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Autore: Adeia Di Elferas    10/04/2021    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Alla fine, il Medici aveva accettato la proposta della cognata, prestandosi a fare quello che aveva chiesto lei, nella speranza di poter davvero rigirare tutta quella questione a suo esclusivo favore.

Malgrado fosse d'accordo su tutto, però, Lorenzo era apparso molto nervoso, quando era andato ad aprire il portone di persona alla sua ospite, prima che sorgesse il sole.

Avevano concordate entrambi che, se quello era l'unico modo in cui si poteva fare, allora che almeno i fiorentini avessero modo di credere che la Tigre non era arrivata al palazzo dei Medici solo per qualche colloquio estemporaneo, ma che ne fosse davvero ospite. Nessuno doveva vederla entrare, ma tutti dovevano credere che fosse già lì.

Il Popolano, in realtà, non aveva accettato subito quel compromesso, specie perché non aveva intenzione né di passare per fesso con la Sforza, né di concederle tanto facilmente l'uso della villa di Castello, a cui lei puntava ormai in modo molto chiaro. Poi, però, ascoltando i suoi legali, si era reso conto che mostrarsi morbido in quell'occasione avrebbe portato a qualche vantaggio, quando avesse fatto riaprire il processo per l'affidamento del piccolo Giovanni.

Se, infatti, l'accusa di aver contratto un matrimonio fasullo con il defunto Giovanni Medici era crollata il giorno in cui Caterina aveva mostrato i documenti del loro sposalizio in sede processuale, così era implosa anche la scusa che una prigioniera di guerra non fosse adatta a gestire un bambino, dato che la donna, ormai, non era più in catene.

L'unico appiglio che restava al Medici riguardava l'atteggiamento che la Leonessa avrebbe avuto di lì in poi e la dimostrazione della sua completa inadeguatezza come madre. Per farlo, però, i suoi consiglieri gli avevano detto di lasciarla andare pure alla villa, ma di riempire la stessa di sue spie che potessero testimoniare, un domani, su tutte le sue carenze, accentuandole, se necessario, un pochino.

In più, aveva ragionato Lorenzo, affidando quella dimora alla Sforza, dimostrava la sua buona volontà, fingendo di cederle una parte dell'eredità di suo fratello. Quell'aspetto sarebbe stato apprezzato, in sede giudiziale, e lui ne sarebbe uscito come il magnanimo cognato che, a malincuore, deve sottrarre il nipote alla madre per offrirgli un futuro degno di tal nome.

Dal canto suo, Caterina aveva accettato di malavoglia quel compromesso, ma, confrontandosi anche con Fortunati e con tutti gli altri, si era resa conto che quello era l'unico modo per entrare in possesso della villa. Una volta entrata in casa propria, avrebbe trovato il modo di fare piazza pulita dei servi imposti da Lorenzo – ben sapendo, che, probabilmente, si sarebbe trattato di gente a lui fedele e quindi a lei nemica – e da lì avrebbe potuto ricostruire, poco per volta, la sua rete di conoscenze e amicizie, costruendo una rete di protezione attorno al suo figlio più piccolo.

Così, pur con una certa riluttanza, dopo una notte passata quasi insonne, tra incubi in cui aveva rivisto Ludovico Marcobelli morire sotto i suoi pugni e Cesare Borja inchiodarla contro a un letto anonimo in una delle tante stanze del palazzo dei Numai, la milanese si era vestita come meglio poteva e aveva seguito due francesi, venuti a prelevarla. Anche gli uomini di re Luigi, in fondo, erano stati soddisfatti da quell'accordo tra i due cognati.

Una volta al palazzo dei Medici, la Tigre aveva accettato di buon grado il benvenuto biascicato da uno scontroso Lorenzo e l'aveva seguito fino alla saletta in cui, per sua decisione, avrebbe ricevuto le persone di cui aveva accettato di ricevere la visita quel giorno.

