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Autore: syila    12/04/2021    2 recensioni
In una città tentacolare e multietnica come Singapore possono accadere cose spiacevoli a chi si avventura negli stretti e tortuosi vicoli dei quartieri più antichi; anche Sigvard Ohlsen viene coinvolto in una situazione pericolosa quando il Capitano Justus Van Loo scompare improvvisamente nell'affollato mercato a ridosso del porto.
L'olandese aveva detto di essere pronto a lasciarsi il passato di pirata alle spalle per tornare in Europa col giovane ufficiale, ma cosa potrebbe succedere se invece il passato non fosse pronto ad essere dimenticato?
Questa storia segue il breve arco temporale rimasto in sospeso nella "Ballata del mare salato".
Genere: Avventura, Drammatico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti | Contesto: Età vittoriana/Inghilterra
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Victoriana'
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Capitolo II°



“Il nostro ospite ha ripreso conoscenza, bentornato nella terra dei vivi Kap’tin… O dovrei chiamarvi Von Golven… Oppure l’Olandese Volante?”
“Di-dipende da chi me lo sta chiedendo…”
Il viso del cinese incombeva su di lui occupando interamente il suo campo visivo, come un cerchio perfetto delimitato in alto da una lucida calotta di capelli corvini e in basso da un pizzetto corto e rado. I suoi lineamenti, appena rilevati nella superficie piatta della faccia emersero gradualmente dalle nebbie indistinte della febbre, ma per quanto si sforzasse di ricordare, gli risultavano completamente ignoti.
Era un cinese, simile, per lui europeo, alle migliaia di altri abitanti di Singapore, forse più benestante rispetto alla media, data la sua accentuata pinguedine.
Fu il tono di untuosa cortesia con cui si esprimeva a metterlo in allerta; troppo sicuro di sé, troppo ironico per un mangiariso qualunque; con la sua esperienza Van Loo intuì che quello era un uomo pericoloso.
“Oh, vi risparmio la fatica Kapi’tin, non ci conosciamo di persona, eppure avete un debito con me.”
“Potevate dirlo subito che era una questione di soldi.” il Capitano si sforzò di sorridere, quando respirava il dolore al fianco diventata una stilettata rovente “Non c’era bisogno d’inscenare tutta quella gazzarra al mercato se bastava mettere mano al portafogli, tra persone civili ci si accorda sempre… Ma dubito che voi siate una persona civile… Ah!”
Una forte pressione sulla ferita gli strappò un grido, qualcuno gli aveva assestato un calcio sul fianco costringendolo a piegarsi da quella parte, il grassone non era solo e quando riaprì gli occhi vide un paio di scarpe lucidissime, diligentemente allineate accanto a lui, le scarpe di uno scagnozzo d’alto rango.
“La verità… fa male a quanto pare.”
“Solo a voi in questo caso Olandese, solo a voi e io mi godrò la vostra agonia finché la febbre o l’oppio strapperanno la vostra anima dalle budella.”
“Non è un prezzo eccessivo per qualche cassa di rhum?”
“Non è per merce Olandese!” rispose una voce stridula oltre il viso pieno del cinese “Tu mi hai umiliato davanti a mio equipaggio e mio padre davanti a suoi soci!”
“Taci Xiao-yi!”
“Padre! Voglio essere io a strappargli l’anima dalle budella!”
L’uomo grasso sbraitò un ordine secco in mandarino e nella stanza calò un silenzio irreale.
Finalmente Justus cominciò a fare un po’ di chiarezza: doveva essersi imbattuto in qualche spregevole trafficante a cui aveva alleggerito la giunca e quei maledetti delle triadi se le legavano al dito certe cose, qualcuno dei suoi doveva averlo visto alla pensione ed era corso a riferirlo al suo capo. La buona notizia riguardava Sigvard, che era rimasto fuori da quella brutta faccenda. La Cattiva era che Sigvard lo avrebbe cercato per tutta Singapore rivoltando ogni singolo sasso o tegola smaltata per trovarlo.
Conoscendo le sue indubbie qualità, Van Loo cominciò a preoccuparsi.
“Il nostro ospite ha bisogno di riflettere ancora un po’ sulle sue cattive azioni, Xiao Mei…” al nome corrispose un ordine o un invito, Van Loo percepì un odore delicato di fiori e un frusciare di sete preziose prima che la puntura sottile di un ago nel braccio lo gettasse nuovamente in un angosciante giostra di allucinazioni.



