Libri > Il fantasma dell'Opera
Segui la storia  |       
Autore: Julie Sarret de Angrogne    10/04/2021    0 recensioni
E se Erik e Jack the Ripper fossero amici di vecchia data legati da una misteriosa maledizione? Feroci delitti, simili a quelli avvenuti a Londra undici anni prima, turbano la Parigi di fine secolo. L'ispettore Michaud indaga, ma una intraprendente e pasticciona giornalista si mette di mezzo scombinando i piani di tutti quanti. Pastiche benevolmente ironico delle tematiche e i personaggi creati da Leroux, Kay, ALW, Rider Haggard e Pierre Benoit, con debiti verso scene di film famosi. Fantastico, ironia, un pizzico di grand guignol, malizia, sesso soft, qualche parolaccia, molte sorprese.
Genere: Azione, Satirico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Erik/Il fantasma, Sorpresa
Note: What if? | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
 <<  
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

15

STORIA DI DUE CHRISTINE

(Dove Rasselie fa un altro sogno, poi dice addio a Erik e accetta un invito a cena ma ha bisogno di un abito nuovo)

 

Che si trattasse soltanto di un sogno lo sapeva con la certezza che soltanto nei sogni si prova: riconosceva tutte le incongruenze che ne definivano l'irrealtà. Il cimitero era quello di Perros, con la sua chiesetta e le sue semplici lapidi, ma la tomba davanti alla quale stava era quella di Étienne. E lei scrutava nell'oscurità della fossa vuota. La lapide sembrava essere stata rimossa con ogni cautela e gentilmente posata al suolo, come il coperchio di una scatola di marmo, ed era intatta: il nome, le due date che racchiudevano una vita troppo breve, il sorriso incorniciato nell'argento. Il vuoto oscuro in cui guardava non le provocava neppure angoscia, perché lo sapeva impossibile. Étienne. era lontano cinquecento chilometri da quel modesto cimitero di villaggio, era al sicuro. Niente di quanto era accaduto, o poteva accadere in quel luogo, lo avrebbe mai toccato. Era notte? Certo, ma tutto attorno c'era luce; il chiarore della luna riflesso dalla neve. Si sorprese a tendere l'orecchio per cogliere un lontano suono di violino. Ma tutto era silenzio. Nemmeno il canto di un uccello notturno.

Sentiva tra le dita gli steli dei fiori, freschi e carnosi. Le corolle gialle riposavano contro il suo petto, vivide come piccoli soli. Il loro profumo era stranamente intenso, diverso, non il profumo di semplici margherite gialle. Intenso e dolce: rose e ninfee. Penetrava in lei come uno sciroppo caldo, diventava sapore sulla sua lingua. I petali palpitavano sulle sue labbra con la sofficità umida di un bacio.

Un'ombra le accarezzò i capelli e le spalle. "Guardami", le disse.

Rasselie si voltò. Étienne era a pochi passi da lei, bellissimo nell'abito delle nozze. I suoi occhi splendevano come diamanti scuri alla luce della luna.

"Sei ritornato."

"Sono sempre stato qui."

La prese per mano. Una stretta calda e sicura.

"Vieni."

"Dove andiamo?"

Étienne indicò la vuota oscurità della fossa. Rasselie sentì lo smarrimento palpitarle nella gola.

"Ma io sono viva."

"Ne sei sicura?"

Il sorriso di Étienne divenne più ampio, le labbra assunsero una piega crudele. Ogni luce aveva abbandonato lo sguardo. La mano che stringeva quella di Rasselie si era fatta all'improvviso fredda, le dita gelide e dure... ossute.

Un alito freddo saliva dalla fossa, insieme all'odore pesante della terra umida e di fiori in decomposizione. Quei fiori che prima risplendevano come piccoli soli si disfacevano contro il suo petto, intridevano la stoffa dell'abito di linfa morta e putredine. Ogni corolla era uno specchio annerito che mostrava il volto appena abbozzato di un bambino mai nato.

E anche il volto di Étienne andava mutando, i lineamenti si deformavano, le palpebre e gli angoli degli occhi si piegavano all'ingiù, le labbra divenivano sottili e la bocca sembrava farsi più grande, il naso si appiattiva, le guance divenivano scavate... come se la forza di gravità trascinasse le sue sembianze verso terra. Il suo volto si fondeva come cera, svelando il biancheggiare delle ossa e le vuote cavità del teschio. L'abito elegante pendeva dallo scheletro tramutato in grottesco spaventapasseri.

Rasselie aprì la bocca per gridare ma la sua voce era flebile e lontana, soffocata dentro di lei. Nessuno poteva udirla mentre lo scheletro che era stato Étienne la attirava verso la fossa.

"Lasciala, lei non ti appartiene."

Era la voce di Erik. Rasselie si voltò, un movimento tanto faticoso da strapparle un lamento. Ma di nuovo vide Étienne, negli abiti del giorno del matrimonio, e il bel viso aveva un'espressione determinata.

"Vieni da me, Sélie." Mosse una mano in un gesto di invito; e anche il modo di gestire ricordava quello di Erik, imperioso e languido insieme: un gesto da ipnotizzatore. Ma quello era Étienne, al di fuori di ogni dubbio. Rasselie lo avvertiva in sé, sotto la pelle e nell'anima, come fossero fusi in un abbraccio. Sicuro di sé, sfidava l'altro sé stesso fatto di morte.

"Tu non sei me. Sei soltanto ciò che resta delle mie sembianze umane."

E la Morte allentava la sua stretta gelida, le dita scheletriche lasciavano la mano di Rasselie.

Nel piccolo cimitero, la luce andava facendosi più chiara, ma non era un annuncio del mattino. Vivido chiarore si spandeva tutt'attorno, e in esso vibrava la musica. La voce della Fiamma.

"Anche i morti debbono morire. Se non esiste un aldilà, se la morte è semplicemente sonno infinito senza sogni, nulla di ciò che accade nel mondo dei viventi può ferirli. Ma se essi ci osservano, come possono trarre pace dal nostro tormento? Libero dalle fragilità della vita, il loro amore per noi si è fatto totale e puro. Ormai estraneo a egoismi e gelosie, desidera soltanto la nostra felicità. Perché solo attraverso chi vive, il defunto può ancora sentirsi vivo. Vivere ed essere felici è l'omaggio che dobbiamo a tutti coloro che hanno percorso insieme a noi il cammino della vita, a lungo o per breve tempo. Gioiamo di ciò che ci hanno dato, ringraziamoli per i loro doni; perché nulla potrà sottrarci quello che abbiamo avuto e gustato insieme a loro. È un tesoro che nemmeno la Morte può rubarci."

