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Autore: Gaia Bessie    16/04/2021    6 recensioni
A lezione, Alice disegna sempre – funghi viola, mangiami, bottiglie di liquori che sembrano uscite da una pubblicità, bevimi: Alice nel paese di carta ride, quando il professore non la guarda, e aggiunge solamente un altro tratto.
A vent'anni, Alice si trova a confrontarsi con i grandi problemi della sua vita: la decidibilità, il binge-eating, Leo e Finn.
[OS | Tematiche Delicate | Prima classificata e vincitrice del premio classifica Mystery al contest “Evocami col mio nome, ti svelerò i miei segreti – Edizione speciale Setsy&Mystery” indetto da Setsy e mystery_koopa sul Forum di EFP]
Genere: Angst, Drammatico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
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Il teorema della decidibilità
 
Firenze lo sai, non è servita a cambiarla
La cosa che ha amato di più è stata l'aria
Lei ha disegnato, ha riempito cartelle di sogni
 
A lezione, Alice disegna sempre – funghi viola, mangiami, bottiglie di liquori che sembrano uscite da una pubblicità, bevimi: Alice nel paese di carta ride, quando il professore non la guarda, e aggiunge solamente un altro tratto.
Un tratto di matita, lei, per quant’è sottile e comunque mette una tale furia, in quel disegno, che non si comprende com’è che abbia deciso di studiare ingegneria e non arte, anche se lei lo dice a chiunque sia disposto ad ascoltarla: che l’arte è opinabile, e lei nella sua vita vuole solamente certezze.
Così, quando il professore parla dell’algoritmo di Turing, lei si sente a disagio con sé stessa – deve esserci una soluzione a ogni problema, e lei la vuole trovare. Per un momento, smette di disegnare, e i suoi sogni non respirano più nella carta: sono incubi, dove Alice vorrebbe solamente una certezza matematica e per questo dimostrabile e infalsificabile.
Sei contraria al metodo scientifico, le hanno detto, il falsificazionismo è alla base della conoscenza. Forse, risponde lei ogni volta, la matematica non è tutto nella vita – ma, che altro ci sia, io non lo so. So solo che me ne voglio andare da questa città di merda, c’è troppa interpretabilità a Firenze, troppa arte e io non sono una persona artistica.
Batte il piede sotto la sedia, per ribadire il concetto: prima il tacco, poi la punta, e con le ballerine rosse – in una parodia slargata e graffiata delle decolté in vernice su cui non sa camminare – fa un rumore tale che la sente tutta l’aula, o così le pare.
«Ma ci sarà pur qualcosa che ti piace di qui, no?» le domanda Leo, porgendole la giacca quando finalmente il professore lascia l’aula. «Non puoi dire che è tutta una città di merda».
«Mi piace l’aria» commenta lei, con aria vaga. «Si sente che ci si può dipingere un capolavoro, qui. Peccato che io non sappia dipingere, no?».
In realtà, e questo Leonardo non lo sa, Alice dipinge benissimo – ma s’è macchiata l’anima, una volta, e allora ha smesso quella dopo: la pittura fa male, quando la respiri, e lei respira i suoi disegni più di quanto loro non facciano con lei.
«Non capisco perché tu sia voluta venire qui, allora» commenta lui, scrollando le spalle. «La facoltà di ingegneria informatica a Pisa è ottima, no?».
Lei non gli dice che era persino entrata alla Normale in matematica e alla Sant’Anna in ingegneria informatica, perché quel suo cervello bacato funziona un po’ così, un po’ scricchiolando e boccheggiando, e allora ha rifiutato il posto: perché l’aria di Pisa non sa di arte, o forse sì, ma a lei lasciava solamente un retrogusto di insoddisfazione sulla punta della lingua. Ci sono sapori che pungono esattamente lì e lasciano vestigia, tracce intangibili, del loro passaggio: Pisa è, per Alice, quel sapore. Un misto di vin santo e panforte, con un retrogusto di uva passita che in bocca diviene tutto uguale – tutto lo stesso schifo.
«Tu sei venuto qui dalla Calabria» commenta lei, alzando il sopracciglio. «Io sto a un’ora di treno, posso tornare a casa, se voglio».
Lui non commenta, ma le prende la borsa e se la carica in spalla, con l’angolo della carpetta dei disegni di Alice che gli punzecchia la gamba – ma a Leo non importa – anche attraverso i jeans scuri.
«Pranzi con me e gli altri?» le domanda, conoscendo già la risposta. «Almeno oggi, Ali, ti va?».
Ma lei scuote il capo, e lui sa perché è solamente un tratto di matita: Alice non mangia mai, non in pubblico, almeno.
Però, Leo lo sa – che quando arriva a casa, Alice mangia la pasta, biscotti, e tutto quello che trova in frigo. Non vomita mai, l’idea la disgusta così tanto da frenarla, ma poi non mangia per tutto il resto del giorno e, allora, non ingrassa mai e rimane eterea e irraggiungibile come le linee sfumate dei suoi disegni.
Leo sa e finge di no, quando le prende la mano e sente solamente il cuore che batte ansioso dietro le vene. Non la bacia nemmeno più, lei sembra non volere mai e, quando vuole, non chiede ma ottiene.
L’ama. Disperatamente – perché lei lo fa disperare così tanto che, alla sera, Leo si siede sulla sponda del letto a domandarsi perché Alice voglia morire in quella maniera così silenziosa, così coerente: perché, si dice, forse la morte sarebbe l’unica certezza che la vita le potrà mai concedere e, allora, così sia. Alice deve morire.
«No, Leo» risponde lei, con un sorriso dolcissimo. «Vado a casa, ho l’insalata di riso da finire prima che vada a male… ci vediamo domani, te lo prometto».
Ma è la promessa che Alice gli fa ogni giorno e che non rispetta mai: sul Lungarno, però, sembra più vera del solito, forse perché lei lo dice con quello sguardo pieno di speranze, forse perché lui vuole disperatamente crederle.
«Va bene, Ali» sussurra, consegnandole indietro la borsa solamente sulla soglia di casa sua. «Ci vediamo domani?».
Lei pensa che domani non vorrà andare a lezione, perché a cena avrà mangiato troppo e dovrà andare a correre per tutta Firenze, per smaltire quei cioccolatini che ha comprato la settimana scorsa e cui ha pensato continuamente. Ogni. Singolo. Giorno.
Lei pensa che domani non vorrà andare nemmeno a correre, ma lo farà, e tanto vale andare a lezione dopo, così sorride e le tira tutta la faccia, in un ghigno che sa di gloss rosa confetto.
«A domani!» esclama, con una gioia che non prova, e si china per dargli un bacio sulle labbra.
Freddo.
Alice è gelida, quando lui la stringe, ed è a malapena ottobre e le giornate non sono ancora ghiaccioli d’esistenza da scaldare con il fiato. Alice è gelida, quando prende la cartella – azzurra, come i suoi occhi, e si chiude la porta dietro e spalle.
Leo sospira, e il fiato diviene vapore: il rumore di quella porta sbattuta potrebbe rompergli il cuore, definitivamente.
 
