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Autore: Hoel    12/04/2021    4 recensioni
Nell’agosto del 1511, gli esploratori veneziani intercettano una lettera scritta dal governatore di Milano Gaston de Foix-Nemours e indirizzata al maresciallo Jacques de Chabannes de La Palice, in cui l’informa di come il Re di Francia Louis XII stia inviando rinforzi per aiutare l’Imperatore Maximilian I. von Habsburg nella sua “impresa di Treviso”, ovvero la conquista dell’ultimo ostinato baluardo veneto che separa la Lega di Cambrai dalla laguna di Venezia. Da ben due anni Treviso resiste irriducibile, così come la Serenissima, ripresasi in fretta dallo shock di Agnadello, ha ben dimostrato il suo fermo proposito di non lasciarsi cancellare tanto facilmente dalle pagine della Storia, rivelandosi un avversario più tenace di quanto prefiguratosi dai Collegati.
Su questo sfondo dell’assedio di Treviso si snoderanno le vicende di un giovane e misconosciuto patrizio veneziano, destinato però a diventare più grande di re e imperatori, di valenti condottieri e del Papa stesso.
[Vietati la riproduzione e il plagio; questa storia è tutelata]
Genere: Guerra, Introspettivo, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Epoca moderna (1492/1789), Rinascimento
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Vi auguro una buona lettura,

H.

Aggiornato il 17.12.2021

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Capitolo Ventottesimo

Venerdì 26 settembre 1511

 

 

Si fanno beffe di me quelli che mi vedono,

storcono le labbra, scuotono il capo:

 

“Si rivolga al Signore; Lui lo liberi,

lo porti in salvo, se davvero lo ama!”.

 

(Salmo 21)

 

 

 

 

 

Prima ancora della luce del giorno, l’accampamento di Nervesa sguazzava in grande agitazione: i soldati raccoglievano in fretta il minimo necessario per la cavalcata che li attendeva, avendo ricevuto l’ordine di viaggiare leggeri e delegando ai compagni lì rimasti il compito di caricare il resto nei carri e di smantellare la tendopoli, bruciando ogni traccia del loro passaggio, prima di raggiungerli nel nuovo luogo designato dal maresciallo.

Diversi gruppi militari presero dunque la via di Montebelluna, altri finsero di marciare verso il Barco, per dirigersi invece di soppiatto lungo la Piave fino alle basse. Artiglierie e carriaggi vennero diretti verso sud, con il Gran Maestro di Francia Jacques de Chabannes de la Palice in testa, armato di tutto punto e con la sua impresa ben visibile, acciocché a Treviso lo si riconoscesse da lontano, non giudicando savio avvicinarsi troppo alle mura.

Il suo piano consisteva in una parata dimostrativa, onde fiaccare lo spirito dei marciani e far loro credere della sua grande potenza e di ogni mancanza di via di fuga; ciononostante, il cuore del maresciallo gli martellava in petto d’una sottile ansia, anch’egli timoroso di una probabile reazione negativa da parte degli assediati che, interpretando la sua apparizione come un tentativo d’attacco, avrebbero a loro volta potuto nuocergli e in maniera affatto dimostrativa. Fortunatamente per La Palice, egli aveva tenuto a mente la lunghezza della gettata dei cannoni, grazie alle informazioni ottenute da Mercurio Bua e Leka Busicchio, e pertanto aveva ordinato ai suoi uomini per nessun motivo al mondo di oltrepassare il livello soglia di sicurezza.

“Les Allemands dovrebbero rientrare entr’oggi”, spiegò La Palice a Teodoro Trivulzio e a Galeazzo Pallavicino, i quali sarebbero rimasti all’accampamento. “Assicuratevi di distruggere il ponte, una volta che l’avranno attraversato.”

“Dove e quando ci riuniremo?”, s’informò il marchese di Busseto, intanto che il generalissimo montava a cavallo, aiutato da un suo paggio.

“A Torre di Maserada, non appena il grosso degli Allemands si sarà ricongiunto a noi”, rispose il francese. “Si Dieu le veut, potrebbe già essere stasera” e dopo essersi segnato, batté gli speroni sui fianchi della bestia e si pose a testa della colonna di gendarmi e cavalleggeri diretta a Treviso.

Galeazzo Pallavicino e Teodoro Trivulzio lo seguirono pensosi con lo sguardo lungo l’intera discesa dalla collinetta dell’Abbazia, per poi voltarsi e rientrare nel cortile interno. Quand’ecco che nel portone d’ingresso s’imbatterono in Mercurio Bua e un suo famiglio, ambedue a cavallo e vestiti solamente della loro lunga e pesante casacca scura, sul capo il rigido cappello di feltro nero al posto dell’elmo, da cui s’intravedeva sotto la fascia scura che tratteneva le trecce tipiche dell’acconciatura degli stradioti.

“Posso domandarvi dove vi recate?”, inquisì acido il Pallavicino, le cui gote ancora bruciavano al ricordo della rampognata da parte del greco-albanese avvenuta il giorno precedente.

Gli angoli della bocca del Bua si contrassero violentemente, gli occhi scuri attraversati da un luccichio infastidito. Il suo famiglio girò il capo nella sua direzione, anticipando da quell’espressione scocciata una replica feroce e mordace a danno del marchese, dei suoi antenati e della sua progenie. 

Contrariamente ad ogni suo prognostico, il viso di Mercurio si rilassò tranne per la sua presa alle redini. “A San Salvatore, dai Conti di Collalto, a porgere visita al povero conte di Gambara”, rivelò infine con sufficienza, come se stesse dialogando con un popolano e non un aristocratico.

“Non sarebbe un po’ troppo presto? Appena albeggia.”

“Vorrà dire che le loro illustrissime signorie m’offriranno la colazione”, non si scompose il condottiero, le cui nari dilatate tradivano una certa impazienza e insofferenza. Appunto per tagliar corto e terminare lì quella a lui fastidiosa conversazione, il capitano di ventura diede un’accelerata alla marcia del cavallo, il quale incominciò a trottare in direzione del Castello, abbandonando lì, imbambolati peggio di due allocchi, gli interdetti nobiluomini lombardi.

L’obiettivo finale della sua visita si presentava molto semplice: se il conte Gianfrancesco ormai non poteva seguirli fino a Treviso, sicuramente i suoi uomini non sarebbero stati altrettanto scusati e Mercurio meditava d’aggregarli alla sua compagnia, giacché ambedue i condottieri militavano per l’Imperatore. Sarebbe stato folle, a seguito delle numerose perdite subite dai vari agguati e dalla pestilenza, di permettere a chicchessia di disertare il campo, anche se legalmente, cioè rimanendo accanto al proprio capitano ammalato.

Tentar non nuoceva: i bresciani del Gambara sicuramente non appartenevano alla sua gente, però il Bua non voleva lasciare nulla d’intentato. Quei soldati avrebbero sempre fatto in tempo ad essere ridistribuiti tra le compagnie del Trivulzio, del Sanseverino e del Pallavicino, ma l’epirota voleva anticiparli e servirsi, alla peggiore, dei migliori di loro per lasciare a quei lombardi soltanto le briciole.

Come profetato dal marchese di Busseto, in effetti l’arrivo molto temprano di Mercurio scombussolò gli abitanti del Castello; nondimeno, lo si accolse ugualmente, indirizzandolo verso gli alloggi del Gambara mentre gli promettevano una pingue refezione.

La camera del conte bresciano puzzava dell’acre e pesante tanfo della malattia, un misto di sudore fresco e vecchio, di lenzuola umide e sporche, nonché d’umori e di feci che, malgrado la premura del servo di svuotare quanto più frequentemente il pitale, seguitava testardo ad indugiare nell’aria, ammorbandola. Mercurio storse inconsciamente per un istante il naso, grattandoselo come se potesse fisicamente strappare via quel lezzo dalle narici. S’avvicinò cauto al letto dell’ammalato, pigliando una sedia e sistemandosi a debita distanza.

Gianfrancesco di Gambara sbatté le ciglia confuso, aguzzando la vista come se non riuscisse a distinguere le forme del viso del greco-albanese, a malapena delineate dalla fioca luce mattutina.  Si scostò via dalla fronte cinerea qualche ciocca di capelli bagnati e appiccicati tra di loro, puntellandosi debolmente sui gomiti onde poter discorrere meglio con l’ospite inaspettato. Il suo valletto, rapido, si premurò di sistemargli meglio il cuscino dietro la schiena.

“Che posso fare per voi, capitano Mercurio?”, fu lo stanco saluto del conte, in attesa che il famiglio terminasse di prepararlo, avvolgendogli le spalle con un pesante scialle di lana, poiché i brividi avevano ripreso a tormentarlo.

“I vostri uomini”, venne subito al dunque il Bua, “volevo sapere che intenzione avete nei loro confronti.”

Il bresciano lo fissò lungamente, per poi chiudere le palpebre doloranti. “Starà al maresciallo La Palissa di decidere. Per me, io li riporto a Brescia. Alla fine non sono ancora morto e la mia compagnia non è ancora stata ufficialmente sciolta”, disse e i suoi occhi velati dalla malattia guizzarono d’un subitaneo fulgore di rimprovero.

“Indubbiamente”, ribatté ineffabile Mercurio, incrociando al petto le braccia. “Ciononostante, bisogna valutare ogni possibilità ed essere pronti all’evenienza.”

“E voi in questo siete maestro”, sbuffò sarcastico il conte Gianfrancesco, guadagnandosi un’incurante scrollatina di spalle da parte del condottiere.

“La morte corrisponde ad una nostra fedelissima compagna”, sentenziò quest’ultimo serafico. “Quando mangiamo, quando cavalchiamo, perfino quando scopiamo essa ci alleggia sempre sopra il capo. Perché questo vostro timore di discuterne apertamente? Ormai è risaputo che voi siete gravemente ammalato: potete guarire, potete raggiungere il Creatore, però io non sono così fatalista da dire: nulla ci garantisce il futuro. Io me lo voglio garantire ed eccomi qui per domandarvi di cedermi i vostri migliori uomini.”

“Mors tua vita mea?”, ridacchiò beffardo il Gambara, scuotendo il capo dinanzi a tanta pragmatica sfacciataggine.

“No, piuttosto: fallire nel pianificare è pianificare di fallire”, lo corresse inflessibile Mercurio.

“Io seguito a vivere e voi già vi volete servire dei miei soldati?!”, s’inalberò il nobile bresciano, verbalizzando finalmente il suo malessere e indignazione. “Non avete neanche la decenza d’aspettare?”

Il Bua arricciò maligno la bocca in un sogghigno. “Vi ricordo, signor conte, che voi mi avete sottratto il mio prigioniero quando caddi ferito. Non azzardatevi a farmi la morale, in avidità siamo colleghi.”

Il conte Gianfrancesco mosse le labbra violacee come se volesse difendersi da quella veritiera accusa; desistette, mordendosi frustrato l’interno della guancia. Soltanto lui sapeva che non si trattava d’ingordigia, la sua, però non poteva certo rivelarlo all’altro condottiero. “Ripeto: in caso di mia morte, starà a La Palissa di ridistribuire la mia compagnia. Fintanto che vivrò, essa rimarrà ai miei comandi”, fu la sua ultima parola e, stranamente, il greco-albanese non si scompose, chinando in accettazione il capo.

Pazienza, ci aveva provato.

“Si vocifera che i tedeschi stiano ritornando dalla Patria del Friuli e che il maresciallo abbia lasciato Nervesa”, riprese più conciliante il Gambara, interrompendo il teso silenzio interpostosi tra di loro.

“Corretto.”

“Quindi quest’assedio si farà.”

“Così parrebbe”, si grattò Mercurio il mento, osservando il paesaggio boscoso dalla finestra, là dove si stagliavano le sagome dei monti friulani sul cielo grigiastro e foriero dell’ennesimo acquazzone. “Stando ai nostri esploratori, la conquista della Patria è pressoché completa. Gradisca è flagellata da una pesante pestilenza e gli imperiali non demordono nell’assedio. Ed io ho come la sensazione, che lì i soldati non siano così devoti da lasciarsi morire di peste per la difesa di San Marco, non se hanno una minima possibilità di salvare la propria pellaccia. Le proposte di Georg von Liechtenstein alla fine non appaiono così malvagie e irragionevoli.”

