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Autore: MaxB    12/04/2021    7 recensioni
Ossessionata dalla saga de La Passe-Miroir, non riesco a pensare ad altro da settimane.
E ho bisogno di approfondire alcune scene dei primi tre (e spoiler del quarto) volumi.
Ci saranno missing moments, scene descrittive relative a Thorn, soprattutto alla sua infanzia, e immersioni nei dialoghi tra Ofelia e Thorn, per come me li immagino io. Ed eventuali scene mancanti che ci starebbero bene.
Per possibili spoiler sul quarto volume verranno dati avvisi in cima alla pagina.
Aggiornamento irregolare.
Genere: Introspettivo, Romantico, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Missing Moments, Raccolta | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Ce l'ho fatta. Mi pare incredibile. Be', con un ritardo pazzesco...
Allora, il capitolo è bello lungo. Non ho potuto dividerlo perché è un unico blocco e non avrebbe avuto senso inserire un capoverso o tranciarlo a metà di netto.
Inoltre, mentre scrivevo le ultime righe, sebbene mi mancasse la piccola scena finale ho pensato: "Questa è la fine, nient'altro da aggiungere". In compenso ho aggiunto l'extra conclusivo.
Spero tanto tanto tanto che vi piaccia, è stata un'impresa immergermi in Thorn in questo caso perché, oltre a raccontare per la prima volta dal suo POV l'intimità con Ofelia, si trattano di quegli argomenti spinosi che non so nemmeno se sono riuscita a scalfire. Mi auguro di sì, ma mi rimetto al vostro giudizio.
Grazie mille per le 100 recensioni e per la vostra pazienza, vi voglio bene non solo perché leggete fedelmente queste cosine che scrivo ma soprattutto perché amate questa saga e con voi mi sento compresa.
Grazie♥

L’Attraversaspecchi IV, Echi in tempesta, L'arca e Gli stranieri, pagg. 401-417

22. Est-ce que je te suffirai?

Da quando erano atterrati, Thorn aveva cercato di prendere in mano la situazione come aveva potuto. Aveva dato ordini, si era assicurato che nessuno si perdesse o facesse, intenzionalmente o meno, male agli altri, e aveva cercato di capire dove fossero.
Ofelia li aveva salvati tutti.
La sua eccezionale, fuori da ogni schema, miracolosa, incredibile moglie li aveva salvati quando era assodato che invece sarebbero morti. L’adrenalina gli scorreva nelle vene, elettrificandolo come la corrente nervosa degli artigli. Gli tornarono alla mente tutte le innumerevoli, immeritate volte in cui l’aveva sottovalutata, tra cui la prima occasione in cui l’aveva vista, silenziosa e restia, su Anima.
Gliel’aveva già detto, in prigione, che il suo più grande errore era stato quello di malgiudicarla all’inizio. Ma si poteva fissare un limite alle capacità di Ofelia, un limite a ciò che era in grado di fare, se ad ogni difficoltà che incontravano lei riusciva a compiere l’impossibile. Ofelia era l’antimateria, la sua esistenza era diversa da quella di tutti loro, non rispondeva a nessuna legge fisica e matematica. Doveva essere così per forza, perché i numeri accettavano una, forse due eccezioni, ma Ofelia piegava le cifre al suo volere come se ne fosse la padrona.
Thorn non poteva riscrivere la matematica per lei, doveva considerarla da un altro punto di vista.
Mentre rimuginava sulle statistiche infrante da Ofelia, sulle sue capacità insospettate e insospettabili, su circa nove occasioni in cui lei aveva fatto quello che lui le aveva detto di non fare e alla fine aveva avuto ragione, si districò tra le ninfee di quella palude acquitrinosa, sporca e quasi sicuramente pullulante di batteri.
La torre campanaria si ergeva di fronte a loro, ammaccata ma ancora in piedi, alta quindici metri e ventisette centimetri. Un altro colpo di fortuna, che Ofelia avesse virato proprio al momento giusto? Quanta forza le era servita?
- Se tu non l’avessi evitata saremmo morti – mormorò a voce alta, lasciando trapelare solo una minima parte di quello che pensava.
Ofelia non reagì, gli restituì solo uno sguardo inespressivo, continuando ad avanzare. Thorn desiderò per un secondo di poter tornare a casa di Lazarus, nella loro camera, circondati dalla pioggia che attutiva ogni altro rumore. Liberi di parlare. Soli.
Quell’irragionevole desiderio irrealizzabile si intensificò quando Blasius, il commesso del Memoriale, si svegliò addosso al professor Wolf, cominciando a scusarsi profusamente. Non tanto perché lo irritava il suo parlare a vanvera, praticamente tutti gli sfollati stavano vaneggiando come lui, quanto perché, ancora una volta, Ofelia non reagì. E Ofelia non era mai impassibile, poco reattiva o riluttante a consolare qualcuno. Che lo sforzo le fosse costato troppo?
Dovette abbandonare quelle preoccupazioni quando attraversarono il vigneto. C’era qualcosa che decisamente non andava in quell’arca, e per una volta non gli dispiacque essere lasciato indietro. L’armatura gli stava dando fin troppi problemi, e fu lieto che nessuno lo notasse. Si accorse però del sorriso che Ofelia rivolse a Blasius, un sorriso che non le raggiunse gli occhi schermati dagli occhiali.
Quando lei fece caso alla sua mancanza, gli si accostò, rallentando di proposito il passo per avvicinarsi a lui e fare la strada insieme.
Nessuno aveva mai voluto… affiancarsi a lui. Aspettarlo. Stargli accanto. E per quanto Ofelia avesse detto e dimostrato che il suo affetto era sincero (anche un po’ di più), una parte di lui si chiedeva se sarebbe mai arrivato il giorno, come per tutti gli altri, in cui Ofelia avrebbe aperto gli occhi e se ne sarebbe andata via. Lontana da lui.
I vigneti. Quella che palesemente non era un’arca minore. Queste dovevano essere le sue preoccupazioni al momento, si riprese Thorn.
- C’è qualcosa di anormale.
Ofelia annuì, ma non proferì parola. C’era definitivamente qualcosa di anormale in lei, che non lo stava mettendo a parte dei suoi pensieri, che non stava facendo domande, che non stava commentando. Più che incuriosita da quel… posto, qualsiasi cosa fosse, sembrava incuriosita da se stessa. C’erano troppe orecchie indiscrete perché lui potesse interrogarla, così continuarono a camminare in silenzio.
Per cinque ore e trentadue minuti. In silenzio, accompagnati solo dallo scricchiolio irritante della sua armatura. C’era però qualcosa di confortante nella semplice vicinanza di Ofelia. Non era indispensabile parlare o… toccarsi, o guardarsi. Thorn udiva i suoi passi leggeri, vedeva la sua ombra incedere senza tentennamenti, e sapere che lei c’era, che era lì con lui, viva, gli bastava.
Erano vivi. Ed erano insieme.
Quando raggiunsero il villaggio abbandonato, qualcuno cominciò a parlare, ad esporre teorie, a far notare dettagli che potevano sfuggire agli altri. Thorn si mise a bussare ad ogni porta, poco fiducioso circa l’utilità di quel gesto, ma calcolando intanto probabilità e vagliando possibilità che potevano dare un senso a tutto quello che avevano vissuto. Ancora una volta, la presenza silenziosa di Ofelia alle sue spalle era l’unica cosa di cui avesse davvero bisogno.
Non c’era niente degno di nota nelle case. Nessun abitante che le reclamasse. Forse Ofelia avrebbe potuto scoprire qualcosa di più. Non voleva però forzarla. Aveva dato più lei di chiunque altro, quella notte, lo disturbava non essere in grado di scovare indizi e risposte con le sue sole doti, di dover sempre far affidamento su qualcun altro. Specialmente su sua moglie, visto che voleva essere lui ad offrirle sicurezza, protezione, sostegno, e non viceversa.
Ma l’orgoglio non l’avrebbe portato da nessuna parte, così la guardò, cercando di farsi capire con gli occhi.
Ci riuscì, perché Ofelia si tolse i guanti. Posò le dita delicate sulle maniglie delle porte, scrollandole per il calore ad ogni passaggio. E scosse anche la testa, delusa da quella lettura infruttuosa.
Non gli disse cosa aveva percepito, o cosa non aveva percepito, o se non avesse percepito proprio nulla. Aggrottò la fronte, perplesso di fronte a quel mistero inspiegabile, e non continuò con la sua indagine inutile. Se nemmeno lei era riuscita a captare qualche indizio… Thorn voleva fare qualcosa, voleva indagare, perché agire era sempre meglio che arrendersi o caricare ancora di più le spalle di Ofelia. Ma compiere tentativi futili era peggio che non fare nulla.
Era ormai pomeriggio (le quattro e sedici minuti precisi) quando tornarono nella piazza del villaggio, dagli altri. In qualche modo gli sfollati sembravano essersi rassegnati al fatto che non ci fosse nessuno, troppo stanchi persino per voler continuare a cercare. Poi, con l’avanzare del buio, sembrarono rianimarsi. Cominciarono a ballare, cantare, ridere, persino a suonare, come se non avessero una preoccupazione al mondo, come se fossero felici e avessero realizzato i loro propositi. Thorn poteva immaginare… no, immaginare no, e nemmeno capire, ma tentare di capire sì; poteva tentare di capire cosa spingesse quella gente senza speranza, senza certezze, che aveva letteralmente sfiorato la morte (di un metro e ottantadue centimetri, l’ampiezza della torre era di due metri precisi e il dirigibile ne aveva scalfito la differenza) a voler dimenticare per un istante tutto quello che avevano passato. Dimenticare le case che non avevano più, i parenti o gli amici che erano andati incontro ad un destino ben diverso. Si sentivano vivi, e lui, per una volta, non si sentì di giudicarli, nonostante non apprezzasse tutto quel trambusto.
E nemmeno i due inviti a ballare che ricevette. Se fosse stato al Polo lo avrebbero lasciato in pace. Solo a i babeliani erano così aperti e diversi tra loro da accettare persino un’aberrazione come lui.
In ogni caso, gli altri potevano fare ciò che volevano ma lui, seduto sul bordo della fontana, continuava a consultare il suo orologio come se potesse dargli le risposte che cercava. Lo aiutava a pensare, a calcolare la prossima mossa, il tempo che restava loro a disposizione fino al giorno successivo.
Ormai Thorn non faceva nemmeno più caso all’emicrania che sembrava martellargli direttamente il cervello, colpa dell’attività cerebrale intensa: più pensava, ipotizzava e cercava soluzioni, più strade si aprivano, più calcoli doveva fare e più il male aumentava. Raggiunse l’apice quando cominciò a sviluppare quattro teorie diverse, con possibili risvolti futuri e scenari passati che avrebbero potuto avvalorare quelle ipotesi.
Dopo diciotto minuti chiuse di scatto l’orologio per la settima volta. Non era venuto a capo di nulla.
- Gli abitanti di questo villaggio non hanno in programma di tornare – borbottò tra i denti, incupito di fronte alla sua incapacità di giungere ad una soluzione. – Almeno per un bel pezzo. Non sono convinto che siamo su Terra d’Arco. Ma la domanda è un’altra: ovunque siamo, come facciamo ad andarcene?
Sollevò finalmente gli occhi su Ofelia, che era stata innaturalmente silenziosa per tutto quel tempo. Troppo, davvero troppo silenziosa, il più grande lasso di tempo mai trascorso per lei senza parlare, con lui e con gli altri.
Ripensò a quando, appena conosciuti, gli dava fastidio che qualcuno gli parlasse. Non riusciva mai a capire cosa ci fosse nella testa delle persone, sapeva solo che la maggior parte di loro era falsa e lui non nutriva alcun interesse nel dialogo. Aveva fatto il primo, vero sforzo sotto quell’aspetto quando aveva cominciato a… ad abituarsi ad Ofelia. In seguito, parlare con lei era divenuto non solo facile, ma essenziale, piacevole. Ascoltarla, e mettere lei a parte dei suoi pensieri, gli offriva nuovi punti di vista che da solo non avrebbe potuto prendere in considerazione.