Così cantava la voce della Fiamma, senza pronunciare una sola parola. Ma ogni accordo era un discorso limpido e preciso che non lasciava al dubbio lo spazio della più piccola pausa.

Ormai tutto, intorno e dentro di lei, era musica e luce. Davvero non c'era bisogno di attraversare deserti e foreste fino al cuore del mondo per trovarle. Erano ovunque, erano l'anima della Terra.

"Dormi e dimentica il dolore. Il dolore non esiste, se tu non lo corteggi. E ricorda: ogni cosa inizia e finisce a tempo e luogo".*

*

Quando si svegliò pensò che fosse ancora notte, finché i lontani rintocchi di un campanile le rivelarono che era di nuovo notte.

La socievole locandiera le spiegò con un sorriso come i suoi compagni fossero partiti quel mattino: i conti di Chagny con una carrozza noleggiata apposta, l' "orientale" e "quel bel giovane signore" con la diligenza per Lannion, raccomandandole di "lasciar riposare la signora" fino a quando avesse voluto. Eh sì, i due stavano entrambi piuttosto bene e l'avevano pagata generosamente.

Se ci fossero state spiegazioni tra Erik e i conti di Chagny Rasselie non lo seppe e non osò chiederlo.

Il viaggio di ritorno verso Parigi le sembrò ancora più lungo. Tre giorni prima erano paura e incertezza dilatare il tempo; adesso era un profondo scoraggiamento. Se ne erano andati a coppie: Raoul e Christine, legittimi sposi; Erik e Naser, amici e complici; abbandonando lei da sola nella locanda, come un terzo incomodo. Come avrebbe detto in gergo uno degli avventori del Lapin Agile, l'avevano "scaricata": come zavorra.

Poteva capire perché. Lei non faceva parte delle loro storie; ci si era trovata in mezzo quasi per caso e poi aveva insistito per restarci, compiendo tutta una serie di mosse sconsiderate che avevano messo a repentaglio la vita di tutti. Questa consapevolezza, però, non la faceva sentire meglio.

Quando i suoi piedi toccarono di nuovo il marciapiede della stazione di Montparnasse, la decisione era presa. Ora che non correva più pericoli poteva lasciare il suo rifugio all'Opéra; avrebbe abitato per un po' in albergo e intanto si sarebbe cercata un appartamento da qualche parte: piccolino, luminoso e privo di ricordi, dove vivere e lavorare serenamente. Stava anche considerando l'idea di cercare un posto fisso presso qualche giornale o periodico, per il quale curare una banale rubrica mondana, e smettere di andare a caccia di storie bizzarre. Non ne era tanto sicura, però... E magari avrebbe preso un cucciolo, un cagnolino o un gattino...

Ma aveva bisogno dei suoi effetti personali. Non se la sentiva davvero di ritornare nella vecchia casa, rivedere la stanza e il letto che Jack aveva profanato con la sua macabra messa in scena. Perciò era costretta a ritornare all'Opéra e riprendere quelle poche cose che aveva portato con sé. Soprattutto la fotografia di Étienne.

E quando fu lì, nella piccola stanza che Meg le aveva messo a disposizione nel dormitorio delle ballerine, ebbe la consapevolezza che, se non avesse trovato il coraggio per un vero addio, non sarebbe mai riuscita a recidere il legame con quel posto. E con Erik. Doveva vederlo per l'ultima volta.

*

Lo trovò sdraiato sul letto, con la schiena appoggiata ai cuscini e un libro sulle ginocchia. Con una mano accarezzava distrattamente Ayesha che faceva le fusa distesa al suo fianco. La seta scarlatta della vestaglia lo faceva apparire pallido; probabilmente lo era davvero.

Alzò lo sguardo dalle pagine, sentendola entrare. Gli occhi, adesso, erano di un verde chiaro e quieto.

- Te ne vai - disse notando la borsa.

- Sì, ma non mi sembrava educato farlo senza salutarti...

- ... anche se è esattamente quello che abbiamo fatto noi. - Era davvero sorprendente il modo in cui a volte sembrava leggerle nel pensiero. - Ci avrai giudicati imperdonabilmente scortesi; ma avevi bisogno davvero di dormire a lungo, dopo quello che a cui hai assistito.

- E il conte di Chagny?

- Lui è una persona senza fantasia, un individuo terra-terra, materialista... per sua fortuna. Non ha compreso quello che stava accadendo, va troppo aldilà della sua immaginazione. Così, la sua piccola mente lo ha cancellato.

- La musica, la Fiamma... ha dimenticato tutto?

- Tutto quanto. E io ho provveduto a fornirgli una realtà alternativa. Se l'è bevuta fino in fondo, come una bottiglia di Chateau-d'Yquem.

"Una realtà alternativa"; sì, sarebbe stato magnifico potersene inventare una e crederci fino in fondo. Invece la sua realtà stava lì, inesorabile, incarnata in quel giovane sconosciuto... più giovane di lei!... dai capelli grigioazzurri, il viso affilato e gli occhi di un verde quieto privo di scintilli dorati.

"Chi sei?". E invece gli chiese soltanto: - Come stai?

Lui si toccò il fianco, come a controllare se dolesse ancora. - Sono semplicemente stanco. Di una umana e non spiacevole stanchezza, ora che la Fiamma mi ha abbandonato definitivamente.

- Quanti anni avevi quando...

- Ventiquattro, se non ricordo male. E allora il tempo è sembrato fermarsi, fuori e dentro di me.

- Adesso... cosa succederà?

- Immagino che recupererò gli anni persi. Non spaventarti, non penso che comincerò a invecchiare qui davanti ai tuoi occhi fino a ridurmi come un vecchio decrepito.

- E Meg come l'ha presa?

