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Autore: _Recneps    15/04/2021    1 recensioni
Qualcosa cambia, nell’aria. Non sa esattamente cosa sia, ma lo avverte con inaspettata prepotenza.
Il suo sguardo cade lentamente oltre le spalle della ragazza-passerella – Dio, Chris, almeno il nome, si rimprovera – e si tuffa poco più lontano, qualche passo più in basso, verso un palcoscenico illuminato da colori pallidi, così come la pelle che sfiorano.
[...]
Si chiede per quale motivo sia così facile perdersi nelle linee ferme e gentili tracciate da quel corpo lontano, ma decide di non darci troppo peso e di limitarsi a sfruttare quella gentile concessione. Nota con sollievo che le parole continuano a fluire imperterrite dalle labbra tinte di rosso della ragazza che ancora stringe e accarezza impercettibilmente la sua gamba.
Ha i capelli scuri, di un castano ebano.
No, non la ragazza-passerella. La ragazza-palcoscenico.
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Disclaimer: i fatti narrati sono frutto di una fantasia evidentemente fervida.
Note: non so esattamente cosa sia quello che segue, se non che è stato terribilmente difficile realizzare qualcosa di un pizzico più breve e contenuto. Se qualcuno dovesse mai terminare la lettura di questo tripudio di delirante immaginazione, grazie.
-Rec
 
 
 
 
La ragazza-palcoscenico
 
 
Cora vive di musica.
Sopravvive grazie a mance e straordinari, ma è evidente anche agli occhi meno attenti: senza musica, Cora appassirebbe; a quel punto, un turno fortunato e una gentile concessione di Bart servirebbero solo a mantenere ritto un corpo vuoto.
«Sei nata per questo», Vel glielo sussurra con dolce fermezza, immerse nella frenesia di un backstage che ha il sapore di casa.
Cora non sa come farebbe senza quella mano ora stretta attorno alla sua spalla, senza la voce che ormai da anni le passeggia accanto.
Ancora nascosta tra spesse tende di velluto e corpi affannati che corrono da una parte all’altra, avverte la gola seccarsi e le gambe tremare. Non importa quanti venerdì l’hanno vista affrontare da sola quel palcoscenico, per quanti è rimasta a sognarlo tra un “Vodka Lemon, grazie” e l’altro, e quanti ancora saranno scenario della sua danza: Cora non riuscirà mai a farci l’abitudine.
 
Era capitato per caso, una mattina di metà luglio.
Dopo giorni di estenuante ricerca, imprecazioni più o meno trattenute, pullman rincorsi sotto il sole cocente e troppi Al momento non stiamo assumendo, signorina, Cora era sbucata in una zona di Los Angeles che poco aveva a che fare con le sue scarpe consunte e la sua discreta esperienza in locali per lo più scadenti. In altre circostanze avrebbe sicuramente fatto retromarcia, imbarazzata anche solo per il fatto di ritrovarsi a girovagare tra quelle vie patinate. Ma quella mattina di metà luglio, Cora non poteva far altro che pensare al volto furente del signor Perry. Quante volte la fortuna le aveva già concesso di raggirarlo nonostante il pagamento dell’affitto stesse soffrendo un ritardo sempre più inconfutabile?
L’immagine del suo volto, nascosto da folti baffi bianchi e un costante cipiglio, le era largamente bastata per mettere da parte qualsiasi remora.
Qualche salita più tardi, Cora si era ritrovata a trattenere una risata incredula e un severo discorsetto con la parte più ottimistica di sé stessa: aveva scelto consapevolmente di dare una svolta ridicolmente inverosimile alle sue preziose ricerche, accettando di rimanere per chissà ancora quanto in balia di temperature sfiancanti, e tutto per ritrovarsi – disperata e sudata, terribilmente sudata – alla volta del Roytz.
No, assolutamente no.
Sapeva di non avere possibilità; sapeva che la coda sfatta, il viso accaldato e le solite scarpe consunte non avrebbero fatto altro che dipingere un brillante fallimento una volta varcato l’ingresso.
Cora – senza dimenticare il resto degli abitanti di Los Angeles – lo conosceva bene, il Roytz.
Da liceale, lei e qualche compagno scapestrato avevano sognato e più volte provato ad intrufolarvisi: Jess nella vana speranza di incontrare qualche celebrità, Rubber per il semplice gusto di fregare il buttafuori e Cora per la musica e per quelle esibizioni, per assaporare una realtà che avrebbe sempre agognato.
E quella mattina di metà luglio, ferma davanti a un “cercasi personale” appeso all’ingresso, si ripeteva che così come a diciassette anni, avrebbe fatto meglio a tenersi la dignità.
Tuttavia, Cora non riusciva a scacciare dalla propria mente gli occhi terribilmente piccoli e l’espressione severa del signor Perry.
Titubante, aveva allungato una mano verso la maniglia.
Temeva di fare una pessima figura? Si, ne era terrorizzata.
Le possibilità di rimandare ancora il pagamento dell’affitto erano ormai prossime a zero? Si, decisamente.
L’avrebbero liquidata con parole spicce e sguardi di sufficienza? Si, senza ombra di dubbio.
Quella sera avrebbe trovato il signor Perry ad attenderla con una forca sulla soglia del suo appartamento?
Senza nemmeno rendersene conto, era già entrata.
Quattro anni dopo avrebbe ringraziato quella stessa avventatezza che da novella diciasettenne l’aveva portata più spesso del dovuto a raccogliere dal marciapiede un Rubber finito in guai grossi – e muscolosi.
 
Ma Cora non può ancora crederci. Non pensando ai primi tempi, confinata dietro al bancone di un bar che sarebbe diventato presto una seconda pelle. Ai mesi in cui Bart – che al tempo tutti chiamavano Cowboy Bart per quel suo inseparabile cappello bizzarro – le aveva insegnato ogni trucco del mestiere. A quando la sua danza si limitava alle acrobazie tra una bottiglia di gin e una di tequila per accontentare ogni cliente, o a quando i suoi occhi si perdevano poco più in là, oltre la ressa di chi attendeva, verso un palcoscenico e un gruppo di ballerini da cui non poteva distogliere il pensiero.
Non poteva immaginare che un giorno avrebbe stretto un legame così vero e puro con Vel: cappelli raccolti in lunghe treccine, carnagione caffelatte e punta di diamante delle esibizioni del weekend. Non poteva pensare che una notte, rimaste a chiacchierare fino all’alba tra una scenografia da sistemare e l’altra, Vel l’avrebbe vista ballare, anche se per gioco. Allo stesso modo, non poteva prevedere che da lì a pochi mesi avrebbe passato i suoi fine settimana nel dietro le quinte, lanciando di tanto in tanto occhiate a Bliss, l’ultimo arruolato per sostituirla al bar.
E proprio in quel momento, intenta a sbirciare dalle tende di velluto i volti che la scruteranno esibirsi, Cora continua a pensare a Bart e al suo regalo più grande: un momento tutto suo su quel palcoscenico. Ogni venerdì, alla stessa ora. Nessuna crew. Lei, sola con la sua arte; sicuramente imperfetta, ma profondamente viva.
 
 
 
Chris non è mai stato un grande festaiolo.
Non che non amasse divertirsi di tanto in tanto, circondarsi di vecchie conoscenze da set e intrattenere improbabili conversazioni con sconosciuti che il giorno dopo avrebbe probabilmente dimenticato.
Nella sua carriera non sono certo mancati i momenti di imbarazzante e indelebile gloria, immortalato dalle ossessioni documentaristiche del suo vecchio amico Rob e re-tweettato poco dopo alla velocità della luce.
Eppure, circondato da risate pseudo-conosciute, musica più o meno orecchiabile e sguardi che nelle serate meno storte avrebbe volentieri ricambiato, si ritrova a paragonare la camera del proprio hotel all’eden perduto. Questo Tom lo sa; lo sa talmente bene che non riesce proprio a trattenere una risata canzonatoria quando gli occhi di Chris si puntano interdetti sulla propria gamba, o meglio, sulla mano smaltata che vi è ora appoggiata. L’idea di trascinare il suo caro e celebre amico al Roytz non era sicuramente nata dall’obiettivo di incastrarlo in qualche flirt che avrebbe avuto vita breve, ma ora che l’impavida ragazza-passerella ha decretato l’inizio dei giochi, non vuol certo perdersi lo spettacolo.
Una vampata di profumo vanigliato – fastidiosamente dolciastro – invade i sensi di Chris e, mentre osserva prudente quei lineamenti perfetti sciogliersi in un sorriso che in altre circostanze non gli avrebbe lasciato scampo, cerca disperatamente di ricordarsi il nome della ragazza-passerella.
Fortunatamente, quella conversazione – monologo – gli concede di continuare a cullarsi nella propria ignoranza; o forse sarebbe meglio definirla facile distraibilità. In realtà si sente terribilmente in colpa con sé stesso: vorrebbe darle le giuste attenzioni e magari farle qualche domanda, ma quella sera avverte impellente il bisogno di estraniarsi ed essere anonimo spettatore, almeno per una volta.
Miracolosamente, l’impresa gli viene resa più facile da note meno discutibili di poco prima.
Qualcosa cambia, nell’aria. Non sa esattamente cosa sia, ma lo avverte con inaspettata prepotenza.
Il suo sguardo cade lentamente oltre le spalle della ragazza-passerella Dio, Chris, almeno il nome, si rimprovera – e si tuffa poco più lontano, qualche passo più in basso, verso un palcoscenico illuminato da colori pallidi, così come la pelle che sfiorano.
I rumori circostanti si fanno improvvisamente tenui e le figure a lui vicine assumono contorni sfumati: ha trovato la bolla in cui continuerà a rifugiarsi per il resto della serata, o almeno fino al termine di quella conversazione – monologo.
Si chiede per quale motivo sia così facile perdersi nelle linee ferme e gentili tracciate da quel corpo lontano, ma decide di non darci troppo peso e di limitarsi a sfruttare quella gentile concessione. Nota con sollievo che le parole continuano a fluire imperterrite dalle labbra tinte di rosso della ragazza che ancora stringe e accarezza impercettibilmente la sua gamba.
Ha i capelli scuri, di un castano ebano.
No, non la ragazza-passerella. La ragazza-palcoscenico.
Non sa perché ci fa caso, ma sembrano morbidi. Si muovono dolcemente, accompagnando con perfetta combinazione quei passi che non hanno nulla di clemente. Osserva quei movimenti consumare affamati lo spazio in cui regnano, susseguirsi con la logica di una storia a lui estranea e che, tuttavia, lo colpisce spietata.  Non aveva mai pensato alla possibilità che un corpo muto potesse traboccare di parole così affilate, che i suoi stessi sensi potessero accogliere quelle verità silenti come proprie. Non capisce come ci sia riuscito, quel corpo estraneo, ad esprimere con semplici passi un racconto di crude emozioni. Sa solo che la ragazza-palcoscenico gli ha concesso un’oasi in cui eclissarsi mentre la mano smaltata rimane appoggiata sulla propria gamba e Tom soffoca risatine impertinenti.
Il fatto è che non riesce più a percepire nessuna di queste cose.
I suoi occhi continuano ad essere spietatamente consumati da un corpo muto, estraneo e terribilmente inafferrabile.
 