“L’Imperatore ne sarà contento”, asserì ambiguo il nobile bresciano, appoggiandosi stancamente sui cuscini. “Tutto sta procedendo secondo i suoi piani: ora come ora, gli manca d’occupare solo il Cadore e Treviso. In questo mi dispiace di deludere la Sacra Cesarea Maestà, poiché mi trovo impossibilitato a contribuire di persona.”

Le orecchie vigili di Mercurio s’alzarono a mo’ d’antenna di lumaca alla menzione del Cadore, regione mai nominata apertamente nei piani di conquista del Re dei Romani, non a seguito della debacle del 1509. Che significava? Non dovevano limitarsi a Treviso? Già la Patria del Friuli era stato un fortunato fuoriprogramma, ma cos’erano tutte quelle deviazioni? Senza poi consultarlo, proprio lui che Maximilian aveva nominato suo consigliere di guerra!

“Abbiamo combattuto fianco a fianco a Fornovo e a Novara. Mi rincresce che non lo faremo anche a Treviso”, dichiarò il greco-albanese l’opposto dei suoi veri pensieri, studiando vorace ogni singola reazione sul viso stravolto del Gambara, in cerca della benché minima informazione su quella sgradita novità. In qualità di rappresentante dell’Imperatore in campo, forse egli sapeva qualcosa che Mercurio ignorava? In quel caso, doveva apprenderlo senza destare eccessivi sospetti. Non fosse mai che il conte Gianfrancesco riferisse al Re dei Romani della poca fiducia del Bua nei suoi confronti.

“Sia fatta la volontà di Dio”, mormorò stanco l’ammalato, sorprendendo il capitano degli stradioti, il quale strabuzzò disorientato gli occhi, sporgendosi inconsciamente in avanti, incredulo.

“Non v’immaginavo così rassegnato”, aggrottò la fronte, guardingo. “Guarirete e presto anche”, fu il suo burbero modo di consolarlo.

Peccato che il conte Gianfrancesco non seppe apprezzare quel suo gesto. “Nulla mi tange, nulla m’importa più di questa guerra”, asserì infatti, “voglio solo rivedere i miei figli e i miei nipoti prima di morire.”

“Ritornerete dunque a Brescia?”, si conformò mesto il Bua, rammaricandosi nel suo intimo della svanita prospettiva di giovarsi di quei valenti soldati. “Non sarà un viaggio troppo faticoso nelle vostre condizioni?”

“Dopo l’incontro col cardinale Federico Sanseverino, sì, ho ottenuto il permesso da La Palissa di rientrare nei miei possedimenti a Pralboino. Certamente sussiste il rischio che tiri prima le cuoia, però … ” però almeno sarebbe morto in sella, dignitosamente, non alla stregua d’un mendicante nell’altrui casa.

“Vi penserò, una volta a Treviso.”

“Sì, voi andrete a Treviso”, convenne il Gambara, abbozzando ad un sorrisetto cospiratore. “Come condottiere della Serenissima.”

Neanche l’avesse punto uno scorpione, Mercurio balzò su dalla sedia, la quale cadde rumorosamente per terra, provocando uno spaventato sussulto nel servo del conte.  “Giammai!”, ringhiò bellicoso il greco-albanese, arrossendo alla stregua d’una mela matura, indignatissimo da quell’insinuazione che, se udita dalle orecchie sbagliate, poteva costargli il collo per tradimento e diserzione.

“Suvvia, capitano Bua”, non si fece ingannare di certo il conte Gianfrancesco da quella violenta reazione, semmai aumentando l’estensione del suo ghigno pressoché scheletrico a causa della malattia. “Non nascondetevi dietro un dito: voi siete un pessimo perdente, il vostro orgoglio più forte del vostro onore. Non sopportate l’idea di perdere: vi ricordo che avete abbandonato la Signoria quand’era in difficoltà a Pisa contro Firenze; avete abbandonato il Moro, dopo la capitolazione di Novara; vi siete stufato di servire il Re di Francia dopo la sua sconfitta da parte dei Cattolici a Napoli. Appunto perché ormai vi conosco abbastanza bene, scommetto che, dovessero le sorti della guerra incominciare a pendere dalla parte di Venezia, voi ritornerete da lei, perché questa è la vostra filosofia di vita: vincere e sopravvivere ad ogni costo. E non vi biasimo, voi provenite da terre infelici, assediate da feroci e implacabili nemici, mentre noialtri …”, e il nobile bresciano scosse il capo, sospirando amaro, “noi ci siamo rammolliti e abbiamo perduto ogni dignità; ci siamo prostituiti per continuare a vivere nei privilegi, piuttosto di combattere per mantenere la nostra indipendenza ...”

“Massimiliano sta conquistando con successo la Patria del Friuli e lui stesso s’unirà alle nostre truppe nell’assedio di Treviso. Voi farneticate d’un futuro irrealizzabile”, si difese prontamente Mercurio, avvertendo gocce di sudore freddo scendergli lungo la nuca a causa della schietta e impietosa lista dei suoi cambi di partito. Di cosa l’accusava? Non era forse un mercenario? Non serviva il migliore offerente? Perché rinfacciargli quegli eventi passati?

“L’Imperatore scenderà certamente, per invadere il Cadore e per svernare o lì o in Friuli, al sicuro e rifocillato, mentre voi e La Palissa rischierete la vita e l’onore a Treviso”, continuò imperterrito il Gambara, tallonando serratamente cogli occhi ogni singolo movimento del Bua, il quale aveva meccanicamente raccolto la sedia, riprendendovi posto. “Massimiliano sta sfruttando l’esercito francese per i suoi piani di conquista e, una volta sottomessa l’intera Terraferma, forte della sua potenza punterà alla Lombardia ai danni del suo alleato il Re di Francia per rimettere sul trono ducale di Milano i figli esiliati del Moro, suoi cugini per matrimonio.”

Il volto del greco-albanese si tramutò in duro granito, inespressivo e imperturbabile, tuttavia al bresciano non sfuggirono le lievi contrazioni delle sue dita, tamburellanti indisciplinate sulle ginocchia. Né tantomeno sorpassò sul lento dilatarsi delle sue nari, come se il condottiero si stesse imponendo di non afferrarlo per la collottola e sguarattarlo fino a fargli vomitare le budella. “E se anche fosse?”, giocò al nesci Mercurio in un sibilo astioso, indeciso se arrabbiarsi di più contro se stesso o contro quell’infame dell’Habsburg, che ad ogni occasione tentava di fregarlo. “A me non cambierebbe nulla, poiché io servo l’Imperatore.”

“Il quale vi ha impedito di guadare la Piave e far provvista, equiparandovi ai suoi alleati francesi. Vi sfrutta, ma non v’apprezza”, puntualizzò il conte Gianfrancesco, rinvangando sadicamente quello spiacevole dettaglio, il medesimo che, tempo addietro, Hironimo Miani aveva fatto notare al Bua.

Non ti è sembrato strano l’ordine dell’Imperatore, che sanciva la Piave a limite invalicabile soltanto alle truppe francesi e ai tuoi stradioti?

“Io odio la Signoria e non cambierò mai bandiera!”, gridò subitaneamente Mercurio, onde chetare sia la voce del veneziano sia quell’assurde calunnie da parte del Gambara.

“Eppure, Massimiliano stesso sta nuovamente inviando proposte di pace alla Signoria. Mi spiegate come mai uno che sta vincendo così sfacciatamente, all’improvviso vuole terminare in fretta la partita? Perché sa che non potrà conservare a lungo le sue vittorie, dovesse il gioco proseguire imperterrito!”

“Se così fosse, allora vorrà dire che militerò di nuovo per il Re di Francia! Ma dalla Signoria non ci ritorno!”, ribadì, battendo le mani pesantemente sulle cosce, affatto contento di quel metterlo con le spalle al muro e al contempo di ridicolizzarlo. Passasse per il patrizio, che certamente agiva così per invidia e per confonderlo, ma pure ora il Gambara spargeva sale sulle ferite? Il rappresentante dell’Imperatore per di più? Una noce nel sacco non fa rumore, due però … Poteva sussistere la minima possibilità che ambedue stessero affermando il vero? Che Maximilian si stesse servendo vigliaccamente di loro, non stimandoli in realtà nulla?

Me lo vedo Massimiliano cinguettarti a lavoro terminato: “Ben fatto, Mercurio; bravo, Mercurio; ottimo lavoro, Mercurio! Grazie, Mercurio,  per aver sacrificato all’altare del mio prestigio la tua vita e quella dei tuoi uomini; grazie per aver rinunciato per amor mio a tua moglie e a tua figlia!”

“Ritornerete al servizio della Signoria, eccome, similmente al figliol prodigo e lei non vi lascerà mai più, perché è matrigna: tanto generosa quanto esigente ...”, concluse il discorso il conte Gianfrancesco, socchiudendo ieratico gli occhi, trionfante di quella sua certezza. Adesso il Bua negava e protestava, ciononostante non serbava amore per chi lo corbellava o non gli permetteva di guerreggiare a suo gusto, frenandolo nella vittoria. Maximilian lo stava sottovalutando, giudicandolo innocuo, invece del cavallo pazzo che in realtà era. Forse non oggi né domani né fra un mese o un anno, ma il dì della diserzione del greco- albanese quell’arrogante d’un Habsburg si sarebbe pentito di quella sua cecità e ciò sinceramente al Gambara non suscitava alcun sentimento di commiserazione.

“Voi vaneggiate, signor conte. Io non abbandonerò mai il servizio dell’Imperatore”, reiterò fumante il capitano degli stradioti, crocifiggendo con lo sguardo il serafico nobiluomo, che di fatti replicò velenosamente carezzevole:

“La vostra famiglia l’ha già fatto, Mercurio Bua Spata. E siete voi forse un Caino, che leva la sua spada contro il suo medesimo sangue?”

 

***

 

Il capitano Andrea Vassallo controllava con un occhio l’armizzo dei burchi, mentre con l’altro l’intenso viavai di marinai sul barcharezo, i quali stivavano al ritmo serrato e composto d’operose formiche le staie di farina sotto il bàito dell’imbarcazione. Appollaiato in testa all’albero di prua, stava di vedetta il gato, il quale scrutava vigile l’orizzonte in cerca d’eventuali sagome di saccomanni o stradioti nemici, prontissimo ad avvertire i suoi compagni e soprattutto i balestrieri giunti assieme a loro a mo’ di scorta.

Dal fallito attacco a Musestre, tutti i duecentouno marinai giunti da Venezia erano stati spediti a ritirare dai mulini le farine e ogni burchio e ganzàra ormeggiati lungo il Sile, i nervi a fiori di pelle dall’ansia di ritrovarsi a tu-per-tu coi Collegati. La trafelata staffetta proveniente da Treviso aveva avvertito il capitano Vassallo della partenza di buona parte dell’esercito nemico da Nervesa e di come si muovesse questi lungo la Piave con artiglierie e carriaggi: stessero pertanto in allerta e pronti a possibili assalti, avendo intravisto gli esploratori veneziani dei cavalleggeri francesi aggirarsi per la Callalta.

“Sior capetanio”, s’avvicinò il nochièr ad Andrea Vassallo, toccandosi il bordo della bereta a mo’ di rispetto. “Ghemo justo finio d’armizar l’ultimo burcio. Co’ volé, semo pronti per desarmizar.”

Il capitano annuì e ringraziò il nochièr per il rapido ed eccellente lavoro. “Levate el fèro!”, comandò ai marinai, una volta salito sul quartiero del burchio, mentre gli uomini scioglievano le cime dalle dame e drizzavano le vele ocra degli alborazi per navigare a daredosso. “Chiapar tuti i remi!”, ordinò Vassallo ai rematori, che si preparassero all’imminente voga.

Appena l’ancora veniva issata a bordo della prodiera, ecco che il gato dalla sua postazione lanciò il temutissimo allarme: “Cavali lizieri, sior capetanio!”