- Puoi immaginarlo. L'ho ingannata per più di vent'anni... Mi ha tirato addosso tutto il suo vocabolario di insulti e non pensavo fosse così nutrito. Prevedo che non mi parlerà per parecchio tempo. Non che la cosa mi dispiaccia. Ultimamente ha trovato altri interessi. Sta sviluppando una curiosa simpatia per il padre... ah no, mi pare sia uno zio... di una delle sue allieve. La cosa buffa è che fa il poliziotto, e lei ha sempre odiato i poliziotti.

- Gabriel?!?

- Sì, forse. Sì, mi pare che si chiami così.

Meg Giry e Gabriel Bergerac. Quella sì che era una sorpresa.

Erik chiuse il libro e lo posò sul copriletto. Distrattamente, Rasselie notò che si trattava di una raccolta di poesie di William Blake.

- Andiamo Sélie, non restare lì in piedi con quella borsa in mano. Posala e siediti qui vicino a me. - E vedendola esitare chiese: - Ti faccio paura? Adesso?

"È che non so chi tu sia." Ma obbedì e sedette accanto a lui. Ayesha si stirò e si fece cortesemente un po' più in là, come per lasciarle spazio. Davvero insolito per un gatto.

- Quello che ha detto... lui... - Non osava chiamarlo per nome, Jack o Pierre che fosse, ma una curiosità che rasentava la gelosia la mordeva dentro.- ... di te e Christine...

Erik rise piano, ma in un tono sincero e sereno. - Christine Daaé e io? Buon Dio, no! L'unico contatto fisico fra me e quella donna è stato un bacio, tanti anni fa, quando suonai per lei in quel cimitero. Lui ha semplicemente sbagliato Christine. E anche tu, direi.

All'improvviso Rasselie ricordò.

- L'altra. La tua Christine è l'altra.

Erik annuì, un'ombra di tristezza nello sguardo.

- Christina, per l'esattezza è questo il suo nome di battesimo, ma quasi tutti l'hanno sempre chiamata alla francese. E cosa è mai una vocale?

Chiuse gli occhi, a cercare contro le palpebre chiuse i contorni dei ricordi, di un viso.

- Quando venne a studiare a Parigi, aveva appena diciassette anni. Io non mi trovavo qui da molto. Naser mi aveva aiutato a scappare dalla Persia, ero un uomo ricco, ma non sapevo cosa fare della mia vita. Fu soltanto per caso... un caso maledetto e benedetto... se la udii cantare. Non a teatro, ma in un bistrot. Era lì che cantanti e altri artisti si riunivano una volta alla settimana per fare festa. Anche io ci andavo spesso a ubriacarmi di assenzio. In quell'ambiente nessuno sembrava interessato alla mia maschera. Era una vera gabbia di matti. E quella sera, qualcuno era riuscito a trascinare anche lei nella gabbia di matti, e la convinse a cantare. La sua voce! Anche se non particolarmente potente, aveva un timbro puro e brillante, era come... la luce della Fiamma. Mordeva la carne e l'anima. E lei mentre se ne stava su piccolo palchetto del locale, tra il fumo e gli apprezzamenti degli ubriachi, appariva del tutto inconsapevole del proprio potere. Quella voce flessibile come una lama di d'argento mi scavava nelle viscere mentre l'ascoltavo arrampicarsi senza sforzo lungo le scale da un'ottava all'altra. Forse ero soltanto in preda alle allucinazioni dell'assenzio, ma ad un certo punto ebbi l'impressione di non essere più lì in quel locale... mi trovavo al centro della Fiamma, nudo e trionfante come Ayesha, e la Fiamma cantava per me, soltanto per me!

Un sospiro. Uno scintillio tra le palpebre socchiuse: forse un battito di ciglia, forse una lacrima.

- Quattro anni dopo, era già la stella più brillante del Théâtre Lyrique. No, non grazie a me. Io non avrei potuto insegnarle molto. Mi limitavo a essere uno dei suoi ammiratori. Uno dei tanti. Per ovvie ragioni, il più discreto di tutti. I migliori partiti di Parigi erano ai suoi piedi, in attesa di un suo "sì". Tutte le sere il suo camerino traboccava di fiori e regali preziosi. Io non volevo comprare la sua attenzione con fiori e gioielli. Le mandavo libri di poesie e usavo come segnalibro una piuma nera, per indicare la pagina che portava dei versi particolarmente significativi. Ah no, tranquillizzati! Nessun povero volatile ha mai dovuto sacrificare il suo piumaggio per i miei messaggi amorosi. Piume come quelle ne trovavo ovunque, nei parchi o allo zoo. A lungo cercai di rimanere nascosto, non riuscivo a immaginare come avrebbe reagito davanti a un un corteggiatore che nascondeva la faccia dietro una maschera.

Una lieve risata velata di scherno. Ma era lui stesso il destinatario dello scherno.

- Immagini quale occasione scelsi per avvicinarla? Un ballo mascherato. Indossavo un domino scarlatto e lei era vestita come la Regina della Notte. Fu facile conquistarla. Probabilmente era incuriosita. E fui sincero con lei, da subito le dissi perché dovevo indossare una maschera. Non sembrava che le importasse. Forse da principio non mi credette neppure. Ma cominciammo a vederci sempre più spesso. L'aspettavo quando usciva dal teatro di sera e andavamo a passeggiare sui Lungosenna, al Bois, quando ormai in giro non c'era quasi più nessuno. Parlavamo: di musica, di poesia, di pittura, di tutte le belle creazioni dell'uomo. Sapevo di giocare un gioco pericoloso, ma ero inebriato. Arrivai al punto di rischiare e farla venire da me. Allora avevo trovato una sistemazione abbastanza comoda. Non lussuosa, ma mi bastava. E presentava diversi vantaggi: era fuori città, cosa che mi permetteva di fare passeggiate al riparo di sguardi indiscreti; e il padrone di casa... era cieco. Nessuna domanda, nessun bisogno di inventare scuse.

- Ti sei ricordato di questo quando hai pensato che Jack...

- Già.