“Ho visto una stanza tutta d'oro,” ripeté Sigvard per l'ennesima volta, “Su una parete c'era dipinto un drago smaltato, dall'altra c'era una tigre, e tutti e due gli animali avevano i piedi dentro un lago. Il soffitto era di travi intagliate, fatte di legno scuro, e al di sopra si vedeva il bagliore dell'oro. Il pavimento era nero e lucido. C'era una finestra rotonda, con le sbarre fatte come canne di bambù.”
“Io non so dove è questo posto!” piagnucolò il signor Chen, “Forse qui, forse Shanghai. Chi può dirlo?”
“Voi lo sapete!” ringhiò lo svedese con sguardo fiammeggiante, “voi lo sapete, ve lo leggo negli occhi!”
“No, no! Io non so nulla!” L'orientale cercò di dileguarsi, venendo prontamente riacciuffato dall'ormai furente Sigvard. “Prego, non so nulla!” ripeté, cercando vanamente di liberarsi.
Il giovane si trovava in uno stato di furore gelido che poche volte aveva raggiunto nel corso della sua breve vita. Pallido d'ira, a denti stretti, sollevò di peso il piagnucolante signor Chen e lo fissò dritto negli occhi.
“Quant'è vero Dio, io ti ammazzo con le mie mani se non mi dici quello che sai,” sibilò con minacciosa lentezza, “io ti strappo il cuore e me lo mangio, brutto bastardo. Tu sai dov'è la stanza d'oro!”
“Pietà, signore! Loro uccidono me se sanno che ho parlato!”
“Dimmelo, scarafaggio maledetto. Dimmelo e dimenticherò che quasi sicuramente sei stato tu ad avvertirli che Justus era nella tua topaia!”

Sulle prime Sigvard credette che il signor Chen l'avesse ingannato. Il posto che il cinese gli aveva indicato era non più di una porticina rosa dai tarli, sotto un portico ingombro di masserizie. Non molto diversa, in definitiva, da tutte le altre porte che si affacciavano sul vicolo.
A ben guardare, però, c'era una testa di drago incisa in un angolo, ormai talmente sbiadita che solo un occhio attento avrebbe potuto coglierla.
Sigvard spinse la porta, che cedette stridendo appena sui cardini. Al di là c'era un corridoio, dalla luce che proveniva dal fondo, lo svedese dedusse che si affacciava su un cortile.
Si guardò intorno circospetto, ma non vide nessuno.
Avanzò cauto, tenendosi rasente al muro. Dappertutto regnava il silenzio, il luogo sembrava immobile e in attesa.
Quando sbucò all'aperto, faticò a trattenere un'esclamazione di sorpresa: dinnanzi a lui si ergeva il più splendido palazzo che si potesse immaginare: era una pagoda tutta d'oro, col tetto coperto di figure di ceramica dai vividi colori, sormontato da due draghi che reggevano fra le zampe un globo di vetro trasparente.
Vi si accedeva tramite una scala ornata di statue di bronzo.
Dappertutto vi era una profusione di ori e ceramiche, vividamente illuminate da enormi lanterne scarlatte.
Sigvard attraversò lentamente lo spiazzo, mostrando le mani per far capire che non aveva armi. Il fatto che non avesse visto nessuno, infatti, non significava che il luogo fosse disabitato.
Quando giunse dinnanzi al sontuoso edificio, due guardiani si materializzarono come dal nulla e gli puntarono contro le armi. Sigvard alzò le mani in silenzio. Poteva battere quei due, certo, ma non le altre decine che di sicuro erano nascoste lì in giro, inoltre sapeva bene che non era nelle condizioni di combattere, poteva solo trattare.
“Cerco Xiao-Jianxiong,” disse lentamente, “ho un affare da proporgli.”



La droga che gli avevano iniettato non aveva tardato ad entrare in circolo; tra i molti effetti collaterali il solo a non essere sgradevole era che il dolore al fianco si attenuava fino a diventare una vaga pulsazione, in compenso perdeva completamente la percezione del tempo, mentre i suoi sensi si acuivano fino allo spasimo.
Gli sembrò di sentire qualcuno che affettava delle verdure su un tagliere, il rumore della fibra carnosa dei peperoni che si spaccava sotto la lama affilata del coltello; colse distintamente lo sgocciolare denso della salsa di soia in una ciotola di porcellana e il rumore paziente di un tarlo al lavoro nelle fondamenta dell'edificio.
Quei suoni entravano come aghi nel cervello e rimbombavano all'infinito sulle ossa della scatola cranica; ma il più angosciante di tutti era la voce di Sigvard che domandava di lui in un luogo neppure troppo lontano da dove pensava o credeva di trovarsi l'olandese.