Andrea Vassallo girò di scatto la testa nella direzione indicata dal marinaio. Non scorgendo tuttavia niente, trovandosi troppo in basso, si diresse al poparìn dal pope e da lì a sua volta gridò: “Calar i remi in barba! Pupe, a stagando! Vogar a la desperada!”

In sincronia perfetta i vogatori sul lai de pope batterono i remi in acqua e il burchio virò velocemente sulla destra, per poi raddrizzarsi e proseguire dritto accodandosi a quelli già in navigazione, unitisi i prove sui lai de mèso alla voga, al grido di “Dai de longo!” e “Pògia la banda!”, avendo fortunatamente il vento in poppa, imbulando le vele e spingendo il burchio in avanti più agevolmente, malgrado la resistenza della corrente contraria del Sile. Il gato fece su cicogna e segnalò, facendo manto, al capitano dell’imbarcazione davanti loro dell’avvistamento dei cavalleggeri francesi. A catena venne l’informazione condivisa tra i burchi e costoro acquisirono improvvisamente velocità e l’eco di “Premi! Premi!” riverberava nella frizzante aria settembrina, mescolandosi al vento impetuoso foriero di temporale.

“Ala! Ala!”, s’incoraggiavano tra di loro i rematori del burchio del Vassallo, l’ultimo della colonna d’imbarcazioni e pertanto il più vulnerabile. Sia i pupe che i prove grugnivano dallo sforzo improvviso, i volti rigati da rivoli di sudore e la loro camicia divenuta semitrasparente, attaccandosi alla pelle. “Bativóga! Bativóga!”, li esortava il portolàn davanti al pope tra uno sbuffo e l’altro, dando il ritmo alla vogata, sempre più rapida e indiavolata. “Bativóga, fioi de Sen Marcho!”, si sgolava, sputando fuoribordo il sudore che gli colava in bocca.

Assicuratosi d’essersi ben allontanati dalla pericolosa riva, il capitano Andrea ritornò allora al quartiero, coordinando l’allineamento dei balestrieri all’impavesata a pògia, i quali sistemarono rapidi i loro pavesi rossi, tenendo i saccomanni francesi sottotiro, non appena questi si palesarono sulla riva del fiume, uscendo finalmente allo scoperto, anch’essi armati di balestre.

“Zòso! Zòso!”, fece cenno il capitano ai vogatori d’abbassarsi quel tanto da ripararsi dietro i pavesi, quest’ultimi che presero a tremare dal secco colpo incassato delle frecce nemiche. “Premi! Bativóga!”

“Ala! Ala!”

Un cavalleggero francese, seguendo il tragitto del burchio e giudicando d’aver trovato una fessura tra gli scudi difensivi sull’impavesata, finì puntualmente fiocinato prima ancora di prendere la mira da un balestriere marciano e con lui anche il compagno che l’aveva appena raggiunto; ambedue cascarono rumorosamente in acqua, dopo aver rotolato sulla riva fangosa e ricoperta di giunchi, tanto da persuadere gli altri francesi a desistere dall’impresa e ritornare sui propri passi, realizzando quanto pure loro si trovassero sulla traiettoria nemica.

Fortunatamente, Melma non distanziava troppo da Treviso e la sospirata sagoma del torrione di San Polo e del porto si palesò in fretta. “Quatro de bone!”, comandò giubilante il capitano Vassallo, acciocché l’equipaggio rinforzasse il ritmo e la spinta della vogata, in un’ultima accelerazione verso la salvifica meta finale. “Quatro de bone e semo salvi!”

“Premi! Premi!”

“Bativóga! Bativóga!”

“Oh … ehi! Oh … ehi!”

Ancora gli ultimi tratti di fiume …

“Vòge!”, giunse l’agognato ordine agli orecchi degli sfiniti rematori. “Leva remo!”, gridò il capitano Vassallo all’equipaggio di cessare la vogata, alzando i remi fuor d’acqua, non prima che i vogatori s’accasciassero per qualche istante su di essi, respirando a grosse boccate e detergendosi il sudore dalla fronte con le maniche altrettanto bagnate. Nel frattanto, delle barchette guidavano le manovre dei burchi, in modo ch’attraccassero al logo de sbarco e i morè assieme ai marinai meno stanchi si prepararono a scaricare le staie di farine.

Dalla fretta con cui venne sbrigata l’intera manovra e dalle facce tese dei soldati al porto, il capitano Andrea intuì lesto che lui e il suo equipaggio non erano stati i soli ad aver avvistato e incrociato dei contingenti francesi.

E la sua teoria venne confermata infatti dal serrato rullo di tamburi provenienti dalle casematte e da ogni angolo delle mura, seguito a ruota dalla campana del Campanón de 'l Cànpo e dal grido di “Arme! Arme!” dalle sentinelle a Porta San Tomaso.

“Dov’è il magnifico sier Provedador?”, afferrò il Vassallo un fante per il braccio, bloccandolo. “Debbo comunicargli un fatto molto grave!”

“Al bastion di la Madona!”

In brevissimo tempo, mentre il capitano correva da sier Zuam Paulo Gradenigo, i soldati marciani si posizionavano precisi e puntuali ciascun al suo posto, avvezzi ormai alle continue esercitazioni; Giorgio da Cattaro, Michiel Scariolo, Paulo da Venezia e Gasparo de la Mola - i bombardieri della porta e del torrione di San Tomaso fino a quello di San Bartolomeo -  presero rapidi posizione dietro ai loro sacri, falconetti e alle bombardelle e spingarde, mentre i balestrieri e gli archibugieri venivano diretti alle loro postazioni dal condottiero Carlo Corso, il quale mandò uno dei suoi fanti ad avvisare il capitano Renzo di Ceri.

Un timido sole fece capolino dalle densi nubi grigiastre, segnalando il raggiungimento di metà mattina e soprattutto illuminando i luccicanti corsaletti dei  tre distaccamenti di duecento cavalieri ciascuno, capitanati personalmente dal maresciallo Jacques de Chabannes de La Palice, ben visibile grazia alla sua imponente armatura e alle alte piume del suo pennacchio scosse dall’umido vento di levante. Un palafreniere teneva fermo il cavallo del maresciallo per il montante del filetto, mentre i due vessilliferi accanto a lui sventolavano i gigli di Francia, l’aquila imperiale e l’impresa della casata del generalissimo.

Malgrado la grande e minacciosa pompa e lo schieramento compatto, le tre compagnie se ne stavano cautamente a debita distanza, muovendosi piuttosto sul proprio lato quasi stessero costeggiando le mura, non osando avanzare verso di esse, chiaro segno che si trattava la loro di una manovra dimostrativa, senza alcun’intenzione di provocare uno scontro diretto. Questo finché un gruppo di sedici cavalieri francesi si portò più presso e fu allora che il comandante Carlo Corso diede ordine ai balestrieri di scoccare le loro frecce: nessun nemico venne colpito, ciononostante i francesi rincularono prontamente, avendo capito d’essersi appropinquati troppo, se le balestre potevano comodamente raggiungerli.

“Riusciamo a colpire la Palissa?”, s’informò Renzo di Ceri, fissando avido dalla finestrella il vessillo accanto a cui stava solenne e impettito il generalissimo francese, sovvenendosi l’Orsini del panico degli imperiali alla battaglia di Tai di Cadore, quando Rinieri della Sassetta aveva infilzato con la sua picca il comandante tedesco Sixt von Trautson. Uccidi il pastore e il gregge si disperde, chissà se la morte di La Palice non avesse sortito il medesimo effetto …

Più e più volte Giorgio da Cattaro posizionò e riposizionò la bocca del sacro, spingendolo quanto più possibile in avanti onde allungare il tiro. “No, si trova troppo lontano”, s’arrese infine il bombardiere, piccato quanto il capitano delle fanterie, che imprecò rabbioso tra i denti.

Improvvisamente, un colpo di colubrina fendette l’aria e la riempì sia d’acre odore di polvere da sparo sia di nitriti spaventati ed esclamazioni di sorpresa: Girolamo da Faenza, bombardiere al bastione della Madonna, aveva intercettato quei sedici cavalleggeri che, malgrado l’avvertimento dei balestrieri di Carlo Corso, imperterriti avevano continuato a girare attorno alle mura lungo il fiume Botteniga. Sicché, il comandante Cipriano da Forlì, infastidito da cotanta arroganza, aveva dato ordine di sparare un colpo, con la benedizione del provveditore sier Zuam Paulo Gradenigo, lì a controllare quelle manovre sospette. Dopodiché, sceso il patrizio veneziano dal bastione, salì egli a cavallo per raggiunse Porta San Tomaso e il capitano Orsini.

“Per l’intera Corte Trionfante, cosa crede di concludere La Palissa con questa sua buffonata?”, tuonò il capitano Vitello Vitelli, aggregandosi al duo. Era giunto di gran fretta dalla sua postazione e il suo cavallo, eccitato dalla corsa, ancora si ribellava agli ordini delle redini del morso, scuotendo nervoso il capo e indietreggiando.

“Sarà certamente venuto a studiare il territorio, in particolare dove piantare le artiglierie e dove accamparsi indisturbati”, riassunse Renzo di Ceri la sua personale teoria. “Di sicuro si sarà informato sul tiro dei nostri cannoni, poiché per il momento è impossibile colpirlo. E con seicento cavalieri dubito voglia attaccare. Vuole soltanto intimidirci.”

“Dunque risponderemo alla paura con la paura”, sentenziò spiccio sier Zuam Paulo Gradenigo. “Capitano Vitello, uscite assieme a tutti i vostri balestrieri. Vi faranno da scorta le nostre compagnie di stradioti al gran completo.”

“Volete ingaggiarli in combattimento?”, reclinò il capo il condottiero, assottigliando pensoso gli occhi, confuso da quella tattica assai drastica.

“La Palissa sa che non gli conviene: alla fine dei giochi, non può contare che su seicento uomini e per di più si trova sprovvisto d’artiglieria. Se vuole evitare un’inutile mattanza, non gli rimane altro che indietreggiare e ritirarsi, se voi avanzerete compatti”, capì invece Renzo di Ceri l’intenzione del provveditore, ritrovandosi d’accordo con lui: se il maresciallo voleva mostrare i denti, loro gli avrebbero risposto mostrando i propri.

In quel momento si presentò il capitano Andrea Vassallo, arrestando bruscamente la sua corsa e, piegatosi a metà, poggiò le mani sulle ginocchia, ansimando, prima di ripigliarsi e annunciare a sier Gradenigo: “Magnifico sier Provedador, zelenza. Abbiamo avvistato pattuglie di saccomanni a Melma: per un soffio siamo riusciti ad evitarli, portando al sicuro tutti burchi e le farine!”

Sier Zuam Paulo aggrottò la fronte, affatto contento di tale novità e al contempo non sorpreso da essa: se invero l’esercito nemico aveva levato il campo da Nervesa, era ovvio che prima o poi i rispettivi soldati si sarebbero imbattuti e scontrati tra di loro. “Non si tratta soltanto di una manovra dimostrativa o d’avanscoperta”, confidò infine il patrizio i suoi sospetti ai due capitani di ventura, “bensì di uno specchietto per le allodole: mentre noi ci focalizziamo su monsignore di La Peliza e i suoi gendarmi, i saccomanni e i cavalleggeri francesi ci saccheggiano alle nostre spalle i mulini del Sile e tutte le terre della bassa lungo la Piave. Astuto, il franzoso.”

“Non è improbabile che i suoi si trovino ancora lì”, commentò cupo l’Orsini, non avendo considerato anche quell’aspetto del piano del generalissimo francese.

“Allora ripaghiamolo della stessa moneta”, suggerì Vitello Vitelli, raddrizzandosi in sella. “Domanderò al capitano Piero da Novelon di darmi dodici dei suoi archibugieri per rimpolpare la mia compagnia, oltre a cento fanti, i quali si staccheranno e cavalcheranno fino a Melma a difesa dei mulini e in particolare per spazzar via questi molesti mosconi gallici.”

“Oramai quest’assedio avrà luogo, è ufficiale”, concluse il capitano delle fanterie, acconsento immediatamente alla richiesta del collega di cedergli gli uomini necessari alla sua manovra. “Possiamo soltanto posticiparlo di qualche giorno, ma non più evitarlo.”