- Comunque... La farsa non poteva continuare a lungo. Lei era curiosa, e io furiosamente innamorato. Perciò volevo essere accettato per me stesso, per come ero. Così, una sera le mostrai il mio volto. La prese abbastanza bene. La vidi impallidire, certo, ma riuscì a contenere la paura. Il disgusto, immagino. Non fuggì via. Si mise solo a piangere, silenziosamente. Quando se ne andò, ero certo che non l'avrei più rivista. Invece, qualche sera dopo, ritornò. Come se non fosse accaduto nulla. Riprendemmo le nostre attività. Leggevamo, facevamo musica... Certo, resistere alla tentazione di prenderla tra le braccia era una tortura. Mi aveva detto che potevo evitare di portare la maschera in sua presenza, e così feci. Era un bene, perché questo mi aiutava a erigere una barriera tra lei e me. Se per caso, in un momento di debolezza, avessi cercato di avvicinarmi troppo, il suo sguardo mi avrebbe riportato alla realtà. Non era uno sguardo di orrore, tutt'altro. Era pietà. Un sentimento che nessun innamorato può tollerare dalla persona amata. Ma arrivò il momento in cui quello stato di cose divenne insopportabile. Avevo creduto di potermi appagare della sua semplice presenza, la vista della sua bellezza, la sua voce. Ma lei era così seducente, in un modo del tutto inconsapevole che mi torturava peggio di qualunque civetteria. Decisi che dovevo porre fine a quel martirio che mi ero autoinflitto e una sera la cacciai via brutalmente, dicendole di non tornare mai più.

Come sempre, il tono di voce restava imperturbato, sereno. Quando Erik raccontava di sé era come narrasse una leggenda del passato.

- Non la vidi per mesi. Circolavano voci, in città. Non c'era ancora nessun annuncio ufficiale, ma a quanto si diceva aveva accettato la proposta di matrimonio di un banchiere. Meglio per lei. E per me. E poi... Successe tutto in una notte. Una tetra notte di novembre. Infuriava un temporale terribile e la pioggia percuoteva con violenza i vetri delle finestre, fredda e dura come grandine. Oh... Lo so che questo suona molto "Frankenstein" ma... Fu allora che Christina ritornò a bussare alla mia porta. Doveva avere percorso parecchia strada a piedi, perché il mantello e gli abiti erano completamente zuppi di pioggia. E con i capelli bagnati, così pallida nel chiarore pressoché ininterrotto dei lampi, sembrava un'annegata appena tratta dalle acque. Ma era viva, terribilmente, pericolosamente viva, e si aggrappò a me come un naufrago a un relitto. Mi implorava. Mi voleva. E io non ebbi la forza di respingerla. Ne avevo avute di donne nella mia vita. I misteri dell'alcova non erano più tali per me da lungo tempo. Nonostante questo, capii subito che con lei sarebbe stato diverso, spaventosamente diverso. L'amavo, già solo questo sarebbe stato sufficiente. Ma in me ruggiva la Fiamma. Quando la strinsi, e lei si abbandonò al mio abbraccio, pensai che saremmo bruciati insieme. Di fuori, il temporale aveva raddoppiato la sua violenza, era proprio sopra di noi. Non c'era attesa tra il fulmine e il tuono, e la stanza era piena di luce e fragore. Il corpo di Christina così bianco e perfetto, in quella luce, e i capelli biondi come un velo d'oro sulle sue spalle, fino ai fianchi. Mi ricordava Ayesha. Mi persi nei suoi baci, nella sua carne, fino a quando sentii la Fiamma rovesciarsi fuori dal mio corpo, dentro di lei, come attratta da una forza irresistibile. Fu quasi come se lei la stesse strappando via da me. Gridai, di dolore e di piacere insieme, e il rombo del tuono inghiottì il mio grido.

Solo in quel momento, e per un istante, la voce di Erik si incrinò. Ma subito dopo recuperò il suo tono da abile narratore. Eppure la sua non era indifferenza, Rasselie lo avvertiva. Ma cosa? Pace, forse?

- Quando mi svegliai, cominciava a fare giorno. La stanza era ancora priva di colore, un quadro in bianco e nero. Christina dormiva serena come un bambino e io mi sentivo prosciugato. Sapevo cos'era successo ancor prima di guardarmi allo specchio. Per quanto possa sembrare assurdo, non fui felice di aver ritrovato il mio volto. Era quello di un estraneo. Del me stesso di prima serbavo il ricordo, più che di tratti precisi, di un'espressione spavalda e insolente, un sorriso beffardo di costante sfida alla vita. Le piaghe che sfiguravano i miei lineamenti avevano nascosto le mutazioni operate in me dall'esistenza scellerata condotta in Persia. Quello nello specchio era una sorta di ritratto di Dorian Gray restaurato nelle sue fattezze primitive, umane e persino attraenti, dalle quali trapelava però una devastazione ben più sconvolgente di quella operata dalla Fiamma. Attraverso la pelle di nuovo intatta, ciò che vedevo era la mia anima. E quella non era cambiata. Nessuna maschera poteva celare quella realtà. E Christina? Per accettare una storia tanto folle, avrebbe dovuto accettare anche il mio terribile passato. Oppure poteva pensare che fosse tutto un inganno, lo scherzo crudele di un folle che si era voluto divertire con lei in modo abietto, manipolando i suoi sentimenti. Suscitare pietà e costringerla a trasformarsi in amore. Non sapevo cosa fare. Così, in un atto di vigliaccheria, me ne andai. La lasciai senza svegliarla, senza dirle addio, in punta di piedi come un ladro.

Così, pensò Rasselie, anche Erik aveva guardato a sé stesso come a un estraneo. Saperlo alleviava il senso di disagio che le provocava il suo nuovo aspetto. Ma la tentazione di mettere una maschera su quel viso era davvero forte, e la faceva sentire colpevole.

- E poi? - chiese.

- Poi... Per un po' vissi allo sbando. Non che mancassi di mezzi per vivere bene, e adesso che non dovevo più nascondermi dietro una maschera potevo andare dovunque, mescolarmi agli altri, senza suscitare curiosità e domande. Potevo passare inosservato. Ma avevo perso ogni interesse nella vita. Così cercai la morte, e con mio orrore mi vidi rifiutare da lei. Bevvi del veleno, e riuscii soltanto a sentirmi male per un paio di giorni. Mi tagliai le vene dei polsi, svenni, e quando mi risvegliai le ferite si stavano richiudendo. Mi mancò il coraggio di provare a farmi saltare le cervella. In fondo a me qualcosa della Fiamma era rimasto, come carboni ardenti sotto la cenere, e questo mi impediva di morire. Capii che avrei potuto riattizzare il fuoco, quando avessi voluto, e piegarlo al mio volere. Scoprii in seguito che questo mi veniva facile attraverso la musica, suonare uno strumento mi aiutava a risvegliare in me il potere della Fiamma. Ho cercato di usare i resti di quel potere per fare del bene, quando se ne presentava l'occasione. Era il minimo, una sorta di risarcimento per le cose terribili che avevo commesso insieme a Pierre.