*
 
È sabato sera e i ruoli si sono invertiti: ora è Tom la vittima sacrificale.
Chris si è catapultato nel suo appartamento alle 22.15 esatte, incapace di prendere sonno e profondamente insofferente al pensiero di sprecare altro tempo tra le mura della sua camera d’hotel: da eden perduto a infernale prigionia il passo è paradossalmente breve.  
Odia doverlo ammettere a sé stesso, ma quella gita improvvisata al Roytz non ha nulla a che fare con il suo animo festaiolo. Tuttavia, Tom è facilmente raggirabile. No, non è vero: a Tom bastano le promesse di buoni drink e di presentazioni a modelle che, senza l’intercessione di Chris, sarebbero decisamente fuori dalla sua portata.
C’è un mare di gente, proprio come la sera prima.
Più persone del previsto lo intrattengono brevemente nei soliti convenevoli, ma i suoi occhi sono altrove e i suoi pensieri anche.
Poi lo vede. L’angolo perfetto.
In men che non si dica lui, Tom e qualche altro volto su cui non si è attentamente soffermato vengono accompagnati ad uno dei tavoli circondati dalle varie diramazioni del palcoscenico: percorsi patinati che danno l’illusione di poter toccare con mano le realtà di danza, musica e arte che ospitano.
Chris sorride: non poteva desiderare di meglio.
 
 
 
«Vel, elastico! Subito!»
Una cascata di treccine la travolgono con irruenza, facendola traballare mentre cerca di stendere il mascara su ciglia già troppo lunghe. Cora vede riflessa la sbavatura che le arriva fino al sopracciglio mentre Vel armeggia con i suoi capelli color ebano e pronuncia scuse a raffica.
Cora si sente improvvisamente trascinare da una presa salda attorno al polso. Stringe ancora il pennellino del mascara, ma Trev non sembra notarlo.
«Trev, fermati! Non posso uscire così!», esclama Cora frenando la corsa impazzita del suo compagno e aggrappandosi alle tende di velluto che delimitano il backstage. Lui si volta, furente: «Sì, è vero. Vel ti ha fatto una coda orribile, ma puoi sopravvivere.»
Cora rimane interdetta mentre cerca di capire cosa rispondere, quando Trev strabuzza gli occhi.
«Ma che hai in faccia?»
Pronunciando piccato una serie di imprecazioni, le prende il viso tra le mani, si porta il pollice alla bocca e con la delicatezza di un carrarmato cancella con la sua saliva il misfatto.
«Trevor, penso di poter vomit-»
«Ah! Non azzardarti», le afferra le spalle e la spinge verso il palco ancora oscurato, «e ora, fila!»
 
Circondata dalla crew, Cora si sente a casa.
Quando balla, Cora non conosce spazio e tempo.
Quando la musica le esplode nelle vene, tutto scompare. Esiste solo la sua arte.
I riferimenti sfumano e tutto ciò che la circonda si tinge di colori vividi.
Un’energia che le accarezza l’anima, che le concede una libertà inebriante.
Un tempo immobile vissuto con l’intensità di un incendio.
 
La musica inizia a scemare e, in piena coincidenza con l’ultima nota, Cora si ritrova piegata sulle ginocchia. L’intera crew, disseminata in ogni angolo di quel labirintico palcoscenico, immobile nella medesima posizione di chiusura. Una perfetta sincronia.
Cora apre lentamente gli occhi mentre torna a percepire il suo stesso respiro.
Incontra due occhi cristallini, proprio lì, leggermente più in basso.
Prima che i riflettori lascino il passo al buio e all’esplodere degli applausi, vede un angolo di quella bocca rosea sollevarsi leggermente. Non ne è totalmente sicura, ma quel volto noto le sta rivolgendo un…cenno?
Non sa cosa leggerci. Sa che assomiglia tanto a una sottile e gentile provocazione, che quando la penombra cala, avverte qualcosa di molto simile a una scossa.
 
 
 
Ha gli occhi verdi, la ragazza-palcoscenico. Occhi verdi, macchiati d’oro.
Quando i riflettori gettano il locale in un oscuro silenzio, Chris sorride.
Lo sapeva che quello si sarebbe rivelato il posto perfetto.
 
*
 
Il Roytz e Bart non conoscono pausa.
Los Angeles, soprattutto, vive in una perenne frenesia di luci e musica.
È martedì sera, Cora lavora al bar e Bliss le dà una mano.
Sfrecciano da una parte all’altra ed entrambi hanno smesso di contare le volte in cui si sono scontrati trattenendo imprecazioni.
Il ragazzetto tatuato, vispo e preciso, se la cava piuttosto bene e Cora ne è profondamente sollevata: il Roytz e i clienti macinano più vittime di quanto si potrebbe credere.
Nei momenti di maggiore ressa, la diligenza di Cora è sempre inattaccabile.
Quel martedì, tuttavia, la sua concentrazione vacilla: tra ordini, conti e bicchieri che si svuotano troppo in fretta, i suoi occhi scrutano il locale al di là della sua trincea.
Lo fanno più spesso del dovuto, e per questo si maledice.
Sembra costantemente in attesa, sospesa in un’immobile incertezza a cui non sa dare un nome.
Fortunatamente, buona musica e un Bart particolarmente irrequieto le restituiscono la giusta dose di meticolosità.
Poi sorride.
Mentre pulisce con uno straccio l’ennesimo bicchiere, qualcuno si siede con movenze studiate sullo sgabello di fronte. Indossa un cappello con la visiera leggermente abbassata.
Cora simula noncuranza, china il capo e si mostra terribilmente impegnata mentre continua a strofinare uno straccio a cui rimane poco e niente da pulire.
Riesce comunque a scorgere due mani curate allungarsi sulla superficie del piano, le dita affusolate iniziano a tamburellare.
«Che cosa le preparo, Capitano Rogers?»
 
 
 
«Mi stai velatamente suggerendo che questo cappello è perfettamente inutile?»
«Diciamo che se avessi bisogno di una sotto copertura, non lo userei come la punta di diamante del mio vestiario.»
Non vuole domandarsi perché, ma Chris non riesce a togliersi quel sorriso sghembo dal viso.
La ragazza-palcoscenico compie movimenti precisi un bicchiere dopo l’altro. Continua a mantenere il capo chino, ma Chris sa che lì sotto si nascondono due occhi verdi macchiati d’oro. Ciononostante, è una consapevolezza che non gli basta. Non può lasciarsi scappare un’occasione come quella: si chiede se così vicini non si riveleranno più dorati che smeraldini.
«Eppure, ha sempre funzionato alla perfezione», scivola lentamente in avanti con le braccia incrociate sul bancone, «devo dedurre di trovarmi di fronte a un sesto senso particolarmente spiccato.»
«E un’intelligenza significativamente acuta», aggiunge lei.
Lo sta provocando e Chris sa che non riuscirà a non farsi tentare da quel gioco.
Sorride mentre la vicinanza di quel momento tinge i suoi sensi di un piacevole profumo. Non saprebbe trovare parole per descriverlo. Le immagini, quelle sì. Vede un bosco, un timido germoglio, nuvole bianche e lenzuola celesti.
«Non vorrei metterti fretta, ma se non ordini qualcosa non potrò fare nulla per impedire all’esercito di clienti alle tue spalle di spodestarti da quel trono di plastica.»
La ragazza-palcoscenico solleva finalmente il volto. Chris realizza di essersi sbagliato nel momento in cui viene arpionato da due iridi color muschio, di un verde più intenso di quanto si sarebbe aspettato. Le screziature dorate, invece, sono proprio come le aveva immaginate.
«Hai ragione, ma non ho pensato a nulla. Suggerimenti?»
Lei alza impercettibilmente un sopracciglio, perplessa: «Ti capita spesso di recarti ad un bar senza prima chiederti cosa vorresti bere?»
Cristo, quella smorfia così irriverente.
«In realtà no», il sorriso si allarga in un ghigno divertito, «ma è anche vero che di solito i drink sono l’unico movente.»
La vede distogliere lo sguardo mentre si lascia finalmente sfuggire l’ombra di una risata.
«Signor Evans, se è a caccia le consiglio una postazione migliore», fa un cenno verso il soppalco e si avvicina lentamente, «il privé è una comprovata garanzia.»
Quel “lei” canzonatorio lo diverte non poco.
«Nessuna caccia. Mi piace osservare.»
La guarda dritto negli occhi, nessun sorriso a graffiargli il viso. La scruta con cura, ha quasi paura di rovinarla.
«Devi avere degli interessi un pizzico deludenti se ritieni che la visuale migliore possa offrirtela quello sgabello.»
La ragazza-palcoscenico sa essere incredibilmente cruda con sé stessa.
«Mi sento quasi in dovere di offrirti dei consigli», continua.
Chris allarga le braccia, incoraggiandola. Sa che non seguirà nessuno dei suoi suggerimenti, tuttavia, vuole protrarre quella conversazione il più a lungo possibile. Gli piace anche la sua voce, a dirla tutta.
«Scegli un qualsiasi angolo di questo meraviglioso locale. Anzi, provali tutti. Ti posso dire fin da subito che due esemplari di statuaria bellezza ti stanno probabilmente aspettando da inizio serata al tavolo nascosto dalla colonna di marmo. Te lo garantisco: materiale di studio perfetto per le tue corde.»
Lo sa di avere un sorriso da ebete, può tranquillamente immaginarselo. Scuote la testa incredulo e si mette a ridere: lo fa con spaventosa naturalezza.
«Ok, ti accontenterò.»
Appoggia entrambe le mani sul bancone e si alza in piedi. L’altezza getta un’ombra su quella smorfia irriverente. Pensa che non la dimenticherà facilmente. In realtà non la contempla nemmeno la possibilità di dimenticarsela.
«Mi getterò impavido in quest’avventura e quando tornerò per un resoconto dettagliato mi aspetto il miglior drink del tuo repertorio.»
«Ti sorprenderò.»
Come se non ci fosse già letalmente riuscita.
 