“L’importante”, rimarcò gravemente sier Zuam Paulo, “è che i loro esploratori non s’avvicino mai a Porta Altinia, poiché sappiamo corrispondere al nostro punto debole. Mi recherò subito a conferire coi connestabili alla porta e ai bastioni adiacenti, nonché coi loro bombardieri. Anche il Castello che presidia la via per Mestre verrà allertato.”

“Alcuni nostri esploratori ancora non sono rientrati dalla loro perlustrazione: voglia il Cielo che già stasera scopriremo l’esatta ubicazione del nuovo accampamento nemico”, s’augurò Vitello Vitelli, mentre Renzo di Ceri domandò al provveditore:

“Orlando da Bergamo ha ripreso la sua postazione sul campanile di San Nicolò?”

“Dobbiamo ringraziare quel formidabile capo-bombardiere, se abbiamo avvistato immediatamente monsignore di La Peliza”, gli rivelò sier Gradenigo, trattenendo a stento un sornione sogghigno soddisfatto e ringraziando l’occhio di falco del bergamasco. “Bisognerà raddoppiare la guardia e rimanere vigilantissimi: la Peliza ha fatto la sua mossa e non si può escludere che sia perfino riuscito a convincere i Todeschi a riattraversare la Piave. Ricordatevi, che quest’ultimi ritornano con provviste, artiglierie e munizioni sottratte alle roccaforti della Patria del Friuli. Ergo, ora come ora dobbiamo attenderci ogni sorta d’iniziativa da parte dei Collegati.”

“Possano crepare all’inferno, se s’avvicinano a queste mura!”

“Dio v’esaudisca, capitan Lorenzo Orsini degli Anguillara, Dio v’esaudisca …”

Ignari di quanto si pianificava all’interno di Treviso, il maresciallo de La Palice, i capitani du Boisy, du Molard e Giulio Sanseverino studiavano in un misto di stupore e sgomento le nuove e robuste mura difensive, chiedendosi se in verità non avessero fatto stavolta il passo più lungo della gamba.

In tale massiccia opera bellica già altrove s’erano imbattuti, ma mai costruita in sì poco tempo, come se Treviso li avesse sempre attesi, pronta a combattere.

“Non è una città”, mormorò esterrefatto Sanseverino, “è una fortezza vera e propria!”

Sbatteva le ciglia, incapace di conciliare i vaghi ricordi d’infanzia, che possedeva della capitale della Marca, con quanto gli si stava presentando innanzi. Nelle occasioni in cui aveva transitato per Treviso – quando appena decenne aveva accompagnato i suoi fratellastri Galeazzo, Gaspare e Antonio Maria ad una giostra a Venezia o semplicemente quando da lì si recava per raggiungere i feudi di Cittadella di suo padre, il fu Roberto Sanseverino, condottiero della Serenissima -  Giulio si sovveniva di antiche e cadenti mura piombate, alte, merlate, costruite di pietre cotte come ai tempi degli Scaligeri, facilmente abbattibili da pochi colpi di cannone. Le undici porte cittadine le aveva viste chiuse poi da un risibile catenaccio, manco si trattassero del recinto di una fattoria. E la città, appunto, espansa notevolmente fuori dalla mura in otto popolosi borghi, gaudente e sonnacchiosa.

Nulla di tutto ciò era rimasto, tranne il vorticoso abbraccio del Sile e della Botteniga che assieme ai tre Cagnan circondava possessivo Treviso, due fiumi di risorgiva venerati sin dai tempi antichi, prima ancora dei Romani, dove valorosi guerrieri lanciavano le loro spade in offerta alla Grande Dea Madre loro protettrice.

“Abbiamo assediato fortezze ben più sofisticate”, scrollò le spalle Soffrey du Molard, che in diciassette anni di guerre in Italia poteva ben vantarsi di aver ammirato (e distrutto) numerose roccaforti e città, “queste mura, anche se nuove, non resisteranno ai cannoni che ci arriveranno dal Friuli. Men che meno a quelli ferraresi giuntici da Vérone. E non sarà certo un misero fossato e un po’ d’acqua sporca a fermarci”, aggiunse tracotante.

Al che il Sanseverino digrignò i denti, infastidito da cotanto pressapochismo. “I nostri cannoni non potranno niente contro la forza di ben due fiumi, poiché quest’ultimi ci impediranno anche solo d’avvicinarci alla città”, ribadì in un soffio. E proseguendo: “Il mio signor padre, il fu Roberto Sanseverino d’Aragona, mi raccontò che, nel 1356, il re Luigi d’Ungheria aveva provato a costruire delle gallerie sotto le mura di Treviso, ma il terreno era talmente impregnato d’acqua da far crollare la loro volta, seppellendo vivi i genieri!”, e il labbro inferiore del capitano delle fanterie guascone tremò impercettibilmente dinanzi a quella macabra vicenda militare, immaginandosi assai vivamente le urla di quei disgraziati, soffocati da fango e acqua.

“Tutte le fortezze posseggono un punto debole”, intervenne La Palice per togliere d’impaccio il suo ammutolito connazionale. “Basta trovare quello di Trévise e lì bombardarlo senza tregua, finché non s’otterrà una breccia. Dopodiché, costruiremo delle zattere per entrare in città.”

“Ma cosa ci attenderà, lì dentro?”, cogitò ad alta voce Sanseverino. “Se così velocemente hanno eretto una cinta muraria alla moderna, chi ci assicura che non abbiano avuto tempo e modo di costruire un controfosso all’interno, subito dopo le mura?”

In quel caso, gli assedianti si sarebbero trasformati in sorci in trappola, alla mercé della furia degli assediati, i ruoli rovesciati.

“Finora sembra che sparino soltanto dai bastioni …”, allungò il collo du Boisy, seguendo i movimenti dei sedici cavalleggeri mandati in avanti in esplorazione.

“Magari è quel che ci vogliono far credere”, storse la bocca La Palice. “Attendono che i nostri si spostino davanti ai bastioni e lì colpiscono, acciocché non si sospetti l’esatta ubicazione della loro artiglieria.”

“Le avranno posizionate anche lungo le mura? All’interno?”

“Non si deve escludere come possibilità.”

Un ritmico e sordo rullare di tamburi interruppe bruscamente il maresciallo, costringendolo a fissare interdetto il gruppetto di sedici che, disobbediente agli ordini impartitogli, aveva fatto scompostamente dietrofront e stava cavalcando rapidissimo verso le loro fila.

“Guardate!”, indicò allarmato Giulio Sanseverino, “hanno aperto Porta San Tomaso!”

I tre comandanti francesi aguzzarono la vista, afferrando di riflesso le redini delle rispettive cavalcature. Dietro ai fuggitivi, infatti, usciva una colonna compatta tra balestrieri a cavallo e stradioti, occupando a guisa di fiume in piena quasi l’intero orizzonte davanti a loro. Tra di essi riconobbero immediatamente i capitani Vitello Vitelli e Troilo Orsini che portava il vessillo dorato di San Marco, assieme agli altri capi degli stradioti - i Paleologi, Giorgio Rati, Andrea Pera, Dimitri Megaduca e Teodoro Clada.

“Tenete il passo!”, ordinò Vitelli, al che i giovanissimi tamburini tradussero musicalmente l’ordinata marcia da mantenere. “Se ad un tiro di balestra i francesi ancora non si schiodano dai loro posti, liberissimi di caricarli! Nessun prigioniero, tranne per: La Palissa, du Molart, il Boissi e Sanseverino!”

“Marco! Marco!”, risposero in coro i balestrieri e gli stradioti, quest’ultimi battendo la zagaglia sulle targhe a mo’ d’accompagnamento ai tamburi.

I marciani procedevano in tal guisa lentamente al ritmo cadenzato dettato dai tamburini, i muscolosi cavalli che battevano impazienti gli zoccoli sul fango, sollevandolo; al contempo, la loro marcia possedeva un ché di pesante e minaccioso, le armi di ogni soldato pronte all’uso, senza però mai cedere all’impulso d’accelerare e caricare l’avversario.

“Marco! Marco!”

Il messaggio appariva inevitabilmente lampante: se i francesi non avessero ceduto il terreno, avrebbero trovato guerra e morte sotto le mura. Mancò pochissimo che ambedue gli eserciti si squadrassero specularmente dritti negli occhi, respirando i soldati malamente e scoccando sguardi ora supplici ora ansiosi verso i rispettivi comandanti, che li dessero un ordine chiaro e preciso, se attaccare o indietreggiare o continuare a marciare, ma che non li abbandonassero lì nel dubbio.

“Per oggi ritiriamoci”, proferì infine il maresciallo La Palice dopo un lungo e meditabondo silenzio, cedendo dinanzi all’impossibilità d’uscirne vivo in caso di scontro e apprendendo quanto oramai la sua dimostrazione di forza avesse perduto efficacia, a confronto di quella veneziana. “Fate suonare la ritirata! Senza dare le spalle, non finché non saremo fuori tiro!” e i tamburini francesi fecero da contrappunto a quelli marciani, in un guerresco concerto.

Gradualmente, la linea dei Collegati indietreggiò, guadagnando terreno rispetto a quella veneziana, che anzi aveva rallentato il ritmo di marcia, una volta afferrato il piano dell’avversario.

“Ho commesso un errore”, ammise a malincuore La Palice a du Molard e du Boisy, aggiungendo poi a denti stretti: “Non saremmo dovuti venire in un sol gruppo. Domani ci presenteremo in più distaccamenti: uno qui a Porta San Tomaso; uno a Porta Santi Quaranta; uno a Santa Bona; uno a Fontane ed uno infine a Melma. E lo vedremo, se les Vénitiens posseggono abbastanza gente per rincorrerci in tutte le direzioni!” e detto questo calò irritato la celata dell’elmo, avendo incominciato a piovere.

Vous avez seulement gagné un autre jour de paix, pensò rancoroso il generalissimo francese, battendo gli speroni sul fianco del cavallo. “A San Giorgio e a Torre di Maserada!”, comandò ai gendarmi e lancieri.

Le milizie francesi sparirono così all’orizzonte dopo aver guadagnato sufficiente terreno per voltarsi e galoppare via, senza però accorgersi del drappello di marciani che, staccatosi dalle retrovie dei balestrieri e stradioti, le rincorrevano in via parallela in direzione di Melma.

 

***

 

Rientrato fumante d’ira eppure calmissimo all’Abbazia di Sant’Eustachio, Mercurio Bua prese subito da parte Leka Busicchio e, ordinato ai suoi stradioti di non essere disturbato per nulla al mondo, riferì al collega quanto svelatogli dal conte Gianfrancesco di Gambara, omettendo convenientemente la bislacca profezia da parte del bresciano, che più di ogni altra cosa l’aveva turbato.

Leka aveva ascoltato ogni dettaglio in rigoroso silenzio, le gote che gli si tingevano di vermiglio ad ogni spiacevole rivelazione, in particolare quando Mercurio gli presentò anche le dichiarazioni del suo prigioniero, confrontandole con quelle del Gambara. I due notarono troppe coincidenze da considerarle semplici calunnie per invidia o i vaneggiamenti di un moribondo, semmai vi scovarono una logica precisa, cinica e affatto onorevole nei confronti dei loro sforzi per vincere quella dannata guerra.

“E se corrispondesse ad una strategia per aizzarci l’uno contro l’altro?”, vociò infine Busicchio il suo intimo dubbio, tormentando i guanti di cuoio. Avevano favellato in greco, acciocché nessuno dei comandanti italiani e francesi potessero origliare per caso i loro discorsi. “Il conte di Gambara non ha mai dimostrato una grande trasparenza nelle sue alleanze …”, esplicò molto diplomaticamente la sua opinione, poiché neppure il Bua rifulgeva di cristallina fedeltà verso i suoi committenti.

Nondimeno, il greco-albanese non sembrò darsene cruccio, ribattendo piuttosto: “L’ho pensato anch’io, che credi? Tuttavia, congetture sospette a parte, nei fatti concreti né il Gambara né il veneziano hanno mentito” e si alzò dallo sgabello, pigliando la brocca e servendo sia lui che Leka di un abbondante boccale di mosto. “Certo, se davvero Maximilianos avesse per piano di pugnalare Loudovíkos alle spalle, dopo aver terminato la conquista della Terraferma veneta, obiettivamente a noi ciò non farebbe né caldo né freddo.”

