui l'ha guardata prima di-
Rey strizza gli occhi, trae un respiro profondo.
Una volta che si accorge di lui, è impossibile non notarlo.
Anakin Skywalker.
Anche lui è una leggenda e non della miglior specie. Non è per
inseguire quell'eredità ingombrante che suo nipote si è lasciato corrompere
dopotutto? È colpa sua quanto di Luke.
Quasi inconsapevolmente, le prime volte cerca di evitarlo,
fingendo che non sia presente. Quando se ne accorge, per dimostrare qualcosa a sé
stessa, fa esattamente l'opposto.
C'è qualcos'altro che lo distingue dagli altri fantasmi della
Forza. Non è mai uguale. Il suo aspetto differenzia la tensione variabile del
tempo, del suo andamento.
A volte è un adolescente. A volte è un bambino ed è un meccanico
con capacità di gran lunga superiori alle sue. Lo impara in una delle sue
primissime manifestazioni.
Rey sta riparando i sensori visivi binoculari di un WED Treadwell
classe 2. Si allontana un attimo e quando torna, il danno non solo è stato
aggiustato, ma il droide sta già lavorando, impegnato a sistemare il
vaporizzatore di umidità che le stava dando problemi. Del bambino non c'è
traccia.
*
Dopo quella volta, lo vede spesso. Diventa uno dei suoi più
assidui visitatori, perfino più di Luke e di Leia, un compagno permanente nelle
sue passeggiate, nelle escursioni agli spazisporti per incontrare Chewbe.
È molto abile a contrattare e durante le negoziazioni gli piace
mettersi alle spalle dei mercanti a fare smorfie e facce buffe che costringono
Rey a mordersi l'interno delle guance per mantenere una parvenza di
rispettabilità.
È difficile conciliare il bambino precoce e il ragazzo che non è
mai serio con una delle più grandi minacce mai esistite, l'uomo asservito
all'Imperatore per anni. Una volta, quando si spinge fino a Mos Espa per fare
rifornimento e barattare alcuni viveri, lo vede guardarsi attorno. Questa volta
è di nuovo un bambino e nel momento in cui riceve i crediti in cambio dei pezzi
che ha rivenduto, lo vede correre verso una sezione della città che non
conosce. È costretta a seguirlo, divisa tra curiosità e fastidio.
Quando lo raggiunge, lo trova nell’androne esterno di una
struttura cilindrica color sabbia disposta su più livelli. Ad uno sguardo poco
approfondito non appare per nulla dissimile dalle abitazioni che la circondano,
eppure c’è qualcosa di diverso. Attraverso la Forza, se aguzza le
orecchie, può sentire riecheggiare una nenia che ricorda le filastrocche che di
solito si cantano ai bambini di qualsiasi specie quando li si mette a letto e si
rimboccano loro le coperte. Non è nulla di speciale, ma la gentilezza che soffonde
la voce è inequivocabile. Trasuda tenerezza, affetto e la scalda più di quanto
i soli abbacinanti non siano mai riusciti a fare da quando si è trasferita sul pianeta.
“Questa era casa mia,” lo sente dire.
Anakin rimane a testa china per un periodo che le pare incalcolabile.
Lo osserva mentre accarezza la pietra della costruzione con la delicatezza che
altri riserverebbero ad ammalati e persone care e qualcosa dentro di lei sembra
comprimersi sotto il peso di una tristezza abissale, di un passato che si può
solo rievocare con la nostalgia delle cose perdute nei cambiamenti, nelle
sabbie del tempo.
“Ci vivevi da solo?” Conosce già la risposta. È nella curva
spezzata delle sue spalle minute, nell’abbraccio che sembra cercare disperatamente
nel vuoto attorno a lui. Nell’eco di quella nenia che il vento sembra
trasportare in direzione del deserto, verso il mare di dune che lo compongono.
“Con mia madre.”
Per la prima volta da quando lo ha seguito nei vicoli labirintici,
Rey studia il quartiere in cui si trova. Un quartiere povero e poco
frequentato, il cui silenzio appare tanto più fragoroso considerata la poca
distanza che lo separa dalla zona trafficata in cui si barattano i viveri di
prima necessità con pezzi di ricambio.
La comprensione si fa largo dentro di lei e non è esente dall’amarezza
che tende ad accompagnare tutte le verità dolorose. “Eri uno schiavo?”
Non si irrigidisce, non esattamente. Tuttavia è innegabile quanto
ci sia una parte di lui che ancora rabbrividisce per l’orrore e il disgusto di
fronte a quella parola ignominiosa, alla condizione di sottomissione che
rappresenta.
È qualcosa che lei già sapeva e che pertanto non può davvero
scuoterla. Quanto analoghe siano le loro esperienze di vita e allo stesso tempo
quanto profondamente dissimili. Lei non ha mai conosciuto il calore di quell’abbraccio
a cui lui tuttora anela nella luce dei soli morenti. O meglio, l’ha conosciuto
solo nella dimensione onirica di incubi e ricordi sopiti.
“Il giorno in cui sono stato liberato, ho dovuto dirle addio.”
Rey annuisce. Anche questa è una realtà che le è familiare. Dire addio.
“L'hai mai più rivista?”
“Quando ero un apprendista. Tornai per salvarla. Arrivai tardi.”
La nenia cessa all’improvviso, così com’era iniziata. La sua
dolcezza stemperata viene rimpiazzata da una sensazione di freddo che le si
incunea tra le ossa, le fa formicolare la pelle. È notte e sotto un cielo
trapuntato di stelle, le vite di un intero villaggio vengono falciate via in un
momento di rabbia sviscerale in cui l’unico suono udibile non sono le urla stridule
di panico, ma il tamburellare di un cuore impazzito. È l’odio tracimante che ha
fatto sorgere un Impero di desolazione dalle macerie di una Repubblica
devastata, che ha fatto tremare la Galassia per decenni, che ha trasformato un
uomo buono in un tiranno crudele.