***
 
C’è l’insalata di riso fatta il giorno prima, quella con i pezzetti di wurstel e la maionese, sì, con poco mais perché ha una consistenza che le ricorda la gomma pane e allora le fa schifo pensare di mangiare qualcosa con cui sfuma il colore sulla carta. Alice ne mangia un piatto piccolo, ma il suo corpo – prima ancora della mente – lo sa, che potrà disegnarsi come un trattino e contenere al suo interno un mondo che preme per uscire fuori.
O, per entrarle dentro e non uscire più. Così è un piatto di insalata di riso, con i cetriolini che le scrocchiano sotto i denti, e poi è un secondo piatto e poi basta.
No, no, Alice, basta che?
Alice sospira, mette su l’acqua per la pasta, c’è un barattolino di pesto mezzo finito nel frigo – dirà a Paola, la sua coinquilina, che ha avuto ospiti a pranzo, se mai dovesse domandarle se può finirlo lei – una busta di grana ancora da aprire.
C’è il telefono che squilla, un messaggio dopo l’altro – mi chiami, perché non chiami mai? – e sua madre non riceve risposta, non adesso, adesso Alice è occupata, adesso Alice vuole semplicemente implodere.
Il timer suona, la pasta è già finita, ma non ne aveva calato mezzo pacchetto? Lei sospira nuovamente, si guarda attorno con aria turbata: basta, Lis, si dice, basta. Ma ha già le mani perse tra gli scaffali del frigorifero.
Suona anche il telefono, lei sbuffa e lascia l’anta dell’elettrodomestico spalancata, mentre corre a rispondere.
«Mamma» sospira, con una calma che non prova. «Ti avrei chiamata stasera».
Torna a fissare dentro il frigorifero, tira fuori una mozzarella dal proprio ripiano e l’apre nel lavandino. L’acqua le schizza la maglia nera, ma non importa, non importa, non importa.
«No… no, mamma, sto bene» borbotta, rigirandosi quella perla bianchissima tra le dita. «Preparavo da mangiare. Sì, la pasta, un po’ di pesto. No, non mangio altro: non ho molta fame, oggi, devo studiare tanto».
Sua madre borbotta qualcosa di terribilmente ansioso, dall’altro capo della cornetta, facendola sospirare.
«Certo che mangio abbastanza, mamma, non preoccuparti» risponde. «Sì, anch’io ti voglio bene. Un bacio».
Attacca la telefonata, la mozzarella le sgocciola in mano e liquido torbido le scivola dal polso fino all’avambraccio. Non ci penso nemmeno, urla una parte del suo cervello, cosa stai facendo?
Ma lei si china e morde la mozzarella così, senza posate, come il fottuto animale che sente d’essere: in tre morsi, è già finita.
Una parte di lei si domanda che senso abbia mangiare la mozzarella light, se viene dopo mezzo pacco di pasta, due piatti di insalata di riso e chissà che altro ci sarà dopo. Si deve sedere, perché le tremano le gambe: Alice è abituata a contare a mente e il conteggio delle calorie ormai è un rito sistematico, inutile, perché sa già quanto non dovrà mangiare oggi e domani, quanti kilometri dovrà correre per smaltire.
Sono tante, si dice, tantissime – e non le basta comunque, il frigo la chiama e lei risponde, non ha la pazienza di dire di no, non ha la forza d’allontanarsi.
Mette la pizza surgelata in forno, nel mentre mangia due banane, una dietro l’altra, senza criterio – dolce, salato, importa qualcosa?
Importa solamente sentirsi così pieni da far male, che è anche il solo momento in cui riesce a smettere. Una banana è ammaccata e a lei fanno schifo, le parti scure del frutto, ma non ha voglia di tagliarle via e allora le mangia comunque: mangerebbe anche la buccia, se non fosse sicura che almeno quella non sia decisamente poco commestibile.
Il timer del forno suona, la pizza è pronta e lei a stento riesce a tagliarla in quattro con la rotella, che deve addentarla, a costo di ustionarsi il palato, a costo di bruciarsi le dita nel prendere la teglia senza presine – cazzo, domani Leo se ne accorgerà e allora le domanderà amore, ma come hai fatto, e lei dovrà trovare una scusa credibile. Dirà che la teglia stava cadendo, e lei non ha pensato bene a quel che stava facendo, sì, dirà così: non dirà, Alice, che anche oggi s’è fatta male con i suoi stessi artigli.
Che ha preso la pizza – e che senso ha mangiare una margherita, come se stessi seguendo una dieta, se poi hai un grappolo d’uva e delle patatine fritte davanti, e i cioccolatini, e chissà che altro – e l’ha semplicemente ripiegata in quattro fette, addentandola con voracità.
Smetti di mangiare, si dice. Non s’è nemmeno resa conto di stare piangendo, finché non s’è asciugata la bocca e l’ha trovata bagnata, e allora Alice si rende conto che deve fottutamente smettere di ingozzarsi: tra mezz’ora Paola tornerà a casa, e non deve vederla in quello stato, nessuno dovrebbe (nemmeno lei).
Mette la teglia nel forno, pulita, lava i piatti con una precisione maniacale e con i guanti gialli: ha fatto il gel alle unghie da poco meno di una settimana e non vuole che si rovini, quel color ciclamino così inadatto alla stagione. Ma nella vita, Alice vorrebbe che fosse sempre estate, e allora che colori estivi siano.
Si sfila i guanti, li lascia ordinatamente sopra il lavello della cucina, prima di avvicinarsi alla soglia della stanza. Lì si ferma, per guardare il disordine che ha ripulito – come non fosse mai passata di lì. Alice sospira, non è pronta a lasciarsi perdere, non ancora: s’avvicina al proprio scaffale nella dispensa, e afferra il pacco di cioccolatini. Lo odia pure, il cioccolato al latte, ma ci sono le nocciole e quelle lei le adora.
Se lo stringe al petto, mentre si dirige in camera sua e sbatte la porta dietro le proprie spalle, facendosi tremare anche il cuore – e lo stomaco che già inizia a dolerle indecorosamente.
 