“Purché l’Imperatore non cambi partito in piena guerra, ché noialtri saremo i primi a crepare, sgozzati nel sonno dai nostri ex-alleati. M’inquieta questa sua improvvisa richiesta di pace”, commentò secco Leka, paventando un voltafaccia del Re dei Romani ante di permettere alle sue truppe d’allontanarsi in un posto sicuro. “In ogni modo, non m’appare malvagia come strategia: alla fine, noi serviamo Maximilianos e ci troveremmo sul carro del vincitore, no?”

Mercurio roteò il boccale, studiando assorto il liquido spumoso dentro d’esso. “Io bado ai fatti”, asserì grave, “e quest’ultimi mi stanno parlando chiaro: riservandoci il medesimo trattamento dei francesi, Maximilianos ci ha dimostrato quanto poco gliene cali di noialtri, anzi, pure ci cava dalle spese.”

“Ma …”

“Se davvero ci considerasse alla pari dei suoi soldati, perché ci ha impedito d’attraversare la Piave e di rifornirci in Friuli?”, lo interruppe veemente il Bua, zittendo un intimidito Busicchio, che s’ingobbì quasi su se stesso, sopraffatto da quello scatto violento.“Se davvero ci tenesse a noialtri, perché non muove quel suo culo austriaco e non si presenta qui, a combattere al nostro fianco? Sul serio quell’inconcludente pusillanime è convinto, che per amor suo il re Loudovíkos gli regalerà altre milizie e danari? Per chi l’ha scambiato? Per un Monte di Pietà?”, proseguì furioso Mercurio, puntando l’indice contro Leka, che boccheggiava sconvolto una parvenza di replica, abortendola subito dopo, appurando la sua incapacità di ribattere a quelle lecite obiezioni. “Quello che abbiamo, abbiamo per quest’assedio: il Re di Francia non ci invierà altro, poiché, contrariamente a Maximilianos, non spreca né tempo né uomini a casaccio.”

“Di sicuro gli imperiali già staranno rientrando a Nervesa e …”, farfugliò spaesato Leka, sudando freddo. “E così … così … supereremo di gran numero i veneziani a Treviso … Insomma, non vuole il Re di Francia risarcirsi tramite bottino?”

Il condottiere greco-albanese sogghignò malevolo. “Quale bottino? La conquista di Treviso andrà soltanto a vantaggio di Maximilianos, non certo di Loudovíkos, poiché così hanno deciso nei patti di Cambrai: la terraferma veneta e tutte le sue ricchezze passeranno all’Imperatore. Quindi o il Re di Francia rompe l’alleanza con l’Imperatore e si prende per sé Treviso, oppure s’impegnerà il minimo indispensabile e il biasimo cadrà su Maximilianos, che non è intervenuto tempestivamente.”

“E noialtri?”

“Tra i due medici litiganti, chi ci rimette è il paziente”, sentenziò amaramente sardonico Mercurio, ritornando a sedersi accanto al collega. “Noi moriremo, amico mio, e nessuno ci ringrazierà.”

Il capitano stradiota abbassò il capo, colto da subitanea e frustrata rabbia: sapeva d’essere un mercenario, una spada in vendita, eppure possedeva abbastanza amor proprio da non voler essere sacrificato per colpa dell’altrui idiozia o avidità. E si dolse della sua miopia, per non aver saputo decifrare in tempo gli strani e contradditori atteggiamenti del Re dei Romani: tanto prodigo e affabile, quanto doppio e opportunista, che si cuciva il manto di gloria con le altrui pelli.

Leka si morse il labbro inferiore, spiando di sottecchi la figura immobile e bellicosa del suo collega; per un istante, nutrì una certa invidia verso di lui, rimpiangendo di non possedere il medesimo intuito né la sfacciata ambizione d’imporsi, anche di malagrazia, tra i grandi della terra. Mercurio Bua Spata dettava le sue condizioni per servire come voleva lui, non il suo committente.

“Che facciamo allora? Non possiamo disertare.”

Il Bua intrecciò pensoso le dita tra di loro, portandole sotto il mento. “Niente per il momento: tacciamo e fingiamo ignoranza, ma al contempo accarezziamo i francesi e ce li facciamo amici”, bisbigliò pianissimo a qualche centimetro dalla faccia di Leka. “Se la congettura del Gambara dovesse rivelarsi una calunnia e una strategia per seminare zizzania, rivelandola troppo presto a La Palice noi ci macchieremmo di tradimento e ci impiccherebbero senza neppure darci l’ultima assoluzione. Tuttavia, se il conte stesse dicendo la verità? T’immagini quali benefici possiamo trarne da Loudovíkos?”

“Il quale non sarà contento d’apprendere, come il suo alleato stia progettando di sottrargli Milano, per ridare il ducato ai due Sforza esiliati.”

“Utili marionette dell’Impero, riportando quest’ultimo alla medesima espansione dei tempi antecedenti al Barbarossa: questa è la grande missione di Maximilianos”, convenne il Bua, riproducendo nella sua mente l’ultimo suo incontro tête-à-tête con Maximilian, la sua faccia dal naso deforme, la sua stazza robusta, il suo carattere sanguigno e collerico ben mascherato da cavalleresca cordialità.  

Il greco-albanese riascoltò i progetti dell’Imperatore, pronunciati enfaticamente dinanzi ai suoi comandanti, cancellieri e cortigiani, di come rivendicasse all’Impero il Friuli e la contea di Gorizia; di come considerasse la maggior parte delle città venete appartenenti alla camera imperiale e soprattutto di come insistesse intransigente sui diritti ereditari che deteneva sulla Marca Trevigiana. L’Habsburg s’era perfino spinto a progettare per Venezia un destino di città libera assoggettata all’Impero, che avrebbe inglobato tra quelle della Lega Anseatica, fruttandogli enormi ricchezze e rendendolo il re dell’universo mondo, una volta che avrebbe sconfitto, grazie alle sue nuove galee, i Turchi.

Il condottiere ri-analizzava gli estasiati elogi dell’adulante seguito di Maximilian, di quel lodarlo come un rapido decisionista contrariamente a quel temporeggiatore di suo padre, il fu imperatore Friedrich. Decantavano la sua genialità e il suo coraggio fuori dall'ordinario, che lo precipitavano nelle avventure più arrischiate, chiamandolo osannanti “l'Ultimo Cavaliere”. E a Mercurio non era sfuggito lo sguardo di trionfo dell’Imperatore, quel suo darsi arie ieratiche da predestinato, da Cesare Augusto redivivo, da Carlo Magno, gloriandosi fino alla nausea delle sue vittoriose scaramucce contro i francesi di Louis XI e gli Ungheresi e le città venete che gli avevano praticamente aperto le porte senza manco combattere, cozzando contro la magra figura di Maximilian a Padova, in un vero, cruentissimo assedio.

Sicché, ripensando a tutto questo e specialmente al volto del Re dei Romani con la sua espressione perennemente soddisfatta e benevola di chi non aveva mai dovuto lottare in vita sua per il proprio posto al mondo, che Mercurio allargò perfido il sorriso mentre una sadica gioia gli fluiva nelle vene, realizzando che lui – un semplice condottiero, un nobile decaduto, uno straniero di poco conto – poteva intralciare questa sorta di semidio in terra, sconvolgendogli i piani; lui poteva competere con un sovrano; lui poteva umiliare un Habsburg.  

“Se il Gambara ha affermato il vero”, gongolò perversamente il Bua, tremando quasi dall’emozione che tale notizia gli procurava, “allora egli m’ha conferito un enorme potere sull’Imperatore, il potere di distruggere i suoi sogni di gloria e di conquista e di consegnarlo alla Storia come un perdente” e levando lo sguardo verso Leka, continuò esaltato: “Un potere, di cui ho intenzione di giovarmi alla prima occasione a noi favorevole. Noi non moriremo in questa guerra, amico mio. Noi sopravvivremo e pisceremo trionfanti sulle tombe dei nostri nemici!”

Busicchio grugnì un risolino, coprendosi velocemente la bocca onde soffocarlo e non destar sospetti.

“Nel frattempo”, decise pragmatico il greco-albanese, accomiatandosi dallo sgabello, “continuiamo la nostra recita. Pallavicino e Trivulzio si trovano al ponte in attesa degli imperiali: direi di recarci lì anche noi e di aiutarli.”

“La Palice ti tiene in grande stima”, puntualizzò Leka, trattenendo il collega all’ultimo. “Forse anche a lui interesserà salvare la pelle, dovesse quest’assedio presentarsi più complicato del previsto …”

Mercurio annuì pensoso: effettivamente, a quell’aspetto non ci aveva pensato. A Louis più di tanto non importava dell’esito dell’assedio, tuttavia sarebbe stato sollevato nell’apprendere del ritorno a Milano del suo maresciallo, sano e salvo e in un sol pezzo, no?

Di sicuro, considerato che fino a sera non potevano spostarsi comunque da Nervesa, al capitano di ventura non rimaneva altro passatempo, se non di riflettere e valutare i mille scenari  spiegatisigli innanzi.

 

L’ennesimo sgradito crampo serrò le viscere d’Hironimo, manco lo stessero straziando con le medesime tenaglie di San’Agata e Sant’Apollonia e di conseguenza interrompendo all’improvviso la sua litania di preghiere. Il giovane si strinse il ventre cogli avambracci, piegandosi in due in avanti, fin quasi a sbattere la fronte per terra, accucciandosi, le orecchie piene degli acquosi gorgoglii seguiti da spasmi muscolari. Aveva già vomitato appena destatosi, la bocca impastata d’un retrogusto rancido; in seguito, erano incominciati quei dolori atroci allo stomaco e una gran voglia d’evacuare, malgrado il patrizio si stesse trattenendo con tutto se stesso, serrando testardo le gambe.

Purtroppo per lui, la pressione aumentò al punto che Hironimo avvertì fluire liquidi anche involontariamente, eludendo la sorveglianza sempre più fiacca dei suoi muscoli. Sicché, costretto ad arrendersi all’evidenza che gli avevano dato da bere acqua marcia e che nulla l’avrebbe salvato dalla dissenteria, il giovane preferì sopportare ai suoi termini quell’ennesima umiliazione, piuttosto di lasciarsi cogliere impreparato. Oramai il suo naso aveva perduto ogni facoltà di distinguere gli odori, tanto l’aria mefitica della cella s’era ammorbata d’ogni sgradevole puzzo.

Alzandosi incerto sulle gambe, Hironimo avanzò a tentoni al buio, seguendo il perimetro murale fino a giungere al primo angolo disponibile. Lì si sollevò la tunica, si cavò di dosso le mutande, allargò le gambe e concesse quel breve sollievo al suo corpo, in realtà il primo passo verso la più umiliante delle morti. E mentre gli si bagnavano le gambe, il viso gli si rigò specularmente di lacrime: pur rassegnato del suo destino, al contempo non voleva lamentarsi con Dio e la Madonna anche di quello, non giudicandosi degno di altre richieste. Ciononostante, il suo cuore non riusciva a non protestare l’ingiustizia di crepare in maniera sì degradante, per quanto adeguato contrappasso per la sua naturale superbia.

Aveva già domandato troppo alla Vergine d’intercedere presso il Padreterno, onde risparmiarlo dal fuoco dell’inferno. Pure doveva rincarare la dose di pretese, di una morte onorevole e famosa? Non montarti la testa, Hironimo, ti basti ciò che t’è stato concesso.

Finito ch’ebbe, il giovane si trascinò cauto dalla parte opposta del suo gabinetto di fortuna, guidato dalla fioca luce della fessura della porta, raggomitolandosi lì accanto nel tentativo di respirare un poco d’aria fresca e di schiarirsi il cervello divenutogli una massa informe di lana grezza, tanto la scarsa ossigenazione unita alla febbre gli provocavano capogiri ed emicranie. Si leccò le labbra secche, raschiandosi la gola e sputando catarro. Dopodiché, spogliatosi della tunica, l’appallottolò e se la pose sulla pancia, così da riscaldarla e attutire i crampi.