In quel momento, a situazione capovolta, non apprezzava il silenzio di Ofelia. Desiderava che gli parlasse, anche solo per maledirlo, o sfogarsi con lui, addossandogli la colpa. Gli sarebbe andato bene, purché poi fossero tornati… la coppia di sempre. Non avrebbe disdegnato nemmeno un pianto liberatorio. Come quando Ofelia si era aggrappata a lui dopo aver rischiato di morire per mano del barone Melchior. Solo quattro anni prima sarebbe stato inconcepibile per lui desiderare di consolare qualcuno, o di asciugarne le lacrime.
Invece, in quel momento, avrebbe dato tutto per far breccia nel muro di silenzio di Ofelia. Anche un po’ di più.
Lei continuò a guardarsi intorno sbocconcellando dell’uva per un altro minuto. Thorn la vide concentrarsi soprattutto su Ambroise, su Blasius e Wolf ed Elizabeth.
La sua ipotesi che qualcosa non andasse, che qualcosa covasse sotto l’apparente calma di Ofelia, si concretizzò quando lei infilò la testa sotto la cannella della fontana. Ne riemerse con i capelli fradici, i ricci pesanti d’acqua e lunghi. Finalmente lo guardò in volto, tormentata.
- Devo parlarti.
Non attese oltre, chiuse di scatto l’orologio e si rimise in piedi. Sapeva che Ofelia non aveva nulla di piacevole da comunicargli, era evidente al punto che non serviva nemmeno la matematica per decifrare il suo comportamento. Se avesse avuto una buona notizia, o una speranza di qualche tipo da dargli, lo avrebbe fatto da tempo.
Si sentì illogicamente e stupidamente sollevato, comunque, all’idea che Ofelia lo volesse mettere a parte dei suoi ragionamenti. Lo aiutava a convincersi del fatto che lui, per Ofelia, era importante. Indispensabile, altrimenti avrebbe cercato di risolvere la situazione da sola. Si chiese quando, di preciso, fosse intervenuto in lui quel cambiamento così radicale, che prescindeva da ogni ragione e matematica, da ogni buonsenso e amor proprio. Ma decise anche che non gli importava, fintanto che Ofelia avesse avuto bisogno di lui.
Poteva cercare di essere ciò che lei voleva, glielo aveva già detto. Avrebbe fatto ogni tentativo per risultare più… amabile, per lei.
Cercò di non pensare a cosa Ofelia potesse volergli rivelare mentre si allontanavano dal disturbante trambusto della festa. Risalirono una collina di ulivi in silenzio, e quando il rumore della sua armatura divenne più forte si rese conto che le voci alle loro spalle erano diventate bassi mormorii di sottofondo, escludibili dalla propria attenzione. In cima alla collina, tra l’erba alta (ottantotto centimetri) che non veniva tosata da almeno centosettantasei giorni se si ipotizzava una crescita media di cinque millimetri al giorno, videro la desolazione di quel posto abbandonato, solcato da distese d’erbe e acqua e, quasi anacronistico in mezzo a quella natura selvatica, una fermata dell’autobus ai piedi del rilievo.
Cercò di non aggrottare la fronte davanti all’evidente inutilità di una simile costruzione in un posto in cui non viveva un singolo individuo. Chiunque amministrasse le finanze, lì, non aveva avuto né una buona idea né una buona gestione dei fondi pubblici.
Thorn si fermò, imitando Ofelia, quando lei smise di camminare. Erano abbastanza isolati da poter parlare in tutta sicurezza e riservatezza, ma non così lontani da non poter tornare in fretta in caso di bisogno.
Ofelia aprì finalmente bocca dopo ventisei secondi.
- Ho fatto due enormi sciocchezze.
Il primo pensiero di Thorn fu che due, alla fine, non erano così tante, considerando la sua naturale propensione alle catastrofi. Il secondo fu che, dato che erano poche, dovevano essere di una gravità incalcolabile.
Ofelia si sedette, e Thorn dovette piegare il collo come un uccello per riuscire a vedere la sommità della sua testa bagnata, i cui capelli le stava inumidendo anche il tessuto chiaro della tunica. Gli diede fastidio però non poterla vedere in volto, per decifrarne lo stato d’animo. Ofelia era molto espressiva, e guardarla negli occhi quando conversavano lo aiutava sempre a capire cosa… sua moglie intendesse davvero dire. Non sempre, infatti, ciò che mostrava in volto corrispondeva a quello che sembrava volesse dire con il tono di voce.
- Ho fatto nascere un eco. Non solo non ho trovato il Corno dell’abbondanza, ma ho fornito all’osservatorio l’ultima cosa che gli mancava per rifare dli stessi errori di Eulalia: un nuovo Altro. E per questo ho sacrificato il mio potere di Attraversaspecchi. Più ho cercato di fare le mie scelte e più sono entrata nel loro gioco.
Ofelia spiegò la prima sciocchezza con calma apparente, ma il timbro della sua voce e le sue parole dure e inflessibili gli fecero capire che era più delusa da se stessa di quanto lo fosse mai stata da chiunque altro; persino da lui quando le aveva omesso delle informazioni fondamentali sul suo conto, sul loro matrimonio. Non voleva che Ofelia si sentisse male o si abbattesse, perché a lui non importava cosa avrebbero dovuto affrontare e quanto dura sarebbe stata, finché fossero stati insieme a lottare.
Più di tutto, però, avrebbe voluto ridarle il suo potere di Attraversaspecchi, perché era evidente che fosse un dono a cui Ofelia teneva particolarmente. Il fatto che l’avessero indotta a sacrificarlo per fare addirittura il loro gioco lo riempiva di una rabbia cieca che si manifestò sotto forma di immobilità assoluta. Ma i suoi artigli fremevano, saggiando l’aria alla ricerca di qualche nemico da smembrare.
Circa il suo volersi affrancare da chiunque e il voler fare le proprie scelte, però, era a disagio. Ofelia aveva un’insospettabile forza di volontà che trascendeva da qualsiasi influenza altrui. Voleva essere padrona del suo destino, e ne aveva tutto il diritto, solo che Thorn si chiedeva se non si sarebbe dimenticata anche di lui, un giorno, nel prendere le sue scelte e decidere da sé ciò che voleva. Nonostante questo timore, non accettava che qualcuno le mettesse i bastoni tra le ruote o la guidasse di nascosto.
Certo, il loro avvenire non si prospettava affatto semplice, era l’equazione più complessa che avesse mai dovuto affrontare, con incognite multiple e dati mancanti, ma c’era sempre un risultato per tutto.
Così rimase immobile, cercando subito di interiorizzare le novità e catalogarle per avere un quadro più completo della situazione.
Poi le chiese della seconda sciocchezza.
- Ho liberato l’Altro dallo specchio sapendo quello che facevo.
Thorn cercò di non sussultare mentre venivano svelate nuove incognite e giungeva ad alcuni risultati parziali prima incalcolabili. Tutto era accaduto per colpa… no, non per colpa, ma per causa di Ofelia? Non avrebbe più dovuto stupirsi di nulla, sapeva quanto effettivamente lei attirasse disgrazie senza motivo. Come aveva potuto non ipotizzare che, in effetti, ruotasse tutto attorno a lei? La presenza dell’Altro, la sua liberazione… era stata Ofelia.
- Finalmente mi sono ricordata quella famosa notte e soprattutto la sua voce, sempre che si possa chiamarla voce. Era tristissima… L’Altro mi ha avvertito che sarei cambiata e che il mondo sarebbe cambiato. Non sapevo quanto, ma resta il fatto che ho agito con cognizione di causa. In fondo non vedevo l’ora che le cose cambiassero. Il motivo per cui le arche crollano, per cui ci sono stati morti e ancora ce ne saranno, è solo che non volevo diventare come mia madre.
Ofelia si mise a nudo con lui come mai aveva fatto. Dettagli rivelatori che non gli erano sfuggiti, ma che lei non aveva mai tirato in ballo, come l’influenza oppressiva di sua madre nella sua vita e il suo timore di esserne succube per tutta l’esistenza. Una parte di lui fu lieta di poter essere considerato così importante da ricevere quelle confessioni, ma un’altra si rese conto che il definire quei due fatti sciocchezze non era solo riduttivo, era un eufemismo, un’iperbole al contrario.
Erano due catastrofi. Il crollo delle arche, tutto quello su cui stavano lavorando, la ragione per cui erano stati cacciati da Babel, il motivo per cui si erano separati anni prima era… Ofelia. Ofelia, e una sua decisione. Non la biasimava per averla compiuta. Ofelia era una persona buona, buona e onesta e compassionevole e sincera e leale e altruista e generosa come non ne aveva mai conosciute in tutta la sua vita. Thorn sapeva che, se Ofelia avesse saputo a cosa andava incontro con quella sua scelta, avrebbe preferito diventare come la madre e vivere tra le sue sottane per sempre, piuttosto che causare tante morti e tanto dolore. Un’ecatombe di quella portata.
Per questo si rendeva conto di quale peso gravasse sulle sue spalle. Non aveva capito quanto profondo fosse il carico che portava perché avevano avuto questioni più urgenti da risolvere fino a quel momento, dall’ultima volta che si erano visti, come l’esilio, il cercare di sopravvivere, il capire come tornare indietro. Ma ora che le priorità erano cambiate, ora che non c’era più un pericolo di morte (imminente), quelle verità erano diventate insostenibili per Ofelia. Non la condannava per non avergliene parlato prima. Anzi, la apprezzava per averlo fatto, per averlo messo a parte.
E non la criticava. Ofelia era solo stata una vittima delle circostanze. Lei credeva di aver avuto una scelta e di averla compiuta, ma la colpa non era sua. Non aveva colpa di nulla, era solo stata ingannata e plagiata.
Thorn avrebbe fatto di tutto per prendere sulle proprie spalle il peso di quella colpa, e si promise che ci sarebbe riuscito.
Ofelia scosse i capelli, come se le fosse venuta in mente una cosa sul loro conto. Come se non li sentisse più suoi.
- Per tutto questo tempo mi sono sentita guastata dall’intrusione dell’eco di Eulalia nel mio corpo e nella mia mente. La consideravo la mia impurità. Quando abbiamo cominciato a capire cos’era il Corno dell’abbondanza ho… diciamo che la mia motivazione era più egoista della tua. La tua unica aspirazione è sempre stata liberare me e il mondo, hai subito pensato a come il Corno dell’abbondanza avrebbe potuto riconvertire Eulalia e l’Altro in ciò che erano all’origine, mentre io ho pensato soprattutto al modo in cui avrebbe potuto riconvertire me in quella che sarei stata se non ci fossero stati loro. Senonché adesso so che il cambiamento era stato una mia scelta fin dall’inizio.
Ofelia tacque, senza fiato.
Quel discorso, quelle ammissioni dovevano esserle costate tutto, ma non quanto costavano a lui. Troppi pensieri gli affollavano la mente, acuendogli l’emicrania e rendendo i sui artigli ancora più irascibili. Avrebbe davvero, davvero, davvero gradito tanto, anche un po’ di più, un altro intervento da parte degli artigli di Ofelia, un contatto tra i loro sistemi nervosi per calmare i suoi, ma non lo avrebbe mai confessato. Erano il suo peso da portare, e Ofelia era già abbastanza sobbarcata, non aveva bisogno di farsi portatrice anche di quella sua incapacità di controllo.
Così tanto. Gli aveva detto così tanto. E gli faceva così tanto male.
Sapeva bene cosa voleva dire desiderare un altro corpo, un’altra versione di sé. Quante volte aveva sperato, da bambino, di essere più forte fisicamente, più immune alle malattie, e non cagionevole come una nullità? E solo per piacere a sua madre, per poter essere amato da lei.
Ofelia avrebbe voluto riconvertire se stessa in quella che sarebbe stata senza di loro, senza l’Altro ed Eulalia. Non dal punto di vista comportamentale e di personalità, ma fisico. In effetti, la genetica era un po’ come la matematica: logica e consequenziale. I parenti di Ofelia, da quanto aveva potuto vedere, erano tutti di carnagione e capelli chiari, biondo intenso tendente al rosso, con occhi azzurri. Lei era un po’ l’eccezione che confermava la regola, ma in fatto di genetica non c’erano eccezioni immotivate. Ofelia avrebbe dovuto avere capelli ramati, occhi chiari. Non che a lui importasse, la bellezza era un canone soggettivo non classificabile di cui lui non capiva granché (se non che Ofelia gli piaceva), però era effettivamente inusitato che lei avesse ereditato caratteristiche così differenti.