***
 
Caro il mio Barbarossa, studente in filosofia
Con il tuo italiano insicuro certe cose le sapevi dire
Oh lo so, lo so, lo so, lo so bene, lo so
Una donna da amare in due in comune fra te e me
Ma di tempo ce n'è in questa città
Fottuti di malinconia e di lei
 
 
Lo chiamano il Barbarossa, Finn Walsh, quello studente di filosofia imbucato al corso di analisi matematica due, per un motivo che nessuno ha mai ben compreso – ma s’è fatto benvolere a tal punto che, tra gli studenti di ingegneria, non ve n’è uno che non l’abbia preso in simpatia. Con quel suo italiano un po’ insicuro, comunque riusciva a esprimersi abbastanza correttamente: di madre italiana che l’italiano non gliel’aveva insegnato, aveva scelto Firenze per poter studiare filosofia, o magari per scappare dal bel mezzo del nulla irlandese nel quale era cresciuto.
Lo chiamavano il Barbarossa, ma quel nome gliel’aveva trovato lei, che era l’unica a capirne qualcosa di storia e filosofia nel bel mezzo di studenti di ingegneria, e allora lui – che pronunciava il suo nome all’inglese e non all’italiana – aveva preso a chiamarla Lis. E tutta la facoltà era un Lis di qui e Lis di là, con Leonardo che l’avrebbe semplicemente voluto strozzare e lasciare agonizzante sul pavimento dell’aula di analisi.
«Hi, Leo!» gli strilla il ragazzo, quella mattina, la barba umida di pioggia. «Hai visto Lis, sai… da qualche parte?».
Leonardo sospira, sopprimendo la voglia di gridargli di stare lontano dalla sua ragazza – ma che appartenenza potrà mai vantare, se Alice è libera nella sua spasmodica ricerca di una certezza che, lui, non sa come farle intuire.
«Dovrebbe arrivare tra poco» commenta, atono. «Era andata al ricevimento del prof di analisi, immagino non ci vorrà molto».
«Di tempo ce n’è» sbiascica l’irlandese, faticando a mettere in fila le parole. «Nothing fun, in questa città».
«No, infatti» conviene Alice, arrivando trafelata alle loro spalle. «Decisamente nothing fun, Finn, ma dovresti sforzarti di parlare di più in italiano».
Lui le regala un sorriso bianco come le perle – chissà cosa gli ha confidato, Lis, pensa Leo con tristezza, per farlo sorridere in quel modo: l’altra opzione, che lui si sia semplicemente preso una cotta per lei, non vuole contemplarla.
«Pranziamo tutti insieme?» propone Leo, di malavoglia. «Anche tu Finn, ovviamente».
«Oh, no, non dovevi darmi la tua opinione su quegli esercizi» domanda l’irlandese, guardando Alice. «You promised, Lis».
«Yes, I promised» commenta lei, sovrappensiero. «Per oggi temo che salteremo il pranzo: andiamo pure a casa mia, Palli oggi tornava a Viareggio dai genitori».
No, vorrebbe gridare Leo, non te ne andare – ma Lis ha la mano sinistra, è mancina, sporca di penna biro e un sorriso che stordisce. Forse, si dice, un po’ inquieta.
Il Barbarossa gli lancia uno sguardo di scuse, senza però dire una parola e porge il braccio ad Alice, come nei vecchi tempi – non prenderlo, urla Leonardo nella propria testa, se lo prendi ti giuro che è finita – e lei vi posa la mano, con dolcezza.
«Scusami» sussurra, inclinando il capo. «Domani pranziamo insieme, ti va?».
Leo si odia, per quel momento in cui semplicemente china il capo e dice sì, per favore: perché Alice sorride, gli volta la schiena e sparisce in un ticchettio di tacchi sull’asfalto.
 