Infine, riprese a pregare.

Ed orando, ricordava e meditava sulla sua breve vita, sugli errori commessi, sulle sue superficialità ed ingratitudine. In particolare, lo tormentava il pensiero angoscioso di non poter riappacificarsi con la sua famiglia, di non poter chieder perdono a coloro che aveva offeso e, rimpianto più pesante da digerire, di non aver alcuna possibilità di rimediare, di dare un senso e una direzione alla sua esistenza.

Sebbene nato nel privilegio e nell’abbondanza, mai aveva considerato d’usarli per dare un utile e cristiano contributo alla società; non aveva mai voluto migliorarsi né nello studio né in un’occupazione, vivendo sugli sforzi altri. Accecato dall’egoistica ricerca di felicità e di piacere personale, s’era trasformato in niente di meno d’un parassita, una sanguisuga. Eppure da bambino era sempre stato così proattivo e pieno d’idee! Quanto s’era impigrito nella mollezza degli agi, il suo ingegno impiegato soltanto al soddisfacimento delle sue immediate voglie. Ripensò invece ai suoi primi anni, quando progettava di divenire Capitano Generale da Mar e d’emulare le famose imprese del suo trisavolo sier Zuanne Miani; quando seguiva contento Madre nelle sue opere di carità; ripensò ai suoi maestri, all’agostiniano don Jacomo Batista Aloisi e ai Canonici Regolari, i quali avevano tentato d’educargli la mente e il cuore, per farlo crescere nella pietà e nel buonsenso.

Virtù ambedue per troppi anni bellamente trascurate, adesso però rifiorite spontaneamente: buonsenso perché Hironimo vedeva e comprendeva i suoi errori e altrettanto chiaramente progettava e anelava tantissimo di porvi rimedio; pietà perché comprendeva come Dio fosse sempre stato presente nel suo cuore e nella sua mente, per quanto il giovane patrizio l’avesse accantonato per idoli più appaganti e lusinghieri, soffocando e tacendo la Sua presenza nella melma dei vizi in cui era caduto, specialmente durante la sua breve carriera militare. Si dolse, Hironimo, di aver dovuto aspettare l’ora della sua morte per rientrare in se stesso, usando le parole della parabola del figliol prodigo, da lui conosciuta fino alla nausea e pertanto su cui mai s’era particolarmente soffermato a meditarne i profondi contenuti.

Ora si sentiva come quello stolto e viziato ragazzo, che aveva disprezzato l’amore del padre, la sua buona fortuna per una vita di vuota e inconcludente voluttà. Sarebbe però riuscito come lui, si chiedeva Hironimo, ad alzarsi dal porcile e partirsene per invocare perdono?

Era impossibile, si disse.

Anche se percepiva una certa purificazione della sua anima, che diveniva più leggera e serena, allo stesso modo essa si stava disancorando dal suo corpo sfinito dalla malattia e dalle sevizie. Umanamente prevedendo, era destinato a perire, forse quel giorno stesso, o l’indomani o fra qualche settimana … Hironimo pregava e piangeva, supplicando di morire bene, d’evitargli la morte eterna. E tuttavia … morire a neanche venticinque anni, nel fiore della sua giovinezza, all’apice delle sue forze sia fisiche che mentali … Aveva sprecato tante occasioni, lo ammetteva, ma terminare così la sua esistenza, senza una possibilità di riscatto?

Nell’angolo più oscuro e più tenace del suo cervello gridava una voce ben chiara, che no, non voleva un tale triste e anonimo epilogo, che non avrebbe gettato all’ortiche gli insegnamenti dei suoi genitori, dei suoi maestri, riducendoli ad una misera conversione in punto di morte. Sarebbe corrisposta all’ennesima ingratitudine da parte sua.

Ieri t’eri tutto rassegnato di morire e avevi accettato la tua sorte e oggi, all’improvviso, domandi di scamparla? Sei davvero un codardo!, gli rimproverò un’altra voce dentro di sé.

Taci! , gli rispose caparbia quell’altra. Sì, voglio vivere, voglio ritornare in libertà, ma non per continuare la vita di prima! Voglio porre rimedio ai miei sbagli, voglio genuinamente espiare le mie colpe, voglio riacquistare grazia presso Dio!

Parli così perché ti stai – letteralmente – cagando addosso all’idea di crepare in una cella buia, umida e puzzolente. Una volta libero ti dimenticherai di ogni tua promessa e saremo daccapo: muori invocando perdono, è più onorevole!

Hai ragione, sono sempre stato un bue tardo. Ma ciò non significa ch’io mancherò di provarci e riprovarci, anche nel fallimento! Padre mi disse, che un uomo che non sa mantenere la parola data non vale nulla ed io … io m’impegno a ritornare ad essere degno d’appellarmi cristiano …

“… qual vuol grazia e a Te non ricorre, sua disïanza vuol volar sanz'ali …”, mormorava Hironimo incessantemente la preghiera dantesca, riflettendo su ciascuna parola, dandosi coraggio e vigore nella sua risoluzione, che non fosse dettata dal capriccio di un momentaneo terrore, bensì di una concreta proposta di vita.

Un’altra reminescenza gli volò dinanzi agli occhi: Hironimo si rivide bambino, furtivamente zampettando in camera del suo omonimo prozio, sier Hironimo Miani “il Pizzochero”, il quale da giorni giaceva ammalato nel suo letto, confortato dai parenti ed in particolar modo dal suo padre spirituale, uno dei Canonici Regolari, che veniva ogni giorno a confessarlo, a pregare e a leggergli testi sia biblici che di teologia in generale. Sier Hironimo non aveva mai goduto di buona salute e ora che la fibra resistente della gioventù aveva lasciato posto a quella delicata della vecchiaia, pur avendo raggiunto un’età veneranda, egli soffriva più acutamente ogni malanno che si buscava e quello, alas, sarebbe stato quello fatale.

Hironimo aveva nutrito una particolare predilezione verso quel suo prozio, il quale si dimostrava comprensivo e dolce nei suoi confronti, quasi un benevolo nonno, invece di quel ruvido burbero di suo figlio, sier Zuan Francesco, che lo rimprovera costantemente, appellandolo “pendaglio da forca” due giorni su tre.

In quel ricordo, Hironimo era scivolato di nascosto nella stanza dell’ammalato, sedendoglisi accanto e cullando la sua grande mano rugosa e sottile tra le sue cicciotte e piccoline, quella mano appoggiata su “Le Confessioni” di Sant’Agostino. Il suo prozio s’era destato dal sonnellino, sorridendogli a mo’ di saluto e guardandolo teneramente con quei suoi grandi occhi buoni.

Il giovane patrizio non si sovveniva esattamente di ogni parola scambiatasi tra di loro in quell’ultimo incontro terreno, tranne del regalo che “il Pizzochero” gli fece, la famosa lettera di don Paulo Maffei, il canonico regolare che, moltissimi anni addietro, aveva rifiutato l’allora adolescente e postulante sier Hironimo, la cui salute fragile non lo rendeva idoneo alla vita ecclesiastica. Nondimeno, il religioso lo aveva rassicurato che anche da laico poteva vivere da buon cristiano e che anzi, i suoi sforzi sarebbero risultati doppiamente graditi al Signore, poiché chi viveva nel mondo subiva maggiormente il morso delle tentazioni, rispetto a coloro che vivevano fuori d’esso. All’epoca, Hironimo era rimasto assai deluso da quel dono, avendo sperando in un balocco e i contenuti di quella missiva puntualmente obliati. Ora, però, gli riaffiorarono nitidissimi dal profondo mare della sua memoria e poteva quasi udire la voce flebile del prozio recitarglieli: “Procuri Hironimo di condurre una vita ordinata, raccolta, laboriosa e devota; fugga le cattive compagnie e le occasioni di peccato con la custodia attenta e perseverante dei propri sensi. Col prossimo usi la massima carità, negli esercizi di devozioni non ricerchi lo straordinario. I miracoli, le visioni, le estasi sono dono di Dio, anziché questi doni cerchi sempre la grazia santificante che rende accetti a Dio e non concepisce neppure un sentimento di invidia verso i privilegiati del Signore. Un confessore pieno di prudenza e di santo timore di Dio gli farà da guida nel difficile cammino della perfezione.”

“E quando ti senti lontano da Dio o indegno ai Suoi occhi, prega la Sua Santissima Madre, poiché nessuna grazia a Lei nega: in gremio Matris iacet sapientia Patris, nel grembo della Madre giace la sapienza del Padre!”, gli aveva rivelato sier Hironimo, indicando la copia dell’affresco miracoloso di Treviso, un regalo dei Canonici Regolari al loro benefattore e che “il Pizzocchero” teneva esposta in camera sua, davanti al suo letto quando ormai da esso non riusciva più alzarsi.

Ecco! Ecco dove l’aveva sentita quella frase!

Il giovane Miani si puntellò sui gomiti, aggrappandosi al ruvido legno della porta della sua cella e si sedette scompostamente sui talloni. Si sforzava di delineare i contorni sfocati di quel dipinto, ché sapeva aver scorto sia nel piccolo altare di famiglia sia nel Monastero della Carità, gestito dai Canonici, gli stessi che si trovavano a Santa Maria Maggiore a Treviso. Non aveva mai avuto tempo di lì recarsi, né per curiosità né per devozione, non nei suoi anni adulti almeno, forse da bambino, ma senza serbarne alcun ricordo. Eppure tutti in famiglia avevano nutrito una grande devozione verso di Lei.

Pieno di fiduciosa speranza, Hironimo congiunse le mani rattrappite dal freddo e si rivolse piangendo alla Madonna, sperando che non si scandalizzasse per quel suo improvviso cambio d’idea, domandandoLe umilmente un altro tipo d’intercessione.

“Madona Sanctissima, Verzene Maria”, si raccomandò allo stremo delle sue forze, “tante sono le mie sofferenze per i maltrattamenti e gli insulti inflittimi, ma nulla paragonato alle offese da me perpetuate verso il Tuo Dilectissimo Fiolo Jesu Cristo. So che a malapena merito di morire a Lui riconciliato, eppure Ti supplico d’intercedere per me presso di Lui, affinché mi sia concessa una seconda possibilità. Sulla mia vita, sul mio onore, Ti giuro che non fallirò stavolta. Mi correggerò e mi riporterò sulla retta via. Non Ti deluderò! Prometto, se riuscirò a riacquistare la libertà, d’andare in pellegrinaggio al Tuo santuario a Treviso, dove graziosamente operi miracoli per avvicinarci a Nuostro Missier Domeneddio e contemplare la Sua Divina Misericordia: mi recherò lì scalzo e in camicia, da penitente; farò celebrare Messe di ringraziamento …”

Per molte, molte ore Hironimo ripeté quel suo voto, insensibile a qualsiasi stimolo esterno e perfino i crampi non lo tormentavano più. In lui era finita la paura, esisteva soltanto quella promessa alla Madonna.

Tanto questa sua determinata orazione lo aveva privato delle poche energie rimastigli e di conseguenza indotto ad un breve assopimento, da non accorgersi di come avesse appoggiato il capo sulla porta, sicché, quand’essa s’aprì, il patrizio si ritrovò scaraventato malamente per terra, la vista traballante dall’impatto.

Rapido, tentò goffamente d’indossare la tunica, grato sia del buio sia d’aver avuto sufficiente premura di rinfilarsi le mutande, dopo i dolorosi affari nell’angolino. Purtroppo per lui, l’indumento gli venne tolto malamente di mano, mentre lo si afferrava per i capelli e lo trascinarono fuori dalla cella, spintonandolo violentemente contro il muro tra beceri insulti ed esclamazioni disgustate in un misto tra greco e albanese.

Neanche il tempo di capire che accidenti stesse succedendo, che una gelida secchiata d’acqua gli venne scaraventata contro, strappando ad Hironimo un gemito di protesta per quell’ennesimo supplizio alla pelle già di suo infreddolita. Un panno pesante – che il giovane Miani non capì se si trattasse di una coperta o di una mantellina – gli venne avvolto sulle spalle, che fungesse sia da telo per asciugarsi sia da vestimento. Dopodiché, il famigliare e sinistro tintinnio delle catene rivelò al patrizio come, dopo tanti tentennamenti, il campo finalmente si fosse deciso a levarsi e che dunque erano venuti a pigliarlo più per quel motivo, che per accertarsi delle sue condizioni. Non che personalmente gli facesse alcuna differenza – sempre prigioniero rimaneva – però almeno Hironimo, in cella, non aveva quella fastidiosa palla al collo a piegarlo a momenti a metà, né il ferro a raschiargli a sangue l’epidermide.