 
 
Cora non lo perde di vista, quel drink azzurrognolo.
Nascosto da occhi indiscreti e abbandonato ad uno scenario incerto.
Mentre sbuffa indaffarata tra un ordine sbagliato e la cassa di nuovi rifornimenti che Bliss lascia cadere rovinosamente a terra, pensa che probabilmente farebbe meglio a buttarlo.
Scarta fin da subito l’opzione che il suo legittimo proprietario torni a prenderselo.
Potrebbe offrirlo in omaggio ad un Bliss prossimo al secondo attacco isterico della serata, ma, a dire il vero, pensa che farebbe meglio a scolarselo da sé.
Non sa nemmeno perché l’ha preparato, quel drink azzurrognolo.
È stata lei a dipingere quell’inevitabile finale; è stata lei a far crollare con maestria ogni gradino elegantemente scalato da quel nome che non ritiene di avere il diritto di assaporare; è stata lei a gettarlo in altre trame, lontane dalle sue; ha difeso la sua trincea con ammirabile destrezza, quindi per quale assurdo motivo non getta quello stupido drink azzurrognolo?
Ok, sono patetica.
Si avvicina a passo deciso, fa per allungare una mano e lo arpiona con rassegnata veemenza.
«Dopo questa gitarella totalmente inutile, sarà meglio per te che il mio drink si riveli superbo.»
Ha le dita ancora strette attorno al bicchiere gelido. E per fortuna, le viene da pensare: cos’è quell’improvvisa ondata di calore elettrico in fondo allo stomaco?
 «Lo sai che i tuoi consigli sono pessimi?»
Si sforza di trattenere un sorriso che tradirebbe troppe cose.
«Saresti così gentile da illustrarmi i motivi?» ribatte melliflua, facendo scivolare lo stupido drink azzurrognolo tra le mani di quel guaio.
«Ho seguito le tue istruzioni e non ho tralasciato alcun angolo. E io sono un tipo meticoloso, te lo posso assicurare. Il fatto è che ho trovato qualcosa di terribilmente interessante da osservare ovunque mi fermassi. Ti chiederai quindi quale sia stato il problema. Nessuno, almeno fino a quando non ho realizzato quanto fosse stupido girovagare in lungo e in largo per poi guardare sempre la stessa cosa. Che senso ha sprecare tutto quel tempo quando sai che esiste un’unica postazione perfetta a garantirti la migliore visuale che potresti desiderare?»
«Ti consiglio di affrettarti allora. Deduco che la tua postazione perfetta ti stia aspettando.»
«Ci sono seduto proprio ora.» Gli occhi azzurri – adombrati dalla visiera di quel cappello che Cora vorrebbe terribilmente levargli – la scrutano con cautela, gentili e al tempo stesso decisi: «L’avevo detto che i tuoi consigli sono pessimi.»
 
*
 
È mercoledì ed è il compleanno di Trev.
Cora lavora, ma per l’occasione Bart le concede di staccare a mezzanotte e mezza. A pagarne le conseguenze è ovviamente Bliss, che corre trafelato dall’ingresso di servizio per darle il cambio.
Ha uno sguardo affilato, ma Cora lo trova comunque buffo. Buffo e adorabile, adorabile come il broncio di un bambino che strattona i pantaloni del papà per l’ottavo giro sugli autoscontri.
«Ricordi la ragazza del negozio di dischi? Quella che sto pazientemente corteggiando da mesi?» Stizzito, Bliss raccoglie i capelli corvini troppo cresciuti in un codino basso, «Indovina? Stasera sarei dovuto uscire con lei al cinema: spettacolo delle 22.30.»
Cora assottiglia gli occhi e incrocia le braccia al petto. Lui continua a fissarla con quella che dovrebbe essere un’espressione furente e lei ripensa al bambino degli autoscontri. Poi Bliss cede, ruota gli occhi al cielo e alza le mani: «Ok, va bene, non saremmo stati esattamente soli. Roy sarebbe venuto con noi, sai, il mio vicino di casa. Che poi non so per quale motivo è sempre in mezzo alle poche e frustranti conversazioni che quella creatura infernale mi concede con il contagocce da quasi un anno. Lei poi avrebbe portato sua sorella, non chiedermi perché. Forse vuole farle conoscere Roy, che però è molto più grande di sua s-»
«Bliss, dovresti ergere una statua in mio onore. Ti ho letteralmente salvato la dignità questa sera.»
 
Cora si guarda allo specchio con una smorfia.
È chiusa in bagno da circa 20 minuti e l’unica cosa che è riuscita a ricavarne è una coda sfatta e due braccia doloranti.
Perché quando mi metto a pulire casa mi esce perfetta?
Sbuffa spazientita. Non sa neanche perché ci sta perdendo così tanto tempo: deve solo raggiungere i ragazzi nel privé, dopotutto. Che le importa di presentarsi in tenuta da lavoro – jeans neri, maglia a mezze maniche nera e scarpe nere – e con una faccia ancora stravolta dal turno appena concluso?
Non ci vuole pensare. Non sa chi potrebbe esserci su quel soppalco. Non le interessa.
Si, certo.
Alle sue spalle, la porta del bagno si apre e un’ondata di profumo alla lavanda la travolge.
«Si può sapere quanto ti ci vuo-», Vel si blocca e strabuzza gli occhi, «ti devi ancora cambiare?! Cora, datti una benedetta mossa, Trev sta dando il meglio di sé e ti stai perdendo delle chicche inestimabili.»
«In realtà sono già pronta», risponde Cora allargando le braccia sull’ovvio della sua mise all’ultima moda.
«È la tua prima serata libera dopo mesi, il soppalco è gremito di bell’imbusti da conquistare e pensi di cavartela così? Illusa», Vel-versione-amazzone le afferra un polso e la trascina in direzione del backstage.
 
Mentre cerca di capire dove inizia la cerniera di quel crop top a maniche lunghe, gli occhi di Cora seguono l’ombra dell’amica marciare avanti e indietro oltre la tenda del camerino.
«Vel, questo crop top mi sembra un po’ troppo crop», esordisce con una smorfia non appena riesce a raggiungere con dolorose contorsioni il punto di chiusura, «e un po’ troppo dorato.»
Una mano smaltata d’avorio spalanca la tendina. Gli occhi ambrati dell’amazzone la squadrano per poi lasciare spazio ad un sorriso sornione: «Ora ragioniamo.»
 
 
 
Sono un idiota.
Chris ne è sconsolatamente consapevole.
Sono giorni che va a dormire troppo tardi, che si distrae troppo facilmente durante le riprese e che s’imbottisce di aspirine quando la mattina si alza con la musica del Roytz ancora nelle orecchie.
Eppure, eccolo lì: scortato da un Tom eccessivamente entusiasta verso le poltroncine bordeaux del privé.
Avrebbe sicuramente preferito che il suo caro vecchio amico non organizzasse una festa totalmente ingiustificata con una trentina di persone, ma poco importa.
Prevede di non passare più di venti minuti su quel soppalco: giusto il tempo di presenziare educatamente fino a che occhi troppo annebbiati dall’alcol non avrebbero bellamente ignorato la sua fuga verso l’angolo bar.
Di punto in bianco, si blocca nel suo spavaldo incedere e strabuzza gli occhi.
No, non la ragazza-passerella.
Afferra il gomito di Tom e lo costringe a voltarsi: «Ti prego dimmi che non hai invitato tu sai chi.»
Il “tu sai chi” sortisce l’effetto sperato e Tom afferra al volo.
«Senti, la sua amica mi piace e non sono ancora riuscito a farmi dare il numero», inizia a difendersi il riccio poggiando entrambe le mani sulle spalle di Chris, «non potevo non invitarla e sprecare un’occasione d’oro. E lo sai meglio di me, non sarebbe mai venuta da sola. Quindi mi è bastato accennare che ci saresti stato anche tu e la su-»
«Ah, fantastico. Stasera sarò carne da macello. Grazie Tom, come farei senza di te», lo interrompe Chris con fare sarcastico. Mentre lo supera, gli dà una pacca sulla spalla con calibrata violenza e, non appena la ragazza-passerella posa occhi felini sulla sua figura slanciata, sfoggia il sorriso più falso del suo repertorio.
 