***
 
Il sesso le fa venire fame, e lei ama avere fame più di ogni altra cosa, perché la fame la rende più viva, la fa ragionare in prospettiva di quando potrà finalmente saziarsi e tutto inizia a scorrere più veloce, finché non afferra la prima cosa che si trova davanti – una banana, patatine, perfino i tortellini crudi – e la ingurgita senza domandarsi alcunché.
Finn non s’è mai domandato perché si chiuda a chiave in cucina, quando lui si comincia a rivestire, e lì rimanga a mangiare e piangere pensando che, in fondo, Leonardo non se lo merita: l’ama davvero, si dice. Eppure, sulla pelle, l’odore del Barbarossa permane come lo strascico indesiderato di un ricordo.
Lui le ha aperto il cuore, spaccandosi le costole per farglielo vedere, e gliel’ha offerto come avrebbe potuto fare con una mela a Biancaneve – ma lei è Alice nel suo paese, o quasi, e allora che se ne farà di una mela? Mangiami, le dice lui, bevimi.
Signor Bianconiglio, mi potrebbe spiegare perché ho deciso di fare la tesi sull’unico teorema che dimostra la non decidibilità di alcuni problemi: io ho bisogno di cose certe, e non c’è certezza né in un input né nell’altro, allora perché?
Perché io voglio dimostrare che se è pensabile allora si può dimostrare – perché non hai scelto filosofia, Alice?
«Dovresti smettere di piangere, ogni volta che lo facciamo» le sussurra Finn, vedendola rientrare in camera e chiudersi la porta alle spalle. «Se cheating on Leo ti fa stare male, allora lascialo, no?».
Lei sospira, si siede sulla sponda del letto e nasconde la testa biondissima tra le mani delicate, troppo piccole per strapparsi i capelli dalla disperazione: Alice non è in una tragedia greca, ma lei è Elena, è Cassandra e tutte quelle Troiane che in Euripide si sono pentite d’aver assistito alla guerra. Alice è la consapevolezza d’esser stata sconfitta in una guerra che non aveva mai pensato di dover combattere, quella contro sé stessa.
Ha la guancia sporca di cioccolata.
«Lo pensi tu, che mi faccia star male» commenta, pulendosi distrattamente con la manica della camicia da notte. «Io sto benissimo, e tu?».
Lui sorride – a volte, sebbene sappia che Finn conosce l’italiano per via della madre, si domanda se la comprenda per davvero – e scuote il capo.
«Better than you» commenta, calmo. «Non fingere con me, Lis, I don’t deserve it e non ne abbiamo nemmeno bisogno».
Lei pensa che è fottuta, nel senso più letterale del termine: come la vita, con l’unica differenza che quella, quando può, ti fotte anche – e lei s’è fottuta il futuro a scopare con il Barbarossa, lì sotto lo sguardo malinconico di Leonardo, al posto di concentrarsi sulla stabilità che la sua vita dovrebbe avere.
È tutta una questione di controllo, si dice: fare, non fare, mangiare, digiunare. Tutta una questione di quanta maniacalità sai mettere nelle cose, di quanto testarda sei e – al diavolo Turing – non esistono input non decidibili. Tutto è decidibile, anche il fatto che lei si volti verso di lui alla ricerca dell’ennesimo bacio, dell’ennesima carezza che lui le concederà (e lei accetterà non di malavoglia): gli occhi le fanno male, bruciano, ma non piangerà più.
Tutte le volte, Alice si passa una mano sul viso, quando lui le sfiora i capelli in una carezza insensata, non voluta.
«Ha chiamato Leo» sussurra Finn, con l’aria più colpevole che riesca a raccattare. «Mentre eri in cucina».
Lei non riesce a fare a meno di pensare che Leonardo non sappia tutto e che, un giorno, le toccherà scusarsi di quella spaccatura che gli ha innestato nel cuore. Le toccherà dirgli non lasciarmi e tutte quelle altre cose che non penserà, ma Alice non sa stare da sola e Finn, che pur dice di amarla appassionatamente, non sarà mai la placida compagnia che Leo le offre forse senza passione, forse platonicamente, forse. Forse per amore, e rispetto.
«Hai risposto?» gli domanda, con un gruppo in gola – e sa di banana, patatine fritte, uva e cioccolata – che non ne vuole sapere di scendere giù.
Lui annuisce, ma è distratto: sta guardando tutti quei disegni che decorano la camera di Alice, le pareti troppo bianche, la bacheca sopra la scrivania (piena di bigliettini, post-it, poesie e frammenti di libri), ne ha appesi persino sopra l’armadio. Sono ritratti di Firenze – quell’aria che non sa di mare e che, per questo, le piace tanto – di Leo in primavera, Leo in autunno, in estate e in inverno. Il viso di Leonardo è quello che più ricorre in tutta la collezione di disegni, seguito da quello di Alice stessa: attraverso lo specchio, nel paese delle meraviglie, mentre beve, mentre mangia.
Chincaglierie, orologi, oggetti più disparati. E infine, esattamente sopra lo specchio, compare per un’unica volta il volto di Finn: non ingentilito come quello di Leo, non abbellito come quello di Alice. Finn è lì, sulla cornice di legno dello specchio, tale e quale a sé stesso – barba rossa, capelli lunghi e legati in un codino. Il disegno è in bianco e nero ma, lui ci giura, ci vede quasi il verde impossibile nei suoi occhi.
«Yes» risponde lui, calmo. «Ho risposto».
Lei sospira, guardandosi attorno come se i suoi disegni potessero fornirle una risposta – giusta, ingiusta, accettata, non accettata: basta che sia positiva o negativa, basta che sia decisiva e non incerta. Basta che funzioni, Leo, te ne prego.
«E che ti ha detto?» domanda lei, con casualità. «Forse domani vuole andare in qualche posto in particolare?».
«No, Lis» sussurra Finn, carezzandole il capo. «I’m so sorry».
Lo dice. Alice nemmeno lo comprende, perché è troppo occupata a pensare che non è possibile, che lei non ha tradito, perché per tradire ci vuole una relazione che lei e Leo non possono avere – si può tradire, tradendo, ma pensando di non aver tradito mai?
Alice non lo comprende, finché non s’allunga a prendere il telefono sul comodino e a comporre quel numero, rimanendo in attesa.
Ma Leonardo non risponde.
 