Thorn si rese conto che, se avessero avuto un figlio, avrebbe quasi sicuramente preso da Ofelia. La genetica era interessante, si basava sulle probabilità. Ofelia aveva i tratti genetici più forti. I suoi capelli, i suoi occhi scuri, avrebbero probabilmente prevalso in una mescolanza dei loro tratti estetici. Un figlio sarebbe sicuramente venuto con i capelli scuri, probabilmente anche con gli occhi scuri, ma d’altra parte, marchiati nel loro patrimonio genetico, c’erano solo colori chiari, capelli biondo-rossicci e occhi azzurro-verdi, o grigi come i suoi. Un altro figlio sarebbe quasi sicuramente nato prendendo dalla sua famiglia o da quella di Ofelia, o magari mescolando le due tonalità, con capelli chiari e occhi scuri o viceversa. Oppure, un’altra probabilità era che, essendo i tratti di Ofelia particolarmente prevalenti, i loro figli sarebbero tutti venuti simili a lei.
Thorn mancava di fantasia, pertanto non riuscì ad immaginarsi volti e identità di una loro ipotetica prole, ma quel pensiero in qualche modo lo mise… a disagio. Ma a disagio in senso positivo, se era possibile vivere uno stato d’animo simile. La verità era che non si era mai soffermato su simili scenari. Non ce n’erano mai stati né l’occasione né il bisogno, dal momento che lui e Ofelia non…
Però ora sì. Si rendeva necessario un discorso di quel tipo. Non immediatamente, ovviamente, ma una volta risolte le questioni più spinose. Cercò di scacciare quel pensiero e concentrarsi su altro, ma quella corrente ideologica quasi insignificante rimase lì, fastidiosa, e lui fece del suo meglio per escluderlo.
Ripeté invece il discorso di Ofelia. Il suo considerarsi egoista. La verità era che nessuno era più egoista di lui, e Ofelia aveva sbagliato; aveva sbagliato a considerarsi meschina, e a credere che lui avesse aspirazioni così onorevoli. Lui non voleva salvare il mondo. Lui non voleva salvare proprio nessuno. Solo lei, solo il futuro che avrebbero potuto avere insieme, quello che lei aveva scelto. Nessuno lo aveva mai preferito agli altri, nessuno lo aveva… desiderato come Ofelia. E lui non voleva altro che quello: continuare a sentirsi amato, benvoluto, fondamentale. Indispensabile.
Per quanto si sforzasse di esserlo, però, le parole di Ofelia misero chiaramente in evidenza un fatto: lei lo coinvolgeva, condivideva con lui le novità, cercava un confronto con lui, ma perché lo voleva lei, non perché sentisse l’irrefrenabile bisogno di stare costantemente con lui.
Il volersi aprire un museo, il domandargli un suo domicilio personale, e ancora prima, il chiedergli di non tenerle nascosto nulla, le domande curiose e talvolta indiscrete, tutto era finalizzato alla comprensione della situazione per la successiva valutazione della strada da prendere.
Non lo aveva detto esplicitamente, probabilmente non se ne rendeva nemmeno conto, ma ogni sua scelta, tutte le azioni compiute nella sua vita portavano a quella ineluttabile verità: che Ofelia voleva essere indipendente, selezionava le persone di cui circondarsi. Aveva deciso di stare al suo fianco, ma non lo avrebbe mai amato come lui amava lei; in modo possessivo, spassionato, ossessivo anche, illimitato. Ofelia era tutto per lui, ogni cosa; finché ci fosse stata lei ad aspettarlo avrebbe potuto rinunciare ad ogni altra cosa: casa, lavoro, familiari, numeri persino. Ma lui, per quanto fosse importante per lei (di questo non ne dubitava) non sarebbe mai stato l’elemento chiave della sua esistenza.
Lei voleva solo vivere la vita che voleva, scegliersela. Lui invece voleva lei, voleva che lei vedesse solo lui, vivesse per lui. Non aveva intenzione di limitare la sua libertà, ma se Ofelia vi avesse rinunciato pur di stare con lui, se avesse deciso di farsi guidare da lui in tutto e per tutto, ne sarebbe stato contento. Se Ofelia avesse cominciato a non voler fare nulla senza di lui, a vivere per lui, a chiudersi in casa e aspettare il suo rientro la sera, facendoselo bastare come unica gioia, lui ne sarebbe stato appagato.
E questo lo rendeva meschino, egoista, e cattivo.
Ofelia non poteva definirsi in modo così poco lusinghiero e innalzare lui quando non sospettava nemmeno dei suoi desideri insani. Ma lui aveva promesso di non nasconderle nulla che la riguardasse direttamente e, anche se aveva rotto quella promessa, voleva usarla come principio nel loro legame. Ofelia doveva sapere chi era, da cosa era motivato e spinto. Non avrebbe avuto segreti di quel genere con lei, le doveva la verità. Doveva dirle chi era realmente.
Stanco di guardarla dall’alto senza poter incontrare i suoi occhi rivelatori, tentò faticosamente di sedersi sull’erba. Non fu facile, e l’intera manovra gli richiese più tempo di quello impiegato per analizzare le parole di Ofelia. Pensare era facile e veloce per lui, si rendeva conto che per gli altri non era così. L’emicrania perenne, però, era il prezzo di pagare.
Spese più tempo ad osservare i capelli bagnati di Ofelia che a decidere come impostare il discorso. Le gocce d’acqua le scendevano lungo le ciocche scure, alleggerendo i capelli dalla loro presenza. Presto si sarebbero arricciati come di consueto. Ofelia, si ritrovò a pensare, era sfuggente quanto quelle gocce. Libera, e pronta a lasciarsi andare ovunque la sua volontà l’avesse portata.
- Non sei minimamente consapevole del nostro conflitto, vero?
Ofelia lo guardò senza capire. Conflitto era una parola che celava un intenso significato, ma era proprio quello che c’era tra loro: un conflitto.
- Me ne sono reso conto molto presto. La tua volontà si fa sempre più grande e prende sempre più spazio. Vuoi la tua indipendenza. In fondo anche la tua ossessione per il passato, le letture, il museo, i ricordi, è sempre stata finalizzata a liberartene meglio.
C’erano individui, come lui, che desideravano piacere e compiacere determinate persone. Aveva sperato di essere imprescindibile per sua madre. Aveva sperato di diventare il fulcro della vita di Ofelia. Aveva sperato che quelle due donne lo vedessero come tutto il loro mondo, che desiderassero essere amate da lui quanto lui bramava il loro amore. E c’erano altre persone, come Ofelia, che non sentivano il bisogno di rendersi appetibili a chicchessia. Che erano così in pace con loro stesse, così sicure del loro avvenire e della strada da percorrere, che non necessitavano di rendersi amabili per gli altri.
- Vuoi la tua indipendenza – scandì lentamente, - e io voglio esserti indispensabile.
Era stato lui a cercare di fare i cambiamenti necessari per essere considerato da lei. Non viceversa. Ofelia, inutile mentirsi, gli era piaciuta subito. Se n’era innamorato immediatamente. Lui aveva dovuto sforzarsi parecchio, invece, più di quanto avesse mai fatto in vita sua, solo per farsi notare. Anzi, per non farsi odiare.
Ofelia si abbracciò le ginocchia, forse pronta a ribattere, o forse per difendersi da quell’evidenza. Da quella sua ossessione per lei. Da quella palese e viscerale esigenza impellente di essere tutto per lei.
Ma non le lasciò il tempo di parlare. Doveva ancora rivelare la parte peggiore di sé.
- Hai detto che la mia aspirazione è liberare te e il mondo. Io non aspiro a niente. Ho solo bisogno che tu abbia bisogno di me, nient’altro.
Aritmetica? Precisione? Leggi? Che cos’erano, se non sterili palliativi, tentativi di colmare qualcosa che non aveva mai avuto, cioè qualcuno che lo considerasse importante? Avrebbe rinunciato al suo lavoro, alla matematica, ai numeri, avrebbe anche vissuto come un selvaggio, se fosse stato il prezzo richiesto per essere indispensabile ad Ofelia.
- E so per certo che in questo conflitto sono destinato a perdere, perché sono più possessivo di quanto tu non sarai mai e perché ci sono cose che non posso sostituire.
Come la sua famiglia. Se anche Ofelia avesse cominciato a vederlo come la persona più importante della sua vita, l’unica a cui non poteva rinunciare, non si sarebbe comunque dimenticata dei suoi parenti. Chiederle di vivere solo per lui sarebbe stato più che egoista. E impossibile. Lui non poteva sostituire tutti i suoi affetti, non era in grado di farlo e… non voleva nemmeno farlo. Ma ciò dimostrava appunto la sua teoria.
Per Thorn c’era Ofelia.
Per Ofelia c’erano Thorn, la sua famiglia, il suo museo, le sue letture, i suoi amici persino, probabilmente dei figli un giorno (non credeva che Ofelia, vista la sua numerosa famiglia e la capacità di prendersi cura degli altri, non ne avrebbe voluti prima o poi, a dispetto delle sue parole di molto tempo prima).
A Thorn non importava essere il primo della lista. Anche per sua zia era stato il primo della lista, in momenti alterni della sua vita (quando aveva perso il marito, quando aveva perso i figli, quando non c’erano gli altri nipoti) e non gli era mai bastato. Voleva essere il solo, non il primo. L’unico.
E questo suo essere possessivo e desiderare qualcosa che non poteva avere e che probabilmente era pure sbagliato non faceva che acuire il senso di disgusto che provava per sé. Perché non poteva essere meno… ossessivo? Perché non poteva vivere senza legarsi agli altri? E perché non era mai abbastanza agli occhi altrui?
Era talmente sbagliato, talmente sporco…
Prese il flacone di disinfettante, impietoso contro se stesso. Come poteva essere amato da qualcuno se in primo luogo lui stesso non si amava, convinto di non meritare l’amore altrui, di non essere…?
Si contrasse, esitando, appena prima di versarsi l’igienizzante sulle mani, come se quel gesto potesse in qualche modo purificarlo, penetrargli sotto pelle e raschiargli via dalle vene, dal sangue, la sua stessa essenza rivoltante.
Che però, si rese conto, Ofelia non considerava tale.
Ofelia… Ofelia lo amava. Glielo aveva detto. Glielo aveva dimostrato. E sì, amava anche la sua famiglia, e tante altre cose e persone, ma era andata su un’arca sconosciuta da sola per cercare lui. Si era messa in pericolo per lui. Aveva sofferto, per lui. Era con lui che condivideva le novità e cose amene relative alla quotidianità che lui non pensava nemmeno potessero essere interessanti, prima che lei gliene parlasse. Era lui che… desiderava toccare. Baciare. Vedere. Era lui che cercava con lo sguardo.
Era lui che aveva salvato e difeso e protetto quando tutti lo avevano abbandonato, quando non era che un relitto insanguinato e spezzato e inservibile nella prigione dorata.
Ofelia conviveva con tutto ciò che lui era. Aveva visto praticamente tutto di lui ((tecnicamente “visto tutto” non era la definizione corretta dato che si conoscevano da quattro anni, due mesi e dodici giorni, di cui tre anni e cinque mesi li avevano trascorsi su arche diverse, e che da quando era nato a quando aveva compiuto ventitré anni e quattro mesi non aveva avuto idea della sua esistenza, però, ecco, Ofelia era la persona con cui si era aperto di più, pertanto si poteva dire non letteralmente parlando che “avesse visto” tutto di lui) anche un po’ di più) e non era fuggita, non lo aveva abbandonato. Lo aveva cercato. Lo aveva incluso. Lo aveva… apprezzato persino.
Si era fidata di lui e aveva fatto affidamento su di lui.
Thorn sarebbe stato sempre più possessivo di lei, avrebbe avuto più bisogno di lei di quanto lei ne avrebbe mai avuto di lui, ma… gli aveva dato più di chiunque altro nella sua vita.
Doveva essere lui a fidarsi di lei, e non considerarla capace di abbandonarlo come gli altri. Perché Ofelia non era come gli altri.
Ofelia lo amava. Lo accettava. Così com’era. Inclusa la matematica, la misantropia, il corpo scheletrico e il viso poco attraente, la pignoleria, l’ossessività, la scarsa propensione al sorriso, il…
Mentre tre filoni di pensiero si staccavano da quello principale, continuando ad elencare difetti e caratteristiche difficilmente tollerabili del suo carattere, Thorn consegnò il disinfettante ad Ofelia.
