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Autore: Glenda    15/04/2021    1 recensioni
"Gau non aveva né padre né madre. Anche lui non li aveva, erano morti, ma in qualche modo c’erano stati e c’erano ancora. E poi c’era Edgar. Il padre di Gau invece non era lì, anche se era vivo."
Sabin porta Gau a casa del padre matto sperando che lo riconosca...ma le cose vanno come sapete.
Fan Fic sui sentimenti di Sabin in questa situazione.
Questa è la mia prima FF su un vidoegioco dato che non sono una giocatrice...Un anno di pandemia mi ha fatto avvicinare a questo gioco e provare simpatia per questi personaggi.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Gau, Sabin Rene Figaro
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler!
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Sabin avrebbe voluto prenderlo a pugni, quel vecchio scemo. Non sarebbe servito a niente, solo a sentirsi meglio… ma accidenti se si sarebbe sentito meglio!

Però non poteva. Anzi, il guaio era che sapeva già che non lo avrebbe fatto, lo sapeva persino mente lo diceva, perché quello che aveva davanti era, per l’appunto, un vecchio scemo, e non c’era colpa in questo.

Non era colpa sua se era intrappolato in quel mondo di pendole da riparare e di oggetti che non funzionavano, in un mondo che si era rotto molto prima che si rompesse quell’altro, quello vero.

Eppure lo detestava per quello che aveva detto, per quella storia atroce che aveva raccontato davanti a Gau.

Che di quella storia era la vittima.

E ce lo aveva messo lui in quella situazione, anzi nella situazione di essere la vittima per la seconda volta, pensando di fare una cosa bella, pensando al suo bene.

Quante dannatissime, stupide cose si fanno, credendo di fare il bene?

Suo padre gli aveva lasciato il regno, costringendolo a dover ammettere di non volerlo. Suo fratello lo aveva lasciato andare, costringendolo a sentirsi in colpa per essersene andato.

Le persone erano un gran casino.

Ecco perché ad allenarsi sulle montagne si stava meglio. Gli anni con Duncan erano volati via veloci, Duncan parlava poco, il corpo non aveva bisogno di tante parole per funzionare e in quel vuoto di parole, a conti fatti, anche la mente funzionava molto meglio. Lassù era stato libero, vuoto di pensieri, vuoto persino della nostalgia, vivo al presente.

Ma poi aveva lasciato quelle montagne, si era unito alla resistenza e aveva dovuto ritornare in quella realtà in cui la gente – tra una guerra e l’altra, tra una fine del mondo e l’altra – in qualche modo si parla, e parlandosi si ferisce molto più gravemente che con un cazzotto ben assestato.

 

Gau uscì dalla casa dell’uomo che era suo padre e al tempo stesso non lo era.

Gau non aveva né padre né madre. Anche lui non li aveva, erano morti, ma in qualche modo c’erano stati e c’erano ancora. E poi c’era Edgar. Il padre di Gau invece non era lì, anche se era vivo. Sabin pensò che forse si era illuso che restituendo una famiglia a lui avrebbe placato un po’ del senso di colpa che provava: colpa dell’essersene andato, colpa del non essere bravo a dire le cose, colpa di non essere capace di fare felici tutti.

“Ehi” lo rincorse fuori, senza sapere esattamente cosa dirgli.

Lui non sembrava turbato, ma le emozioni sui viso di Gau erano comprensibili solo quando erano semplici e chiare: di certo non aveva mai avuto bisogno di comunicare stati d’animo a nessuno, e men che meno con le parole. Forse anche per questo stavano così bene insieme.

Era così buffo combinato in quel modo: vestiti troppo rigidi, che lo facevano sembrare più adulto (ma quanti anni poteva avere? Quindici? Sedici? Un ragazzetto, comunque…). Anche quell’idea di mettergli addosso abiti non suoi adesso gli appariva così misera e ridicola: chissà che diavolo aveva pensato di fare… E però col viso pulito e i capelli pettinati alla bell’e meglio, Gau era a suo modo bello. Insomma – si disse – se fosse stato lui suo padre, ne sarebbe stato orgoglioso. Aveva fatto tutto da sé, era sopravvissuto, era diventato grande, era gentile, era divertente. Soprattutto divertente. Lui lo avrebbe voluto, un figlio così. E il vecchio scemo era proprio scemo, accidenti quanto lo odiava, e quanto gli faceva pena, e quanto avrebbe voluto poter riparare la sua testa anziché le sue maledettissime pendole.

Poi Gau mormorò qualcosa e Sabin quasi si perse le prime parole, perché per una volta non erano state annunciate dal suo abituale “Uaohhh”.

“Papà… vivo” disse “Gau… felice”

Felice?

Si, aveva detto proprio felice, senza commozione e senza rimpianto. Così, lindo e semplice. Di una semplicità disarmante.

Una persona che credeva morta era viva e quindi lui era felice.

Una persona che credeva morta – e che lo aveva creduto un mostro, abbandonato e poi rifiutato – era viva, e quindi lui era felice.

E Sabin pensò che a quel ragazzino spettinato voleva davvero bene e che da allora in poi non avrebbe mai più dovuto arrangiarsi da solo.

 

  
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