Man mano che avanzavano, la donna cercava di non dare a vedere la sua curiosità per quella dimora, così elegante e, per certi versi, familiare. Non ricordava quasi nulla, di quelle stanze, anche se sapeva di averle viste quando era una bambina al seguito di suo padre Galeazzo Maria. Tutto ciò che le sembrava di trovare di noto tra quelle pareti era l'eco dei racconti – sempre abbastanza brevi, in realtà – che le aveva fatto Giovanni nel corso del loro matrimonio.

Non poteva dimenticare che il suo terzo marito aveva trascorso in quel palazzo, sotto la tutela del defunto Lorenzo, noto a tutto come il Magnifico, parte della sua infanzia e la prima adolescenza.

Rimpianse di avere un rapporto tanto teso con il cognato, e si rammaricò di non scorgere una donna che potesse essere la di lui moglie, nella speranza che forse lei sarebbe stata più incline a mostrarle le ali del palazzo che erano state più care a Giovanni.

Quando il Popolano la fece sistemare su una sedia molto grossa, imbottita sulla seduta e sullo schienale, i due soldati francesi che le avevano fatto da scorta si sistemarono in due angoli opposti della camera, senza dire nulla, mettendosi pazientemente in attesa.

“I nostri accordi sono chiari...” iniziò a dire Lorenzo, senza guardarla.

Ora che l'aveva sotto al suo tetto, si trovava nella stessa soggezione, mista ad ansia, che aveva provato quando era andato a cercarla a casa degli Scali. Sapeva che, per come era conciata al momento, anche un uomo fuori forma come lui avrebbe potuto sopraffarla benissimo, eppure c'era qualcosa che lo faceva sentire piccolo e impotente, dinnanzi a lei.

“Lo so, e questi giusti signori sono qui a ricordarcelo, direi...” fece Caterina, spenta, indicando i due soldati che, impassibili, restavano al loro posto.

Il Medici sembrò perdere ogni voglia di restare oltre in sua presenza e così, con un cenno secco del capo, andò verso la porta e aggiunse, appena prima di sparire: “Se più tardi vorrete mangiare qualcosa...”

La Leonessa aveva ragionato molto sul fatto che probabilmente le sarebbe stato offerto il pranzo, mentre era lì. Forse si trattava di un eccesso di prudenza, ma si costrinse a dire: “No, grazie, non credo che mangerò nulla, oggi.”

Lorenzo si accigliò e si voltò per un attimo verso di lei. I suoi occhi bovini vagarono confusi per qualche secondo, finché non arrivò la consapevolezza.

Stringendo un po' le labbra, l'uomo fece un respiro profondo e poi, andandosene davvero, concluse, secco: “Il veleno è l'arma delle donne.”

“E dei deboli...” soffiò Caterina, sicura che lui non la potesse più udire.

 

Giovan Francesco Sanseverino, quella mattina, aveva passato in rassegna con enorme attenzione le sue truppe. L'avanguardia, che il Valentino gli aveva affidato quasi con leggerezza, contava circa quattrocento armigeri e molti venturieri: non si trattava di una maramaglia semplice da tenere assieme e da guidare.

Il Sanseverino si era interrogato a lungo sugli ordini ricevuti quel giorno e sul cieco assenso che Vitellozzo Vitelli aveva dato a Cesare Borja, quando questi aveva detto che era tempo di provocare una reazione da parte dei capuani.

Giovan Francesco sapeva che alla difesa della città, a parte Fabrizio Colonna, restavano ben pochi condottieri. Oltre a lui, forse, c'era solo Ranuccio da Marciano, quello era vero, ma il Sanseverino temeva comunque la reazione disperata dei napoletani, ben sapendo quanto un esercito poco numero e dagli scarsi mezzi sapesse rivelarsi micidiale ed efficiente in caso di lotta all'ultimo sangue.

Il Duca di Valentinois, invece, pur essendo reduce dalla difficile, dispendiosa e a tratti umiliante campagna contro la Tigre di Forlì, pareva del tutto insensibile a quell'argomento.

Così il condottiero era partito di buon'ora, e aveva fatto quello che doveva per provocare la prima vera e cruenta reazione di Capua. Attaccando platealmente un contingente di aragonesi che stava lasciando la città alla chetichella, aveva fatto sì che i difensori si scoprissero per soccorrere i propri uomini.