“Justus mi auguro che tu abbia valutato bene le conseguenze di questa vicenda, se insisterai a portare la denuncia davanti al vescovo non sarà solo Padre Atanasius ad essere messo all'indice, ma anche e soprattutto il giovane De Wit, senza contare la tua posizione, mancano pochi messi alla tua ordinazione sacerdotale...”
“Ma Haino è venuto da me a confidarsi Padre, il mio dovere...”
“Il tuo Justus è seguire la Volontà di Dio e obbedire ai superiori, ti prometto che farò in modo di risolvere il problema.”
“Allontanerete Padre Atanasius dall'insegnamento?”
“Risolverò il problema.” ribadì seccamente il Rettore e lo congedò.
Fu il giovane De Wit a risolvere il problema invece, qualche giorno dopo lo trovarono impiccato ad una delle travi del refettorio, nessuna lettera, nessuno scritto alla famiglia, nulla che potesse giustificare un tale orribile gesto.
Quella stessa notte il guardiano durante il suo solito giro d'ispezione trovò il povero Padre Atanasius che rantolava appeso ad una corda sulla stessa trave da cui era stato staccato il corpo del seminarista quella mattina. Prima di rendere l'anima a dio (o al diavolo) cercò invano di dire qualcosa, ma le sue parole erano i farfugliamenti di un moribondo che di lì a poco spirò.
Due fatti del genere obbligarono il Rettore e il vescovo ad aprire in fretta un inchiesta che venne altrettanto rapidamente chiusa con conclusioni inoppugnabili: De Wit non aveva retto alla nevrosi e all'eccessivo carico di studi e Padre Atanasius, suo insegnate nonché consigliere spirituale schiacciato dai sensi di colpa per aver preteso troppo dal ragazzo si era tolto la vita.
Negli atti formali dell'inchiesta non venne fatta alcuna menzione circa la scomparsa lo stesso giorno dei tragici fatti del diacono Van Loo; sul suo nome venne semplicemente tirata una riga a penna e il suo fascicolo fu sepolto in qualche polveroso archivio del seminario.




Xiao-Jianxiong era un uomo di mezz'età, eccezionalmente alto per essere un cinese, robusto e ben piantato anche sotto la pinguedine che lo rendeva simile a un Buddha. Portava sontuose vesti di seta e sedeva su una specie di trono fatto d'ebano e madreperla.
In piedi accanto a lui vi era un giovane di circa venticinque anni, a sua volta molto alto e riccamente abbigliato.
I due fissarono con curiosità Sigvard Ohlsen che veniva spinto brutalmente in avanti dalle guardie e costretto a inginocchiarsi dinnanzi al seggio.
Infine il più vecchio con sussiego chiese: “Chi sei tu, straniero?”
“Chi sono non ha importanza,” ringhiò lo svedese, “vengo per proporti un affare.”
L'altro rise. “Ne ha molta, invece,” replicò con irritante calma, rivolgendo al suo interlocutore in sorriso condiscendente, “ Xiao-Jianxiong non fa affari col primo che passa.”
Seguirono lunghi secondi di silenzio. Le guardie fissavano con diffidenza lo straniero inginocchiato, e sembravano attendere con ansia l'ordine di abbatterlo.
L'ordine non arrivò.
Quando il silenzio si fece troppo pesante, Sigvard dovette declinare le proprie generalità.
Il cinese più anziano lo fissò con interesse. “E dimmi, signor Ohlsen, cos'hai da propormi? Oppio? Gioielli? Armi?”
Lo svedese strinse i denti obbligandosi a rimanere impassibile. Era certo che l'altro sapesse bene chi era, e quell'estenuante gioco del gatto col topo era snervante.
“Soldi.”
“Soldi? In cambio di cosa? Ho merci che ti interessano così tanto da spingerti a introdurti nel mio palazzo e a sfidare le mie guardie?”
“Hai una persona che mi interessa. Dimmi quanto vuoi per la sua liberazione.”
Xiao-Jianxiong rise. Una lunga risata di scherno, alla quale si unì anche l'uomo più giovane. Infine con un sorriso compiaciuto disse: “I soldi non possono comprare tutto. La vendetta non ha prezzo, ad esempio. Inseguo quel cane da anni, e ora che finalmente l'ho in mio potere dovrei cedertelo in cambio di qualche sterlina?”
“Posso pagare bene,” rispose Sigvard impassibile.
L'altro accentuò il suo sorriso. “Non ne dubito. Ma ripeto, non sono le sterline che mi interessano.”
“Che intendi dire?”
“Avvicinati,” disse il cinese, facendo un gesto con la mano.
Quando Sigvard fu a un passo da lui, sempre tenuto sotto controllo dalle guardie armate, i due cinesi confabularono un po' in una lingua che lui non capiva. Infine il più giovane fece un cenno d'assenso verso quello che doveva essere il padre.
Quest'ultimo allora disse: “Il comandante olandese ha depredato la giunca di mio figlio, facendolo vivere nella vergogna, e quindi ora io farò vivere lui nella vergogna.”
E allo sguardo interrogativo di Ohlsen chiarì: “Tu sarai suo schiavo per una notte, o l'olandese morirà.”
Sigvard deglutì. Con voce incolore mormorò: “Io... non capisco. Perché fare questo a me farebbe vivere lui nella vergogna?”
“È molto semplice,” rispose compiaciuto l'altro, “ogni volta che ti vedrà, ogni volta che ti toccherà, lui ricorderà quello che hai dovuto subire per far sì che fosse liberato. Tutto questo se accetti l'accordo, ovviamente.”
“Fatemelo vedere,” fu l'unica risposta che il giovane si degnò di fornirgli, “voglio essere sicuro che sia vivo.”