- È così che hai guarito mamma Valerius?

- Sì, e le ho regalato qualche anno in più. A lei e anche a Naser, quando lo incontrai di nuovo qui a Parigi. E ad Ayesha, ovviamente. Alcuni gatti vivono molto a lungo, ma lei dovrebbe avere...una trentina d'anni, più o meno. La trovai per strada al tempo dell'assedio di Parigi. Erano tempi duri: gli spari, la violenza, gli incendi, la fame... Immagino di averle risparmiato una triste fine sullo spiedo. Ma fu proprio in quel periodo che avvenne qualcosa che mi convinse della necessità di tornare a nascondere la mia faccia. Mi ero unito ai Comunardi; per nessuna ragione politica, solo curiosità... La mia avventura con loro, comunque, non durò a lungo. Una sera, un tale che non mi sembrava di aver mai visto, dopo avermi squadrato per un po' disse: "Io ti conosco. Sei Saint-Avit. Benoît de Saint-Avit, è così che ti chiami, vero? Eravamo insieme nella Legione Straniera, anni fa. Sei davvero cambiato poco." Era vero. Mi ero accorto con sollievo di avere ripreso a invecchiare, come ogni essere umano, ma avevo notato anche che questo avveniva molto più lentamente del normale, di sicuro a causa di quel residuo della Fiamma che agiva ancora in me e mi impediva di darmi la morte. Che immenso potere avevo avuto tra le mani, senza rendermene conto. Ma non volevo correre il rischio di essere di nuovo riconosciuto, così mi piegai alla necessità di tornare a indossare una maschera. Poi, di lì a poco, così com'era cominciato, il sogno della Comune ebbe fine. In un bagno di sangue. Il Théâtre Lyrique che aveva visto i trionfi di Christina era bruciato fino alle fondamenta, e lei era già lontana e viveva una nuova vita.

- È per lei che hai scritto quell'opera, vero?

- Non l'ho mai finita. Ma un giorno Christine Daaé vide lo spartito e pensò che stessi scrivendola per lei. Glielo lasciai credere. Sembrava così felice di recitare la parte della mia musa ispiratrice... Perché deluderla?

Se Rasselie teneva gli occhi chiusi, e si limitava ad ascoltare, la realtà si ricomponeva in uno schema familiare. Era come starsene ancora seduta a quella tavola imbandita nel Salone della Luna, con un uomo dalla maschera d'argento che le raccontava avventure impossibili con la fantasia del più abile dei narratori; e lei stava al gioco, divertita.

- A quel punto, mentre la vita a Parigi ritornava pian piano alla normalità, mi trovai a decidere dove andare e cosa fare di me. Ma non ero più solo. Avevo con me questa piccola creatura... Credo che essermi assunto il compito di badare a lei fu la mia salvezza. E siccome non mi andava di tornare a vivere a contatto con i miei simili... Pensai che questo edificio, così vasto e labirintico, potesse diventare la mia tana.

- Ma perché? Potevi andare ovunque, dove nessuno avrebbe riconosciuto Benoît de Saint-Avit. Ed era abbastanza difficile che ti capitasse di incontrare di nuovo qualcuno che aveva conosciuto l'Erik di un tempo.

- Tanto difficile che un giorno mi sono imbattuto in Naser proprio qui a Parigi. E anche se fossi andato in capo al mondo... Avrei dovuto comunque cambiare molto spesso la mia residenza. La gente è curiosa, e prima o poi qualcuno si sarebbe domandato come mai non invecchiavo come gli altri. Alla fine fu proprio questo a fregare Dorian Gray. No, meglio restare quassù, al sicuro. La costruzione del teatro era quasi terminata e io ero riuscito a comprare la collaborazione di qualcuno dei muratori: in parte con il denaro e in parte con la paura, e così feci costruire questo piccolo alloggio segreto. Molto meglio che vivere in uno squallido e umido sotterraneo, non ti pare?

Incontestabile.

- E poi la leggenda del Fantasma dell'Opera si diffuse in fretta. Anche per colpa mia, lo confesso. Avevo rubacchiato qualcosa: strumenti e spartiti agli orchestrali, mobili, il pranzo di qualche attrezzista. Possedevo ancora gran parte del piccolo tesoro in gioielli che avevo portato con me dalla Persia, ma non potevo certo ordinare mobilio e altri oggetti e dare come indirizzo di consegna l'Opéra. In quanto ai generi alimentari... si è mai visto un gentiluomo che fa la spesa da sé nei negozi? I più semplici problemi di sopravvivenza erano delle gran seccature. Finché non mi imbattei in quella strana donna, Antoinette Giry. Era la direttrice del corpo di ballo, vedova da poco e con quattro figlie da crescere, delle quali Meg era allora la più piccola. Riuscii facilmente a comprare la sua complicità con la promessa di provvedere alla dote per le sue figlie. Credo che sotto l'apparenza severa e controllata nascondesse una vena di follia e la voglia di esprimerla attraverso quello che per lei era un gioco eccitante, oltre che molto vantaggioso. Divenne il mio contatto con il mondo esterno. E via via, col passare del tempo, mi procurai altri alleati; gente semplice che mi vedeva come un diversivo alla noia quotidiana e alla quale il denaro che elargivo tornava utile per arrotondare degli spesso miseri stipendi. Intanto la leggenda del Fantasma si arricchiva di sempre nuovi particolari. A volte, di notte, capitava che qualcuno che si era attardato nell'edificio mi sentisse suonare e cantare. Oppure durante le passeggiate sui tetti o nei saloni che credevo ormai deserti, mi succedeva di disturbare qualche coppia clandestina. Ma molte delle cose che mi venivano attribuite, apparizioni, manifestazioni sovrannaturali, incidenti più o meno gravi... erano frutto del caso o della fantasia troppo sbrigliata di qualcuno.