I francesi, coordinati dal Vitelli, avevano iniziato a far fuoco su Capua, e a quel punto Cesare Borja, sorprendendo tutti, si era portato al fianco di Giovan Francesco e aveva guidato con lui l'assalto.

Il figlio del papa era stato a lungo indeciso se farlo o meno. Era stata un'ultima notizia arrivata da Roma a togliergli la lucida paura che aveva di ferirsi o, peggio, di morire. Un portavoce romano gli aveva detto che sua sorella Lucrecia passava le giornate, e adesso anche le notti, a guardare il ritratto di Alfonso Este, che sarebbe stato presto suo sposo. Gli aveva detto che le avevano parlato a lungo delle sue grandi abilità con l'artiglieria e con le armi, e lei, pur non commentando mai a voce alta, sembrava apprezzare il tipo di uomo che le era stato proposto.

Forse, si era detto Cesare quella mattina, mentre si faceva vestire dal suo attendente, se fosse riuscito a tornare a Roma con qualche cicatrice di guerra o con qualche sonetto che ne glorificava le imprese belliche, sua sorella avrebbe smesso di pensare ad Alfonso, e avrebbe capito chi era, l'unico eroe da ammirare.

“Al ponte di barche! Al ponte di barche!” gridò il Sanseverino, indicando la direzione giusta con la spada.

Il Volturno, ai loro piedi, sembrava un demone in collera. Il Valentino sentiva il proprio cavallo beccheggiare come una nave, mentre seguiva gli altri sul ponte. Ebbe più paura in quei pochi minuti che non in tutta la battaglia.

I napoletani indietreggiavano, i francesi avanzavano. L'arrivo, improvviso e sfolgorante di Gian Giordano Orsini, rimasto fino a quel momento nelle retrovie degli invasori, con le sue quattrocento lance, sembrò sfiancare gli aragonesi più di qualsiasi carica di cavalleria pesante.

Il Duca di Valentinois stava già per esultare, già dimentico del caldo, della fatica, del peso dell'elmo in testa e, anche, dell'arma che stringeva nel pugno e che, un po' per caso e un po' per scarso impegno, ancora non era riuscito a bagnare di sangue nemico.

Stava già gridando la sua stessa gloria, quando un boato che lo rese sordo per qualche istante, riempì l'aria. I proiettili dell'artiglieria napoletana lo sfioravano, lo sorvolano, lo circondavano. Il suo sguardo si annebbiò, non capiva che stesse accadendo. Gli ronzavano le orecchie, aveva la nausea, tutti, attorno a lui, gridavano e correvano, i cavalli si imbizzarrivano.

Vide il Sanseverino andargli incontro come una furia, urlando qualcosa, ma non capì una parola.

Solo quando l'Orsini, affiancandolo, ripetè la litania di Giovan Francesco, finalmente il figlio del papa capì cosa stava dicendo: “Indietro! Indietro! Scendiamo a patti! Indietro!”

 

Caterina si era sorpresa di se stessa, man mano che i fiorentini – e non solo – curiosi di incontrarla si avvicendavano nel salone del palazzo di Lorenzo Medici. Non solo si era trovata capace di sorridere a battute insulse e fuori luogo, ma era stata anche in grado di mostrarsi mansueta e accomodante anche con uomini che, in altri tempi, avrebbe trattato con sufficienza, se non con aperta ostilità.

Odiava, da un lato, scoprirsi così remissiva, ma dall'altro era felice di sapersi controllare: in fondo il suo obiettivo era chiudere quel teatro il prima possibile e ottenere quello che le interessava veramente, ossia un posto suo dove vivere, la sicurezza per i suoi figli e la tranquillità.