“Mi dispiace.” Non per il bambino e neppure per l’uomo che in
quella notte fatale ha fatto la prima di molte scelte sbagliate. No, è per la
donna, per il tepore delle sue mani irruvidite da anni di duro lavoro, per la
forma di quel suo sorriso che neppure le rughe hanno saputo rendere meno pieno,
per la morte violenta che non meritava.
Quando si volta, lo spirito che incrocia il suo sguardo è quello
del Maestro che ha da poco rinunciato alle vesti del Padawan, ma che non ha ancora
dismesso le vecchie insicurezze, il vecchio anelito d’amore.
“Che senso ha rivangare il passato? Non lo si può cambiare.”
No, non si può. È più forte di lei. Senza averne realmente l’intenzione,
Rey ripensa alla prima casa che si è costruita per sé, il suo primo assaggio di
libertà. Al giorno in cui ha trovato l’elmetto da pilota nello scheletro di un
caccia dell’Alleanza Ribelle riemerso tra le sabbie mobili. Alle tacche incise sulla
parete vicino al suo letto nell’AT-AT, a cosa rappresentavano. Nulla le è mai
stato regalato, ogni piccolo successo è stato una conquista, una lotta da cui è
uscita ammaccata e vittoriosa.
“Sono un'orfana anch’io. Per metà della mia vita ho creduto che–”
le immagini si susseguono, sono una tempesta impazzita e vorticosa nella sua
mente, ma il resto delle parole le muore sulle labbra. Ricorda a cosa ha
creduto. Parte di lei detesta l’ingenuità della ragazza che è stata, un’altra
parte di lei vorrebbe restituirle l’innocenza che le è stata strappata via nel
momento in cui ha scoperto il segreto sulla sua famiglia. “Sono stata una
stupida.”
La mano di Anakin sfiora la sua ed è una carezza che lei riconosce
perché è la stessa che gli ha visto rivolgere poco prima al muro di argilla di
quella che un tempo è stata la casa in cui è cresciuto. Non può davvero percepirla, è simile a uno
sfrigolio, al sibilo di una corrente d’aria che si crea durante un movimento, priva
di reale concretezza, ma non di significato. Il suo profilo è acuminato e
assomiglia a un miraggio sul punto di scomparire. Anche la frase che pronuncia ha
l’essenza di un abbaglio.
“Avevi speranza.”
*
"Cosa? Ho qualcosa sulla faccia?"
Considerata la fissità del suo sguardo sul suo viso, Rey ne segue
la traiettoria e si strofina con forza il naso e la fronte, dando per scontato
che siano sporchi di olio. Sono nella rimessa e sta lavorando sul motore del
suo speeder.
L'espressione cogitabonda non subisce mutamenti sostanziali. Al
contrario Anakin annuisce come se avesse finalmente compreso qualcosa, carpito
uno dei segreti dell'universo. "Mio nipote mi assomiglia più di quanto
pensassi.”
Se prima Rey era semplicemente confusa, ora le sembra di essere
stata colpita in testa, di star affondando in acque pericolose.
"Nondimeno è riuscito lì dove io ho fallito," lo sente ammettere
tranquillamente. Il suo sorriso è qualcosa che spezza il cuore e le ricorda lo
sguardo del bambino che l'ha guidata nel quartiere degli schiavi a Mos Espa
mesi fa, che ha condiviso con lei storie e segreti. Le ricorda un spinebarrel
appassito. Le ricorda il suo riflesso nello specchio.
"Sai perché ho ceduto alle lusinghe del Lato Oscuro?"
Fa un cenno di diniego con la testa. La verità è che sa molto poco
di Anakin Skywalker. Solo i cambiamenti che il tempo ha operato sul suo corpo
nel passaggio dall'infanzia all'età adulta. Non sa nulla dei cambiamenti del
cuore.
Non sembra sorpreso dall'ammissione. Ha un'espressione triste, di
quieta determinazione.
"Avevo una moglie."
Quando avvicina la mano alla sua fronte in una tacita richiesta,
Rey sa cosa le sta chiedendo. Il permesso di mostrarle quella parte del suo
passato. Chiude gli occhi.
La donna che le fa vedere all'inizio è poco più grande di una
bambina. Ha il viso dipinto di bianco e indossa vestiti voluminosi,
acconciature complicate e piene di monili pesanti. Ha un'aria risoluta ed
energica che Rey riconosce per averla vista milioni di volte sul viso di
un'altra donna, ma tiene a bada le emozioni con la consumata abilità di un
diplomatico. I suoi occhi sono gentili e cauti, la sua voce ha un suono simile
a uno scampanellio, al ritmico cadere della pioggia, per niente imperiosa,
incredibilmente garbata.
La stessa donna, più grande, trasfigurata dalla luce del tramonto.
È vestita d'azzurro, si sta pettinando i lunghi capelli ricci e quando si volta
a guardare nella sua direzione con un'espressione soffusa di dolcezza su tutto
il volto raggiante, il suo sorriso risplende con la potenza di mille soli.
Rey batte le palpebre e assaggia sulle labbra il sapore salato
delle lacrime. Non si era accorta di aver iniziato a piangere. Non ha potuto
farne a meno. Lo strazio e la perdita sono indescrivibili, ma familiari. Si
sono solo aggiunti al dolore che lei già aveva da sopportare.
"Avevo perso mia madre qualche anno prima. Avevo paura.
Accecato com'ero dalle mie emozioni, l'ho quasi uccisa."
"Qual era il suo nome?"
Anakin sospira e poi in un soffio, come se pensare a lei fosse
qualcosa di doloroso, il ricordo di lei fosse ancora lancinante e solo
pronunciare il suo nome aumentasse il tormento di non averla accanto a sé - e
non è qualcosa che lei può capire, in cui può immedesimarsi?
"Padmé. Il suo nome era Padmé." E io la amavo, le
sembra di sentire con estrema chiarezza. La amavo e l'ho persa.
"Era molto bella."