- Immagino che tu lo trovassi divertente, vero?

- Lo era. I direttori dell'epoca, Debienne e Poligny, erano abbastanza superstiziosi e comunque disposti a non immischiarsi nei miei affari. Poligny era il più idiota dei due, e aveva un bel po' di scheletri nell'armadio, così per un certo periodo mi divertii anche a ricattarlo. Non avevo bisogno di denaro e lo distribuii a tutti i membri del personale le cui paghe erano vergognosamente basse. Ebbi qualche difficoltà soltanto con i due direttori seguenti, Richard e Moncharmin. I due, a ragione, non credevano nell'esistenza di un fantasma ed erano decisi a stanarmi. Fu più o meno in quel periodo che Christine Daaé arrivò a teatro.

Erik parlava a occhi chiusi, la testa appoggiata sui cuscini; e la voce, adesso, aveva un tono trasognato e lontano, ma non perdeva la sua capacità di affascinare.

- Mi incuriosii sentendola cantare. La sua voce mi ricordava molto quella di Christina. E le somigliava anche nell'aspetto. Bionda, angelicata, dal passo leggero e i grandi occhi blu. Persino le loro storie presentavano dei punti in comune: la nazionalità, un'infanzia infelice... Già allora Raoul che Chagny la corteggiava. Disgustosamente bello, geloso e stupido, un damerino gonfio di vanità. Non capiva niente di musica, veniva a teatro soltanto per corteggiare le ballerine. Povero Raoul, forse non dovrei essere troppo severo con lui, in fondo era poco più di un ragazzino, apprendista viveur per desiderio di suo fratello Philippe. Fosse stato un semplice borghese avrebbe compiuto il suo tirocinio amoroso in qualche lussuoso bordello dalle parti del Palais Royal. Essendo un nobile, doveva ricevere il battesimo della lussuria tra le braccia di qualche sacerdotessa dell'amore di grado più elevato. E chi meglio di una primadonna dell'Opéra? Non era previsto, ovviamente, che si innamorasse di una piccola cantante, ex amichetta d'infanzia.

I due bambini che il caso aveva fatto incontrare a Perros-Guirec, su una spiaggia bianca inondata di sole. Rasselie rammentava il racconto di mamma Valerius. A volte il destino è davvero bizzarro.

- Ti ho detto che mi colpì perché mi ricordava l'altra. Ma non fu solo questo a spingermi verso di lei. Forse cominciavo ad annoiarmi, forse per un attimo mi abbandonai all'illusione di poter rivivere la mia storia con Christina. Volevo amare la piccola Daaé, tornare a provare tutte quelle emozioni che andavano ben oltre la lussuria. Per appagare questa, potevo sempre sgattaiolare fuori dal teatro a notte, e infilarmi in uno dei tanti bordelli che ci sono a pochi passi da qui. Ma quello era un atto privo di passione che mi lasciava soltanto un senso di tristezza e sempre più spesso di disgusto. Mentre io sognavo di ritrovare le sensazioni di dieci anni prima. Così le dissi che ero un musicista e volevo darle un aiuto con le sue lezioni di canto. Non ne avevo mai date a nessuno, ovviamente, ma gli anni trascorsi a teatro mi avevano insegnato qualcosa sulla materia. Inventai la scusa che volevo restare anonimo, per giustificare la maschera. Perché la maschera, quando avrei potuto presentarmi a lei con il mio volto di nuovo integro? Perché non volevo potesse descrivermi agli altri. A volte, quando rientravo dai miei vagabondaggi notturni, mi capitava di incontrare per strada qualcuno che lavorava nel teatro. E una volta incrociai Richard mentre usciva dal bordello Chabanais. Quel posto aveva delle fantastiche stanze a tema. La mia preferita era quella giapponese... Ma scusami, sto divagando. In fondo, indossare una maschera era diventata un'abitudine. Mi faceva sentire al sicuro. Anche se feci giurare a Christine di mantenere il segreto sui nostri incontri, sapevo bene quanto le ragazzine amino spettegolare. E cominciarono a farlo, eccome, quando si accorsero dei suoi progressi nel canto. Le altre cantanti, e le ballerine, divennero tremendamente curiose. Lei, siccome non avevo voluto rivelarle il mio nome, mi chiamava Angelo della Musica. Credo si riferisse a qualche storia che le raccontava suo padre quando era bambina. E fu così che cominciò a parlare di me alle amiche, quando non le fu più possibile combattere la loro curiosità. L'Angelo della Musica: era un gioco. Le davo lezioni al mattino presto, nel suo camerino, quando c'era poca gente in giro. E presto fu in grado di fare il suo debutto. Un trionfo. Parigi era ai suoi piedi. Chi si prosternava più di tutti, ovviamente, era Raoul de Chagny. Credo che lei avrebbe potuto camminargli addosso, farne il suo scendiletto, se solo le fosse importato. Ma la sciocchina stava sviluppando una pericolosa infatuazione per me. Il gioco si fece rischioso. Capii che la stavo prendendo in giro. Non la amavo, non riuscivo ad amarla, anche se lo volevo disperatamente. Certo, era graziosa. Provavo per lei una grande tenerezza e non dico che ascoltarla cantare non accendesse i miei sensi. Ma non possiamo scegliere chi amare e quando. E se mi fossi approfittato di lei... Mi sarebbe sembrato di tradire la memoria di Christina, deprezzare il suo inestimabile dono d'amore.

"Allora puoi capire come mi sono sentita dopo quella notte, brutto bastardo" pensò Rasselie, ma trovò il coraggio di tacere.

- Intanto però la faccenda andava degenerando. Meg aveva cominciato a instillare in Christine sospetti sulla vera identità del suo "angelo", così io decisi per un addio in grande stile, e approfittai dell'anniversario della morte di suo padre. Ovviamente, sai come finì la faccenda per colpa di quel pasticcione di Raoul.

- Già, me l'ha raccontato.