Non gli serviva più.
- Questo è per la mia impurità. Se puoi conviverci tu, posso conviverci anch’io.
Ofelia lo prese, stranamente con più sicurezza di quanto fosse abituato a vedere nei suoi gesti. Gli sovvennero come lampi tutti gli oggetti che aveva fatto cadere o urtato involontariamente, davvero numerosi (sessantadue, e solo di quelli che aveva visto personalmente).
Sembrò contrarsi in volto anche lei, presa di un’emicrania come le sue. Ma Ofelia non aveva accennato a mal di testa. Era… combattuta.
Thorn intuì che c’era qualcos’altro che Ofelia gli aveva taciuto, qualcosa che stava valutando se rivelargli o meno. Scrutava il flacone igienizzante come se contenesse un suggerimento.
Notizie infauste gliene aveva già date (parecchie), cosa la tratteneva quindi dal rivelargliene un’altra?
- Non posso avere figli.
Non…?
Non posso…?
Thorn ripeté la frase in testa senza capirla per ben quattro volte, prima di rendersi conto che “non posso avere figli” significava “non posso avere figli”. Fisicamente. Non poteva concepirli. Non poteva partorirli. Non poteva diventare madre.
Non poteva rendere lui padre.
Non riuscì a trattenere l’apprensione che gli affiorò in viso, metà per sé e metà per lei.
Aveva visto sua zia impazzire letteralmente di dolore dopo aver perso i suoi bambini. E ritrovare la ragione e lo scopo di vita dopo averne concepito un altro. Istinto materno, desiderio genitoriale, erano tutti concetti privi di significato e interpretabilità per lui, ma si era reso conto, osservando, che nella gran parte delle donne durante l’età fertile sorgeva spontaneo questo… bisogno di diventare madre. Ofelia era, ovviamente, una donna in età fertile, nata oltretutto su un’arca in cui la famiglia era ovunque, era il fulcro stesso dell’esistenza, la scopo di vita. Matrimonio e figli erano l’unica aspirazione che avevano.
Ofelia gli aveva detto chiaramente che non gli avrebbe dato dei figli. Anzi, che non ne voleva. Ma gli aveva anche detto che il suo unico dovere coniugale nei suoi confronti sarebbe stato insegnargli a leggere, nulla più. Eppure, erano andati ben oltre, anche un po’ di più.
Se Ofelia aveva contraddetto la sua stessa volontà, se in lei era nato il desiderio di… stare con lui, fisicamente… cosa le avrebbe impedito, un giorno, di contemplare l’idea di avere dei figli suoi? Cosa le avrebbe impedito di chiederli a lui?
Ofelia avrebbe sicuramente voluto dei figli, a dispetto delle sue parole. Ma non avrebbe mai potuto averli.
E lui? Lui aveva detto ad Ofelia di detestare i marmocchi. Lo aveva fatto. Ed era vero. Ma non le aveva forse concesso tutto quello che lei gli aveva chiesto? Inoltre, non si era mai soffermato su quella conversazione sgradevole che avevano avuto tanto tempo prima, ma lui le aveva risposto in quel modo per difendere se stesso. Per schermarsi, di nuovo, da qualcuno che non lo voleva.
Aveva desidero già da allora che Ofelia lo… considerasse un marito sotto ogni aspetto. Che volesse stare con lui in tutti i sensi. E sapeva, anche se non lo avrebbe mai ammesso, che i figli sarebbero venuti naturalmente. Che lui non glieli avrebbe mai negati. Che forse, anzi, li avrebbe contemplati anche lui nel loro futuro; si sarebbe solo dovuto abituare all’idea di condividere Ofelia con qualcun altro.
Non aveva una grande immaginazione, tutt’altro, ma Thorn quasi riusciva a prefigurarlo. Un loro ipotetico avvenire… un futuro libero da costrizioni, una vita di cui loro erano interamente proprietari. Il momento in cui Ofelia gli avrebbe proposto di avere dei figli. Gliel’avrebbe chiesto timidamente, di quello era certo, soprattutto ricordando quanto lui fosse stato contrario all’dea di averne, in origine. Lui ovviamente avrebbe accettato (cosa mai avrebbe potuto negarle?), e lei lo avrebbe… coinvolto. Lo avrebbe incluso in tutto, gli avrebbe fatto sentire il bambino nella pancia, gli avrebbe spiegato come essere un buon padre e avrebbero cresciuto insieme il…
Thorn bloccò i pensieri, facendosi violenza, ricevendo una fitta di emicrania di conseguenza.
Si costrinse a riflettere. Lui non voleva dei figli. Non in quel momento, né nell’immediato futuro. Ma la sua mente calcolatrice lo aveva spinto a guardare già avanti, all’attimo in cui sarebbe successo. In cui lo avrebbe… voluto.
Non doveva, però, permettersi di pensarci.
Non poteva più immaginarselo, perché Ofelia non poteva avere figli. Lui non poteva fare nulla per darglieli.
E sapeva, sapeva, sapeva con ineluttabile certezza che Ofelia ne avrebbe sempre sofferto più di lui. Ofelia si sarebbe portata dietro quel dolore ovunque andasse, in qualsiasi momento.
Ofelia, che sembrava calma, che gli aveva dato la notizia nove secondi prima e lo guardava confusa, come se non capisse il perché della sua preoccupazione.
Preoccupazione per lei.
- Ed è tutta colpa mia – aggiunse infine, sbloccando qualcosa dentro di sé.
Chissà da quanto tempo lo sapeva. Chissà da quanto tempo glielo taceva. Ma non era una questione fondamentale.
Finalmente gliel’aveva detto. Potevano portare quel peso in due.
E Thorn cercò di farglielo capire quando, dopo che Ofelia si fu morsa le labbra ed ebbe cominciato a tremare, ad inspirare irregolarmente, dopo che ebbe fatto cadere il flacone di disinfettante per sbaglio e lo ebbe guardato rotolare via, dopo che gli ebbe mormorato uno: - Scusa – ed ebbe stretto gli occhi, e dopo che ebbe ripetuto quello “scusa” illogico per un’altra volta e mezzo, l’abbracciò, soffocandone la voce.
Era sudato, probabilmente non aveva nemmeno un ottimo odore, ma se non l’avesse toccata, se non l’avesse in qualche modo tenuta insieme, sapeva che sarebbe stato molto peggio.
Ofelia si scusò, e lui la strinse a sé.
Si scusò ancora, e lui l’abbracciò più forte.
Si scusò di nuovo, scoppiò in singhiozzi, e pianse contro di lui.
Scusa… per cosa? Perché non poteva avere figli? Non doveva certo chiedere scusa a lui. Perché gli aveva negato la possibilità di averne lui stesso? Era ridicolo che gli chiedesse scusa per quello. O forse non era per i figli, ma perché aveva dato vita ad un mostro con un solo, volontario ma incosciente attraversamento di specchio, perché si era tolta da sola la possibilità di essere ciò che era e aveva condizionato anche lui con le sue scelte?
Non gli importava. Ofelia era sempre stata un enigma troppo complicato, per lui, per sperare di decifrarlo completamente. Sospettava che non ci sarebbe riuscito nemmeno dopo dieci, vent’anni insieme. E forse era proprio per quello che se n’era innamorato. Non riusciva a… catalogarla, a prevederla, a calcolarla. Non faceva mai quello che si aspettava.
Come in quel momento, mentre gli inzuppava la camicia di lacrime e gli chiedeva scusa.
Thorn avrebbe voluto dirle che non aveva nulla di cui scusarsi. Che secondo il calcolo statistico ed alcune sperimentali teorie sul caso, se avesse anche solo cambiato di una virgola la sua vita loro non si sarebbero probabilmente conosciuti. Che non era sola, erano insieme, e insieme poteva unire le forze e riuscire in ogni sfida.
Avrebbe voluto dirle che… che l’amava. E non gli importava se non potevano avere figli, l’amore necessario per generarne uno non sarebbe comunque scemato con il tempo. Lui non l’avrebbe mai abbandonata per quello.
Ma non disse nulla. Continuò ad abbracciarla, sperando solo di non farle male, sperando che gli artigli non la importunassero. Probabilmente qualunque cosa avesse tentato di dirle non sarebbe stato nemmeno compreso, in quel momento.
Non sapeva di preciso cosa andasse fatto per consolare qualcuno, specialmente quando non c’era soluzione al problema che ne aveva causato lo sconforto. Così, tra le varie opzioni che il suo cervello gli propose, quella del silenzio e dell’abbraccio gli sembrarono quelle con maggiore possibilità di successo.
Smise di pensare quando l’emicrania mista alla posizione scomoda rischiarono di strappargli un gemito di dolore. Così contò, anche se non aveva bisogno di concentrarsi per farlo.
Trecentosettantadue secondi. Ofelia gli chiese scusa per la sedicesima volta.
Quattrocentonovantotto secondi. Ofelia continuò a piangere, ma in silenzio.
Cinquecentotrentasei secondi. Ofelia smise di tremare.
Seicentodue secondi. Ofelia emise l’ultimo singhiozzo.
Settecentoquindici secondi. Ofelia gli raccontò con voce roca e appena udibile i dettagli di ciò che era successo al secondo protocollo: la cappella, il pappagallo, il confessionale, il cavaliere, la cristallizzazione, l’Ombra, la sua parziale mutilazione, la donna con lo scarabeo e il treno...
Millesettecentoottantasette. Ofelia smise di piangere.
Milleottocentotrentuno secondi. Ofelia si addormentò.
Millenovecento secondi. Thorn asciugò le sue, di lacrime, cercando di non svegliare Ofelia.
Facendo attenzione, con la mente vuota quanto dovevano esserlo i condotti lacrimali di Ofelia (avrebbe avuto bisogno di reidratarsi, per il suo bene, una volta sveglia), Thorn se la staccò di dosso. L’adagiò lentamente e delicatamente sull’erba, così alta da offrire un giaciglio perfetto. Anche se fosse stata nuda roccia, però, Thorn aveva il presentimento che Ofelia avrebbe dormito lo stesso, esaurita dagli sforzi fatti per salvarli, da tutto quello che aveva passato per creare l’altro Altro, dal costo che aveva richiesto portare quei pesanti segreti dentro di sé, da sola. Prosciugata dalle lacrime.
Thorn le tolse i capelli, ormai quasi del tutto asciutti, dalla bocca. Glieli scostò dal viso, le ripulì delicatamente le guance e il naso. Non osò asciugarle le palpebre, rosse e già gonfie, come non si azzardò a toglierle gli occhiali, che si limitò a raddrizzare. Le sue lenti erano grigie. Tristi.
Thorn la contemplò per più di tre minuti. Quelle labbra piene con cui lei non aveva mai avuto paura di esprimere i suoi pensieri, con le quali lo aveva baciato più di una volta, sempre con amore. Quegli occhi scuri come i suoi capelli ricci, indomabili come lei, occhi sinceri e aperti e incapaci di mentire. Buoni. Le guance rosa che aveva sentito così morbide sotto le dita. Le piccole orecchie, il collo liscio che aveva accarezzato, baciato, e che aveva un profumo particolare che, in qualche modo, gli piaceva.
Si distrasse sistemandole braccia e gambe in una posizione che potesse essere abbastanza comoda per dormire. Non aveva molta familiarità con quelle questioni, dato che lui in primis dormiva pochissimo. Conseguenza della sua mente iperattiva e degli artigli che, soprattutto finché erano incontrollabili, sarebbero stati un pericolo per tutti.
Eppure, si rese conto, avrebbe volentieri finto di dormire per lei. In un letto. Scaldati dal calore reciproco, dalla fiducia reciproca. Gli sembrava una cosa ancora più intima di quello che avevano fatto a casa di Lazarus e negli appartamenti direttoriali. Intima in modo diverso, in modo dolce, in modo… con un senso di appartenenza. Le persone spesso condividevano l’intimità fisica facilmente, ma dormire con qualcuno richiedeva un interesse e un affetto che non sarebbe stato possibile condividere solo per egoismo, per provare piacere.