Non la infastidivano, in quella grottesca cornice, nemmeno i due francesi che osservavano truci a tratti lei e a tratti i suoi ospiti. Ormai li considerava quasi parte del mobilio. La sua naturale diffidenza verso gli armigeri d'Oltralpe c'era sempre, ma non poteva, anzi, non doveva dimenticarsi che erano stati loro a liberarla dai Borja e ormai sapeva che al mondo, per lei, non esisteva diavolo peggiore del figlio del papa. E del papa stesso, ovviamente.

Proprio per non evocare il Valentino e Alessandro VI, la Leonessa sviava in modo netto tutte le domande dirette sulla sua prigionia, e quando i più sfacciati erano arrivati a chiederle che cosa avesse fatto davvero di lei il Duca di Valentinois, quando erano rimasti soli a palazzo Numai, la donna, seppur a fatica, aveva sorriso e aveva scherzato sul fatto che tutti, ormai, credevano a tutto ciò che i guitti ripetevano nelle loro ballate.

La cosa che l'aveva fatta più soffrire, malgrado tutto, non era stata la curiosità morbosa o il pressapochismo di certi che si erano presentati lì solo per poter raccontare di averle parlato.

No, la cosa che più di tutte l'aveva addolorata era stato che, pur non riconoscendo praticamente nessuno dei volti che si era trovata davanti, a volte aveva avuto la sensazione che, invece, i suoi interlocutori la conoscessero. E proprio negli occhi di questo ultimi, aveva scorto una sorta di delusione difficile da decifrare.

Alla fine aveva capito: avevano sentito parlare di lei per mesi, per anni, la sapevano capace di cose grandiosi e orribili allo stesso tempo, e alcuni di loro l'avevano sicuramente vista dal vivo, quando, quasi due anni prima, si era presentata alla Signoria a picchiare il pugno sotto al naso del Gonfaloniere di Giustizia.

Per tutti loro, nella loro memoria o anche solo nella loro immaginazione, lei era una donna fuori dal comune, eccezionale, sia in senso negativo, sia positivo, forte, robusta, irruente, sensuale e inarrivabile. E invece, quando avevano avuto modo di averla a così breve distanza, che cosa avevano trovato?

Una donna pallida, smagrita, spenta, con la voce bassa e paziente, con lo sguardo distante, ma non freddo, in abiti sobri, senza nulla, in pratica, di diverso da una donna qualunque reduce da una vita qualunque...

Avvilita più dalla consapevolezza di non essere più la Tigre che era stata – almeno agli occhi di chi la guardava – Caterina si lasciò interrogare docilmente per ore, sempre senza esporsi mai, finché non arrivò la sera.

Il cielo di fine luglio si stava infuocando all'orizzonte e l'aria era ancora calda e pesante, senza quella brezza piacevole che, spesso, rinfrescava le serate di Firenze. La Sforza aveva lo stomaco vuoto e, quando si alzò dal suo scranno, si accorse di quanto le sue gambe fossero deboli e i suoi nervi scossi.

Sorretta all'istante da uno dei due francesi che le facevano da guardia, dovette anche fare i conti con un giramento di testa improvviso che, più che destabilizzarla, la innervosì. Vedersi così debole e malferma, quando, per tutta la vita, la sua prestanza fisica era stata la colonna portante della sua profonda sicurezza di sé, la spaventava moltissimo.

“Forse dovreste aspettare che faccia buio...” propose Lorenzo che, similmente alla sua ospite, non aveva toccato cibo tutto il giorno, aveva trascorso ore e ore in piedi accanto alla porta, cercando di origliare quanto veniva detto nel suo salone.

“Quando potrò andare alla villa?” chiese Caterina, come se il cognato non avesse parlato.

Il Medici si schiarì la voce. Avrebbe voluto dire un liberatorio 'mai', ma non lo fece. Aveva un progetto tutto nuovo, in mente, e non poteva comprometterlo solo per togliersi una fugace soddisfazione.

“Se volete, anche domani.” le rispose, sollevando un po' il mento, ma senza guardarla dritto in viso.

La Tigre rimase spiazzata. Si era attesa una dilazione, una scusa, un temporeggiamento di qualsiasi tipo, magari anche la richiesta di incontrare altri dignitari il giorno dopo e quello dopo ancora.