- E poi tutto quanto precipitò in fretta. Ci furono quegli incidenti attribuiti al Fantasma dell'Opera, il teatro fu invaso da poliziotti, giornalisti, assicuratori e curiosi vari. Così mi rintanai quassù e me ne stetti tranquillo ad aspettare che il clamore si calmasse. Ogni tanto qualcuno, giornalisti e scrittori, arrivava a fare domande, ma in genere se ne andava con il taccuino degli appunti ancora in bianco. E aggiungeva le sue fantasie alla mia leggenda. Ho vissuto anni in perfetta e piacevole tranquillità... fino al tuo arrivo.

- Vuoi farmi sentire colpevole?

Erik non rispose. Per tutto il tempo, mentre parlava, aveva continuato a giocherellare con l'anello che portava al mignolo, rigirandolo meccanicamente attorno al dito. Quel gioiello con la sua strana pietra nera... Rasselie ne era sempre stata incuriosita; e ora, anche per cambiare discorso, allungò la mano per toccarlo.

- Non dirmi che anche questo viene da una cassetta di sicurezza del teatro.

- No. Faceva parte del tesoro dello scià. La pietra è un diamante nero, soltanto la scheggia di uno molto più grande chiamato "L'occhio di Brahama", perché fu rubato dalla fronte di una statua di quel dio. Dicono porti sfortuna. Forse è vero. Per questo rinunciai a regalarlo a Christina, anche se per un attimo considerai davvero questa possibilità.

- Se davvero portasse sfortuna... lui avrebbe vinto.

- Non ne sono sicuro. A proposito...

Erik prese un mazzo di carte dal tavolino da notte, e sorrise notando l'espressione di insofferenza di Rasselie.

- Non voglio predirti il futuro, intanto non mi crederesti. Ma concedimi almeno di fare un gioco. - Le porse il mazzo. - Coraggio, mescola e taglia. Per tre volte, poi ridammelo.

Perché non assecondare quella bizzarria? Dopotutto stavano dicendosi addio, e ogni addio merita qualche indulgenza. Quindi, docilmente, fece ciò che lui le chiedeva.

Erik riprese il mazzo e lo allargò a ventaglio, con il dorso delle carte rivolto verso l'alto.

- Adesso scegline una, ma non guardarla. Potrai farlo solo quando sarai fuori da qui.

- Perché?

- Perché così vuole il Fantasma dell'Opera.

- Sai che non tornerò a restituirtela. Il tuo mazzo resterà incompleto.

- Non importa. Non ho più bisogno di sapere cosa mi aspetta.

- Adesso cosa intendi fare, continuare a vivere nascosto quassù, giocando al Fantasma dell'Opera fino alla fine dei tuoi giorni?

- Perché no? Del mondo che c'è la fuori ho visto abbastanza.

- Ne hai visto la parte peggiore.

- E tu, Sélie? Quel mondo ti ha ucciso l'uomo che amavi, e tu continuerai a cercare il suo assassino finché avrai respiro.

- No. - Il ricordo del sogno era chiaro in lei. Una scena vista attraverso una sfera di cristallo colma dell'acqua più limpida, che delineava i contorni delle cose e dei volti, risuonava del canto della Fiamma: una voce adamantina, forse crudele nella sua chiarezza, ma che parlava di realtà e verità. "Ogni cosa inizia e finisce a tempo e luogo". - Voglio provare a vivere. Vivere davvero.

- Sono contento per te. Spero che tu riesca a trovare un uomo che sappia renderti serena, se non felice, e ti garantisca una vita tranquilla e sicura. Un tipo solido, onesto, fedele... Insomma, un decoroso borghese. Be', magari non eccessivamente decoroso. Deve saper baciare con la giusta devozione quel grazioso piccolo neo che hai sulle labbra.

- Io non ho nessun... Erik! - (punti esclamativi ad libitum).

Lui sogghignò con compiacimento e le fece l'occhiolino. Poi: - In quanto a me - aggiunse - alla fine forse deciderò davvero di vivere fuori da qui il tempo che mi resta, anche so non so quanto sarà. Potrei farmi crescere una folta barba da intellettuale e riprendere a girare il mondo. Potrei procurarmi dei documenti falsi, assumere a tutti gli effetti l'identità del professor Valerius e andarmene in America, magari. Ho delle conoscenze laggiù: Tesla, ad esempio, o quell'Houdini. Potrei continuare a scrivere. Il mercato americano sembra promettente.

- Davvero non sai quanto tempo... - Solo adesso Rasselie si rendeva pienamente conto che quell'uomo disteso tra i cuscini, nonostante il viso giovanile, doveva avere almeno il doppio dei suoi anni.

Erik rise sottovoce. - Spero di non morire tanto presto. Ho ancora parecchie storie da raccontare. Ma non è detto che fra qualche anno non ti capiti di incrociare per strada un vecchietto curvo e decrepito che ti sorriderà... e avrà i miei occhi.

Rasselie alzò entrambe le mani, poggiò i palmi contro le guance di Erik, sfiorò con la punta delle dita un po' tremanti quel giovane viso sconosciuto, seguì la linea della sopracciglia, degli zigomi, delle mascelle e di quel naso che non avrebbe dovuto esserci e invece c'era, fine e leggermente aquilino, indugiò sulle labbra... E all'improvviso la consapevolezza fu un'onda calda che scorreva attraverso le sue dita dalla carne di quel viso, prendeva forma nel ricordo. Le sue mani sapevano.

- Quella notte... a un certo punto ti sei tolto la maschera.

Le aveva permesso il contatto più intimo, il gesto più proibito.

- Ho fatto del mio meglio affinché tu dimenticassi. Ma la tua mente è un avversario di tutto rispetto. Mi dispiace soltanto che tu fossi ubriaca. O forse no, a pensarci bene. Se non lo fossi stata, magari non sarebbe andata così.

- Sei sicuro?

Al diavolo il buonsenso, la razionalità e ogni altra borghese pastoia. Rasselie si chinò su di lui e lo baciò. Il contatto delle sue labbra, il suo respiro, il suo sapore. Un altro ricordo preciso, che non mentiva.

- Adesso sono sobria - gli sussurrò.

*

Non avrebbe mai più avuto occasione di percorrere il grande scalone, ne era certa. E anche adesso non faceva per lei salirlo in abito da sera diretta a un palco. La notte in cui lo aveva fatto, vestita come la Regina della Notte, guidata dalla mano di Erik, era un ricordo di cui fare tesoro. Ma almeno poteva godere, per un'ultima volta, del fruscio lieve della gonna sugli scalini di marmo mentre scendeva immaginando un minimo di regalità nei propri passi.