Per la prima oretta se l’è cavata egregiamente: scambiare sterili battute con una trentina di persone impegna parecchio tempo. Ora, invece, si ritrova spalmato contro la balaustra di vetro per cercare di mettere più distanza possibile tra sé e le mani smaltate della ragazza-passerella. Non sa esattamente di cosa stiano parlando, ma riesce comunque a snocciolare qualche breve risposta che sembra bastarle.
Probabilmente non sono passati nemmeno cinque minuti, ma con estrema naturalezza volta il viso oltre il parapetto e la cerca. Si, lei, la ragazza-palcoscenico. I suoi occhi si fiondano verso l’angolo bar, ma non la trovano.
Aggrotta le sopracciglia, tristemente stupito.
Probabilmente si è allontanata qualche minuto.
Tuttavia, il tempo scorre e occhiate fintamente casuali si accumulano. Lei non c’è.
Chris avverte un’impellente esigenza di tornarsene in hotel.
Ma è un attimo e i suoi occhi intercettano qualcosa di dorato che si avvicina.
La ragazza-palcoscenico è lì.
Cammina lentamente, con una grazia che le sembra cucita addosso, e sorride di rimando a qualsiasi cosa le stia dicendo l’amica accanto.
Chris sa che non può evitare di percorrere con lo sguardo una figura che le sembra più celestiale che mai. Sente gli occhi ardere mentre si sofferma senza remore su ogni particolare.
La musica e le voci che lo circondano sembrano così lontane, in quel momento.
Come la prima volta che l’ha vista danzare, si perde in qualsiasi cosa sia quella muta melodia che emana. Perché la ragazza-palcoscenico rimane la ragazza-palcoscenico anche mentre pulisce con uno straccio una sfilza di bicchieri, raccoglie i suoi capelli color ebano in una coda alta tra un ordine e un’imprecazione, prepara un drink azzurrognolo con una cura che la sera prima l’aveva fatto sorridere trionfante. E la ragazza-palcoscenico rimane la ragazza-palcoscenico anche in quel momento, mentre passa accanto al divanetto bordeaux su cui è mollemente abbandonato e gli regala uno sguardo impacchettato con progettata intenzione.
Cristo, quella smorfia irriverente.
 
 
Regola numero uno: indifferenza.
Quindi per quale motivo non ha simulato noncuranza passandogli accanto? Perché si è tradita con quell’occhiata e quel sorriso avvolti da dolce provocazione?
Cora non ne ha la minima idea.
Si, certo.
Ok, Cora lo sa perfettamente.
Il fatto è che nel momento stesso in cui i suoi occhi si erano posati su quelle ampie spalle avvolte da un maglioncino nero di cashmere, aveva capito che non ne avrebbe potuto fare a meno.
Era rimasta intrappolata nelle movenze delle sue mani: mentre gesticolavano per accompagnare un discorso di cui non poteva percepire parola, passavano distrattamente sulle guance ricoperte da barba corta perfettamente definita e scorrevano tra capelli biondo scuro, leggermente più lunghi di quello che ricordava da uno degli ultimi film visto per caso.
Quell’ultima nota le aveva fatto più male di quanto fosse pronta ad accettare.
Perché sì, lui appartiene ad un mondo inafferrabile.
E Cora pensa che dovrebbe inciderselo sulla pelle, quell’appunto. E lo dovrebbe fare al più presto, perché sta giocando col fuoco e non riesce – non vuole – fermarsi.
 
Trev le si fionda addosso con un quarto del viso ricoperto da glassa al cioccolato.
La solleva con la facilità con cui ci si porta un bicchiere d’acqua alla bocca e Cora inizia a maledirlo scalciando. Perché lo sa che finiranno entrambi in terra, così come sa che niente potrebbe fermare la sua furia omicida se quella stessa glassa finisse sulla sua, di faccia.
Senza la benché minima traccia di grazia, Trev la lascia e – che il cielo sia benedetto – i piedi di Cora tornano su solido pavimento.
«Oh merda, ti ho sporcato di cioccolato.»
Ecco, appunto.
Prima che possa dire qualsiasi cosa – e colpirlo con un pugno sulla spalla – lui si porta il pollice alle labbra per poi avvicinarlo pericolosamente al suo viso.
No, non di nuovo.
Si abbassa nel tentativo di sfuggire a quell’incomprensibile ossessione perversa del ragazzo, ma fallisce.
«Tu la devi smettere di utilizzare la saliva per pulire la faccia della gente», ringhia in una smorfia mentre Trev le strofina con inesistente delicatezza la guancia, «esistono i fottuti fazzoletti!»
«Senti, uso i mezzi di cui dispongo. Non rompere.»
Ancora intrappolata tra le grinfie dell’amico, Cora scorge oltre le sue spalle – poco più lontano, immerso tra una trentina di persone – un ghigno decisamente troppo divertito.
Non si accorge nemmeno che nel frattempo Trev si è allontanato, lasciandola lì in piedi a guardare stizzita quella risata decisamente beffarda.
Decide che la vita è troppo breve per lasciarsi sfuggire l’occasione di mandare al diavolo Chris Evans.
Alza il dito medio e si volta con un sorriso soddisfatto.
 
 
 
Quel mercoledì tutti sembrano voler parlare con lui, ma Chris non fa altro che rispondere distrattamente.
Non sa quanti aneddoti ha già finto di ascoltare o quante mani hanno sfiorato le sue braccia nel lasciarsi andare a risate di cui non ricorda l’origine. Sa che l’unica persona con cui sta realmente parlando, quella sera, è lontana qualche metro, circondata da una marea di gente che comunque non le impedisce di trattenersi con lui in quell’insolita conversazione.
Gli piace sapere che lo scruta quando si avvicina studiatamente a una ragazza-passerella di cui ancora non ricorda il nome.
Gli piace scoprirsi infastidito quando vede mani che non sono sue accompagnarla in una giravolta.
Gli piace guardarla mentre finge indifferenza e si morde un labbro, solo per il gusto di farlo.
Gli piace sentirla ridere quando lui alza platealmente gli occhi al cielo quando non riesce a liberarsi da conversazioni prolisse.
Gli piace vederla scuotere la testa e stringere tra le labbra l’accenno di una risata quando lui alza il cocktail nella sua direzione, con una mano infilata in tasca e l’angolo della bocca sollevato in una provocazione.
Gli piace paragonarla a una danza, quella giostra di sguardi e punzecchiamenti.
E Chris sa che potrebbe destreggiarsi in quella sottile arte per ore.
La musica la trascina sempre di più e lei si lascia dondolare. La vede passare da una presa all’altra e cercare complice i movimenti delle persone che la circondano. Chris pensa che vorrebbe scattarle una foto, ma teme che un’immagine non potrebbe mai cogliere la luce di quella ragazza-palcoscenico.
La vede nella sua cornice di musica e danza, così libera.
Gli piacerebbe sfiorarlo, quel suo mondo. Molto di più, in realtà: vorrebbe esserne travolto, diventarne anche solo una piccola, minuscola parte.
Non pensa che accadrà mai, ma in quel momento è troppo poco lucido per scendere a patti con la realtà. E non è nemmeno colpa dell’alcol. Solo di quell’adorabile smorfia irriverente.
Poi si ritrova a sorridere senza riuscire a smettere.
Si appoggia allo schienale di un divanetto di velluto, assorto in una melodia che ora lo circonda.
Lei continua ad afferrare mani d’altri e a muoversi come onde, ma dallo spiraglio di una porta che ha lasciato socchiusa, lo guarda. E la vede mimare parole di una canzone che Chris non riconosce, di cui non coglie nemmeno il significato perché i pensieri vorticano troppo veloci e si sente incendiare.
Lei gironzola come se camminasse su nuvole, stringe un bicchiere vuoto e simula un karaoke.
Lo guarda, lui ride, lei anche.
Non avrebbe mai pensato che un silenzio come quello potesse colmarlo fino a quel punto.
 