Non poteva negare con se stessa di essere sollevata, ma, allo stesso tempo, di provare un brivido indefinibile lungo la schiena. Tutta quell'arrendevolezza doveva nascondere qualcosa.

“Molto bene...” fece allora lei, sollevando un po' il sopracciglio: “Provvederò già questa sera a predisporre la nostra partenza.”

“Porterete con voi i vostri figli, immagino...” il tono di Lorenzo si era fatto più basso, quasi minaccioso.

La Leonessa fu tentata di cercare lo sguardo dei due francesi, come sperando che potessero aiutarla a fronteggiare meglio quell'uomo astioso e incomprensibile, ma non lo fece. Tenendo le sue iridi verdi puntate verso quelle anonime del fiorentino, annuì, senza dire nulla.

A quel punto, il Medici si scostò in modo teatrale, per lasciarli uscire, e precisò: “La villa è già fornita di servitù, una ventina di persone, più o meno. Posso, dunque, metterli a vostro carico a partire da domani?”

La milanese smise per un istante solo di camminare e poi, malgrado quel pensiero le mettesse ansia, ben sapendo di non aver altro, se non i gioielli affidati ai figli prima della loro partenza da Forlì, annuì: “Ovviamente.”

“Per il momento soprassiederò sulle rate che ancora mi dovete per la custodia del vostro ultimo figlio – affondò Lorenzo, quando la donna già gli dava le spalle – mi sembrava indelicato farlo, mentre eravate in cella.”

Caterina dovette far leva su tutta la forza che le era rimasta per voltarsi e, con un sorriso, ribattere, distesa: “E di questo vi sono grata.”

Per prima cosa, pensò la Tigre, quella notte stessa avrebbe chiamato a sé Fortunati per discutere quella questione, dato che, per quello che le era stato riferito, il Medici aveva dovuto rinunciare alle sue pretese in quanto essendo ormai lei libera e non più prigioniera di guerra, le sue pretese erano risultato non più valide.

Improvvisamente, mentre il cognato spariva alla sua vista, e lei si avvicinava all'uscita del palazzo, sempre con i due francesi a farle da scorta, la Leonessa si domandò se i suoi gioielli, piuttosto che per pagare dei servi, non le sarebbero serviti per assicurarsi un'assistenza legale degna di tal nome.

Stava ancora pensando, con angoscia crescente, a cosa avesse in testa Lorenzo, quando, nel cortile, dietro una colonna, intravide una donna. La guardò distrattamente, ragionando solo in un secondo momento sulla sua possibile identità.

Semiramide, invece, che si era appostata lì non appena aveva capito che l'ospite stava per andarsene, continuò a squadrarla finché non la vide uscire dal portone assieme ai due soldati che la fiancheggiavano da parte a parte, più simili a due carcerieri che non a due guardie del corpo. Per lei provò una pietà immensa, che andava ben oltre il suo sguardo stanco di quella sera o il suo passo lento.

Senza attendere nemmeno un istante, appena la Sforza non si vide più, l'Appiani camminò rapida dentro casa, fino a trovare il marito: “Sei contento, adesso che hai potuto mettere in mostra la Tigre come fosse una tua proprietà?”

Il Popolano, accortosi della presenza della moglie solo in seconda battuta, la squadrò da capo a piedi e borbottò: “No. Non sono contento. Non ho ancora avuto quello che voglio.” e, passando accanto a Semiramide, si sottrasse a un ulteriore scontro con lei.

Rimasta sola, davanti a un camino spento, la donna si accigliò, chiedendosi se le parole di Lorenzo sottintendessero altro, oltre alla sua ormai nota insoddisfazione. Ormai, da lui si aspettava di tutto: non era più il giovane uomo pieno di sani principi e buoni propositi che aveva sposato anni prima.

Sedendosi pesantemente su una delle due poltrone che guardavano il focolare freddo, l'Appiani richiamò alla mente il profilo della Leonessa di Romagna. Era certa che, prima della prigionia a Roma, fosse in parte diversa. Tuttavia, malgrado l'aspetto mesto, i capelli bianchi e raccolti sotto a un velo sottile, Semiramide ne aveva potuto osservare il profilo fiero e così chiaramente sforzesco.