"Me la ricordi," lui dice. Oggi non le è apparso come un
bambino e neppure come un adolescente. Rey non ne sente la mancanza. Per la
prima volta ritrova entrambi nel giovane uomo imperioso che le è seduto di
fronte. "A volte rivedo il suo sorriso nei tuoi occhi. Hai lo stesso
carattere amabile. Sei coraggiosa e compassionevole com'era lei."
Dopo averla vista nei suoi ricordi e aver percepito la profondità
di quello che lui prova, esiste davvero un complimento più alto?
Nella rispettiva solitudine si sono trovati, ma non importa cosa
facciano, con chi siano o quanto sereni possano sentirsi a volte, nelle rare
giornate di sole, la sofferenza non scomparirà mai del tutto, mai davvero.
"Lo rimpiangi?" gli chiede. Non l'amore, ma la paura che
l'amore ha innescato e il male che quella paura ha provocato.
Il sorriso che le rivolge ha il retrogusto delle lacrime che ha appena
pianto, dei rimpianti che infestano i suoi sogni. "Come non potrei?"
*
È una sera quieta, come lo sono quasi tutte le sere che trascorre
con Leia. Sedute sul portico, Rey continua a scaldarsi le mani con la bevanda che
ha distillato dai frutti di una pianta di deb-deb. È leggermente alcolica, più
di quanto vorrebbe, ma in una giornata come questa, in cui anche la memoria del
dolore è frammentaria, l’idea di conciliare il sonno invece che rincorrerlo, non
le pare una prospettiva da scartare a priori.
Forse è quello che le permette di rispondere con un sorriso che è quasi
del tutto sincero. “Se c'è una famiglia nell'intera Galassia in grado di
riscrivere il destino sicuramente è la vostra.”
La morte non è riuscita a privare lo sguardo di Leia del suo
fulgore, del vigore racchiuso al suo interno, a ridurne la perspicacia affilata
come una lama a doppio taglio. Tantomeno a zittire la sua sete di giustizia che
non si è mai ritratta neppure di fronte a verità scomode che secondo alcuni
sarebbe stato preferibile seppellire e mettere a tacere. “Mio figlio ha scelto
con saggezza.”
Rey non sussulta, lascia semplicemente che la notte accolga il
boato di quella deflagrazione raccolta, inglobandola nel suo buio.
Forse avrà bisogno di un secondo bicchiere, alla fine.
*
Mancano due settimane al primo anniversario della sconfitta definitiva
di Palpatine quando il lutto arriva a picchi inimmaginabili, raggiunge il suo
perigeo.
Rey è talmente concentrata sul proprio sconforto, come instupidita
dalla ferita ancora aperta del legame reciso, che la realtà diventa un delirio
a occhi aperti. Nel suo letto, raggomitolata su sé stessa, fissa imbambolata il
muro per intere ore. È sorda, cieca. Il suo corpo non le appartiene più. Le è
avulso.
Li sente confabulare nella stanza, sussurri che diventano via via
più concitati dopo due giorni trascorsi in quel modo.
Rey capta le parole "disidratata" e "stato di
prostrazione" e poi, in un sussurro che ha qualcosa di violento e che
risuona nelle sue orecchie come l’ennesima tempesta di sabbia, il nome che si è
vietata di pronunciare nell'ultimo anno trascorso su Tatooine. Che si è vietata
perfino di pensare.
Si addormenta. Il risveglio è sofferenza. Ogni parte di lei sta
andando a fuoco e ancora non è abbastanza, non è nulla in confronto ai rottami
dentro di lei.
Improvvisamente, dopo quella che sembra un'eternità, il dolore si
affievolisce. Nei vaneggiamenti provocati dalla febbre, le sembra di
intravedere un'ombra massiccia china su di lei. Una mano sfiora la sua fronte,
le scosta i capelli dal viso accaldato. Il tocco è familiare e così gentile che
potrebbe piangere.
La volta successiva in cui riprende conoscenza, lucida per la
prima volta dopo giorni, è troppo debole per parlare. Gli spiriti sono tutti
con lei, ad eccezione di uno. È stato un sogno, è stato sciocco sperare,
ancora più sciocco credere che -
Le lacrime sono amare questa volta, brutte. I singhiozzi fanno oscillare
gli oggetti nella stanza, fanno vibrare i muri, la stessa terra trema e il
senso di perdita è un vuoto indelebile, indescrivibile.
Mentre gli altri spiriti rimangono a guardare, Anakin è l'unico
che si fa avanti. È vecchio come non lo ha mai visto, non il giovane
apprendista turbolento e neppure il maestro spericolato, ma l'uomo che ha
sfidato il suo aguzzino, il suo mentore, che si è salvato grazie all'amore per
suo figlio. Le poggia una mano sulla spalla e anche se è incorporea e non può
davvero percepirla, stranamente le è di conforto.
Anakin comincia a parlare lentamente, piano, svelandole quello che
le è stato tenuto segreto per un anno intero, sin dall'inizio. Poco alla volta
Rey smette di piangere. Poco alla volta il mondo smette di tremare. Ma non il
suo cuore.
*
Un anno e un mese dopo la sua morte, Ben Solo compare nella sua sala
da pranzo.
Rey sta preparando la cena e non distoglie lo sguardo da quello
che sta facendo. Ormai sa riconoscere i segni distintivi che anticipano
l'arrivo di uno spirito, il leggero sfarfallio al limitare del suo campo
visivo, una specie di frizione nello spazio, come una contrattura nell'aria. Conosce
abbastanza i vari spiriti da aver imparato che ognuno si manifesta in modo
diverso. Ci sono spiriti che arrivano quietamente, come brezze leggere. Altri
che scoppiano di energia, che fanno vibrare l'aria attorno a loro. E poi c'è
lui, che non appartiene a nessuna delle due categorie.
"Perché sei qui?"