Così le si stese di fianco, a fatica, lentamente, cercando di contenere il più possibile i gemiti di metallo dell’armatura. Quella, in altre circostanze, su un letto vero, non sarebbe assolutamente stata contemplata.
La guardò dormire per quasi cinque ore, mentre la notte raggiungeva la sua massima oscurità, rendendoli completamente invisibili e nascosti al resto del mondo. Non osò muoversi nemmeno una volta per timore di svegliarla, nonostante le ossa irrigidite e le articolazioni scricchiolanti.
La camicia si asciugò, cancellando ogni traccia dello sfogo di Ofelia. Avrebbe voluto toccarle la mano, o un braccio, ma non osò per timore di svegliarla.
Così pensò. Trattenere la sua mente talvolta gli costava più dolore che non lasciarla lavorare a pieno regime. Valutò le nuove informazioni rivelategli da Ofelia, il modo in cui influivano sul loro avvenire e sui loro piani. Cerco di dare un senso logico e cronologico alle azioni da intraprendere, calcolando variabili, scenari e percorsi alternativi e scorciatoie o deviazioni che potessero garantire loro maggiori probabilità di successo.
Dovevano tornare a Babel, prima di tutto. Come? Quando? Sotto che spoglie? Dovevano stare attenti a Lady Septima, ai Genealogisti ancora di più, e anche un po’ di più all’Altro, sotto qualunque forma avesse voluto manifestarsi. Dovevano trovare il Corno, prenderlo o decidere comunque cosa farci, cercando di passare inosservati e utilizzandolo al meglio per rimettere il mondo in ordine.
Thorn non avrebbe mai usato quella parola, ma il piano era decisamente fantasioso. Raffazzonato quanto meno. Era la bozza di un piano scritto da un bambino privo di intelletto. Era un guazzabuglio di idee e speranze e utopie e…
E dopo?
Una volta salvato il mondo?
Non si illudeva certo che avrebbe goduto di libertà e prestigio. Il prestigio a dire il vero non gli interessava, ma la libertà sì, più per Ofelia che per sé. Si sarebbe costituito. Il suo senso dell’onore, o quello che era rimasto del suo orgoglio, gli avrebbe impedito di vivere una vita al fianco di Ofelia sapendo di essere ancora latitante al Polo. Un fuorilegge con un processo pendente. Intollerabile. Confidava nel taccuino di Faruk, sempre che non fosse andato perso o manomesso. Ofelia gli aveva detto che, quando era tornata nella sua cella con lo spirito di famiglia dopo che lui era scappato grazie al suo novello dono di Attraversaspecchi, era stato per dargli la grazia, togliere da lui l’onta della nascita bastarda e insignirlo del rango di nobile ufficialmente riconosciuto.
Si sarebbe sottomesso alla giustizia. Avrebbe… invalidato il matrimonio. Quel pensiero lo fece fremere, ma si costrinse a ragionare sul fatto che a lui e Ofelia non serviva una firma su un foglio di carta per riconoscere la loro reciproca appartenenza. Per amarsi. Se Ofelia se ne fosse voluta andare, non sarebbe stato di certo un contratto di quel tipo a trattenerla.
Nonostante quello, però, lui non voleva disonorarla. Non voleva che si vociferasse su di loro, che Ofelia fosse malvista, criticata od oggetto di pettegolezzi, per quanto la corte pullulasse di donne e uomini libertini che se ne infischiavano delle voci, anzi, le sfruttavano per la notorietà. Si sarebbero risposati, se lei avesse voluto. Avrebbero abitato insieme. Avrebbero vissuto insieme. Sarebbero stati una famiglia…
Solo loro due. A lui sarebbe bastato, aveva vissuto con molto, molto meno di quello, ma lei?
Era assurdo e totalmente inconcepibile per la sua mente pragmatica che quelle questioni sentimentali occupassero più attenzione e lo rendessero più preoccupato della prospettiva di tornare a Babel, prendere il Corno e salvare la situazione.
Forse perché nulla avrebbe avuto senso, se tornando alla normalità Ofelia non lo avesse più voluto.
Un pensiero ramingo lo indusse a chiedersi cosa sarebbe successo se fosse stato lui quello ster… quello incapace di poterle dare un figlio. Non aveva molte esperienze su cui basarsi, anzi, l’unica che aveva era negativa, quindi… Ofelia avrebbe cercato qualcun altro che potesse darle dei bambini? Quel desiderio avrebbe obnubilato, schiacciato e calpestato il vincolo che li univa?
O si sarebbe accontentata di avere lui?
Scacciò quei pensieri, dicendosi che non era lusinghiero nei confronti di Ofelia giudicarla in grado di tanto meschino egoismo, ma una piccola punta acuminata come un artiglio gli si conficcò nel cervello, o forse nel cuore. Thorn seppe che non se ne sarebbe andata finché non avesse dissipato quel dubbio.
L’oscurità li avvolse. In mancanza di illuminazione artificiale e con il trentadue percento del cielo solcato da nubi, era difficile vedere ad un palmo dal naso, nonostante gli occhi fossero ormai abituati a quel buio denso.
Ma fu l’udito a fargli capire che Ofelia si era svegliata.
Il suo respiro, profondo e regolare, venne come spezzato. E non per via di un sogno. Thorn, ancora rigido nella stessa posizione, la osservò mentre scrutava il cielo, le stelle. A che cosa pensava?
Il petto le si sollevò di scatto come se un singhiozzo le fosse sfuggito, cinque ore prima. Thorn osservò l’ipnotico movimento del suo respiro, i suoi polmoni che inspiravano ed espiravano con facilità, facendole alzare a abbassare ritmicamente seno, addome e ventre. Non si era mai reso conto di quanto il semplice atto di respirare coinvolgesse tutto il tronco.
Le urla e gli strepiti triviali, fastidiosi e inopportuni della marmaglia che Ofelia aveva salvato arrivarono fino a loro, insieme ad un’esplosione di luce, fumo e altre risate sguaiate e insensate.
- Quegli idioti finiranno per provocare un incendio.
Ofelia si voltò verso di lui, Thorn lo percepì con l’udito, con il tatto, con gli artigli. I suoi occhi rimanevano però in ombra, gli era impossibile decifrare cosa si annidasse al loro interno.
Ofelia lo osservò di rimando per quattordici, strani secondi prima di aprire bocca: - A che pensi?
Ofelia demoliva le statistiche, ma lui non era da meno. Ancora non si era abituato alle sue domande causali e del tutto fuori contesto. Lei voleva sapere cosa stesse pensando lui? Non era lui quello che aveva rivelato di essere stato talmente modificato fisicamente da non poter generare figli, una “funzione” insita nell’uomo quanto il bisogno di nutrirsi. Non era lui quello che aveva attraversato decine di peripezie da solo, che aveva rinunciato ad una parte fondamentale di sé per dare vita ad un essere indefinito fatto d’ombra, ad aver scoperto di aver fatto in realtà il gioco dei loro avversari. Non era lui ad aver abusato del proprio potere per impedire a centinaia di persone (duecentodue e trentacinque bambini) di morire, alla deriva nel mare di nuvole.
E ovviamente lei chiedeva a lui a cosa stesse pensando. E ovviamente lui non si aspettava quella domanda. Ovviamente.
Ci aveva però riflettuto abbastanza da poterle dare una risposta celando la sorpresa.
Babel, le ripeté. Tornare lì. Stare attenti a Lady Septima e ai Genealogisti. L’osservatorio delle Deviazioni e il Corno. Aveva preparato il discorso e la scaletta delle azioni così bene che non esitò un istante nell’esporre le sue idee.
- Potremmo restare qui.
Il respiro si mozzò brutalmente nel petto di Thorn, che pure continuava a guardare quello di Ofelia uscirle ed entrarle nei polmoni.
Potevano restare lì e… semplicemente vivere? Dimenticare ogni problema, ogni preoccupazione, ogni nemico che si erano fatti, ogni persona che mirava ad ottenere qualcosa da loro?
Ofelia parve pentirsi delle sue parole in un decimo di secondo, come se volesse rimangiarsele. Lui però, in un altro istante altrettanto breve, non poté fare a meno di valutare l’idea. Avrebbero potuto… occupare una casa, o costruirne una nuova. Avrebbero coltivato il loro cibo, grazie agli artigli lui avrebbe procurato la carne, sempre che ci fossero animali nelle vicinanze. Sempre che lui fosse riuscito a controllare il suo potere. Sarebbero stati solo loro, senza la zavorra della famiglia alle calcagna. Thorn non apprezzava quel termine, ma egoisticamente si rese conto che se fossero rimasti lì avrebbero potuto essere davvero tutto l’uno per l’altra. Impossibilitati a raggiungere Babel, il Polo, Anima o qualsiasi altra arca, Ofelia si sarebbe rassegnata all’idea di poter contare solo su Thorn. E allora sì, sarebbe stato indispensabile per lei.
Ma non sarebbe stato giusto. E non sarebbe stato saggio.
Quanto ci avrebbe messo quell’arca a crollare nel mare di nuvole? A sparire? Un’arca che, a giudicare da tutte le cartine geografiche che lui aveva visionato nel corso della sua vita (trecentodiciassette), non sarebbe nemmeno dovuta esistere, o trovarsi in quel punto? Talmente imbevuta di mistero che non sapevano nemmeno perché fosse totalmente disabitata, nonostante gli evidenti segni di civilizzazione?
Capì perché Ofelia si era pentita delle sue parole: sarebbe stata un’azione da vigliacchi quella di restare e gettarsi tutto alle spalle. E Ofelia non era una vigliacca. Non poteva permettersi di lasciare il mondo così, di non porre rimedio a ciò che aveva causato con un innocuo attraversamento di specchio.
Non era lui, come le aveva già detto, quello che aspirava a salvare il mondo.
Lui avrebbe accettato. Sarebbe rimasto lì. Sarebbe andato ovunque lei avesse voluto.
- Ma non dobbiamo. Io meno di tutti – si schermì quasi Ofelia un secondo dopo. Thorn riprese a respirare. – Ora che so di aver liberato l’Altro volontariamente devo assumermene le conseguenze. Se ci trova prima che noi troviamo il Corno dell’abbondanza non ci darà la minima possibilità di farlo tornare ad essere un eco.
Thorn non disse nulla, guardò semplicemente Ofelia cadere nello sconforto. Non era facile intuirne le espressioni in mezzo a quell’oscurità, ma poteva percepire i suoi pensieri dall’irrigidimento del suo corpo.
Stava pensando troppo, probabilmente a cose che lui stesso stava valutando. Non voleva, però, sprecare quel tempo che avevano a disposizione prima di mettersi a fare qualcosa. Non avrebbe avuto senso cominciare già da quel momento a organizzare, pianificare e fare, si giustificò Thorn.
E soprattutto, dato che ormai la conosceva come non avrebbe mai potuto credere di conoscere un’altra persona, sapeva che Ofelia si stava colpevolizzando di tutto. Irragionevolmente. E non poteva tollerarlo.
Fece leva sul gomito appoggiato al terreno per chinarsi su di lei, coprendole in parte la vista del cielo.
- Non sbagliare colpevole – le disse lapidariamente, incapace di usare un tono consolatorio o incoraggiante. – L’unica responsabile è Eulalia, non tu -. Sentì la rabbia montargli dentro mentre pronunciava quelle parole, sempre più consapevole di quanto fossero vere, e di quanto a soffrire per gli sbagli altrui fosse sempre Ofelia. Strinse i denti per trattenere gli artigli affinché non la disturbassero. – Dov’è questa donna che ha tanto a cuore le sorti dell’umanità mentre i suoi eletti si sbarazzano degli indesiderabili e il suo riflesso lacera il nostro mondo? Si nasconde dall’altra parte dell’immensa scacchiera da lei stessa creata sulla quale tutti i pezzi, LUX, Genealogisti, osservatori, giocano da tempo la propria partita con le proprie regole.
Ofelia non sembrò ritrarsi dal suo tono brusco, non se sembrò spaventata. Era l’unica che gli stesse vicino nonostante i suoi modi, si era reso conto da tempo di quale fosse l’effetto che aveva sulle altre donne. Decisamente non piacevole.
- Come possiamo vincere, allora?
Ed era l’unica che riponeva fede in lui. Completa fiducia, in modo quasi insensato. Non si accorgeva di quanto fosse fallibile, di quanti errori avesse fatto?