Xiao-Janxiong si mostrò estremamente conciliante nell’accondiscendere alla richiesta dello straniero biondo, in parte perché sapeva che una volta dentro gli sarebbe stato difficile scappare o mettere in salvo il prigioniero, in parte era estremamente compiaciuto da quell’insolita trattativa e già pregustava il poi.
Avrebbe lasciato a suo figlio il piacere, mentre lui si sarebbe preso la parte più divertente: guardare.
Condussero Sigvard in un dedalo di corridoi che facevano somigliare quel tempio ad un vecchio mobile, con cento cassetti e scomparti segreti, dove ogni svolta portava nuove sorprese; un giardino interno, un porticato, piccole cappelle dove fumavano incensi votivi.
Il giovane però rimaneva teso e concentrato sul suo obiettivo, solo quando l’ultimo pannello scorrevole si aprì la sua espressione mutò in sconcertato stupore: dal pavimento lucido alla finestra rotonda, tutto era una riproduzione fedele del sogno che lo aveva tormentato la sera innanzi.
Perfino Justus era al suo posto, dove lo aveva visto lui; coricato su una stuoia di paglia di riso col volto disfatto dalla febbre e dall’oppio.
Il suo primo istinto fu quello di correre dal Capitano, ma seppe trattenersi, ogni minima manifestazione d’angoscia e dolore non faceva che accrescere la soddisfazione dei suoi carcerieri.
Contrasse la mascella e disse con voce bassa e dura “Voglio parlarci, da qui non si capisce nemmeno se è vivo.”
“Lo hai visto! Non ti basta straniero?” rispose la voce stridente del figlio del boss.
“Scusa mio figlio, a volte ignora le regole dell’ospitalità” le parole del capo della triade si sovrapposero alle sue con avvolgente lascivia “Ed è impaziente come tutti i giovani… Oh quasi tutti, tu sei molto paziente straniero, saggio da parte tua, prendere certe cose con la fretta è come inghiottire una pietanza prelibata senza masticare.”
Il giovane norvegese sentì scorrersi addosso lo sguardo appiccicoso dell’uomo grasso, era fin troppo chiaro a cosa stava alludendo. “Vai a parlare all’olandese, sempre che lui possa sentirti!”
Sigvard impose calma e misura ai suoi passi, sapeva che i due malviventi spiavano ogni sua mossa e chinandosi accanto al capitano gli posò semplicemente la mano fresca sulla fronte che bruciava mormorando “Justus ce ne andremo presto da qui, devi resistere.”
L’uomo aprì gli occhi, velati dalla nebbia dell’oppio e dopo aver scrutato per qualche istante la figura del giovane biondo gli rivolse un sorriso malfermo “Ma certo Hes… Prendiamo il calesse di zio Panfilus e torniamo in città, non fare quella faccia triste… saremo di nuovo qui l’estate prossima.”