Ma muoversi da Nervesa significava avvicinarsi a Treviso e dunque la piccola, minuscola prospettiva che qualcuno dei suoi compatrioti mandasse una squadra per far incursione nel nuovo accampamento, liberandolo e costì permettendo d’adempiere al suo voto.

Traballando, l’ex-castellano venne scortato dai due stradioti fino al cortile dell’Abbazia; il cielo s’era scurito senza tingersi del tipico arancio del vespro, ingrigito dalle nubi livide e gonfie di quella pioggia che cadeva incessante, impregnando il terreno di fango rossastro. Uno scenario deprimente, che tuttavia Hironimo assaporò dopo giorni confinato in quella tomba di cella, annusando a pieni polmoni l’aria fresca e terrosa, il profumo del fogliame autunnale, della resina degli alberi e della pietra umida del monastero. Gli parve di ritornare un poco alla vita.

Quand’ecco, che un odore più nauseabondo distrusse quel piccolo suo idillio: tanfo di stoffa bruciata, proveniente da fuori le mura dell’Abbazia, infiltrandosi sornione e ammorbando qualsiasi cosa su cui si posasse, uomini, animali, piante.

“Capitano, siete sicuro di non volerlo mettere sui carri? Neanche si regge in piedi, ‘sto qua!”, discuteva nel frattanto uno dei due stradioti che sorreggeva per le braccia Hironimo, il quale trasalì, realizzando all’improvviso di trovarsi davanti a Mercurio Bua: il temporaneo accecamento, dovuto alla brusca esposizione alla luce dopo giorni di rigoroso buio, e lo spaesamento generale avevano impedito al patrizio di valutare l’ambiente circostante.

Il condottiere lo studiava dall’alto della sua cavalcatura con un’espressione tra il crucciato e lo schifato, segno che ancora l’arrabbiatura per la sua tentata fuga non gli era passata. I rivoli d’acqua piovana sul suo volto esacerbavano quei suoi lineamenti accusatori, così come il riflesso delle torce accese, svanendo ad ogni istante che trascorreva la luce diurna per quella serale. Il suo odio e disprezzo nei confronti del veneziano apparivano palesi ed Hironimo non glielo rimproverava, non tanto per aver progettato di scappare – reazione ovvia e naturale nella sua condizione – bensì per aver infierito, insinuando cattiverie su cattiverie nei confronti della moglie del Bua, ch’egli doveva amare assai, a giudicare da come arruffasse le penne ogniqualvolta la si menzionasse.

“Camminerà”, sentenziò brutale Mercurio, battendo sui fianchi del cavallo per raggiungere il suo soldato, il quale gli cedette immediatamente le catene onde condurre a piedi il suo prigioniero. “E se non cammina, lo scuoio a frustate!”, gli promise minaccioso, iniziando la marcia fuori dall’Abbazia.

I primi passi si rivelarono una tortura per Hironimo, non avvezzo a camminare scalzo e soprattutto in un terreno così scivoloso, affondando quasi nel fango. Scendendo la collinetta sulla quale s’ergeva l’Abbazia, più volte dovette puntare i talloni onde non rotolare giù, sbilanciandolo in avanti la palla di cannone al collo, il cui peso aumentava anche grazie al trotto del baio turco del Bua. Giunti sulla piana, il giovane Miani ansimò sfinito, respirando male, il corpo e il viso bagnato di sudore, pioggia e limo.

Approfittando di un attimo di pausa, Hironimo gettò indietro il capo e, aperta la bocca, catturò l’acqua piovana, assetato. Così facendo scoprì anche da dove proveniva quell’immondo fetore: l’intera tendopoli ai piedi dell’Abbazia era stata bruciata, sennonché la pioggia battente, avendo reso difficoltosa l’operazione, aveva costretto i francesi ad applicare olio e pece per conferire presa e vigore del fuoco contro l’acqua, ricreando uno scenario pressoché infernale.

Tale opinione dovettero condividerla anche le truppe tedesche appena rientrate dalla Patria del Friuli, osservando disorientate la desolazione che li circondava. Il grosso d’esse aveva ripassato la Piave portando seco un soddisfacente bottino composto da viveri, artiglierie, munizioni e anche da gente a servizio, questo sotto gli sguardi vigili dei comandanti Teodoro Trivulzio e Galeazzo Pallavicino, i quali avevano poi ordinato ai guastatori e genieri di staccare il ponte dagli ormeggi di sinistra e di pilotare i barconi lungo la corrente, in attesa di nuove istruzioni. 

Malgrado quindi un ritorno vittorioso, nessuno dei soldati francesi e italiani guardava con amore quelli tedeschi, né li consolava né rallegrava la prospettiva di mangiare finalmente qualcos’altro che non fosse pane nero, carne secca e mosto, semmai li portava a scrutare gli imperiali pieni d’odio, giurando a quegli opportunisti disertori vendetta alla prima occasione propizia. Infatti, non sopportavano di contemplare i tedeschi pasciuti e ben equipaggiati d’armi e danari, mentre loro – pur in diversa misura - avevano dovuto patire la fame e la malattia per rimanere fedeli agli ordini impartiti.

Il capitano Jacob Empser e i suoi compari avanzarono verso gli altri condottieri, allegri, spavaldi e ignorati degli strali lanciatigli da costoro. “Una vero successo”, si vantò il tedesco a voce ben alta, “siamo penetrati nella Patria del Friuli a guisa di coltello nel burro, catturando prigionieri di spicco” e guardò con sufficienza Mercurio e Hironimo, il quale, nelle condizioni in cui si trovava, pareva invero un villano qualunque, “abbiamo ammassato un ricco bottino, specialmente un gran numero di cannoni che aspettano solo d’essere trasportati. A parte qualche città ostinata, non abbiamo incontrato grande resistenza: questo significa che la gente ben conosce quale sia il suo vero padrone.”

Teodoro Trivulzio abbozzò ad un sogghigno di scherno. “Anche qui nella Marca, la gente ben sa chi sia il suo padrone”, replicò ambiguo e il marchese Pallavicino, assieme al Bua, allargarono la bocca in un sorriso poco raccomandabile, ogni screzio estinto dalla comune antipatia nutrita verso il capitano tedesco.

“Dove si trova il resto delle vostre milizie?”, s’informò spiccio Galeazzo, vociando la collettiva curiosità.

“A Gradisca d’Isonzo, al comando di Georg von Liechtenstein e di Fran Krsto Frankopan”, rispose prontamente il capitano Jacob, “dopodiché si muoveranno a Motta di Livenza e da lì ci raggiungeranno. Non abbiamo scordato la missione affidataci dal Kaiser.”

“Me ne consolo, per un attimo avevamo temuto il contrario”, asserì falsamente sollevato Mercurio, provocando un lieve rossore nelle guance del comandante tedesco. “In ogni modo, avrete occasione di narrare di persona le vostre favolose avventure al maresciallo La Palice, il quale ci attende a Torre di Maserada, dov’è stato allestito il nuovo accampamento.”

Il capitano Empser strabuzzò gli occhi. “Partiamo immediatamente?”, balbettò, guardandosi intorno. “Ma … abbiamo marciato senza tregua per giungere qui in tempo, almeno un giorno per riposarci ce lo dovete!”

A quella protesta un’esclamazione indignata gorgheggiò in risposta dalle gole del Pallavicino e del Trivulzio, mentre il condottiere greco-albanese contorse il volto manco soffrisse di coliche, spronando il suo cavallo ad avvicinarsi a quello del tedesco. E una volta avutolo a qualche spanna dal suo naso, Mercurio gli scoccò una tale occhiata, da eguagliare quella del dantesco Minosse al momento del giudizio delle anime dannate.

“Potete immaginare”, sibilò velenosissimo, “quanto ce ne può fottere, che voialtri siete stanchi?” e puntandogli contro l’indice guantato. “Il Gran Maestro di Francia ha parlato chiaro: stasera partiamo per Torre di Maserada e lì vi ci porterò, capitano Jacob, se vivo o morto impiccato, starà a voi deciderlo!”

Dall’alto della collinetta, ritti in piedi davanti al portone dell’Abbazia, l’Abate e il monaci benedettini osservavano silenziosi la colonna di fiaccole che si spostava in direzione di Treviso, nonché i falò e i densi fumi neri provenienti dalla piana sottostante. Man mano che l’esercito franco-imperiale s’allontanava, alcuni frati caddero in ginocchio, congiungendo le mani e piangendo il loro sollievo per la dipartita di quei satanassi in terra.

“Dio mi perdoni, se per la prima volta in vita mia auguro a qualcuno di crepare e anche male”, mormorò livido l’Abate, le nari frementi di rabbia dinanzi allo sfacelo e contaminazione di quel luogo di pace e di preghiera.

 

***

 

“Maledetto il budello cane delle loro mamme, ch’el diavolo se li mangi e li caghi in eterno!”, imprecava il governatore di Gradisca, il conte Baldassarre Rimbotti di Scipione, afferrando abilissimo la picca di un lanzichenecco: tiratolo a sé, gli piantò il pugnale sotto il mento, facendo fuoriuscire dalla bocca la lama insanguinata. Sfilatala, il senese scansò via il moribondo con un calcio, preparandosi in contemporanea a fronteggiare il prossimo avversario e a raggiungere i suoi fedelissimi al porticciolo, dove li attendevano dei sandoli e zopoli pronti a navigare l’Isonzo per portarli in salvo.

La rabbia del condottiero non era rivolta unicamente agli imperiali, che stavano dilagando peggio delle cavallette nella conquistata Gradisca, bensì nei confronti della sua medesima compagnia – quei figli di troia malnata! – che, esausti e falciati dalla peste, s’erano ammutinati e avevano aperto le porte ai tedeschi, accettando le tentatrici condizioni di resa da parte dei comandanti Georg von Liechtenstein e Fran Krsto Frankopan, guidati quest’ultimi dal re dei traditori, quello spergiuro di Antonio Savorgnan, il medesimo al cui fianco, fino a qualche settimana addietro, Baldassarre aveva combattuto a Conegliano e a Sacile, fidandosi del valore e della dedizione del conte friulano.

Gran bella cosa, invero!

A peggiorare le cose, Georg von Liechtenstein aveva imposto una taglia fortissima sulla testa del conte senese, desideroso di distinguersi agli occhi dell’Imperatore portandogli in dono il governatore in catene e così sia i suoi uomini sia quelli del Frankopan stavano rivoltando sottosopra Gradisca pur di catturare il temibile condottiero, soprannominato dell’Occhio a causa di una ferita procacciatasi in un duello, che lo rese, giovanissimo, guercio ma non per questo meno letale in battaglia. Ed fu infatti la tracotanza e dappocaggine dei lanzichenecchi e pandur croati a salvare Baldassarre di Scipione, poiché quegli sprovveduti, notandolo losco, lo sottovalutavano e lo affrontavano sbadatamente, ignari della sua maestria nell’arte guerresca.

“Chi è ancora vivo e chi è ancora fedele a San Marco, mi segua alle barche!”, gridò il condottiero al gruppetto di soldati marciani allo sbaraglio, mulinando la spada grondante di sangue in direzione del porticciolo, sperando che suo figlio Giulio e suo nipote fossero riusciti ad imbarcarsi in tempo. Li aveva perduti ambedue di vista nel furore della zuffa, non appena quei maledetti cani traditori s’erano ribellati, rivoltandoglisi contro.

Gli ultimi rimastigli fedeli, riconosciuta la voce del loro capitano, lo seguirono velocissimi, approfittando del buio e del marasma generale: conquistata la fortezza, molti degli imperiali stavano pensando più a far bottino, che a catturare prigionieri. Baldassarre, correndo tra i vicoletti oscuri e infilzando chiunque gli sbarrasse il cammino, riconobbe di striscio il suo paggio, malmenato ma con la picca in mano e, afferratolo per la manica, lo trascinò seco.