- Prendendo coscienza del gioco. Troveremo il Corno dell’abbondanza, ridurremo Eulalia e l’Altro all’impotenza, poi romperemo la scacchiera.
Era ciò che avrebbero fatto. Ciò che avrebbero dovuto fare. Ofelia non parve far caso al fatto che Thorn non aveva assolutamente nominato il come. Non esisteva una cosa da fare senza la metodologia per farla. Ogni processo aveva una lavorazione, uno schema, una programmazione. Loro avevano le azioni finali, non il percorso.
Ma Ofelia annuì, e Thorn percepì il suo corpo rilassarsi nell’ombra. Piena fiducia in lui. Si augurava con tutto ciò che aveva che non fosse malriposta, ma nutriva dei dubbi al riguardo, e i numeri non gli erano favorevoli. Nemmeno gli scacchi, dato che le regole del gioco erano state cambiate senza che lo avvertissero.
Ofelia continuò a rimuginare, ma Thorn non la interruppe. Stava riflettendo senza paura, senza farsi prendere dallo scoraggiamento, e lui l’avrebbe lasciata fare finché fosse stata tranquilla. Non sapeva come spronare una persona, come darle forza o consolarla, ma ci avrebbe provato. Tutto, purché per pochi minuti ancora rimanesse serena, prima delle insidie che dovevano affrontare. Prima dell’alba che li avrebbe rimessi in moto.
- E poi? – lo incalzò, un minuto e mezzo dopo. – Dopo che l’avremo rotta?
A Thorn sovvenne il ricordo di quando i suoi cugini piccoli, i figli di Berenilde, domandavano alla madre la continuazione di una storia. Le chiedevano la stessa identica cosa. Ciò che lui stava dicendo non era assolutamente una storia, tanto meno piacevole, ma ad Ofelia non dispiaceva sentirlo parlare. Come se fosse lui la ragione della sua catarsi, del suo essersi rilassata dopo aver quasi ceduto all’ansia.
Fu il momento di dirle ciò su cui aveva riflettuto mentre lei dormiva. E se lei non gli aveva nascosto la sua steril… la sua incapacità di avere figli, lui non poteva assolutamente nasconderle i suoi piani.
- Poi mi consegnerò alla giustizia. Stavolta una vera giustizia, con un tribunale vero e un processo vero. Pagherò il mio debito verso le nostre famiglia e procederò all’annullamento del nostro matrimonio, la cui validità giuridica credo che a questo punto sia piuttosto dubbia.
Gli interessava soprattutto la reazione di Ofelia a quell’ultimo punto. Si sentì sollevato quando non la vide gioire di fronte all’idea di essere libera, non più vincolata a lui da un contratto matrimoniale. Un timore superfluo, dato che qualcosa gli suggeriva che probabilmente Ofelia sarebbe andato a cercarlo su Babel anche se non fossero stati sposati, ma era impossibile rimuovere dalla sua memoria intrinseca il ricordo di tutti i rifiuti subiti da parte di coloro che avrebbero invece dovuto stargli sempre accanto.
Dubitava che quella sensazione se ne sarebbe mai andata del tutto.
- E poi? – insisté Ofelia, come se volesse sapere ciò che li aspettava fino alla fine dei loro giorni.
A quel poi non aveva pensato. Il tribunale, le conseguenze in seguito al giudizio, l’annullamento del matrimonio. E poi?
Se fosse stato condannato alla prigione ne avrebbe scontato la pena, se fosse stato assolto sarebbe uscito indenne dal tribunale. E cosa si immaginava di trovare, in ogni caso, alla sua uscita?
Forse sua zia.
Sicuramente Ofelia.
Seppe che, comunque fossero andate le cose, Ofelia ci sarebbe stata. Ma visto che agognava così tanto la libertà, che voleva compiere le sue scelte, le avrebbe permesso di decidere. E non ebbe paura di quella volontà.
- Poi toccherà a te decidere. Aspetterò che tu mi chieda di sposarti.
Ofelia si contorse sotto di lui, tossendo e rischiando di strozzarsi. Dovette farsi forza per non metterla seduta di peso e batterle sulla schiena dicendole di allungare il collo e guardare in alto.
Chissà a cosa stava pensando. Perché l’avevano colta così di sorpresa quelle parole? Forse, alla fine, non desiderava davvero mantenere il vincolo matrimoniale con lui.
Lo smentì. – Toccherà a noi, vuoi dire.
Insensatamente, sorprendentemente e inopportunamente, Thorn sentì l’urgenza di piegare le labbra. Di… sorridere. Era successo solo sedici volte nella sua vita, e quasi tutte da piccolo (undici). Una con lei, dopo aver assistito al suicidio di Madre Ildegarda, quando aveva capito di dover estromettere Ofelia dall’equazione e lei era svenuta.
Ofelia aveva forse paura di fargli una proposta di matrimonio? Lo trovava disdicevole? Lei, così coraggiosa, così pronta a sfidare le leggi scritte e non scritte per ciò in cui credeva, che non si faceva fermare da nulla e nessuno, soprattutto dall’opinione altrui, lei che desiderava così tanto prendere le sue decisioni e voleva che gli altri le rispettassero… aveva paura di chiedergli si sposarla?
Cosa temeva di più, un rifiuto o il pubblico ludibrio?
In effetti, l’immagine di lei che gli offriva convenzionalmente un anello o che gli si avvicinava per chiedergli di unirsi in matrimonio era un po’ ossimorica.
Stupendo se stesso, suo malgrado divertito dai suoi pensieri che in origine erano stati seri (voleva davvero dare ad Ofelia la possibilità di scegliere da sé il suo avvenire, e chi volesse al suo fianco), decise di… stuzzicarla. Non gli era mai capitato di metterla così in difficoltà.
- Non ho mica detto che accetterò.
Che dubbio ridicolo. Avrebbe accettato anche se lei non gliel’avesse chiesto.
Gli parve di notare gli occhi di Ofelia ingrandirsi dietro le lenti, troppo oscurati dalla notte per poterne essere certi. L’aveva colta di sorpresa? Si rese conto solo dopo tre secondi che in realtà avrebbe voluto vederla quanto meno sorridere. Sembravano tutti in grado di riuscirci, con lei, gioviale com’era, ma l’ultima volta che Ofelia aveva davvero riso con lui era stato sull’impluvium, quando aveva cercato di baciarla ma l’armatura si era inceppata. E aveva riso di lui. La faccenda in sé era stata molto poco divertente. Anche un po’ di… meno.
L’aveva in ogni caso sorpresa, su quello non c’erano dubbi. Per una volta era stato lui a coglierla alla sprovvista, demolendo le sue aspettative su una possibile risposta, e non viceversa.
In modo del tutto privo di ragione se ne sentì orgoglioso e compiaciuto, come se essere riuscito finalmente a farle provare lo sgomento che di solito infliggeva a lui fosse motivo di vanto.
Un vanto e uno stato di gongolamento che durarono ben poco.
- Farò in modo di essere persuasiva.
Gli si seccò la bocca. Cosa intendeva dire con quella frase? E perché aveva usato quel tono insinuante? Si era ripresa il coltello, e lo teneva decisamente dalla parte del manico.
Ofelia lo avrebbe persuaso a sposarla. A legarsi a lei. Come se servisse. La verità era che avrebbe voluto rimanere suo marito, un titolo che lo rendeva sotto tutti gli aspetti autorizzato a starle accanto, una dicitura che avrebbe reso Ofelia sua, sua moglie, l’unica donna ad appartenergli e alla quale lui apparteneva, anche se lei non avesse voluto.
Non aveva nulla di cui persuaderlo.
Ma non gli sarebbe dispiaciuto un tentativo da parte sua. Non l’aveva forse reclamata lui per tutto quel tempo, non aveva cercato di far uscire la migliore versione di sé, per quanto possibile, solo per piacerle? Anzi, per non farsi odiare.
Non avrebbe disdegnato un simile impegno da parte sua. In parità. Un’uguaglianza in entrambi i termini dell’equazione. Sperava solo di non prenderci troppo gusto.
Si chinò ancora di più su di lei, questa volta appoggiando la mano a terra per poterla sovrastare interamente e portare il viso alla sua stessa altezza.
Tornò incredibilmente serio, dimenticò le azioni persuasive che avrebbe molto gradito da parte di Ofelia, e le parlò sinceramente, offrendole con le parole la sua più grande paura, e insieme il suo più grande… bisogno. Non desiderio, ma bisogno, necessità. Affinché lei lo custodisse.
- A mia zia non sono bastato, dopo che ha perso i figli.
Cercò di aggiustarsi sopra di lei, intimorito dalla risposta che poteva ricevere. Spaventato anche da quella vicinanza tra i loro corpi, nonostante non fosse la prima volta e Ofelia avesse sempre… apprezzato. Thorn però sembrava incapace di interiorizzare quell’evidenza, perciò avrebbe sempre avuto difficoltà ad approcciarla.
O per lo meno, si corresse, finché non fosse passato un tempo consono a dimostrare che Ofelia non subiva passivamente e non gli dava per obbligo ciò che lui, ciò che il suo corpo, bramava.
Non parve volerlo respingere. Doveva darle più fiducia, accordarle quel cieco affidamento che lei già faceva su di lui. Eppure…
Ofelia poteva scherzare, dicendogli che l’avrebbe convinto a sposarla. O poteva volerlo come marito, al suo fianco, per tutta la vita che avrebbero vissuto. Ma sarebbero sempre stati loro due. Non avrebbero generato altra vita, e nessuno li avrebbe ricordati alla loro morte. Non i loro figli. Non i loro nipoti. Non i loro pronipoti. Solo loro due. E per quanto lui avesse bisogno di lei… lei aveva bisogno di più, oltre a lui.
- A te basterò?
La domanda gli uscì più dura di quanto avrebbe voluto, il corpo, le corde vocali erano già pronte ad incassare un rifiuto, nonostante la sua buona volontà di avere fede nell’amore che Ofelia gli dimostrava.
Ofelia non gli rispose. Non a parole.
Lasciò passare quattro secondi di silenzio durante i quali cercò di carpire la sua espressione, le sue emozioni, cercando di sondare l’insicurezza che aveva dentro.
E la spazzò via, l’insicurezza. La paura. I brutti ricordi. L’aspettativa dell’ennesimo rifiuto.
Non la meritava. Anzi, aveva creduto di non meritare nulla. Era stato cresciuto in quel modo, tutto ciò che gli era stato dato era una grazia, una concessione immeritata, non dovuta. Invece lei gli aveva dimostrato, con pazienza, che lui valeva qualcosa. E valeva il suo amore.
Ofelia credeva che lui se la meritasse. E lui chi era per contraddire la donna che sovvertita le leggi matematiche, statistiche, probatorie e non si piegava alla normalità e alle imposizioni?
Ofelia lo voleva. E lo avrebbe voluto con o senza figli. Lo avrebbe voluto anche se ne avessero avuti dieci di bambini. Thorn lo capì in quel momento. Al termine della giornata, dopo aver messo a letto la loro prole, Ofelia sarebbe sempre tornata da lui. Nella loro camera. Da lui. Per lui. E sarebbero stati soli. Soli, e di nuovo circondati da bambini generati grazie al loro amore la mattina dopo. E lui sarebbe stato il suo sostegno, il suo aiuto. Il suo braccio destro.
E Ofelia avrebbe avuto bisogno di lui. Non solo per i figli, ma per se stessa. Per la loro famiglia.
Lui per lei sarebbe sempre stato indispensabile, fondamentale, imprescindibile, irrevocabile. Sempre.
Sentì quella punta di dolore che albergava nel suo cuore sciogliersi, finalmente, il dubbio dissiparsi, di fronte all’evidenza che a lei sarebbe bastato. Che aveva trovato finalmente una persona disposta ad accettarlo e amarlo com’era. Senza vergognarsi di lui, senza volerlo cambiare.
Si ripromise di riporre sempre in Ofelia la fiducia che lei riponeva in lui, e non si vergognò del suo corpo duro e ossuto quando lei lo attirò a sé, baciandolo con sicurezza e decisione. Rispondendo ampiamente e senza ombra di dubbio alla sua domanda. Gli artigli quasi si spensero, a Thorn parve di svuotarsi della costante corrente elettrica, persino la testa e il corpo parvero fargli meno male.