 
 
Cora è uscita sul terrazzo.
La brezza di metà settembre è piacevole e lei ha decisamente bisogno di qualcosa di fresco per placare quel tumulto interiore di confusione e follia.
Meno poeticamente, una sigaretta potrebbe rivelarsi una finestra di immobile lucidità insospettabilmente preziosa.
Tuttavia, appena avverte dei passi avvicinarsi, capisce che quella notte non conoscerà tregua.
Non ha bisogno di voltarsi, il senso di vertigini che avverte nel profondo dello stomaco basta e avanza.
«Chiunque ti stia sostituendo al bar dev’essere particolarmente distratto. Questo Mojito sa di tutto tranne che di lime.»
Cora lo vede appoggiarsi sul muretto accanto a lei e i loro gomiti si toccano quasi impercettibilmente.  Lo vede portarsi il drink alle labbra mentre guarda dritto, verso un mare che poco distante si nasconde nella notte. Cora blocca i suoi movimenti con una presa repentina e lo lascia con la mano vuota a mezz’aria.
«Dio, quante volte gli devo dire di usare i bicchieri del primo ripiano per aiutarsi con le dosi», dice lei dopo un sorso che le fa scuotere la testa. Lui la guarda con la bocca ancora socchiusa mentre gli restituisce il bicchiere.
«Di chi stai parlando esattamente?»
«Bliss, il mio collega.»
«Che razza di nome è Bliss?»
Cora si porta la sigaretta alle labbra. Poi espira.
«Viene dalla Norvegia e il suo nome è troppo complicato per poter essere pronunciato senza perdersi in una qualche involontaria blasfemia. Sappiamo solo che comincia per B», spiega sotto lo sguardo per nulla soddisfatto di Chris.
Cristo, perché è così dolorosamente difficile anche solo pensare al suo nome.
«Credo di aver perso il passaggio da B a Bliss.»
«Hai presente le renne di Babbo Natale?», domanda lei con una naturalezza che mal si accosta a un discorso di quel tipo.
«Potrei elencarti i nomi dei Sette Nanni senza batter ciglio, ma sulle renne di Babbo Natale mi trovi impreparato», risponde lui accodandosi all’assurdità di quel filo.
«Bene, una delle renne si chiama Blitzen, abbreviato: Bliss.»
Lui rimane per un attimo interdetto e si volta perplesso verso di lei.
«No, manca un pezzo», ribatte lui alzando una mano e riavvolgendo il nastro, «che diamine c’entra il tuo collega con Babbo Natale?»
«La perspicacia non dev’essere certamente la tua lama più affilata.»
Lui, per tutta risposta, le dà un pizzicotto sul braccio. Cora finge più dolore del necessario e gli schiaffeggia la mano, non trattenendo un “idiota” e un sorriso che non aveva pianificato.
«Comunque», riprende lei con il tono di chi snocciola risultati ovvi di operazioni matematiche, «lui è norvegese. Il villaggio di Santa Claus si trova in Norvegia. La slitta di Santa Claus vola grazie alle renne. Tra le renne c’è Blitzen. Blitzen sarebbe stato un nome troppo ridicolo, quindi Bliss.»
Si guardano per quelli che sembrano secoli. Poi, in perfetta sincronia, scoppiano a ridere.
E Cora si ripete che più a lungo si cullerà in quel carezzevole istante in cui i confini dei loro modi sfumano, più ne rimarrà scottata. Ma quella sera lei è troppo poco lucida per riuscire a spezzare con risolutezza quella melodia che li avvolge timida. E non è nemmeno colpa dell’alcol. Solo di quella risata calda che le sfiora dolcemente pelle e anima.
«Certo che è curioso», dice poi lui dopo attimi di silenzio, «ora conosco storia e stranezze di un nome qualsiasi, ma del tuo non so nemmeno l’iniziale. È un brillante tentativo per torturarmi o semplicemente un segreto di cui non sono degno?»
«C.»
«Cosa?»
«L’iniziale del mio nome: C.»
Lo vede sorridere e scuotere la testa verso il basso. Poi appoggia il drink – che Cora sospetta non abbia nemmeno mai assaggiato – e si avvicina. Lei dovrebbe indietreggiare, ma non lo fa. Cerca di non cedere a quel paio di occhi cristallini e agguerriti, ma si sente così piccola al cospetto della sua figura slanciata e di quelle spalle che le piacerebbe stringere.
«Deduco di non esserne all’altezza, quindi», sussurra lui con studiata lentezza. Cora sente le gambe cedere mentre si sforza di non perdersi in quel profumo inebriante che le solletica i sensi. Non saprebbe trovare parole per descriverlo, ma vede immagini che vi si accostano alla perfezione: un tramonto, i primi tratteggi sulla tela di un pittore, i tasti di un pianoforte e…qualcosa di celeste. Lenzuola. Sì, lenzuola celesti.
«Deduci male.»
Lui inarca lievemente le sopracciglia, sembra stupito.
«Allora ti piace torturare le persone: devi avere un’inclinazione per i giochi sadici.»
«Non tutte», ribatte lei avvicinandosi ancora di più. Lo coglie di sorpresa, proprio come voleva. Affila la sua voce in un sussurro: «Seleziono con cura i miei compagni di gioco.»
Scivola via come un gatto nella notte e si dirige trionfante verso l’ingresso del privé.
«Mi lasci senza un nome e con una misera lettera.»
Cora ha già abbassato la maniglia, ma si volta comunque.
«Ti ho concesso molto più di un nome, Chris.»
 
*
 
«Cheryl.»
«Acqua.»
«Candice.»
«Alto mare.»
«Carrie.»
«Morirai annegato se continui su questa strada.»
Chris sbuffa appoggiando la fronte sul bancone del bar mentre lei ride fastidiosamente divertita.
«Sei un fottuto inferno, lasciatelo dire.»
«Ne sono più che lusingata.»
In risposta, si allunga verso il contenitore delle cannucce, ne sfila quattro e gliele tira. Una finisce nel drink che la ragazza-palcoscenico stava per adornare con due fragole; Chris è già pronto ad una fulminata senza precedenti.
Riceve sia quella sia due fragole dritte sul petto.
Finge teatrale indignazione mentre indica il maglioncino coloro panna ora macchiato: «se pensi che questo sia comparabile a quello», dice puntando ora alla cannuccia, «ti sbagli di grosso.»
Lei alza gli occhi al cielo e, piccata, appoggia una mano sul piano e l’altra sul fianco. Chris trova quella posa indispettita adorabile e allo stesso tempo inquietante.
«Senti: è giovedì sera, mi hanno lasciato sola a gestire una clientela particolarmente accanita, il mio capo mi sta lanciando occhiate intimidatorie da due ore e tu mi stai decisamente rallentando. Vuoi farmi licenziare forse?»
«Ti do una mano.»
Lei alza un sopracciglio in maniera quasi automatica. Anche quello, pensa Chris, è sia adorabile che inquietante.
«Parafrasato: mi piacerebbe vederti dormire in mezzo alla strada con due cani randagi.»
Lui scoppia a ridere e per un momento Chris pensa che in troppe occasioni gli era mancata, quella spensieratezza.
«Imparo molto velocemente.»
Lei rimane in silenzio mentre lo scruta con l’aria di chi sta valutando se stringere o meno un patto col diavolo. Delle voci concitate la chiamano: altri ordini.
Si allontana per qualche minuto, torna ed inizia ad armeggiare con bicchieri e bottiglie, ignorandolo.
Mentre termina il primo cocktail, alza lo sguardo sul sorriso canzonatorio di Chris e sospira chiudendo gli occhi: «Anni luce lontano dai drink, muto e veloce come una scheggia.»
Sorride sornione balzando in piedi.
«Ah, devi fare tutto quello che ti dico.»
Lui afferra la visiera del cappello e fa un cenno abbassandola leggermente: «Capitano Rogers a suo servizio.»
 
 
 
Se Bart lo vede, è morta.
Se qualcuno lo riconosce, è morta.
Se si distrae come in quel momento a fissare la striscia d’addome che sbuca dalla t-shirt mentre si sfila il maglioncino, è morta.
Può gestire la situazione, si dice.
Spostare casse di rifornimenti e distribuire drink pronti senza dover fare più di quattro passi non può davvero essere così difficile.
L’atmosfera cupa del locale, le luci stroboscopiche che deformano volti e la visiera abbassata di quello stupido cappello dovrebbero renderlo meno riconoscibile, comunque. Perché sì, vorrebbe evitare che la clientela del bar triplicasse solo per vedere da vicino quello che altri sussurri potrebbero aver diffuso in un eterno telefono senza fili.
E poi dargli ordini è più divertente di quanto si potesse aspettare.
Comunque, nonostante Cora sia terribilmente indaffarata a creare perfette miscele, lo tiene costantemente sotto controllo: a quanto pare possiede una visione periferica eccellente. In più, non manca di lanciare occhiate alla porta dell’ufficio di Bart ogni due minuti.
Poi pensa che probabilmente anche lui si sentirebbe sollevato: è una serata d’inferno e per quanto la riguarda accetterebbe anche l’aiuto di un rapinatore di banche. Certo, lo terrebbe lontano da casse e resti, ma questa è un’altra storia e si sta distraendo con pensieri che alle due di mattinata, nel boom della serata, non può concedersi di fare. E poi deve tener d’occhio che un attore decisamente scentrato non le distrugga l’angolo bar.
O non flirti con due ragazze more, proprio come in quel momento.
Non è serio.
Abbandona per un attimo il Manhattan e lo guarda furente.
No, non le importa che stia flirtando con la fotocopia di Bella Hadid e Barbara Palvin, le importa che stia flirtando quando le avrebbe già dovuto recuperare un bottiglia di gin dalla mensola più alta.
Si, certo.
Termina velocemente il Manatthan lasciando scivolare nel bicchiere una ciliegia. Forse lo fa con troppa irruenza. Poi lo afferra insieme al Cosmopolitan lì accanto e marcia verso i due clienti in attesa. Si avvicina e prima di annunciare l’ordine e far scivolare i bicchieri sul bancone, urta di lato un Chris spaparanzato sulla superficie del piano, proteso verso due perfetti sorrisi affabili e incorniciato in una risata di risposta a qualsiasi cosa loro gli stiano dicendo. Forse avrebbe dovuto scostarlo con giusto un pizzico d’impeto in meno. No, va bene così.
Sorride come se nulla fosse ai due clienti e si volta appena per tornarsene in postazione. La sua visione periferica, comunque, si rivela decisamente notevole: lui la sta guardando con un ghigno divertito che non promette bene.
 