È immobile al centro della stanza, ridicolmente alto e
d'intralcio. Non indossa i vestiti in cui è morto, ma una tunica Jedi, così
scura da sembrare nera. Può percepire il suo disagio e allo stesso tempo la sua
risoluzione. "Sai perché."
Rey annuisce. Certo che lo sa. "Non eri mai venuto
prima," osserva in tono misurato, come se si trattasse di una normale
conversazione e non di qualcosa che stravolgerà la sua vita per l'ennesima
volta.
Lo sente esitare e in quell'attimo di indugio lei poggia le mani
attorno ai bordi del tavolo, serrando forte le dita. Non sa cosa potrebbe fare
altrimenti. Non vuole scoprirlo.
"Non eri mai stata così."
Perciò è questo? Pietà? Vorrebbe avere il coraggio di
chiederglielo, invece che limitarsi a pensarlo. Vorrebbe avere la forza di
ammettere ad alta voce quanto le sia mancato tutto questo, per quanto penoso
sia.
Esattamente questo, esattamente così: averlo senza averlo, non
davvero. Averlo a portata di mano e non poterlo toccare, come agli albori di
tutto, all'inizio del loro legame, quando non sapeva ancora quanto importante
sarebbe diventato e che perderlo l'avrebbe portata ad un passo dalla pazzia. Le
è mancato tutto di lui, ogni dettaglio, a partire dal modo in cui la osserva,
come se volesse fagocitarla, con occhi profondi e seri che adesso, nella luce
purpurea dei due soli che stanno tramontando, hanno acquisito una serenità del
tutto inedita e allo stesso tempo familiare. Le è mancato sentirsi di nuovo
integra, non spezzata o menomata. Le è mancato respirare con la consapevolezza
di non essere sola. Le è mancato lui. Ben Solo.
"Anche tu a me." La sua voce è poco più di un sussurro,
tuttavia incredibilmente rumoroso nel silenzio che li circonda.
Rey chiude gli occhi. Il legame reciso brucia dietro le sue
palpebre come un'ustione prodotta da un colpo di blaster.
"Vorrei essere venuto prima."
È la conferma che ha atteso e che voleva. Il colpo non giunge
inaspettato, ma fa male lo stesso e la coglie impreparata. Perché lui sarebbe
potuto venire prima. Se avesse voluto, avrebbe potuto rendersi visibile dal
principio. Ed è questo, la verità incontrovertibile contenuta in questa
scoperta, ad essere la cruna del problema. Lui non ha voluto.
"Perché?"
Ben fa una smorfia. "Sono stato stupido."
Non è una risposta soddisfacente. "Perché?" chiede di
nuovo, inesorabile, implacabile. Lui sussulta come se lo avesse colpito, il che
è semplicemente assurdo. Chi dovrebbe sentirsi tradito è lei, non lui.
"Mi dispiace." La vulnerabilità nella sua espressione
corrucciata, le sue spalle incurvate, il sincero rammarico nella sua voce,
tutto la tocca nel profondo, sta tirando le corde del suo cuore. No, non si
lascerà intenerire. Un anno fa lo ha visto morire. Lo ha creduto morto e perso
per sempre fino a un mese prima.
"Cerca di capire."
"Dovrei?"
"Dopo che sono scomparso-" Lui trae un sospiro profondo,
come se stesse collezionando i suoi pensieri, stesse cercando di tramutarli in
parole. "Ero lì, ho visto tutto."
"Visto cosa?"
Per la prima volta i loro occhi si incrociano e tutto in Rey
ribolle, di rabbia e indignazione e di un desiderio ardente, un desiderio che
supera qualsiasi capacità di comprensione.
Ben sembra scosso esattamente quanto lei. La sua luce è vibrante,
rischia di accecarla. "Hai raccolto i miei vestiti, ti sei incamminata
verso la tua astronave."
Rey sbatte le palpebre, interdetta. Non capisce cosa stia cercando
di dirle, perché le stia raccontando proprio questo. Ricorda tutto alla
perfezione, esattamente come lo ha descritto, come se fosse successo il giorno
prima e non fosse trascorso un anno. Un anno soltanto. Già un anno.
Non capisce finché - capisce. Tutto a un tratto capisce e in
risposta il suo corpo ha un moto di repulsione, si irrigidisce come se volesse
negare la sola idea. Ringhia e il verso che emette ha un suono animalesco,
minaccioso, pericoloso.
Ben ha gli occhi rivolti verso il basso. Se prima è stato lui a
cercare insistentemente il suo sguardo, ora i ruoli si sono invertiti. Quando
parla, sembra che la stia supplicando di comprendere il suo punto di vista. La
frase successiva, sussurrata a voce così bassa che è una fortuna che lei riesca
a sentirla, è il colpo di grazia. "Non hai nemmeno pianto."
È un'orribile, spietata menzogna. Rey ricorda la prima notte
trascorsa sulla Base della Resistenza, mentre il resto del pianeta festeggiava
e la Galassia era in giubilo e nessuno, a parte lei, conosceva il prezzo del
sacrificio pagato, piangeva la morte di Ben Solo. È stata la prima di molte
notti insonni. Abbracciata ai suoi vestiti e con la Forza che mulinava attorno
a lei come impazzita. Rattrappita e svuotata, la gola gonfia di lacrime non
ancora versate e un lutto così radicato, così ampio da sembrare un buco nero,
un vuoto che niente e nessuno avrebbe mai più colmato.
Non ha pianto, non davvero, non quella notte.
Mai mostrarsi deboli. È la prima regola di sopravvivenza di ogni
scavanger. È una lezione che ha imparato da subito su Jakku. Anche quando la
nostalgia di cose senza nome, luoghi e persone mai viste la coglieva, non ha
mai mostrato il proprio abbattimento, non si è mai abbandonata completamente
alla malinconia. Anche l'attesa deleteria della sua famiglia non le ha mai
impedito di avere una visione pratica della vita, di ciò che andava fatto per una
rapida risoluzione dei problemi.