***
 
Il giorno dopo, Leonardo non si presenta a lezione e il posto accanto ad Alice rimane vuoto, nell’attesa. Lei picchetta il piede sul pavimento, con quelle ballerine un po’ graffiate in punta, e i jeans slargati sulla caviglia che le pendono quasi fino a spolverare la suola delle scarpe. Ma può picchiettare, e sbuffare, per tutto il giorno – lui non arriva.
Lui non arriva, così quando la lezione termina, lei esce a grandi passi, con Finn che la segue a ruota. Lo trova lì. Fuori dalla facoltà, a braccia conserte (e, in quel momento, lo comprende: non aspetta lei), che la osserva come fosse semplicemente un elemento del paesaggio, al pari di un albero o del muro su cui è appoggiato.
Alice ha l’anima sporca di biro, e allora non si avvicina, ma rimane a guardarlo mentre lo fa lui, a grandi passi, fino ad arrivare di fronte a Finn per mettersi a ridere. Può far male, una risata?
Lei non lo sa, ma sicuramente fa male vedere Leo che ha gli occhi pieni di lacrime, e allora sembrano solamente d’un nocciola annacquato, quando alza la mano e con un pugno fa barcollare il Barbarossa. Finn non replica. China il capo e dice quelle parole che lo fanno singhiozzare, come un bambino.
«Sono veramente dispiaciuto, Leo» mormora. «But I’m in love with her».
Lui si tiene la mano, la nocca dove la pelle s’è spaccata e sanguina, mentre il naso di Finn vomita sangue sulle labbra. Non ha più parole, ma d’altronde nemmeno Alice ne ha – è rimasta a guardare, in silenzio, senza dire una parola.
«Leo, per favore» sussurra, ma è così lontana che lui non può sentirla (o fa finta di non farlo). «Non lasciarmi».
Perché Leonardo singhiozza, e gli si spacca anche il respiro, quando guarda Finn e semplicemente glielo dice.
«Puoi essere innamorato di lei quanto vuoi» sibila, alzando il capo in un singolo moto d’orgoglio. «Ma io l’amerò sempre più di te, sarò sempre un passo avanti rispetto a te».
Oh, no Leo, pensa Alice distrattamente: tu starai sempre un passo indietro, a posare i tuoi piedi sulle mie impronte. E, quando mi volterò, tu sarai esattamente dove immagino che tu sia adesso: sulle mie impronte, nella sabbia umida, sempre pronto a sorridere e a perdonarmi.
Leo le si avvicina a grandi passi, per un momento, Alice si domanda se non stia sopprimendo l’impulso di dare uno schiaffo anche a lei. Ma Leonardo alza la mano, le sfila la cartella dalla spalla per posarla sulla propria, e la cartella con i disegni torna a battergli sui jeans scuri.
«Ti accompagno a casa» sussurra, stanco. «Ti sta bene?».
Lei annuisce, con segreta felicità.
«Io non so perdonare, Ali, è un mio grande difetto» prosegue Leo, stanco. «Ma so dire addio».
Ad Alice si spezza il cuore – per un momento, ha creduto nell’input sbagliato.
 
***
 
Ricordo i suoi occhi, strano tipo di donna che era
Quando gettò i suoi disegni con rabbia giù da Ponte Vecchio
 