 
 
Chris le si avvicina con il trionfo dipinto in viso. Lei è in punta di piedi mentre cerca di recuperare un vasetto con all’interno delle foglie di menta. Si ferma proprio alle sue spalle, allunga un braccio sopra la sua testa e con un gesto totalmente ingiustificato le posa una mano sul fianco. Afferra il contenitore e abbassa lentamente il viso per sussurrarle: «Gelosa. Terribilmente gelosa.»
Si allontana e posa la menta sul piano di lavoro, per poi appoggiarvisi e attenderla a braccia incrociate. Un sorriso sfacciato stampato a mezza luna.
Gli si accosta silenziosa, ignorandolo. È furiosa.
«Primo scaffale. Ultimo mobiletto. Secondo ripiano. Rum», scandisce semplicemente lei strappando con cura le foglie di menta.
«Ora», aggiunge voltandosi finalmente di lato per stilettarlo con uno sguardo assassino.
«Mi piace quando ti imponi.»
«Non hai ancora visto niente.»
«Lo spero.»
Lei chiude gli occhi e sospira spazientita.
 
Manca ancora un’ora alla chiusura, ma il locale inizia lentamente a svuotarsi e l’angolo bar può finalmente prendere una boccata d’ossigeno.
Chris è seduto sul piano di lavoro con le gambe penzoloni mentre la ragazza-palcoscenico si limita perlopiù a pulire bicchieri e superfici. Ha i capelli raccolti e lui non può fare a meno di scrutarle il viso.
È stranamente silenziosa ed è evidentemente esausta. Gli occhi stanchi gli suggeriscono che potrebbe anche addormentarsi in piedi in quel preciso istante.
Chris si ritrova a pensare che gli piacerebbe poterla avvicinare e farle poggiare il capo al petto. Le scioglierebbe la coda e le massaggerebbe i capelli mentre lei chiude gli occhi.
Tratteggiare quelle immagini gli provoca un fremito.
Ora sembra distratta: continua a mettere in ordine, ma ogni tanto lasciare vagare lo sguardo sulla pista. Non sa cosa stia cercando, sa solo che lo sta ignorando e questo – ammette rassegnato – lo indispettisce.
Poi diventano sempre meno casuali, quelle occhiate, e si accorge che alza il capo sempre verso lo stesso punto.
Gli viene quasi automatico: si volta per inseguire la traiettoria dei suoi sguardi.
E dei suoi pensieri.
Nota tre ragazzi scendere dalle scale che portano al privé. Il primo di loro – giacca di pelle, moro, occhi freddi– si distacca dal gruppetto e si dirige verso il bagno, passando davanti al bancone del bar.
Chris torna a puntare la ragazza-palcoscenico al suo fianco e la vede con un bicchiere in mano, immobile: il suo sguardo è fisso sul belloccio e lo segue, lo segue fino a quando non scompare oltre la porta dei servizi.
Cristo, e sta ancora guardando quella porta.
No, non è infastidito. Per nulla.
Lei sospira e riprende quello che aveva interrotto, ma lo fa con un che di malinconico dipinto sul viso.
Ok, è infastidito.
Sente una nota amara incastrarsi in gola.
«Un biker. Sei segretamente innamorata di un biker? Sai, ero convinto avessi un altro prototipo di ragazzo ideale.»
Lei si blocca di colpo e aspetta in silenzio qualche secondo.
«Un biker. L’hai dedotto dalla giacca di pelle? Hai una fantasia terribile», dice poi continuando a non degnarlo di uno sguardo.
Sì, è decisamente indispettito.
 «Non hai risposto.»
«Ti interessa così tanto?»
Si.
Ma non risponde: si limita a scrollare le spalle fingendo noncuranza.
Noncuranza che va a farsi benedire quando bell’imbusto esce dal bagno e – siano maledetti gli scherzi del destino – si dirige con una camminata pateticamente spavalda verso di loro.
Com’era facilmente prevedibile, ignora bellamente Chris e si rivolge alla ragazza-palcoscenico.
Prima ancora che lui dica qualcosa, lei si apre in un sorriso eccessivamente smielato.
«Scusa, non vorrei disturbarti, ma ieri sera un mio amico ha lasciato per sbaglio la sua giacca di jeans su un divanetto del privé. Ci chiedevamo se magari l’aveste vista e-»
«Nessun disturbo. Ogni cosa che ritroviamo la mettiamo in una stanza al piano di sopra in attesa del legittimo proprietario. Se mi segui, posso accompagnarti e proviamo a cercarla.»
Una stanza. Al piano di sopra. Una stanza. Se mi segui. Una stanza.
No, no, no.
Chris balza giù dal ripiano.
«Oh, ma non ti preoccupare. Tu sei abbastanza indaffarata», esordisce con eccessiva euforia.
Si avvicina alla ragazza-palcoscenico e guardandola dritto negli occhi dice beffardo: «Lo accompagno io.»
Lei sbianca. Lui sorride trionfante e mentre si allontana per raggiungere il malcapitato biker, le accarezza un fianco facendo scivolare le dita sotto il lembo della maglietta. Dura due secondi, ma riesce comunque a sentirla irrigidirsi. E lui pensa che la pelle d’oca appena accarezzata gli rimarrà probabilmente impressa sui polpastrelli.
 
Quando torna dal suo noioso giro turistico, lei sta sogghignando. Lui la guarda perplesso e torna sedersi penzoloni nella stessa postazione di poco prima.
«Scusa, ti ho sottratto un prezioso momento d’intimità con Mister Giacca di Pelle. Però sai, le ragazze rischiano molte volte di perdere la testa per i belli e dannati, quindi mi sono sentito in dovere di test-»
Lei scoppia a ridere prima che lui possa finire di parlare.
È confuso, decisamente confuso.
«Mai visto prima d’ora quel tizio», ammette lei con tranquillità.
«Ferma, ferma, ferma. E i sorrisi smielati? La voce per metà imbarazzata? Quell’eccessiva gentilezza? Gli occhi da cerbiatto? Tu che lo segui con la sguardo per circa un minuto intero? Tu imbambolata a fissarlo?»
Lei si avvicina con una strana espressione dipinta sul volto: una miscela di soddisfazione, irriverenza e trionfo.
Lo raggiunge, ma sembra non volersi fermare.
Chris va in cortocircuito. Non si staccano gli occhi di dosso, ma mentre lui è vittima di un respiro che si è incastrato in gola, lei sfodera una sicurezza disarmante.
La ragazza-palcoscenico poggia con nonchalance una mano sul suo ginocchio e Chris, con una tremenda naturalezza, apre di poco le gambe per lasciarla avanzare. Lei si alza in punta di piedi e con un gesto totalmente ingiustificato lascia scorrere le dita sottili dietro la nuca di Chris, avvicinando poi felina le labbra al suo lobo. E sussurra: «Geloso. Terribilmente geloso.»
 
*
 
Cora lo vede.
È appoggiato ad una delle colonne di marmo con le braccia incrociate. Indossa di nuovo quel detestabile cappello e annuisce mentre un ragazzo riccio gesticola freneticamente al suo fianco.
Ogni tanto si volta per gettare un’occhiata al palcoscenico deserto.
Cora è nascosta dietro le spesse tende di velluto del backstage, lo scruta e trattiene delle imprecazioni.
È venerdì, manca solo una manciata di minuti alla sua esibizione e si sente paralizzata.
L’agitazione delle settimane passate le sembra uno scherzo, in confronto. È convinta di non potercela fare. Non quella sera, non sotto i suoi occhi attenti, non nel suo momento di maggiore vulnerabilità.
Perché sì, quel palco spoglio è capace di renderla tremendamente fragile e al tempo stesso paradossalmente feroce. E quando è lì, sola nella sua arte, è sempre una scommessa. Non ha certezze.
Potrebbe lasciarsi sopraffare e cadere rovinosamente vittima di sé stessa, così come potrebbe sbocciare travolta dall’unica linfa vitale in grado di incendiarla.
Le luci si spengono e nella penombra si avvicina al centro del palcoscenico. Sente le gambe tremare e i battiti di un cuore prossimo al collasso pulsare fin nelle tempie.
La sta guardando, lo sa. Avverte due iridi cristalline bruciarle sulla pelle.
Chiude gli occhi e prende un respiro profondo mentre ronzii e sussurri riempiono un istante di silenzio che sembra eterno.
È una scommessa. Non ha certezze.
Eppure, quando la musica esplode, si aggrappa a quello sguardo cristallino che la incendia.
Per sbocciare, dopotutto, ha bisogno di ardere.
 
 
 
Sta ballando per lui, Chris lo sa. E pensa che quella colonna di marmo sia stato un colpo di fortuna, perché le sue gambe potrebbero cedere da un momento all’altro.
Si sente così stupido ad ammetterselo. E, tuttavia, vorrebbe che quella sensazione non scemasse mai.
Le centinaia di persona che riempiono il locale sembrano improvvisamente scomparse: ci sono solo loro due, lì, sospesi in quel momento.
La musica le scivola addosso come un abito di seta, come se fosse fatto su misura per quel corpo. Chris non sa cosa farebbe per poter accarezzare quella pelle su cui le note si posano gentili, per poter stringere quei capelli color ebano mossi da melodie, per poter annientare quella distanza.
Tra i loro corpi e tra i loro mondi.
Chris teme di essere ad un passo dal punto di non ritorno.
 