Una parte della sua mente non può confutare quell'accusa dura,
ingiusta ed è la parte pragmatica e logica di lei, ma un'altra parte, quella
sentimentale che nutriva una speranza fiduciosa e puerile, che contava i giorni,
incidendoli sul metallo del ventre di un AT-AT, si sente ferita, è scioccata.
Che proprio lui, l'altra sua metà, lui che ha visto ogni suo ricordo, condiviso
ogni suo pensiero, arrivi a mettere in dubbio che lei –
Rey ha un cuore e la prova è il numero di volte che Ben Solo
glielo ha spezzato.
"Cosa sai del dolore che ho provato?" domanda
freddamente. Perché credi che mi trovi qui, ai confini della galassia. Perché
credi che abbia scelto proprio questo pianeta.
Percorre lo spazio che li separa e si sposta di fronte a lui. Non
piange e forse è questa la cosa peggiore di tutte. Ha pianto tutte le lacrime
che aveva, ma non è servito a nulla. Non ha portato alcun sollievo, non le ha restituito
nemmeno una parvenza di serenità.
"Bastardo," dice. Le sue mani tremano, prudono per il
desiderio di schiaffeggiarlo, spingerlo, strattonarlo. "Che razza di
egoista riporta in vita qualcuno e poi scompare?"
"Hai sempre saputo come sono. Mi amavi nonostante i miei
difetti.”
Si ritrae, ma il danno ormai è fatto, è irreparabile. I muri che
ha eretto attorno a lei con tanta attenzione e cura stanno cominciando a
crollare uno ad uno. Vorrebbe gridare fino a perdere la voce, invece si porta
una mano davanti agli occhi per evitare che al loro interno lui veda l’enormità
sconfinata del disastro che ha causato, il terremoto che sta già imperversando dentro
di lei. Ha trovato l’amore, ma alla fine è rimasta comunque sola. Che razza di
finale è uno del genere? Che vita è questa?
“Quella che hai scelto per te stessa,” risponde Ben.
Rey indietreggia. Non è così che doveva finire, vorrebbe dirgli, invece
tace. “Perché mi hai salvato?”
“Speravo- non immaginavo questo. Suppongo di aver sopravvalutato
la tua resilienza.” Si passa una mano tra i capelli e sorride in punta di
labbra come lo ha visto fare in un’unica altra occasione. È un sorriso che fa
male perché lei lo associa al momento in cui aveva creduto di aver trovato
quello che aveva cercato tutta la vita, poco prima di perderlo definitamente. È
un sorriso che la riporta ad allora, che le ghiaccia il cuore.
“O di aver sottovaluto i miei sentimenti per te.” È impossibile
fraintendere il sentimento con cui la sta guardando, l’amalgama di gioia e
furia e possesso. Sono i suoi stessi sentimenti. Li sente agitarsi nel suo
petto, risucchiarle il respiro. “Non mi hai mai detto addio.”
“Non l'ho fatto, è vero. Non avevo intenzione di farlo allora, non
ne ho adesso. Non l'avrò mai. Non sono abbastanza forte. Non posso rinunciare a
te.”
Non vorrebbe essere così debole, eppure, quando lui le sfiora la tempia,
non si scosta, non rifiuta quella vicinanza impossibile. Sa che dopo sarà
perfino più doloroso, che scendere a patti con quello che quest’illusione comporta
la spezzerà e che rialzarsi in piedi sarà praticamente impossibile. È riuscita
a rialzarsi una volta, ma questo non significa che riuscirà nell’impresa una
seconda. C’è un limite alla sua ostinazione, al numero di volte che può riprendersi
da una ferita mortale.
Lascia che il suo corpo assimili il contatto fisico che è così
reale da far male, così diverso da quello degli altri spiriti. È perché sono
una Diade? Questo significa che neppure camminare su due piani di realtà
diversi è servito davvero a dividerli? Che l’unico motivo per cui si è convinta
di essere rimasta sola è perché lui gliel’ha lasciato credere?
Si districa dal tepore di quel semi-abbraccio, facendo violenza a
sé stessa. Non si era accorta di aver socchiuso gli occhi. Quando li riapre è
per vedere la ferita che lui le ha inferto amplificarsi e riflettersi nel modo
in cui la sta studiando, in cui sta prendendo cognizione del suo errore di
calcolo, dello sbaglio madornale che ha commesso, del torto che ha fatto a
entrambi. Egoista fino in fondo, anche dopo la morte.
“Ma l'hai fatto,” gli risponde. Il gelo che prova non è nuovo, ha
le fattezze di un amico che le dà il bentornato. “Mi hai abbandonata. Dov'eri
quando avevo bisogno di te?”
È crudeltà mostrargli la portata della sua sofferenza? È cattiveria
scagliargli contro quanto è germogliato da ciò che lui stesso ha seminato? Forse.
Lui non è stato da meno però.
“Rey, ti prego.”
Quando allunga una mano verso il suo viso, questa volta lei è
lesta a schiaffeggiarla lontana da sé. Come lui è riuscito a vivere senza di
lei, saprà fare altrettanto e questa volta sarà una sua decisione e non la
scelta di qualcun altro che è stata costretta a subire passivamente.
“Lasciami da sola.”
“Rey-”
Lui fa un passo verso di lei, ma è perfettamente inutile. Non è
una distanza fisica a separarli adesso.
“Ho detto che voglio stare da sola!”
La Forza dirompe in un’esplosione, sotto forma di due fulmini. Uno
colpisce la parete opposta, creando uno squarcio che si affaccia sul cortile
interno e facendo sollevare una nube di detriti e polvere. Il secondo si
infrange a pochi millimetri dalla spalla sinistra di Ben, che non batte ciglio.
Il rimorso è istantaneo e acuto. L’assenza di una risposta da
parte di Ben incrementa il suo sconforto.
“Non me ne andrò. Ho sbagliato. Pensavo che fosse
nell'interesse di entrambi agire come ho fatto. Pensavo che mantenendo le
distanze, i sentimenti che provo per te si sarebbero affievoliti.”