- Mademoiselle! Madame... aspetti!

Una voce un po' affannata alle sue spalle distrusse quella illusione di regalità e la costrinse a fermarsi e voltarsi. Rémy stava scendendo in fretta dietro di lei.

- Mi scusi, ma non abbiamo più avuto occasione di parlare...

- Non si preoccupi, sono sicura che la prossima stagione sarà un grande successo.>>

- Veramente... Io volevo sapere... Come va?

All'apparenza, la domanda riguardava lei; ma lo sguardo del direttore, in un battito di ciglia, aveva vagato verso il soffitto.

- Oh... direi bene.

Un'espressione di palese sollievo si diffuse sul volto dell'uomo.

- Confido che continui così. Perché, vede, io non resterò qui ancora per molto. Ho passato troppi anni alla guida di questo carrozzone che, per quanto magnifico sia, sta diventando davvero pesante da condurre. Troppi particolari a cui pensare, troppi conti da far quadrare... Così ho deciso di accettare l'offerta di un mio vecchio amico; dirigere il teatro di Nantes. Certamente non è un incarico di grande prestigio, qualcuno lo vedrebbe come una retrocessione... Ma non si preoccupi, ho provveduto personalmente a scegliere il mio successore e l'ho istruito a dovere. Monsieur Gerard Carrière è un uomo intelligente, sa che non deve disturbare le... creature che nidificano nel sottotetto. Ma di queste cose e... di altre, vorrei avere il piacere di discutere con lei in modo più approfondito... Se lei volesse... insomma... se non fosse contraria... Mi farebbe felice se accettasse un invito a cena, una di queste sere.

Un invito a cena. L'ultima volta che aveva accettato, era stato l'inizio di una lunga serie di guai. Ma sapeva che con Rémy sarebbe stato diverso. Il mite, borghese, probabilmente noioso Rémy.

- Certamente.

E lui le fece il baciamano.

Uscendo dal teatro, la posizione e la lunghezza delle ombre le rivelò che era mattino inoltrato. Spazio davvero singolare, il letto di Erik; un piccolo universo dove esplodevano stelle, nascevano galassie e le regole del tempo si annullavano.

Intendeva allontanarsi senza guardare indietro. Quell'addio si era protratto troppo a lungo. Ma mentre attraversava la piazza, il suo passo esitò. Un'ultima immagine, soltanto un'ultima immagine era quello di cui aveva bisogno. Si fermò. Si voltò.

La lira di Apollo scintillava nel sole.

Inutilmente cercò con lo sguardo le finestre che davano sull'alloggio segreto di Erik. Non era mai riuscita a individuarle dal di fuori. L'opulenza della facciata, così sovraccarica di decorazioni, era una sorta di spessa epidermide che nascondeva il labirintico sistema venoso dell'edificio, fatto di scale, corridoi, passaggi segreti.

Lasciò scivolare lo sguardo sui particolari di statue e fregi, sapendo che era impossibile catturarli e trattenerli in un unico quadro; e presto, nei ricordi, sarebbe sopravvissuta soltanto una pallida forma monumentale trapunta di ombre e filo d'oro. Anche in quel momento, mentre la osservava, la vedeva sfocare in una luce abbagliante che le faceva lacrimare gli occhi.

"Oh merde..."

Mise la mano in tasca a cercare un fazzoletto, e le sue dita incontrarono un oggetto rigido e piatto che lì per lì non riconobbe. Poi ricordò. La carta dei Tarocchi.

Adesso era libera di guardala.

La scena rappresentata nel piccolo rettangolo di cartone, abbastanza logorato dall'uso, mostrava un cielo turchino pieno di stelle; di cui una, raggiante come un sole, rispendeva al di sopra della figura di una giovane donna nuda, dai lunghi capelli biondi, inginocchiata presso uno stagno. In ciascuna delle mani reggeva un'anfora dalla quale versava acqua; con la destra nello stesso specchio d'acqua accanto al quale stava in ginocchio, con la sinistra abbeverava il terreno. Tutto attorno, un paesaggio di montagne verdeggianti; e su un albero, uno strano uccello dalle piume fiammeggianti. Una fenice sorgente dal suo rogo, forse.**

Nel sottile spazio bianco che incorniciava l'immagine, in una grafia spigolosa e minuta ma molto chiara, era scritto qualcosa che non faceva parte della stampa, ma era stato aggiunto in un secondo tempo. "Ogni cosa inizia e finisce a tempo e luogo".

Naturalmente lo sapeva. Ne era certa fin da quando si era svegliata il mattino precedente, ma aveva tenuto rinchiusa la consapevolezza in un piccolo ripostiglio della mente. Ancora una volta, Erik aveva cantato per lei con la voce della Fiamma, riducendo in cenere anni di dolore, rimpianti e paura di vivere. A lei spettava soffiare su quella cenere e disperderla nel vento.

Portò la carta alle labbra, la baciò, poi la ripose nella tasca. L'avrebbe affidata alla corrente della Senna.

E mentre si incamminava per l'ampio viale pensò che aveva bisogno di un abito nuovo, all'ultima moda. Non poteva certo andare a cena con Rémy combinata come una popolana all'Esposizione Universale.

 

 

 

*Picnic a Hanging Rock, Joan Lindsay.

* * I significati delle singole carte dei Tarocchi possono variare leggermente a seconda dei metodi di divinazione usati. In ogni caso La Stella, diciassettesimo degli Arcani Maggiori, è simbolo di speranza, fede, ottimismo e prospettive per il futuro. La sua luce guida e illumina la via. La sua influenza è benefica e ispirante, induce alla riflessione e all'espressione del sé attraverso il bilanciamento tra desiderio e operosità, speranza e sforzo, esperienze del passato e realizzazioni future. L'acqua presente nella figura suggerisce l'idea della purificazione e del rinnovamento.

   
 
Leggi le 0 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<  
Torna indietro / Vai alla categoria: Libri > Il fantasma dell'Opera / Vai alla pagina dell'autore: Julie Sarret de Angrogne