 
 
Sono le quattro del mattino, il locale ha già chiuso da mezz’ora e Cora aspetta che Bart esca dal suo ufficio per accompagnarla a casa. Una routine quotidiana a cui ha ormai fatto il callo.
Per evitare di crollare addormentata, si tiene impegnata a sistemare il casino lasciato da Bliss e dalla nuova recluta – un certo Miles o Mike o Mark - al bar.
Poi passa ai divanetti del privé.
Si sposta sul palcoscenico per mettere in ordine alcuni oggetti di scena.
Infine, sotto i riflettori accesi, si sdraia supina e rimane così, in un momento di quiete che le sembra utopico.
«Fammi capire, in questo posto ci dormi anche?»
Cora sorride continuando a guardare verso il soffitto, poi volta lentamente il capo alla sua destra.
Lui cammina con quel fare sicuro ed elegante, schivando le poltroncine seminate per il locale e raggiungendo il palco con un sorriso sghembo. Si appoggia alla superficie con le braccia incrociate, poi inclina la testa per intercettare lo sguardo di Cora.
Lei, nella stessa posizione, pensa che potrebbe rimanere ore a lasciare che lui la studi in quel modo.
«Che ci fai qui?», ribatte lei con un tono più dolce di quanto avrebbe voluto.
«Te l’hanno mai detto che non si risponde ad una domanda con un’altra domanda?»
«Ti sei accorto che l’hai appena fatto anche tu?»
«Lo sai che sei proprio una rompipalle?»
Cora rotea gli occhi al cielo e sbuffa: «Se avessi un oggetto qualsiasi a portata di mano te lo lancerei addosso.»
«Credimi: non ne ho il minimo dubbio», risponde lui allontanandosi appena. Nell’attimo di silenzio che segue, Cora vorrebbe sapere a cosa sta pensando. Sembra incerto mentre allunga di nuovo le mani verso la superficie del palco. Tamburella le dita per qualche secondo e poi si issa.
Cora perde un battito e si ritrova a deglutire quando i suoi occhi vengono attratti dal guizzo di quei muscoli. Inoltre, indossa una semplice t-shirt bianca che non rende sicuramente più semplice l’impresa del rimanere indifferente. Non appena capisce che si sta per avvicinare, si solleva automaticamente. Lui trattiene un sorriso: «Sei sempre così sulla difensiva?»
Lo osserva prudente mentre le si siede di fronte, a circa un metro di distanza, e sente le spalle sciogliersi da quell’improvvisa rigidità.
«Dovresti smetterla di farmi domande stupide.»
«Tu dovresti smetterla di eluderle tutte.»
Cora ha un difetto: cede alle sfide troppo facilmente. D’altronde, sa di essere abbastanza abile, ma più di tutto le piace trionfare.
Non sai proprio con chi hai a che fare, pensa.
«Non ho risposte interessanti da offrirti.»
«In qualche modo dovrò cercare di soddisfare la mia curiosità.»
«La tua curiosità è destinata ad una disastrosa delusione. Dovresti ringraziarmi, ti sto risparmiando un’utile perdita di tempo.»
«Che cosa consideri una perdita di tempo?»
«Questo, qualsiasi cosa sia.»
«Dovrai essere un pizzico più specifica.»
«Tu, qui, a cercare di protrarre qualcosa che ti lascerà inevitabilmente l’amaro in bocca.»
«È questo che temi? Che tu mi possa lasciare l’amaro in bocca?»
«Sì.»
Cazzo.
 
 
 
Scacco matto.
Chris tiene a freno un’espressione soddisfatta quando negli occhi di lei appare un guizzo che ha tutta l’aria di un’imprecazione trattenuta.
Quel “sì” – letalmente rivelatore – l’ha subdolamente tradita.
Lui lo sa, lei anche.
La ragazza-palcoscenico distoglie lo sguardo e Chris può vedere i suoi pensieri rincorrersi caotici alla ricerca di una scappatoia. Decide di soccorrerla.
«Non solo i tuoi consigli sono pessimi, ma a quanto pare anche le tue intuizioni.»
Lei torna a guardarlo e lui la attende con l’angolo della bocca sollevato.
Chris ringrazia le luci accese sopra le loro teste: per la prima volta la vede arrossire.
Vuole avvicinarsi ed è quasi totalmente sicuro che lei, in risposta, indietreggerà, ma non gli importa.
Striscia leggermente in avanti sotto due verdi occhi vigili. Quasi si stupisce quando lei non si sposta.
«Cora», dice lei semplicemente, abbassando il capo. «Il mio nome, Cora.»
Cora.
Ora sì che è piacevolmente sorpreso.
«E no, non dormo qui», continua, giocherellando con le dita, «ho un letto discretamente comodo in un appartamento di periferia che è troppo spesso in disordine. Un quartiere tranquillo, ma in realtà nemmeno troppo. Per questo ogni sera Bart insiste per accompagnarmi a casa. Bart è il proprietario del Roytz e Bart è evidentemente in ritardo, anche se trovo più probabile che si sia addormentato in ufficio.»
Chris non dice nulla, ma si avvicina ancora. E lei non si sposta.  
«E sì, tendenzialmente sto sulla difensiva. Più che tendenzialmente mi comporto da stronza. Decisamente sempre le mie ragioni si rivelano più che giustificate.»
Seduti entrambi a gambe incrociate, le loro ginocchia finalmente si toccano.
Lei torna a posare uno sguardo meno agguerrito su di lui: sembra ipnotizzata dalla catenella dorata che porta al collo e che scivola dolcemente sulla maglietta bianca. Il ciondolo rotondo in mezzo al petto.
Chris sente le mani fremere per quanto vorrebbe sfiorare le dita che lei sta ancora torturando con malcelato nervosismo. No, non si limiterebbe a sfiorarle. Vorrebbe stringerle e accarezzarle la base del collo ora leggermente inclinato, lasciato scoperto dai lunghi capelli color ebano.
Abbassa un attimo le palpebre come per carcare di scacciare quelle fantasie, poi parla: «Ti stavo aspettando, fuori. Speravo di intercettarti tra la fiumana di gente che poco più di mezz’ora fa ha abbandonato il locale. Probabilmente mi sarei proposto di accompagnarti a casa e avrei sperato che tu abitassi lontano, per passare quanto più tempo possibile a punzecchiarti. Non ti nascondo che altrettanto probabilmente avrei provato a baciarti e che arrivati a destinazione ti avrei chiesto di rimanere lì, anche seduti su un marciapiede, solo per sentirti raccontare qualcosa di te, della tua vita. Ti avrei ascoltato assorto, ma – sempre molto probabilmente – ti avrei interrotto a metà discorso per baciarti di nuovo. Sarei rimasto con te fino all’alba, fino a quando un agente rompipalle non mi avesse chiamato tre volte di fila per urlarmi di precipitarmi ad un noioso incontro di lavoro. Per questo sono qui, ora, alle quattro di mattina, in un locale deserto.»
Non sa perché ha detto tutte quelle cose, sa solo che non è riuscito a trattenerle.
E ora non sa cosa aspettarsi.
Lei ha smesso di torturarsi le dita, ma continua a evitare i suoi occhi. Sembra cercare rifugio in un punto qualsiasi della sua maglietta, forse incapace di elaborare quel fiume di parole.
La vede mordersi il labbro inferiore nel tentativo di soffocare un sorriso che rischierebbe di esporla troppo. Alza lentamente il capo e lo scruta in un silenzio quasi irreale. Si sente studiato e terribilmente vulnerabile.
Poi lei allunga una mano verso la catenella dorata. Chris perde un battito – e il respiro – non appena inizia a rigirarsi il ciondolo tra le dita. Socchiude leggermente le labbra mentre rimane imbambolato davanti ad un momento che – non sa come – gli sembra così intimo.
«Tu sì che sai dare risposte esaustive», dice finalmente lei.
Dalla ragazza-palcoscenico non poteva certo aspettarsi una reazione classica e tradizionale.
«Dovresti prendere appunti.»
«Tra le righe dico molto più di quello che pensi.»
Ora lo guarda negli occhi, ma tra le dita stringe ancora il ciondolo e Chris spera che non lo lasci.
La sente così vicino, con quello stupido gesto. Un passo nel suo mondo, a sfiorare la sua realtà.
Perché Chris vorrebbe disperatamente lasciarla entrare nella sua vita e farsela stravolgere. Ed è un pensiero che diventa così doloroso, mentre la guarda con gli occhi di chi vorrebbe prendersene cura sapendo di non poterlo fare.
Per giorni ha evitato di scendere a patti con la realtà; per giorni ha ignorato la voce che lo supplicava di tornare sui suoi passi; per giorni ha saputo reprimere la consapevolezza che, in quel modo, si sarebbe brutalmente bruciato e che, allo stesso tempo, anche lei si sarebbe scottata.
«Lunedì parto.»
Lo dice così, come un segreto diventato troppo insopportabile.
Lei abbassa le iridi macchiate d’oro sulla catenella, si apre in un sorriso amaro, ma torna subito dopo a guardarlo in viso.
Dall’angolo delle labbra leggermente sollevato e un velo di malinconia negli occhi, Chris capisce che lei era già pronta a quel finale. Lo attendeva con grigia consapevolezza.
«Riprese dall’altra parte del mondo?»
«Più o meno.»
Nel sorriso cauto che gli regala, Chris ritrova un po’ di quella melodia che li lega, che li ha legati fino a quel momento, nonostante l’incombenza di una scomoda realtà. E si sente tranquillo, confinato con lei in quella cornice; si dice che va bene così, se per quella notte vuole rimanerci ancora per un po’.
«Ho una curiosità.»
«Dimmi.»
«Sappi che pretendo una risposta esaustiva», ammonisce lei con l’accenno di una risata.
Chris socchiude leggermente gli occhi e la guarda perplesso. La incita a continuare.
«Robert Downey Junior è così spaventosamente attraente anche dal vivo?»
Gli ci vorranno sicuramente più di dieci minuti per elaborare l’assurdità di quella domanda.
«Dimmi che stai scherzando.»
«Nossignore.»
«Mi stai velatamente confessando che non sono io il tuo Vendicatore preferito?»
«Chris, mi duole dirtelo, ma avrò visto sì e no due spezzoni dell’intera saga e posso assicurarti che mi sono bastati per capire che Capitan America è un rompipalle senza precedenti.»
Cristo, quella smorfia irriverente.
 