“È successo?”
Di nuovo quel sorriso lampo, impossibile e oh, così caro. “Conosci
già la risposta.”
“Ho bisogno di tempo. Per riflettere e –” indica nella direzione
della parete parzialmente distrutta e la risata di lui serve a smussare il
caotico rimugghiamento di quello che sta provando.
“Lo so.” Lo osserva mentre annuisce con aria solenne e irreprensibile.
Vorrebbe odiarlo e invece si trova a lottare contro l’istinto di fare qualcosa
di stupido come prendergli il braccio per trattenerlo o toccare con mano la
duttilità dell’accenno di sorriso che intravede appropinquarsi nella curva
della sua bocca. “Perdonare non significa dimenticare.”
Alla fine è impossibile avere la meglio contro i suoi stessi
impulsi. Afferra l’orlo della manica e le sembra quasi di percepire la solidità
del corpo sottostante. Non riesce a incrociare il suo sguardo. “Non scomparire.
Non potrei sopportarlo, non di nuovo.”
La sua risposta non tarda ad arrivare e contiene la promessa che
aveva sperato di ascoltare. “Mai più. Non ti lascerò mai più, lo prometto.”
Le sue dita stritolano il lembo di tessuto della manica. È come
cercare di imprigionare dell’acqua.
Indesiderato, l’ennesimo scampolo di verità indesiderata sboccia
nella sua mente. Vuole credergli.
Sa che lui ha ascoltato il flusso contradditorio dei suoi pensieri.
Lo sa dal modo in cui la tensione che emanava lo sta abbandonando poco alla
volta, da come crolla sulle sue ginocchia e dall’abbraccio spasmodico in cui la
avviluppa. L’acqua incontra la pietra e scava tunnel nascosti e invisibili agli
occhi degli osservatori poco attenti.
Rey si protende in avanti per ricambiare l’impeto del suo abbraccio
e qualcosa di umido e freddo permea la stoffa della tunica che indossa, all’altezza
delle clavicole. L’istinto di piangere è quasi impossibile da sopprimere, per
la prima volta sarebbe bene accetto. “Mi ero dimenticata di quanto fossi
seccante.”
Lo sente trattenere una risata che è per metà un singulto.
*
Perdonare
non è dimenticare.
Ci
sono giorni in cui il tradimento di quella verità omessa, della sua assenza per
quell’intero anno di menzogne, fa bruciare l’aria tra di loro ed è come rivivere
un altro capitolo della loro storia. È come tornare in quella sala del trono,
mentre scintille di fuoco piovevano dal soffitto e agli angoli della stanza e
il fumo – insieme a un sentimento acerbo, ma già difficile da gestire – rendeva
faticoso respirare. Lui e le scelte impossibili a cui l’ha costretta sin dall’inizio.
Lui e gli ossimori che racchiude. Lui che è l’equilibrio perfetto di due
emisferi diametralmente opposti e agli antipodi.
Ci
sono giorni in cui la sua presenza è un’agonia.
Il legame palpita e pulsa come un essere senziente. Presagendo
cosa significhi, Rey afferra il mantello e la staffa e si dirige verso i
vaporizzatori di umidità. Accelera il passo e non si ferma neppure quando lui si
manifesta.
La collera si irradia da lui ad ondate inequivocabili. Sa che deve
avere le braccia stese contro i fianchi, le mani strette a pugno, in un
evidente tentativo di tenere sotto freno la sua irritazione. Sembrano passate intere
generazioni dall’ultima volta che l’ha guardata con la stessa aria di bufera. È
strano sentire la mancanza anche di quei giorni?
“Agonia?” Lo sente dire, la voce distorta come se le stesse
parlando dal modulatore del suo vecchio elmetto. La sabbia si solleva in un
turbine che le vola contro, le graffia la pelle e le fa rimpiangere i suoi protettori
oculari. “Ti ho stretto tra le mie braccia. Il tuo corpo era freddo e i tuoi
occhi specchi senza vita.”
Non batte ciglio. Non è un’immagine che le risulta particolarmente
difficile rievocare. “E io ho abbracciato il vuoto dopo che ti ho visto scomparire
sotto i miei occhi.”
La sabbia smette di agitarsi, torna ad essere un mucchio di granelli
roventi da calpestare. Se solo fosse così facile spegnere anche i sentimenti.
Ricomincia a camminare. Non sente il rumore dei suoi passi, ma non
ha bisogno di voltarsi a controllare per sapere che lui la sta seguendo.
“Siamo uguali, io e te.”
Ne dubita.
“Ciò che intendevo dire- ciò che intendo è che siamo molto simili.
Ciò che siamo, da dove proveniamo, il potere che scorre dentro di noi, in parte
eredità e in parte scelta. Siamo simili, ma è nelle nostre differenze che ci
completiamo. È in tutto quello che ci separa che mi sono innamorato di te. È
stato il bisogno di colmare quello spazio ad attrarmi a te.” Il suo sospiro è
gemello di quello incastrato in fondo alla sua gola. “Rey, ti prego.”
Non risponde, ma allunga un braccio all’indietro. Ben è lesto a
prendere la mano che lei gli ha teso e prima di stringerla tra le sue, preme un
bacio veloce e lieve su ciascuna delle sue nocche. È un gesto intimo e
deferente. La fa tremare in modi su cui preferisce non concentrarsi.
Quando lui ricomincia a parlare, la sua voce è roca, ma non più
robotica. “Siamo stati soli per metà delle nostre vite, circondati unicamente
dalle nostre aspirazioni. Con un’unica differenza. La tua solitudine rende più
facile amarti, per la commiserazione o l’ammirazione che induce in chi ti
conosce. La mia invece mi ha spinto ad odiare l’universo e me stesso. Non è un
sentimento unilaterale perché mi ha fatto detestare in risposta con la stessa
intensità.”