Avevano tanto da fare, pianificare, prevedere, ma… era ancora notte. Tanto valeva attendere la luce del sole. E tanto valeva sfruttare quel tempo che avevano a disposizione, per quanto misero, per quanto accompagnati dall’ansia e dall’apprensione. Briciole di ciò che potevano avere, ma sempre meglio di nulla.
Così rispose al bacio prendendo possesso della sua bocca, facendogliela schiudere per lui. Ofelia gli sospirò sulle labbra, inondandogli le narici con il sentore dell’uva che aveva mangiato prima. Dolce come le sue labbra, un sapore ricco e inebriante come il vino che ne veniva distillato.
Thon venne colto dalla frenesia, ma Ofelia, solo con le mani, lo invitò a fare con calma. Alla fine, il gioco lo dirigeva quasi sempre lei, ma lui non aveva nulla da recriminare in merito.
Continuarono a baciarsi lentamente, come a volersi assaporare a vicenda. Thorn si rese conto che ogni bacio era diverso dal precedente, ogni situazione di intimità era differente dall’altra, non solo per l’ambiente in cui erano o per... per le posizioni (ringraziò l’oscurità che celava le sue orecchie rosse d’imbarazzo a quel pensiero), ma perché i sentimenti che li accompagnavano ogni volta erano diversi, così come le vicende appena vissute, il loro stato d’animo. Non poteva essere un atto calcolato. Non aveva nulla a che fare con cifre e aritmetica.
Gli piacque rendersene conto, nonostante avesse sempre creduto che un mondo non governato dalle leggi scientifiche fosse destinato a caos e anarchia.
Ringraziò che non fosse così quando Ofelia allungò una mano per afferrargli la nuca e avvicinarlo ancora di più a sé, spettinandogli i capelli, e con l’altra cercò di disfargli i bottoni della camicia. Per facilitarle il compito si spostò lentamente sopra di lei, avvicinandosi così alle sue mani, al suo corpo. Pur stando attendo a non farle male, a calpestarla, ricettivo per cogliere ogni possibile rifiuto o reticenza da parte sua, non interruppe il bacio, decisamente il più lungo che si fossero mai dati.
Ofelia riuscì per la prima volta nell’intento di sbottonargli la camicia, e Thorn rabbrividì mentre le sue dita sottili disfecero la prima asola, poi la seconda, la terza… fino all’ultimo bottone, che raggiunse dopo avergli tirato fuori la camicia dai pantaloni. L’aria fresca gli solleticò la pelle accaldata, e nonostante fosse abituato alle temperature glaciali del Polo, che preferiva di gran lunga al calore (caldo, sudore, appiccicume, sporcizia), gli venne la pelle d’oca. Dubitava però che il suo corpo avesse avuto una reazione al vento. Probabilmente era più colpa delle mani di Ofelia, che gli accarezzavano il petto, l’addome, tutta la pelle che trovava, senza la minima esitazione. L’unica nota dolente erano i suoi guanti. Fremette al pensiero di toglierglieli, di sentire la sua pelle calda a contatto con la sua, come se Ofelia potesse leggerlo. Si sarebbe offerto volentieri ad una lettura di quel tipo. Anche un po’ di più.
Più difficile era capire come liberare lei dai suoi indumenti. La tunica la copriva quasi interamente, e non aveva cerniere o bottoni o spille di alcun genere. Lui era esposto proporzionalmente a quanto Ofelia era coperta. Si rese conto però che, sebbene la stoffa le fasciasse strettamente il tronco, lasciandole scoperte solo le braccia, l’accesso da sotto era meno complicato.
Le fece quindi scivolare una mano sul polpaccio (il suo braccio era abbastanza lungo, rispetto al corpo di Ofelia, per poter partire dalla caviglia), con meno timidezza di quanto si sarebbe aspettato. Forse perché Ofelia continuava a tirarlo a sé, con entrambe le mani ora nei suoi capelli, ora sulla schiena, ora sul tronco o sulle braccia, facendogli intendere quanto anche lei lo desiderasse, o forse perché il suo corpo si stava finalmente abituando a quei contatti fisici, prendendo dimestichezza, sciogliendosi, imparando. Era la terza volta che stava… così vicino ad Ofelia, e sentiva di aver già appreso molto. Su come lui reagiva a lei, ma soprattutto su come lei rispondeva a lui, ai suoi tocchi.
Thorn strinse forte gli occhi e arricciò il naso. Era incredibile, indefinibile ciò che gli procurava la vicinanza con il suo corpo. Era l’antitesi del disgusto che aveva provato per tutta una vita, un’avversione al contatto fisico che era stato spazzato via in pochissimo tempo da lei. L’esasperazione del bisogno e del piacere, ma non solo piacere carnale. Piacere emotivo. Piacere… affettuoso. Con il corpo, Ofelia gli diceva cose che non sarebbero stati in grado di comunicare a voce. E Thorn sapeva (le statistiche non mentivano, e il coefficiente di miglioramento sotto quell’aspetto in sole tre occasioni di intimità era esponenziale) che avrebbero presto raggiunto un’intesa perfetta. Sotto tutti i punti di vista che una coppia potesse esplorare.
Quando riaprì gli occhi, due secondi dopo, vide nella penombra che Ofelia lo fissava. Quando però fece scivolare la mano più in alto, dal polpaccio al ginocchio, dal ginocchio alla coscia, la vide chiuderli nuovamente, abbandonata a lui, alle sue carezze e al suo calore. La mano le sfiorò la natica, passò sopra la biancheria e raggiunse il fianco, che strinse possessivamente. Ofelia tremò sotto di lui, interrompendo il bacio.
Sospirò riadagiandosi sull’erba. Thorn si bloccò, allentando la presa sulla sua vita. Ofelia teneva una mano sul suo collo e una sulla sua spalla, ma sembrava come essersi fermata. Che non volesse proseguire? Non poteva aver frainteso quel trasporto. Oppure… magari Ofelia non poteva fisicamente. Forse era… sapeva come funzionava il corpo delle donne, e… no, probabilmente invece aveva pensato a qualcosa che si era dimenticata di dirgli ed era così urgente da…
Ofelia sorrise, cogliendolo alla sprovvista, come sempre. – Basta pensare, Thorn – sussurrò, accarezzandogli la fronte con il pollice guantato, come per spianargliela.
L’aveva aggrottata, in effetti, e quando se ne rese conto rilassò le sopracciglia.
Ofelia annuì, come fosse stata lei a chiedergli di sciogliersi, e tolse le mani da lui per appoggiarle sul terreno. Tirò su il busto, in un tentativo di mettersi seduta, e Thorn arretrò per lasciarle spazio. Non capiva cosa volesse fare. O cosa volesse in generale.
Non lo lasciò allontanare però, lo fermò quando vide che si stava scostando. In qualche modo, guidandolo gentilmente, lo fece rotolare sul fianco, e poi sdraiare di schiena sull’erba.
Allora forse voleva… delle… coccole.
Le orecchie gli avvamparono quando pensò a quel termine.
Gli era talmente poco familiare che lo considerava quasi… una parola sconosciuta, ma vergognosa, quasi volgare. Le… coccole… quelle che si riservavano ai bambini. Quelle che lui, a memoria, non sapeva nemmeno cosa fossero, dato che non le aveva mai ricevute. Gli abbracci improvvisi e saltuari di Berenilde potevano essere considerati una… coccola? Le carezze che da bambino gli facevano lo erano?
E come si facevano? Doveva dire ad Ofelia che non aveva idea di cosa dovesse fare?
Ofelia però lo prevenne, sporgendosi su di lui e baciandogli la fronte. Non si scostò da lì quando gli disse: - Ho detto basta pensare.
Thorn emise uno sbuffo dal naso, sarcastico. Come se fosse possibile smettere di pensare. Come se non ci avesse provato tante volte. Come se…
Smise di pensare.
Ofelia gli si era seduta in grembo, oscurando completamente il cielo, le stelle, la più piccola traccia di luce. Non che lui avesse intenzione di guardarle, quando aveva lei davanti. Il suo peso (trentadue chili gambe escluse) gli gravava addosso, ma non in modo pesante. Era piacevole. Però quelle non gli sembravano coccole. Forse lo sarebbero state se lei si fosse sdraiata su di lui. Quando erano rimasti a letto dopo… che si erano uniti per la prima volta… erano state coccole quelle?
Si rese conto che tutte quelle congetture lo stavano smentendo: non era affatto esponenziale la curva di miglioramento in quell’ambito. Si sentiva più impacciato di quando aveva cercato di farle capire che voleva qualcosa di più di… quello che avevano. Che non era stato comunque granché.
Ofelia ridacchiò sommessamente. – Ho capito. Dovrò essere molto persuasiva.
Thorn deglutì a vuoto quando Ofelia si chinò su di lui, facendogli passare le mani dal ventre al petto, al collo. Lo baciò di nuovo, voluttuosamente, lentamente, e rispostò le mani verso il basso. Verso i suoi pantaloni. Che slacciò senza un tentennamento. Senza ingarbugliarsi. Senza fare danni.
Thorn cercò di smettere di riflettere su cosa fare, o su cosa Ofelia potesse voler fare, e cercò di lasciarsi guidare dai sensi.
Si lasciò sfuggire un grugnito poco composto quando Ofelia gli baciò e gli mordicchiò il collo. L’abbracciò stretta in risposta, stringendola a sé, contro il suo petto, accarezzandola. Cercò di non ragionare, di non calcolare le mosse, di non pensare ai libri di anatomia che suo malgrado si era ritrovato a studiare durante il suo percorso di apprendimento di tutto lo scibile possibile.
Ofelia era morbida. Calda. Era così piacevole toccarla. Finalmente la sentì gemere quando raggiunse la parte particolarmente morbida alla base della sua schiena. La costrinse a fermarsi per prendere fiato, ansimando contro il suo collo, il suo orecchio.
Thorn si chiese se lo sentiva tremare. Se sentiva i suoi muscoli, le sue stesse ossa, i suoi tendini, il suo sangue, irrigidirsi, contrarsi, e poi rilassarsi, in una serie di reazioni imprevedibili e mai provate prima.
Ofelia rimase immobile per sette secondi prima di arretrare un po’ con il corpo e cominciare a… muoversi… con circospezione… su di lui.
Thorn inspirò bruscamente, stringendo forte le mani sul corpo di Ofelia, proprio sopra a dove lei si era posizionata, facendole produrre un suono simile. Ofelia sollevò la testa e continuò ad ondeggiare con sempre più sicurezza. Lo guardò negli occhi, e a Thorn parve di scorgere una scintilla di sfida dietro le lenti, come se volesse restituirgliela dopo che lui le aveva chiesto se le sarebbe bastato. Non avrebbe potuto averne la certezza, però, finché il buio fosse stato così fitto.
- Ofelia – mormorò lui rocamente, quando il movimento si fece insopportabile. Cosa voleva dirle? Di continuare? Di fermarsi?
O l’aveva chiamata solo per sentire il suo nome sulle labbra?
Lei parve gradire, nonostante non avesse detto nulla. O forse proprio per quello. Perché le sembrava quasi una supplica. Perché le stava dando il potere di decidere cosa fare. Ma quello gliel’avrebbe sempre dato.
Specialmente se portava a quei risultati.
In qualche modo lei parve capire. Thorn non comprese bene cosa accadde dopo, una terribile mancanza per una persona così meticolosa e attenta ai particolari. Ma non gli importò.
Non gli importava di nulla, dal momento che Ofelia stava armeggiando con i vestiti di entrambi. E non gli importava nemmeno di cosa lei avrebbe potuto vedere, o che potesse cambiare idea. Sentiva dal suo corpo che ne aveva bisogno, che ne aveva voglia, quanto lui.
Fece tutto Ofelia, forse per dimostrargli che lui le bastava, che le sarebbe sempre bastato, che le apparteneva quanto lei apparteneva a lui. E che poteva essere molto, molto persuasiva.
Thorn ansimò senza ritengo, quasi stesse soffrendo, quando Ofelia si assestò, tornando a pesargli addosso. Lui guardò il suo viso, che gli sembrava accaldato ma trionfante. Thorn pensò che Ofelia sarebbe stata molto meglio di Faruk sul trono. Sembrava proprio una sovrana seduta in quel modo sopra di lui, a guardare tutto dall’alto, a bearsi della sua vista, di ciò che le apparteneva.