 
Leo prende e se ne va: un giorno sparisce, prende l’aereo e torna in Calabria, non le scrive nemmeno un messaggio, un biglietto (o forse sì, lei non l'ha trovato: l'ha attaccato con un post-it ai suoi disegni) – nemmeno le dice che forse la ama ancora e che, nonostante tutto non ha bisogno di ulteriori certezze (che lei non saprebbe dargli).
In aula, si comincia a mormorare: se ne sono resi conto, tutti quanti, che Leonardo è sparito in un turbine di malcontento e non torna più. Alice ha smesso di disegnare: a lezione non porta nemmeno i fogli sparsi o bigliettini su cui annota occhi, mani, visi che poi ricompone in camera sua alla sera, quando ha terminato di studiare.
Dura un giorno, due, tre, quattro, cinque. Al sesto giorno Alice resuscita le proprie matite da disegno, e allora ogni respiro diventa uno schizzo su carta, e lei imprime ogni sguardo lì, sulla carta – disegna Finn, per lo più, gli regala tutti quei ritratti di cui l’aveva privato nei mesi precedenti, e lo disegna a colori, in bianco e nero, sfumato, non sfumato. Continuamente, ne tratteggia i lineamenti un po’ elfici, una barba che copre il mento un po’ sfuggente, gli occhi luminosi come stelle.
Lui se ne rende conto, ma non dice nulla – a volte sembra solamente una poesia di Montale: il bimbo che la guarda in posa dall’ovale di un ritratto1, ma a volte Alice potrebbe semplicemente dimenticare che sia mai esistito.
A volte, si dice, ci rimane di più delle persone che amiamo senza averle mai conosciute veramente – possibile, pensa, che io sia più legata a Leo di quanto non lo sia mai stata con Finn.
Chiamalo, le dice Palli quando la vede tornare a casa con l’aria stanca e afflitta, digli quel che hai detto a me: che ti manca, che lo cerchi nei tuoi stessi disegni, che. Che lo vuoi ancora.
Ma Alice non chiama – Alice mangia e beve, disegna spasmodicamente, e infine lo chiama anche.
Leo non risponde.
«Tornerà» le dice Finn, carezzandole la schiena, distesi sul letto con lei che traccia linee e sfuma e colora. «Devi solo aspettare».
«Io non ho pazienza» risponde «Devo fare qualcosa per farlo tornare da me, altrimenti io…».
La minaccia le sfuma sulle labbra, in silenzio – tu cosa, Alice, si domanda in silenzio. Tu cosa faresti?
Alice si guarda la pancia, dove sottili cicatrici bianche turbano l’uniformità della pelle – smagliature, ha detto a Finn, sono cresciuta tutta in un colpo, e lui non ha fatto altre domande – e si dice che, il coraggio, non lo avrà mai. I polsi sono l’unica parte di lei che è rimasta intoccata, lì non riuscirà. Nemmeno per Leo.
«Fagli un regalo, digli che lo ami» elenca Finn, con aria annoiata. «And he will come back, lo sai, noi uomini siamo più semplici di quel che pensi».
Alice pensa che è vero – ma che è lei ad essere più complicata di quel che lui e Leonardo riescono a concepire: così scuote il capo e, nuda fino all’anima, torna a scarabocchiare su un foglio. Ha ritratto Finn, per la prima volta da quando s’erano incontrati e lei era stata animata solamente da curiosità nei suoi confronti. Adesso, ne vuole assaggiare l’essenza, comprenderlo oltre ogni comprensione e dire esattamente a Leonardo perché. Cos’ha il Barbarossa in più di lui, cosa le ha fatto avere in più – e che non è lei a essere strana e disfunzionale, why not?
Quando Alice alza lo sguardo dal proprio disegno – Finn a primavera con petali di ciliegio al posto della barba: un po’ surrealista – ha gli occhi così azzurri da far male. Tutto in lei urla mangiami, bevimi, ma soprattutto prendimi e portami via di qui.
Lui vorrebbe farlo. Non solamente in una stanza buia, con l’unica riga di luce proveniente dalla serranda abbassata male, non con i disegni di Lis a guardarli silenziosamente – è diventata tutta la vita di Finn, quella riga di luce, e tre mesi fa a malapena poteva immaginarne l’esistenza: è forse sbagliato, desiderare di essere qualcosa di così inutilmente intangibile come una riga che illumina la parete?
Eppure, riesce a guardare solo quello – non Alice, Alice mai.
«Non sono nemmeno sicura che sia tornato a Firenze» sussurra lei, ma ha il telefono tra le mani e scorre freneticamente le chat di WhatsApp in cerca di quella con Leo. «Se fosse andato via?».
Finn sorride, dolcemente. «He will come back» ripete, calmo. «Scrivigli, no?».
Lui lo sa – potrà tramutarsi in riga di luce per spiarli, ma Alice non l’amerà mai con la stessa intensità nascosta che dedica a Leonardo, e allora potrà guardarla e sperare in un suo sguardo di rimando, ma la sua vita non cambierà: sarà sempre quello che se la scopa nel buio pressante di camera sua, e basta. Perché tutto il muro sarà sempre e solo dedicato ai ritratti di Leo che li guardano e dolcemente sospirano.
Alice con lui non si scusa: riserva il proprio pentimento solamente a Leonardo, e allora Finn sospira e si riveste in silenzio, per poi aprire l’armadio e cominciare a passarle i suoi, di indumenti. Alice non domanda, incantata ad aspettare il trillo di un messaggio, e si lascia aiutare a indossare la biancheria, i jeans chiari, il maglione leggero – a Firenze, quel giorno, tira vento – e non si stupisce quando lui si siede dietro di lei e comincia ad intrecciarle i capelli. Si gode quell’attenzione, in silenzio, mentre lui le tocca i capelli come se le stesse sfiorando l’anima.
«Cosa gli hai scritto?» domanda Finn, fermando la treccia con un elastico celeste. «Di incontrarvi?».
«Tra mezz’ora a Ponte Vecchio» risponde lei, calma. «Andrò lì, sì, ma ha senso aspettarlo, per quanto?».
Lui vorrebbe risponderle che non ha senso a priori, perché lui poi l’attenderà per metà dell’esistenza che gli rimane, e chissenefrega di Leonardo. Ma il telefono trilla, e subito lei l’afferra come se vi fosse nascosta la verità per ripararsi il cuore – forse, è così.
Perché Leo le ha scritto un laconico okay che, però, ha la potenza di ripararle qualche crepa nel cuore in un sussurro. Si volta verso Finn, ma lui ne evita lo sguardo.
 