Ha capito quello che sta cercando di dirle, ma allo stesso tempo-
“Ben, io... non posso.” Si volta e la desolazione nel suo sguardo
è tale che non riesce a trattenersi oltre. Per questo aggiunge a bassa voce, come
una promessa: “Non ancora.”
*
“I tuoi cavalieri.”
“Intendi i cavalieri di Ren,” lui la corregge con la solita
pedanteria.
Il mezzo ghigno che le rivolge ha l’apposito scopo di essere
irritante. Rey non raccoglie la provocazione. Continua a controllare che i condotti
che trasportano parte dell’acqua al giardino idroponico non siano ostruiti. È un
controllo che esegue mensilmente insieme a quello del generatore di corrente
del bioconvertitore. “Non impugnavano spade laser. Perché?”
“Conosci già la risposta. Cosa cerchi?”
Scrolla le spalle e passa al condotto successivo. “Una conferma
alle mie supposizioni, forse.”
“Perché credi che fossi l’unico a brandirne una?”
“Non per distinguerti, non sarebbe stato necessario.”
“Non erano Jedi, non erano Sith. Erano solo individui animati
dallo scopo sbagliato, alla ricerca di potere.”
“Come te,” lei ritorce prontamente, solo per stuzzicarlo. Entrambi
hanno imparato a riconoscere i limiti entro i quali possono muoversi senza correre
il rischio di inimicarsi l’altro e ogni giorno quei limiti sembrano farsi più sottili
e lo spazio libero entro cui spostarsi senza restrizioni aumenta al punto in cui
le pare che non esistano più vincoli di alcun tipo tra di loro.
Questo tunnel ha una piccola ostruzione. Rey si concentra e ne trova
la causa. Affidandosi alla Forza, comincia a spostare l’intralcio verso l’uscita.
Non sono passati che una manciata di secondi quando percepisce l’energia di Ben
affiancarsi alla propria e dirottarla, facendola confluire nella sua. Non è la
prima volta che succede.
“Come me,” lui risponde, “ma non come me. Vedi la differenza?”
Se la vede?
La Forza sembra cantare attorno a loro, come se percepisse la loro
felicità e volesse farne parte. In momenti come questo, il confine che li separa
sembra assottigliarsi come ombre crepuscolari.
“Inizio a farlo.”
*
“Questo non è il tuo posto.”
È un argomento che ha del ripetitivo per la frequenza con cui
tende a trasformarsi in un’accesa discussione. Ben è convinto che il tempo che
sta trascorrendo su Tatooine sia uno spreco delle sue risorse e dei suoi
talenti. La vorrebbe altrove, al centro della scena politica o a compiere gesta
eroiche che rendano il suo nome eterno, che la ricoprano di gloria. Ma la
gloria non scalda il letto nelle lunghe notti insonni, non fa compagnia nei
pasti solitari, non riempie le giornate di luce e musica e pace.
Se fosse meno stanca, probabilmente il riconoscimento delle sue
capacità e l’implicito apprezzamento attutirebbero come al solito il fastidio che prova. È
stata una giornata tediosa. È parte del motivo per cui risponde più bruscamente
di quanto farebbe di solito. “Non sta a te deciderlo.”
Spera che lui colga l’invito sottinteso, ma ovviamente, trattandosi
di Ben-
“Potresti anelare a ben altro, una vita di gran lunga superiore a
quella che stai vivendo su questo pianeta dimenticato!”
Non capisce che sta proiettando su di lei aspirazioni che le sono
estranee? Non è quello che desidera. Non l’ha mai voluto. Quello che cercava
era una famiglia. Pensava di averla trovata, ma sono morti, uno dopo l’altro. Mi
avete lasciata sola.
Per un lungo istante, il suo silenzio le fa credere che lui abbia
desistito dall’ennesimo e futile tentativo di farle cambiare idea.
“Cosa mi dici dei tuoi amici?”
I loro saluti non sono stati privi di una certa dose di acrimonia
e malcontento. Non da parte di Finn, che ha compreso appieno la sua necessità
di ritrovare un luogo in cui non si sentisse sprofondare ad ogni passo, in cui
poter ricostruire la propria identità, ma che allo stesso tempo non ha cercato
negare o nascondere quanto avrebbe sentito la sua mancanza. Poe non l’ha propriamente
attaccata, ma l’ha accusata di sconsideratezza e di aver sabotato con la sua
noncuranza le basi di un ritorno in auge a rapporti più proficui con l’Ordine
Jedi. Rose ha pianto, vedendola andare via. Sotto lo strato di vestiti
protettivi c’è il ciondolo dorato che le ha dato come pegno della promessa che
si sono scambiate, da restituirle al suo ritorno. Chewbe non l’ha giudicata e il
suo abbraccio è stato l’unico che lei non ha sentito come un’ancora a trattenerla.
Il ciondolo è freddo contro la sua pelle, improvvisamente sembra
che il suo peso sia aumentato in modo esponenziale. “Loro non capiscono.
Vogliono cose da me, il mio impegno, il mio aiuto a ricostruire quello che la
guerra ha distrutto.”
Se anche è stupito dalla sua ammissione, Ben non glielo lascia vedere.
“È per questo che sei scappata qui? Per trovare rifugio dalle tue
responsabilità? Perché non ti senti pronta? Tu sei più forte di così.”
Rey scoppia in una risata amara, cinica.
“Non ti riconosco più.”
Non dovrebbe farle male. Non dovrebbe. Il proseguo di quell’ammissione
scagliata con assoluta noncuranza è una seconda ferita inferta a tradimento.
Che
fine ha fatto la ragazza piena di speranza, pertinace nelle sue convinzioni,
sicura di essere nel giusto?
Le lacrime che credeva di non poter più piangere le riempiono gli occhi. Le premono contro le ciglia. Credeva di
aver pianto a sufficienza. Si sbagliava.
Ogni verità, anche la più ovvia, arreca danno e provoca
conseguenze inaspettate.
*
“Chi sono io?”
La domanda non è rivolta a nessuno in particolare. Li sente
agitarsi attorno a lei inquieti e anche se non si mostrano, le sembra di
incanalare la loro inusuale irrequietezza ad ogni respiro.