Un acuto coro di nitriti li costrinse ad arrestarsi, appiattendosi contro il muro: una fila di centottanta fanti friulani era riuscita ad accedere alle scuderie e ad appropriarsi dei cavalli, galoppando e caricando i soldati tedeschi e croati, sciabolati e calpestati senza alcuna via di scampo, le strade troppo strette per scansarsi e trovar riparo. Li guidavano Mathio, Todaro e Franceschin Spiron dal Borgo, quest’ultimo fermatosi un istante davanti al conte di Scipione.

“Ci apriamo una via tra questa marmaglia, signor Governatore”, gli comunicò concitatamente il condottiere friulano, “non ci sono sufficienti imbarcazioni per tutti: Marano la raggiungeremo a cavallo. Iddio sia con voi!”, si congedò, battendo di piatto la lama sul fianco del corsiero, sparendo inghiottito dalla notte e dalla bolgia infernale cittadina.

“Muoviamoci!”, intimò Baldassarre al suo paggio, le armi levate e pronti ad ogni attacco.

Sulla riva dell’Isonzo fluttuavano sandoli e zopoli carichi di soldati e di civili, ognuno che portava il minimo necessario per affrontare il viaggio fluviale fino a Grado.

“Salite! Salite! Rapidi!”, incitava i fuggitivi il provveditore sier Alvixe Mozenigo, aiutando le donne e sollevando lui stesso di peso i bambini, dalle gambe troppo corte per salire a bordo da soli. “Vai, vai! Calar i remi in barba! Bativóga!”, incitò egli sia il pope sia il provier dello zopolo, che si staccò dal barcharezo, raggiungendo gli altri già partiti.

“Padre!”, corse incontro Giulio al genitore e Baldassarre, malgrado la situazione disperata, si tolse un piccolo e rapidissimo sfizio d’afferrare il figlio dietro la nuca e di baciargli la fronte, ringraziando Iddio, la Madonna e la sua concittadina Santa Caterina per aver impedito la sua cattura. Fu inoltre lieto d’apprendere come suo nipote già si trovasse al sicuro sulle imbarcazioni dirette a Grado.

“Ora sali, svelto!”, spronò il condottiero senese suo figlio e il paggio, spingendoli su di un sandolo. Poi, rivolgendosi a sier Alvixe: “Signor Provveditore, Gradisca è perduta, le nostre compagnie in gran parte ammutinate. I Dal Borgo sono riusciti a scappare a cavallo, si stanno dirigendo a Marano con 180 uomini e armi.”

“E’ stato quel giuda iscariota d’Antonio Savorgnan a fomentare la ribellione, vero?”, fu la domanda retorica del Mozenigo, i lineamenti stravolti dalla fatica di giorni d’assedio serrato, appesantito dall’epidemia di peste.

L’ex-governatore mostrò i denti, esauriente risposta.

“Le artiglierie?”

“Perdute, signor Provveditore. Non siamo riusciti a chiodarle tutte in tempo.”

Sier Alvixe aspirò a fondo l’aria, portandosi una mano sugli occhi brucianti dal fumo e dal sonno arretrato. “Se Trevixo verrà conquistata per mano dei miei stessi cannoni, giuro che non me lo perdonerò mai finché campo”, dichiarò sconfitto e umiliato per aver perduto quella preziosissima fortezza in terra friulana, deludendo la fiducia della Signoria, privata adesso di ulteriori territori e sempre più indifesa.

Di sentimenti meno drammatici rimaneva invece il conte Rimbotti, che gli posò incoraggiante una mano sulla spalla. “Appena saremo approdati a Grado, voi portate questa gente in salvo in Istria, mentre io mi recherò a Marano, ricongiungendomi alle milizie dei magnifici messeri Giovanni Vitturi e Girolamo Savorgnan. L’Imperatore Massimiliano ha vinto una battaglia, non la guerra! Finché respiriamo, non gli concederemo un attimo di requie!”

E Alvixe Mozenigo capì infine, il motivo per cui il Re dei Romani voleva in catene l’indomabile condottiere, del cui coraggio e cinque ferite frontali il medesimo Re di Francia s’era complimentato, una volta avutolo dinanzi tra i prigionieri di spicco dopo la sconfitta d’Agnadello.

“Mi domando”, aveva confidato il sovrano al suo gran scudiero Galeazzo Sanseverino, “se faccia o meno un buon affare ad accettare il suo riscatto e a liberarlo”.

Buono forse per Louis, pessimo per Maximilian.

 

***

 

Tanto le vittorie ottenute nella Patria del Friuli avevano resi giovali e baldanzosi i soldati imperiali, tanto quelli francesi li tolleravano a malapena, marciando accanto a loro di malavoglia, ogni occasione buona per bisticciare, sicché i rispettivi comandanti s’erano ritrovati costretti a formare due gruppi separati, onde evitare d’attirare troppo l’attenzione, nella marcia notturna da Nervesa a Torre di Maserada e San Giorgio.

Hironimo procedeva zoppicando e barcollando in stato pressoché sonnambolico, a momenti trascinato da Mercurio, che lo costringeva a proseguire, altrimenti si sarebbe accasciato sul primo ciuffo d’erba disponibile. I ceppi e le manette gli stavano scavando sulla carne viva e i piedi erano divenuti un’informe massa di piaghe e fango; quanto al cerchio al collo, il peso talvolta diveniva talmente insopportabile da impedirgli di respirare appropriatamente, il che non si presentava ideale, considerato il catarro nei polmoni.

Dietro di lui lo seguivano gli altri prigionieri d’ambo i sessi, anche loro fiaccati dai maltrattamenti, dalla fame e dalla pestilenza. Ogni tanto qualcuno tentava una disperata fuga, approfittando di un attimo di distrazione dei soldati e soltanto per via del buio pesto si rinunciava ad inseguirli. Chi invece cadeva per terra e non riusciva a rialzarsi, finiva seccato da un lanzichenecco, morendo tra le risate sue e degli altri imperiali, tra le occhiate di biasimo dei francesi e degli italiani e quelle impotenti dei loro compagni di sventura.

Poi, si riprendeva in silenzio la marcia.

Il giovane Miani socchiuse gli occhi, concentrandosi sul dolore fisico, acutizzandolo onde rimanere vigile: non dubitava che il Bua l’avrebbe difeso d’analogo destino, al contempo però non s’azzardava a tentare la sorte, cadendo, poiché sapeva che difficilmente si sarebbe rimesso in piedi. Le sue labbra secche pertanto ripetevano mute continue litanie di richieste di soccorso alla Madonna, di proteggerlo, di liberarlo, di dargli la forza di continuare a camminare.

“No! No! Per pietade, no! Nol coparme! Nol coparme!”

Sia il patrizio che il condottiere greco-albanese si girarono di scatto verso quel grido angosciato, proveniente da un contadino, disteso prono per terra, il volto talmente pallido e sudaticcio da riflettere l’arancio delle torce. Il giovane uomo era inciampato su una qualche radice e tanto la febbre e gli stenti lo avevano debilitato, da impedirgli di sollevarsi, le sue braccia e le sue gambe troppo deboli da sostenerlo. Immediatamente, un soldato tedesco gli s’era parato davanti, punzecchiandolo con la punta della propria picca, intimandogli di rialzarsi. Ma questi piangeva e strisciava per terra, invocando una pietà che non avrebbe ricevuto.

“Ajudo! Mariaverzene ajudo!”, supplicava, coprendosi d’istinto il capo, come se bastasse proteggere quello per salvarsi la vita. “Ajudo!”, levò le braccia in direzione dei suoi compagni, che s’ingobbirono, afflitti e impotenti, già scansati via dalle picche dei lanzichenecchi che simili agli avvoltoi pregustavano il pasto di carne e sangue.

“Oh, Mariaverzene! Oh, Mariaverzene!”, e quella maschera di terrore e disperazione s’incrociò allo sguardo d’Hironimo, che tremò da capo a piedi, nascondendosi il viso tra le mani.

“Avanti, ammazzalo! Che bisogno c’è di giocarci?”, gridò snervato un mercenario italiano della compagnia del Pallavicino.

Il tedesco lo fissò, sorrise e levò l’arma per infilzare l’indifeso contadino.

“No! No! No!”

“No!”

La picca cadde a metà, tranciata in due con precisione chirurgica, studiandola il lanzichenecco incredulo e spaventato a morte.

“No”, riecheggiò di nuovo il ruggito di Mercurio Bua, il quale portava la punta della spada alla gola del mercenario imperiale. “Non ci saranno più esecuzioni”, riprese lapidario il condottiero, la cui voce tremava impercettibilmente come la sua lama. “Chi cade e rimane indietro, verrà lasciato indietro alla misericordia di Dio”, sentenziò e nessuno, neppure i comandanti suoi colleghi, ebbero il coraggio di contraddirlo. “Incominciando da te”, strisciò bene le parole a mo’ d’avvertimento, imitato dalla sua spada, ch’accarezzava, arrossandolo, il pomo d’Adamo del soldato tedesco, che intimidito rientrò nella sua fila. “E tu”, scudisciò Hironimo, il quale incassò in silenzio e senza colpo ferire, “guai a te, se ti cimenti di nuovo in queste momarie!”

“Ripartiamo!”, l’appoggiò il marchese Pallavicino e tutte le compagnie lì presenti, a testa bassa, obbedirono per una volta obbedienti e mansuete. “Avrete tempo e modo d’uccidere Veneziani!”

Hironimo s’accarezzò imperturbabile la nuova ferita, neanche fosse stato un estraneo ad aver subito la frustata, ponendosi in ginocchio e liberando l’incredulo contadino dalla prigione del suo corpo. Si levò il panno dalle spalle, rimanendo praticamente nudo tranne per le mutande, e avvolse il corpo febbricitante e tremante dell’altro, nettandogli via il fango dal volto rigato di lacrime e muco. “Dammi la mano”, disse al giovane, passandosi il braccio sul collo, aumentando così il peso già di suo notevole a causa della palla di cannone. Cinse poi la vita del villano, issandolo su. “Cammina con me, fradelo. Ti sorreggo io.”

Stringendo i denti e ignorando il dolore, la fatica, la pioggia battente che gli colava sul collo e sulla faccia, lo sforzo di sorreggere sia la balota di granito sia il corpo non proprio leggero del contadino, Hironimo si riportò accanto ad un pallidissimo e basito Mercurio, superandolo. Il greco-albanese si costrinse a ripigliarsi dal suo torpore, il cuore che gli batteva talmente forte in petto, che gli pareva di sputarlo. Un istante, un istante e il suo prigioniero gli era sfuggito letteralmente di mano, gettandosi a guisa di scudo sopra quel villano, proteggendolo dal colpo di picca.

Se non avesse posseduto riflessi abbastanza pronti …

Mercurio scosse il capo, inducendo un lieve trotto al suo corsiero. Sporgendosi in avanti, riprese le catene d’Hironimo, il quale lo fissò appena, riabbassando docile il capo e proseguendo imperterrito nella sua ciondolante e scoordinata marcia.

Non era stato il gesto folle del veneziano ad aver sconvolto il Bua – no, a quelli s’era abituato, reputando quella peste bubbonica capacissima di ogni stramberia.

No.

Era stato il suo sguardo, così fermo, imperscrutabile, lontano.

Mercurio ancora non riusciva a dargli un nome, ma sicuramente in esso non vi trovava un uomo spezzato, semmai il contrario.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Continua …

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Tre giorni di piogge consecutive portano consiglio  e mi sento molto solidale con ambedue gli eserciti, costretti a lavorare notte e dì sotto d’essa, cambiandosi soltanto in letto.

Ormai manca pochissimo al famigerato capitolo X e speriamo di renderlo al meglio!

Anticipo, ma lo ripeterò, che una volta terminata la seconda parte di questa storia, partirò con la revisione, che non sarà drastica, lo prometto, quindi non abbiate paura voi gentilissimi lettori che siete giunti fin qui.

Per una volta niente noticine: meglio per me!

Spero che questo capitolo vi sia piaciuto, alla prossima!

 

 

  
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