***
 
«Non sapevo fossi tornato» Alice è a metà esatta del ponte, tra le braccia una cartella piena di disegni e niente di più. Ha dimenticato perfino la borsa, è venuta esattamente così come l’è passato per la testa di uscire. «Potevi scrivermi».
«Pensavo non ne valesse la pena: avresti fatto rispondere da lui, no?» risponde Leo, apparentemente calmo. «Io e Walsh non possiamo dividerci la donna, Ali, questo lo capisci, non è vero?».
«Io ho bisogno che tu stia con me» risponde lei, con la voce che sa di pianto. «Ho bisogno che tu rimanga».
Leonardo sospira – la guarda come se la speranza fosse semplicemente morta, e forse lo è davvero – e scuote il capo, lentamente.
«Io non lo so, di cosa hai bisogno» sussurra, atono. «So solo che non è niente che io possa darti: non possiamo rimanere per sempre nel platonico, io… io non ce la faccio più, in questa maniera, Ali».
Lei vorrebbe tanto avere una soluzione, dirgli cos’ha Finn più di lui, ma non le vengono le parole. Non ce ne sono nemmeno, di parole da dire, di emozioni da esprimere – semplicemente, pensa lei, Finn è fatto della sua stessa sostanza: sebbene in maniera diversa, ha la sua stessa fame, sebbene non di cibo.
Ha fame di lei, e lei gli permette di morderla, di prenderla, di assaggiarla a proprio piacimento: tutto, purché non le domandi da dove vengono tutte quelle cicatrici che si porta addosso (non ne hai il coraggio, Alice).
Alice deciderà di morire, un giorno, come nel libro di Coelho, e quel giorno finalmente darà senso a ogni cicatrice che ha dipinto sul proprio corpo.
Alice deciderà di morire, ma non tutto in un colpo, ma poco alla volta – come mentre guarda Leo e non le vengono le parole, non è morte anche quella?
«Ho bisogno di te» singhiozza lei, senza nemmeno rendersi conto d’essersi messa a piangere. «Perché non lo capisci?».
«Non c’è niente da capire, Ali, se non che devi fare una scelta» risponde Leonardo, calmo. «Non ti possiamo amare in due, in comune».
Lei rimane immobile, ghiacciata lì, e semplicemente apre la cartelletta e ne estrae un plico di disegni: Leo in ogni stagione dell’anno, Finn a primavera, Alice divisa da una grossa riga nera – la sua fame.
In un tempo che non ricorderà mai più, Leo racconterà quel momento milioni di volte, dicendo che non sarà qualcosa che potrà mai dimenticare: gli occhi di Lis, di un blu marino talmente bello da far male, nel momento in cui gli mostrava i disegni – e lui che non comprendeva.
Perché Alice prende un foglio dopo l’altro, con aria da invasata, e glieli fa vedere aspettandosi che lui ne colga il significato. Ma non succede.
«Allora è davvero inutile, tutto quello che io ti potrò dire?» sussurra lei, atona. «Ci sei solo tu, in questi disegni, perché io ti vedo ovunque. Anche quando non ci sei, anche in altre persone».
Leo vorrebbe domandarle che senso a rivederlo in Finn Walsh, quando lui è lì, sempre a pochi passi da lei – pronto a posare i suoi piedi sulle sue impronte e sorridere e perdonare.
«Io non so perdonare, Ali, è uno dei miei più grandi difetti» sussurra lui, in un déjà-vu del giorno in cui le aveva detto addio. «Lo vorrei tanto, ma come potrei?».
Lei vorrebbe avere una risposta da dargli, ma conosce bene l’incapacità di Leonardo di perdonare e, allora, si dice che è per questo che ha cercato di tenergli tutto quanto nascosto, tutto celato, tutto da dimenticare. E lui?
«Io non sono fatta per tutto questo» sussurra, a capo chino. «Non so di cosa sono fatta, ma di certo non per farmi dividere da voi».
Lui le carezza il capo, con la mano che scombina quella treccia che Finn ha predisposto con cura, con amore forse, e tirandole via una ciocca da lì.
«Sei fatta per disegnare, ridere, essere la più brava di noi anche se nessuno comprende cosa tu ci faccia qui» risponde lui, dolcemente. «Ma non sei fatta per me. Qualunque cosa tu decida di fare».
Leo sta mentendo, anche a sé stesso, ma questo non se lo dice mai: fatta per fare, Alice, ma a lui non basta più.
Lei lo guarda – ha il mare negli occhi, quando sbatte le palpebre e gocce di ombretto azzurro le colano sulle gote, portandosi via il fondotinta – e scuote il capo, s’appoggia sul ponte come se potesse cadere in Arno per sbaglio o per volontà. Forse, lo vorrebbe per davvero: ma non ne hai il coraggio, Alice, continua a dirsi.
«Tienimi con te» sussurra lei, ormai ha la voce così rotta che Leo ne sente i frammenti tagliargli l’anima. «Farò tutto ciò che vuoi, te lo prometto».
Gli spezza il cuore, a dire così, ma Leonardo volta semplicemente il capo in un muto segno di diniego.
«Puoi far quel che vuoi, Alice» sussurra, allontanandosi di un passo. «Ma non puoi riparare tutto questo».
Lei lo guarda, nemmeno si dà la pena di asciugarsi il viso dalle lacrime, e si volta verso il fiume: oggi l’Arno pare quasi il mare, e non è del solito colore terroso e insensato che appesta Firenze con i suoi effluvi.
«Posso fare quello che voglio» sussurra lei, con il cuore spezzato. «Ma non tornerai indietro, non è vero?».
Leo scuote il capo, con aria turbata, mentre lei si volta e getta giù dal ponte i propri disegni.
«Non mi servono più» sussurra, Alice, voltandosi e andandosene a grandi passi.
La faccia di Leo, il viso di Finn e qualche scorcio di Pisa e Firenze annegano nell’acqua dell’Arno.
(Non le servono più).
 