“Tu sai chi sei,” risponde qualcuno da un punto indefinito alle
sue spalle.
Osserva le linee di calore che frastagliano l’orizzonte fino a
quando gli occhi le dolgono e non è costretta a battere le palpebre per
disperdere il riverbero di quel dolore.
“Sì, lo so e mantenere questo segreto rischia di distruggermi, mi sta
uccidendo! Come posso tornare da loro e fingere di essere qualcosa che
chiaramente non sono?” Tira un pugno contro la sabbia. “Non sono un eroe. Non
sono come Leia né come Luke. Non c’è niente di straordinario in me. Non inspiro
lealtà, non ho carisma, solo spavalderia e fortuna.” Come può fare da guida o
insegnare a chiunque quando si sente così sperduta?
Si stringe le ginocchia al petto e avvicina il viso alle gambe,
nascondendolo dietro la cortina dei propri capelli. Nella furia cieca del
momento, non ha finito di legarli.
È lui a scostarglieli dal viso come ha fatto già mesi
addietro, quando l’ha vegliata nei suoi giorni di malattia. È sempre lui
a separarli in tre sezioni e a intrecciarli in un’acconciatura che lei è sicura
di aver visto incoronare la testa minuta di una donna straordinaria che ha amato
come una madre.
Seduto alle sue spalle, mentre le pettina i capelli, districando i
nodi con le dita, Ben le parla come se fosse solo la prima di innumerevoli sere
che trascorreranno insieme in modo simile. Il suo respiro le solletica il lobo
dell’orecchio e tutto quello che desidera è di trovare rifugio e conforto tra
le sue braccia.
“Puoi farlo esattamente perché ti senti così. Credi che loro
fossero pronti? Che non abbiano provato i tuoi stessi dubbi, che non siano
stati assillati dalle stesse insicurezze? Non erano perfetti. Lo sai, lo hai
visto. Erano umani come te e me. Hanno commesso innumerevoli errori e
nonostante questo erano eroi e sono passati alla storia come tali. Non è il
nostro passato a definirci, ma il nostro intero tempo, il modo in cui lo
abbiamo speso, indipendentemente dai risultati ottenuti.”
Dopo che lui ha imprigionato l’ultima ciocca ribelle, lei si
lascia andare contro il suo petto. Quando lui la stringe a sé e poggia il mento
sulla sua spalla, Rey sente di poter ricominciare a respirare per la prima
volta dopo mesi. “Non sarò mai come loro. Non sono un Senatore, non sono un
Generale. Chi sono e cosa farò lo scoprirò strada facendo.”
“Com’è giusto che sia.”
I soli hanno smesso di tingere il cielo di tonalità colleriche e hanno
ceduto il posto a costellazioni di stelle.
“Sono stanca,” sussurra. “Accompagnami a casa, Ben.”
*
Lasciare Tatooine è come lasciare indietro un pezzo di sé, dire
addio alla bambina senza passato, alla ragazzina affamata di affetti e di
avventure, alla giovane donna aggravata dalle fatiche, dal male, da un lutto di
troppo.
Si incammina verso la luce abbacinante dei soli che già stanno
rendendo l’aria opprimente per l’afa.
La sabbia scotta sotto la pianta dei piedi nonostante le calzature.
Il profilo dei fantasmi scintilla con il lucore della pelliccia delle Vulptices
di Crait. Sono tutti lì. Maestri. Guardiani della pace. Pronti a passarle
ancora una volta il testimone, dopo aver condiviso con lei il peso della loro
conoscenza, la saggezza e il fallimento delle rispettive esperienze, il sole e
la pioggia dei loro percorsi di vita. Sono venuti a salutarla. Non è un addio.
Non lo sarà mai con loro. Ha finalmente capito. Così come ha compreso il suo
destino, il ruolo che la attende. Se prima temeva di non essere all’altezza,
ora il senso di inadeguatezza è stato soppiantato da una calma accettazione.
Vada come vada, potrà affermare di avere fallito provando.
Sono uno accanto all’altro, una colonna traslucida e infinita
quanto un firmamento di stelle, mille generazioni che continueranno a vivere,
perdurando una tradizione in cui inizio e fine coincidono.
Gli sfila accanto e ognuno di loro ha per lei un sorriso di
incoraggiamento, un cenno che ha il sapore del riconoscimento, del rispetto.
C’è cameratismo e una sorta di deferenza nel modo in cui i loro occhi si
fissano nei suoi prima di scomparire. Non è semplice familiarità, ma qualcosa
di molto più profondo e complesso. Non si sente più sola. Circondata dagli
spiriti, che siano visibili oppure no, sa cosa deve fare e le insicurezze
vengono sbaragliate in un sol colpo.
N/a:
Ogni
tanto riapprodo su questi lidi.
Questa
volta torno con qualcosa che è rimasto nella cartella delle bozze per più di un
anno e che avevo iniziato a scrivere simultaneamente ad un’altra fic, “Ed è
scomparso sin troppo presto”, per chi sempre volesse pubblicata su EFP.
Avendo
iniziato a scriverle insieme, è facile notare come le due storie siano legate dal
filo conduttore e dall’idea di base, delle assonanze e similitudini che le accomunano.
Credo ci siano qui e lì anche un paio di frasi pressoché identiche a fare
capolino…
Benché
non nata con questo scopo, ho ripreso questa storia e l’ho utilizzata come strumento
catartico per scendere a patti con qualcosa che mi è capitato di recente.
La
presenza di Anakin inizialmente avrebbe dovuto essere una parentesi più ampia e
un poco più complessa, ma poi l’ho accantonata per concentrarmi sulla rabbia di
Rey e sul modo - a tratti distruttivo - in cui affronta la perdita di Ben.
Vi ringrazio come sempre per l’attenzione e per il tempo che mi avete dedicato. Spero che la lettura sia stata di vostro gradimento.
-