*
 
È domenica sera e Cora pensa a lui.
Nonostante sia immersa in una folla decisamente poco sobria, Cora riesce a sentirne la voce e a vederne l’immagine. Le sembra di poter ancora sfiorare quella catenella d’oro e inspirare quel profumo che le ricorda tanto un tramonto sul mare. Sa, con amara consapevolezza, che non lo rivedrà mai più, che nel momento in cui le sue dita hanno lasciato quel ciondolo la loro cornice di bizzarra melodia si è irreparabilmente distrutta. Lo sa, ma lo ha sempre saputo.
Si dice che doveva andare così, che ha avuto un assaggio di qualcosa che probabilmente l’avrebbe comunque incenerita.
Ora può tenersi stretta quei colori e quelle note, quelle parole e quelle sensazioni cucite sulla pelle senza che le lame di un incerto e caotico futuro possano minacciarla.
Dovrebbe sentirsi fortunata, in un certo senso.
 
 
 
Ha il volo tra meno di quattro ore, ma non gli importa.
È lì, nel bel mezzo di un concitato via vai di gente, e la guarda. Con lei c’è quel ragazzo gracile e dai capelli biondo platino del privé, quello della glassa al cioccolato. La sta accompagnando in giravolte a dire poco ridicole e lei sorride. Le sembra distratta, ma sorride.
Chris si dice che dovrebbe tornarsene indietro. Che non dovrebbe rovinare quel suo momento di apparente serenità. Eppure, qualcosa lo tiene inchiodato al pavimento lucido.
Non può lasciarla così, vuole…dirle addio?
Tentenna.
Non può sapere se mai la rivedrà, sa solo che ogni volta che tornerà a Los Angeles la cercherà.
Anche solo per guardarla da lontano, come in quel momento.
Non può di certo apparire nella sua vita come un vecchio zio dall’Australia e tormentarla per una manciata di giorni per poi tornare a quella giostra frenetica che è il suo mondo.
Molte volte stupido, troppe volte incompleto. Ma è il suo mondo, e la rovinerebbe.
Non vorrebbe cedere. Non vorrebbe, ma sa che lo farà.
Forse le dirà addio, forse no. Per ora, l’unica cosa che l’istinto lo spinge a fare è chiederle di ballare.
Recupera i cocci di quella cornice di bizzarra melodia e si avvicina.
 
 
 
Cora perde un battito. Sente una mano gentile e al tempo stesso decisa avvolgerle il polso. Non ha bisogno di voltarsi: la pelle d’oca è una prova decisamente inconfutabile.
Guarda Trev ridere sguaiatamente con altri due ragazzi e le sembrano così lontani, in quel momento. Prende un respiro profondo e poi si volta.
Si guardano negli occhi per istanti che sembrano eterni. Lui scioglie la sua presa e le rivolge il palmo della mano, in un invito: «La ballerina più celestiale di tutta Los Angeles non può proprio rinnegarmi quest’onore.»
Sarà quel mezzo sorriso, quelle luci che giocano sui loro volti, la musica nell’aria, o forse lei, che si sente ardere.
Recupera i frammenti di quella cornice di melodia e gli prende la mano.
 
 
Non sanno quanto tempo passano a giocare come due bambini, mentre si scrutano e si sfiorano con un’innocenza che poco a che fare con il candore dei più piccoli. C’è un velo di musica che li avvolge, il suono d’intime risate che li accende e un tempo immobile che li rende eterni. Eterni nel frammento di una notte prossima all’alba.
Si perdono in un continuo rincorrersi.
Chris le accarezza un fianco e ride posandosi sul suo collo.
Cora posa una mano sul suo petto e lo allontana con un sorriso di sfida, poi lo riavvicina e ride, ride ancora.
E così in un’irrefrenabile giostra di sguardi e silenti confessioni.
Poi, nella frenesia del mondo che li circonda, si ritrovano più vicini di quanto non fossero mai stati.
Immobili.
Lui l’attira verso di sé, le infila una mano tra i capelli color ebano e li stringe mentre lei poggia con dolcezza il capo sul suo petto. Cora si culla in quell’abbraccio che la fa tremare. Lascia che la musica scivoli su di loro, che quella canzone le si depositi sulle palpebre e si cicatrizzi in qualche punto della sua anima.
Con dolorosa naturalezza, Cora lascia scorrere la mano sulla maglietta di Chris. Non se ne rende nemmeno conto, ma sta cercando quel ciondolo dorato. Non lo trova e si limita a stringere le dita attorno al tessuto, aggrappandosi a quel momento con forza.
Le labbra di Chris sfiorano i capelli di Cora mentre la stringe in un abbraccio che vuole imprimersi sulla pelle. Inspira il suo profumo e torna a vedere quelle immagini: un bosco, un timido germoglio, nuvole bianche e lenzuola celesti.
Immobili.
Cora sente le dita di Chris carezzarle dolcemente il collo mentre si abbassa per lasciarle un bacio sulla tempia. Sospira quando sente il suo respiro tra i capelli, sfiorarle gli zigomi e qualcosa di invisibile agli occhi. Cora lo sa, quello è il loro addio.
Le labbra di Chris tremano mentre le lascia un altro bacio sulla pelle diafana e sussurra: «Buonanotte, Cora.»
Lei si era sempre chiesta quale effetto potesse farle sentire il suo nome tingersi di quella voce. Ora lo sa ed è qualcosa che non dimenticherà quando altre labbra lo pronunceranno.
Si sciolgono da quell’abbraccio e la loro cornice torna a frantumarsi.
Lui le regala un ultimo sguardo pieno di silenzi roventi e si volta.
Mentre Cora lo segue scomparire tra la folla, la avverte.
Abbassa quasi con timore il capo.
La vede.
Lì, incastrata tra le dita.
Una catenella d’oro.
 
*
Un paio di inverni più in là
 
 
Flash. Voci. Applausi. Vestiti eleganti. Gioielli. Tappeti rossi. Interviste. Autografi.
Chris è circondato da alcuni colleghi – tutti in smoking – e colleghe – in accecanti abiti da sera.
L’entrata del Dolby Theatre è avvolta da un’euforia esplosiva. Le urla dei fotografi e i saluti calorosi di vecchi amici da set rendono l’atmosfera ancora più caotica.
Perso in risate generali e scambi di battute con i giornalisti, Chris si è già scontrato con un minimo di venti persone, per poi realizzare ogni singola volta: “Oddio, ma sei tu! È passato troppo tempo…”
E così per un tempo indefinito, nel bel mezzo di quell’eccitante attesa.
Si sente la testa leggera, come sospeso in un che di onirico, e il via vai concitato degli ultimi minuti non aiuta di certo.
Alcuni tecnici imprecano infervorati mentre schizzano da una parte all’altra, ignorando tutti quei volti noti con solida maestria. O noncuranza.
Un uomo tatuato con una lunga treccia eccentrica gli passa accanto battendo due volte le mani, poi si ferma poco lontano poggiandosele sui fianchi: «Paul! Hai due secondi di tempo per raccattare tutti gli scapestrati della seconda esibizione. E uno ti servirà per rispondermi “Sissignore!”.
Anche lui, come i tecnici di poco prima, è parecchio infervorato.
«Ballerini», sospira poi con un tono a metà tra l’esausto e il nauseato.
Scompare e Chris viene distratto da un vecchio amico che sta per gettargli le braccia al collo e – probabilmente – soffocarlo con la sua stazza spropositata.
Mentre chiacchierano amabilmente, scorge al di là di quella muraglia di pettorali e bicipiti un familiare volto caffelatte. No, non è un’attrice. E no, non è una giornalista. Indossa una felpa nera su un completo da scena e mentre gli passa accanto come una scheggia, la sente imprecare un “merda” dietro l’altro. Poi, nel mezzo della sfilza di improperi, mastica un “muoviti!” rivolto alle sue spalle.
Lo supera e Chris continua a domandarsi dove ha già visto quel viso incorniciato da lunghe treccine nere come la pece.
Probabilmente è lo champagne.
Scuote la testa e torna alla sua conversazione.
Mentre racconta dei suoi ultimi sei mesi in Europa, qualcuno lo sorpassa colpendo di striscio. Ma prima di voltarsi in maniera automatica, percepisce una delicata carezza sul dorso della mano infilata nella tasca dei pantaloni.
Un silenzio irreale lo investe con una prepotenza a cui non era minimamente preparato; sente solo un ronzio fischiargli dolorosamente nelle orecchie.
Avverte il respiro incastrarsi tra le costole nel momento in cui le sue dita accarezzano qualcosa di decisamente familiare. Il cuore gli pulsa fin nelle tempie.
Non è possibile. È sicuramente lo champagne.
Estrae la mano dalla tasca e abbassa lo sguardo con una lentezza dolorosa. E poi la vede. Lì, a ciondolare tra le sue dita. La catenella dorata. Quella catenella dorata.
Si volta di scatto, ma vede solo delle tende scostarsi e inghiottire un’ombra.
Rimane lì, a fissare ipnotizzato i residui di quel movimento ondulatorio
Ti prego.
Poi una mano scosta le tende, quasi timorosa. Un passo avanti e compare un volto adombrato dalla visiera di un cappello.
Chris non può vedere nulla di quel viso, se non un mezzo sorriso. Una smorfia decisamente irriverente.
Le stesse dita che poco prima lo hanno sfiorato con studiata dolcezza si premurano di togliere di mezzo quello stupido cappello.
Una cascata di capelli color ebano si scioglie con quella che assomiglia molto a una melodia assaporata e mai dimenticata.
Pagliuzze dorate su uno sfondo verde bosco.
Chris sorride come un ebete.
È lei, è la sua ragazza-palcoscenico.
   
 
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