A Sigvard fu chiara una cosa: non aveva molto tempo per salvare Justus. L'uomo stava decisamente male, aveva la febbre alta e delirava, inoltre era stato pesantemente drogato e probabilmente aveva perso molto sangue.
“Fate quello che dovete fare,” disse serio, abbandonando a malincuore il suo amante riverso a terra, “ma fatelo in fretta.”
“Tutto dipende da te, mio giovane e impaziente straniero,” chiocciò lascivo Xiao-Jianxiong, “prima soddisferai mio figlio, e prima potrai portarti via l'olandese, ma ti avverto: Xiao-Yi è molto esigente, non te la caverai con dei trucchetti da quattro soldi come quelli che sicuramente usi con il tuo amante.”
Lo svedese non replicò.
“E ora, se vuoi seguirci...” disse Xiao-Jianxiong compiaciuto.

Albeggiava quando finalmente a Sigvard fu consentito di lasciare la sontuosa camera da letto dove era stato condotto ore prima.
Era esausto e dolorante in tutto il corpo, aveva la schiena segnata dalla frusta, i polsi e le caviglie escoriati dalle catene e dappertutto segni di percosse.
Il dolore fisico però era nulla rispetto alla vergogna.
La cosa meno umiliante che Xiao-Yi aveva preteso era stata che ingoiasse il prodotto del suo piacere, naturalmente sotto lo sguardo lascivo e compiaciuto del genitore.
Il resto era stato peggio.
Sigvard avrebbe dato qualsiasi cosa per dimenticare, ma sapeva che certe immagini l'avrebbero tormentato fino alla fine dei suoi giorni.
“Ora puoi avere il tuo compenso,” gli disse Xiao-Jianxiong, “come ogni puttana che si rispetti.”
Il giovane rimase in silenzio. Ogni volta che tentava di ribellarsi era van Loo che ne faceva le spese, l'aveva capito nel corso della notte da incubo che aveva trascorso, quindi preferì ingoiare quell'ennesima umiliazione senza reagire.
Il cinese diede un ordine e due dei suoi uomini scomparvero all'interno del palazzo, per poi tornare poco dopo trascinando per le braccia l'ormai inerte olandese. Lo lasciarono cadere come uno straccio, si inchinarono a Xiao-Jianxiong e se ne andarono.
A quella vista, Sigvard dimenticò ogni dolore fisico e corse ad inginocchiarsi accanto al suo amante: Justus respirava appena e bruciava di febbre. Le labbra aride facevano capire che aveva un disperato bisogno d'acqua.
“Mi serve un carro!” esclamò preoccupato, “devo portarlo via subito!”
“Oh, come siamo diventati autoritari,” lo derise Xiao-Jianxiong, “hai dimenticato come devi rivolgerti a me e a mio figlio, ingrata puttana?”
Sigvard strinse i denti fin quasi a farli scricchiolare. “Per favore, posso avere un carro?” domandò con voce incolore, fissando ostinatamente il suolo.
“Andiamo già meglio,” approvò il cinese, quindi si rivolse al figlio e disse: “Hai visto, Xiao-Yi? Alla fine l'ha imparata anche lui l'educazione. Si credeva tanto superiore, eppure vedi adesso come ha abbassato la cresta?”
“Sì, padre.”

“Vuoi qualcos'altro da lui?” “No, padre. È freddo e inetto, non conosce nessuna delle arti che danno piacere a un amante. L'ho usato solo perché è il giocattolo di quell'olandese bastardo. È stato quel pensiero a darmi piacere, non altro.”
“D'accordo, allora fagli avere il carro e che si levi di torno.”


Fine seconda parte


⋆ La voce della coscienza ⋆

Carissimi Sigvard è riuscito a trovare e a salvare il capitano Van Loo dalle grinfie del suo rapitore, che, come si poteva intuire aveva un conto in sospeso con lui.
Il nostro coraggioso ufficiale ha pagato un prezzo piuttosto alto però e dopo una notte da incubo riesce a portare via l'olandese in condizioni pietose.
Riuscirà a curarlo e a liberarlo dai devastanti effetti dell'oppio?
E come cambierà (se cambierà!) il rapporto tra i due?
Lo scopriremo nell'epilogo che arriverà in tempi mediamente brevi su questi schermi :3
Nel frattempo vorrei ringraziare chi legge, commenta e preferisce la nostra piccola avventura in salsa esotica!



   
 
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