Avrebbe voluto dirle… qualcosa. Ma sembrava tutto inopportuno. Persino reiterarle l’amore che provava sembrava fuori luogo. Era oltre le parole quello che si stavano comunicando. Oltre ogni senso. Infatti, quando Ofelia gli sorrise dolcemente, o almeno così gli parve, e ricominciò a muoversi su di lui come prima, Thorn chiuse gli occhi. Escluse la vista, percepì solo con udito, olfatto e tatto. E aggiunse il gusto quando, dopo aver stretto per un’ultima volta le natiche morbide di Ofelia, le accarezzò la schiena e la tirò giù contro di lui, baciandola, assaporando la sua pelle fin dove la tunica accollata glielo permetteva.
Udì i gemiti di entrambi, i suoi cavernosi, quelli di lei sommessi, forse un po’ striduli.
Sentì il tocco di Ofelia sulla sua pelle, i suoi pugni stringersi quando si muoveva nel modo più appagante possibile, sistemandosi su di lui, scoprendo come fare insieme a lui.
Annusò l’aria notturna, il sentore di Babel sui capelli asciutti di Ofelia, i ricci che gli solleticavano le guance e si impigliavano nella barba che stava già ricrescendo.
Gustò l’uva sulla lingua di Ofelia, e un vago sentore dei loro corpi uniti.
Perse la cognizione del tempo. Si abbandonò alle sensazioni, all’istinto, e si scoprì capace. Capace di toccare Ofelia nei punti giusti, di solleticarla e sollecitarla lì dove lei non sapeva nemmeno di averne bisogno, accompagnandola, spronandola, guidandola, muovendosi con lei.
E quando Ofelia emise un rantolo particolarmente profondo e si irrigidì, perdendo la presa con cui si reggeva al suo petto, gli crollò addosso, e Thorn seppe che ad Ofelia sarebbe sempre mancato qualcosa, ma lui avrebbe potuto colmare in gran parte quel vuoto che si sarebbe scavato nella loro vita di coppia.
Lui la imitò subito dopo, fermandosi a respirare come se gli fosse mancata l’aria fino a quel momento, e strinse gli occhi come temendo di essere portato via dalla marea. Ansimavano l’uno contro l’altra, stanchi ma in qualche modo pervasi da un’energia nuova, appagati fisicamente e anche mentalmente.
Thorn si rese conto a fatica che, avendo concluso in quel modo, Ofelia sarebbe anche potuta rimanere incinta. Se avesse potuto. Gli fece uno strano effetto rendersi conto che non si sarebbero dovuti trattenere… non avrebbero dovuto stare attenti, con il rischio che Ofelia contraesse una gravidanza ogni qualvolta loro…
In effetti, quello forse era l’unico vantaggio, se così lo si poteva definire. Se Ofelia fosse rimasta incinta prima che loro sconfiggessero tutti i loro nemici, avrebbe avuto ancora più fretta di concludere vittoriosamente. Avrebbe dovuto proteggere ben due vite indispensabili per lui.
Scosse involontariamente la testa per allontanare quel pensiero. Non sarebbe mai successo.
Ofelia fraintese il suo movimento. – Peso? – sussurrò, cercando di sistemarsi meglio su di lui.
Thorn la avvolse in un abbraccio, le baciò i capelli. La sentì rilassarsi contro il suo corpo.
Chissà se anche lei stava pensando alla stessa cosa. Chissà se si era resa conto che le prime due volte erano stati troppo presi da ciò che stavano facendo, con il rischio che lei davvero rimanesse incinta. O magari lei sapeva già della sua situazione e non si era preoccupata per quel motivo? Non era da lei essere talmente incosciente da rischiare una gravidanza non programmata.
O stava forse pensando, invece, a quello che non sarebbe mai successo?
Thorn si chiese se fosse normale riflettere e cominciare ad immaginarsi un futuro fuori dalla sua portata. Era proprio perché non potevano ottenerlo che ci pensava, o era la naturale conseguenza dell’unione con Ofelia? Matrimonio e intimità portavano a quello, no? Eredi… I marmoc… i bambini gli piacevano, poi?
No, decisamente no. Ma un bambino loro…
Thorn si concentrò su un altro pensiero, lasciando sbiadire quelle lugubri macchinazioni che non avrebbero portato a nulla di buono: erano coccole quelle?
Probabilmente sì. Stavano traendo conforto vicendevolmente.
Thorn ci rinunciò. Se Ofelia l’avesse visto in faccia avrebbe sicuramente detto che doveva smettere di pensare, di nuovo. Così tentò di abbandonarsi all’incoscienza come prima. Cercò di percepire i loro respiri simultanei, provò a captare il battito del cuore di Ofelia contro il suo; erano ancora entrambi accelerati.
- Tu mi basterai. Anche un po’ di più – disse di punto in bianco, sorprendendosi. Stava pensando a quattro cose insieme, e nessuna di quelle riguardava ciò che aveva detto.
Ofelia sollevò il capo e lo guardò con occhi annebbiati. Il suo istinto fu di sistemarle gli occhiali storti sul naso, ma si trattenne; non voleva spostare le mani dalla sua schiena.
Si schiarì la gola. – Non è il termine più preciso. Non è questione di… bastare, è avere… più di quanto abbia mai… sperato, anzi, pensato di meritare o di ott…
Ofelia lo baciò pigramente per zittirlo.
Un altro bacio ancora, diverso da tutti quelli che si erano scambiati prima (ottantuno se si contavano le volte in cui si erano fermati a prendere fiato, sette se invece si basavano sulle pause più lunghe di dieci secondi da un bacio all’altro). Un bacio… tenero, forse era quello il termine giusto. Privo della frenesia di prima.
Con suo disappunto, Ofelia scivolò giù da lui, esponendolo all’aria fredda. Mentre lei prendeva posto accanto a lui, Thorn si risistemò biancheria e pantaloni, stirandosi la camicia e riallacciando i primi bottoni dal basso. Si fermò a metà, perché si sentiva ancora accaldato. Con suo sgomento si rese conto che l’armatura non aveva scricchiolato nemmeno un momento. O forse lui non se n’era accorto.
Ofelia si sdraiò, appoggiandosi al suo fianco, con la testa contro la sua spalla. Thorn sentì un freddo diverso da quello corporeo sul lato non coperto dal suo corpo caldo.
- Non è questione di meritarsi qualcosa. Tu non devi meritarmi. Non funziona così – mormorò flebilmente.
Thorn attese che continuasse. Ventidue secondi.
- Non è che chi si comporta meglio merita di meglio. È tutto… fortuito, casuale. Ma io sono felice di essere arrivata qui. Proprio in questo momento. Sono felice di avere te. Sono felice con te. E mi basti, Thorn. E mi avanzi pure. Anche un po’ di più.
Forse voleva essere una battuta, Thorn non ne era sicuro, ma sortì l’effetto opposto. Sentì un peso opprimente bloccargli la trachea, pesante come nemmeno il corpo di Ofelia era stato prima.
Non disse una parola, non ne sarebbe nemmeno stato in grado. Caso? Fortuna? Alla fortuna non credeva, il caso era una teoria inesatta. Ma se c’era di mezzo Ofelia, l’equazione più impossibile diventava semplice e lineare, e quelle più scontate diventavano imprevedibili.
Sperò solo che il caso gliela lasciasse accanto ancora per molto tempo. Un tempo indefinibile dove non esistevano nemmeno i numeri, le cifre perdevano i loro contorni e i calcoli non avevano significato.
Le strinse la mano, e desiderò poterlo fare per sempre. Colse con la coda dell’occhio un piccolo movimento delle labbra di Ofelia, e sperò di poterla far sorridere ancora. E ancora.
E ancora.
Anche un po’ di più.
 
 
 
 
 
 
 
 
Extra
Thorn aveva smesso di cercare di classificare quello che stavano facendo. Coccole, non coccole, era tutto relativamente… non importante. Questo effetto gli faceva Ofelia: lo spingeva a non catalogare ogni gesto, parola o azione. Non stava nemmeno pensando a quello che dovevano fare, o al tempo che stavano perdendo.
No, non perdendo. Sfruttando in altra maniera. Per… rinsaldare il vincolo matrimoniale.
Quell’ultimo pensiero lo innervosì: per colpa di Ofelia ora cercava addirittura scuse e giustificazioni per discolparsi dalle sue mancanze.
Ma ogni volta che si redarguiva da solo, Ofelia gli stringeva la mano, o si avvicinava ancora di più a lui. Lo distraeva. E lui si lasciava distrarre. Stavano condividendo un’intimità molto diversa da quella di diciotto minuti prima, un’intimità più…
Quella roba non sapeva definirla. Non era come i numeri. Non era descrivibile. Ecco perché Ofelia gli aveva detto di smettere di pensare. Non ci riusciva, ma ci provava, almeno. Ed era piacevole.
Chiuse gli occhi. Gli artigli sembravano docili, anestetizzati, totalmente catturati da Ofelia. Era riuscita persino ad addomesticare loro, ovviamente. A placare il suo sistema nervoso.
E libero da pensieri e paure, si assopì.
Non aveva guardato l’orologio per il periodo di tempo più lungo della sua vita.
 
(Escluso il periodo in cui lo aveva ceduto ad Ofelia, ma quello non contava.)
 
(C’erano forme strane, immagini e colori inafferrabili, numeri… il viso dell’ex intendente. Un ricordo di quando… aveva sette anni. Il viso di Ofelia…)
 
(Un cappotto.)
 
(Ofelia aveva rotto tre tazze e macchiato il tappeto.)
 
(Un bambino gli lasciava una scia di bava sulla mano, e rideva. Non aveva senso che ridesse. Però a Thorn non dava fastidio. Il bambino era biondo, ma aveva gli occhi scuri. E i capelli erano ricci.)
 
Thorn si riscosse quando sentì Ofelia spostarsi. Sedersi. Aprì gli occhi, sorpreso di riuscire a vedere qualcosa: era l’alba. Quanto aveva… dormito?
Da quanto tempo non dormiva?
Capì che la parentesi di pace era chiusa quando vide lo sguardo di Ofelia fissarsi su qualcosa. Mettere a fuoco. E arrossì.
Thorn si alzò sui gomiti per vedere, ma Ofelia era talmente distratta che non lo notò. Si aggiustò invece la tunica che le aveva lasciato scoperte le gambe.
C’era una… ragazza seduta sulla panchina della fermata dell’autobus. Maneggiava la bottiglietta di disinfettante che Thorn aveva passato ad Ofelia e che lei aveva fatto cadere. Attirata dal movimento composto di Ofelia, posò il disinfettante e si diresse su per la collina. Verso di loro.
Thorn cominciò ad abbottonarsi la camicia, consapevole che era tutto finito. E non aveva idea di quanto tempo avrebbe dovuto aspettare per rivivere una situazione come quella con Ofelia. O di quante altre avrebbe potuto beneficiare. Sperava così tante che persino lui ne avrebbe perso il conto.
Ma doveva archiviarle.
Gli mancavano due bottoni quando Ofelia lo avvisò: - Thorn, si sta avvicinando una persona.
Rifletté un istante su quanto familiari fossero quelle parole. L’uso del tu, il servirsi del suo nome, il tono sommesso, come se stessero condividendo qualcosa di importante. Avrebbe voluto parlare con lei in circostanze simili, in una casa loro, si rese conto. Disquisire di cose magari poco importanti, ma che in qualche modo avrebbero rafforzato… quello che c’era tra loro. Probabilmente lei avrebbe parlato molto di più. Gli sarebbe piaciuto ascoltarla. Ma non poteva.
- Ho visto – borbottò, mentre il cattivo umore lo attanagliava.
Si appiattì i capelli sulla testa (Ofelia si era proprio impegnata nell’infilarci le dita, spettinandolo, eppure avrebbe voluto che lo facesse ancora) e riacquistò una parvenza di ordine. Per quanto potesse essere in ordine un uomo dopo aver copulato di notte sulla cima di una collina ricoperta di erba alta.
Lo avrebbe rifatto.
Ma… - E c’è qualcuno con lei. Anche un po’ più di qualcuno.
Avevano del lavoro da fare. E Ofelia era al suo fianco.
Era il momento di iniziare a muovere le pedine sulla scacchiera.
  
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