Malgrado tutto, nell'incrociare solo per un istante i suoi occhi, aveva capito, o almeno aveva intuito in parte, il fascino spietato che tutti le attribuivano. Anche così, preda ferita e vinta, emanava un aura irresistibile, capace di attirare l'attenzione anche di una donna... Di certo, pensò la moglie del Popolano, quando Giovanni l'aveva vista la prima volta, più giovane, più battagliera e più florida, non aveva avuto scampo.

E, adesso più ancor di prima, l'Appiani si disse che non lo si poteva biasimare.

 

Malgrado il Valentino fosse stato certo fino all'ultimo che le condizioni di resa proposte da Vitellozzo fossero troppo pretenziose, Capua si arrese secondo i termini prescritti, ovvero le tre del pomeriggio del 24 luglio.

Il pagamento di quarantamila ducati d'oro era sembrato, ai difensori, ben poca cosa. Malgrado, infatti, la paura presa dai francesi e dai pontifici, per le scariche di artiglieria dei capuani, Federico d'Aragona era scappato, secondo alcuni verso Ischia, e Prospero Colonna si era affrattato a seguirlo.

La città era dunque vinta e quasi del tutto priva di protezione. Per Cesare sarebbe bastato anche così, ma aveva imparato, dalla campagna comandata in Romagna, che i soldati diventavano troppo irrequieti, se non si lasciava loro un valido sfogo. E dunque, anche se con un po' di ritrosia, era pronto a concedere all'esercito il sacco della città, malgrado la resa.

I suoi portavoce stavano ancora trattando la consegna del denaro dei vinti, però, quando al campo arrivò la notizia che Vitellozzo Vitelli aveva preso un contingente di soldati a lui fedele e stava entrando in città senza permesso.

“Io so cosa vuole... O meglio, chi...” aveva commentato Giampaolo Baglioni: “Io lo lascerei fare...”

E così, seguendo una volta tanto il consiglio di un suo sottoposto, il Borja non mosse un dito.

A Capua gli scontri imperversavano. Non c'era tregua in nessuna via e in nessuna casa. Il Vitelli sembrava pazzo di rabbia, e cercava a gran voce, ovunque, Ranuccio da Marciano. Prometteva taglie, minacciava, bestemmiava, tutto quello che, secondo lui, sarebbe servito per farselo consegnare.

Ranuccio, dal canto suo, non aveva colto questo accanimento così personale nei suoi confronti, ed era impegnato, con altri, a difendersi da una frangia di soldati francesi che l'avevano asserragliato in un palazzotto.

“Buttate tutto quello che trovate!” gridava ai suoi, incitandoli a gettare dalle finestre la mobilia e anche i cadaveri di quelli che erano stati già uccisi: “All'armi! All'armi!”

Sotto di lui poteva vedere una piccola schiera di uomini con indosso i colori del Borja, ma quello che cercava davvero era il vessillo del Duca, nella speranza di poter parlamentare con lui e ricordargli che avevano ormai firmato la resa e che non c'era bisogno di trucidare così i suoi soldati e gli abitanti di Capua.

Mentre, però, si sporgeva nella speranza di scorgere un volto noto o il cappellaccio con la piuma del Valentino, un verrettone, per altro non diretto a lui, lo colpì sul braccio, sul petto e sul collo, ferendolo in modo serio.

Il sangue gli imbrattava già il camicione – non portava corazze, quel giorno, reso troppo imprudente dalla fiducia riposta nei trattati di resa – e la vista cominciava ad annebbiarsi. Si ritrasse, sorretto subito dai suoi uomini, ma li pregò, con un gesto del braccio sano, di stare indietro.

Mosse un paio di passi, il fracasso degli scontri che si faceva più confuso alle sue spalle.

Schiuse le labbra per dire qualcosa, ma poi, prima che potesse trovare il fiato necessario, crollò in terra e perse i sensi.

   
 
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