***
 
Caro il mio Barbarossa, compagno di un'avventura
Certo che se lei se n'è andata no, non è colpa mia
Oh lo so, lo so, lo so, la tua vita non cambierà
Ritornerai in Irlanda con la tua laurea in filosofia
Ma io che farò in questa città?
Fottuto di malinconia e di lei
 
Non ne hai il coraggio, Alice.
Attorno al letto, c’è un fiume di cartacce: ha mangiato una confezione di merendine al cioccolato, una di patatine, caramelle frizzanti, due mozzarelle e una banana. Si sente così piena da farsi del bene, così siede sulla sponda del letto e la pancia le sporge così tanto da poterla toccare. Solitamente, è solamente l’ennesima rientranza che la sua vita le offre, qualcosa che si piega verso il dentro e non vuole sperimentare il fuori, quello mai. Ma, oggi, Alice la tocca ed è gonfia e fa male – non ha più fame, ma la smania permane.
Le prude un braccio, forse non avrebbe dovuto mangiare quelle caramelle, chissà che schifo hanno dentro: d’altronde è figlia di una madre che compra Bio pure la maionese e il ketchup, quindi quella roba non dovrebbe nemmeno riconoscerla come esistente.
Vorrebbe dormire, lo vorrebbe tanto, e risvegliarsi in un mondo dove Leo sorride e impara a perdonare – ma Alice non dorme mai, ha un turbinio di pensieri che le smuovono il cervello e non lo lasciano riposare.
Il telefono ha suonato per tutto il pomeriggio: mamma, papà, Finn, Palli, Finn, Finn, Finn. Leo mai. Non ha mandato un messaggio nemmeno una volta, nemmeno per domandarle un come stai che sicuramente avrà pensato. Finn ha continuato a chiamarla per tutto il giorno, non ottenendo risposta, e nemmeno ha desistito mai.
Vorrebbe tanto che il suo nome fosse quello di Leo, no, che lui fosse Leo e allora semplicemente vorrebbe dire che ancora qualcosa importa. Qualsiasi cosa potrebbe importargli, anche il fatto che lei non è fatta per far altro che non sia disegnarlo in ogni stagione, e amarlo silenziosamente, anche senza toccarlo – l’attrazione mentale che prova per lui è così grande da farle dimenticare che esiste un corpo, quel corpo che invece s’è sentito chiamato dall’irlandese.
Non ne hai il coraggio, Alice, di metterti a dormire: Alice decide che deve morire, ma non ne è sicura al pari di Veronika, sebbene la realtà sia molto più affilata di quella descritta nel libro di Coelho2. E non basterà il sesso, come per Veronika, a toglierle tutta quella inquietudine.
Ha staccato tutti i disegni dal muro, dall’armadio, dallo specchio e dalle pareti del cuore: come ha detto a Leo, non le serviranno mai più. Sul fondo dell’Arno, Leonardo guarda i pesci – e un delfino3 – e allora Alice pensa che vorrebbe farsi una nuotata lì sotto e raggiungerlo.
Ma non ne hai il coraggio, Alice, non l’avrai mai: sei troppo fatta per fare, per smettere, eppure ti dici che. Che nessuno lo capirà mai e che senso ha, allora, cercare di farlo comprendere, di renderlo tangibile?
Forse, alla fine, Turing un po’ di ragione l’aveva anche: ci sono problemi cui non esiste un input sì/no da inserire e, allora, forse faremmo tutti meglio a lasciar perdere. Ma lei non lascerà perdere Leo, c’è qualcosa in lei che è così profondamente legata a lui che non lascerà mai perdere, ma ha perso, certo che ha perso qualcosa.
Alice attraverso lo specchio piange, ma stavolta c’è un perché.
(E il biglietto di Leo tra i suoi disegni, quello, non l'ha trovato mai).
 
***
 
Gli hanno chiesto di dire due parole per lei, ma Leo ne ha detta una soltanto: no. Che poteva significare no, non può essere oppure no, non ci credo, ma invece era solamente quel che significava: no, punto e basta.
Le ha dette Finn, quelle parole, consegnando alla madre una lettera firmata da Paola e da tutti i colleghi. Scritta da lui, con l’aiuto di Palli, nel suo italiano zoppicante cui Paola non ha avuto la forza di far troppe correzioni: non può essere, ha urlato l’irlandese in quella lettera, it can’t be.
Al funerale, però, Leo ci va e indossa perfino una camicia blu scuro – ch’era il colore preferito di Alice, su di lui, ma lei adesso non la potrà vedere più – e s’avvicina ai suoi colleghi come se avesse bisogno di essere consolato, quando è il Barbarossa quello che si sta sciogliendo in un mare di lacrime.
«A te che importa» gli sibila Leonardo, quando lui si avvicina con aria affranta. «L’anno prossimo tornerai in Irlanda, con la tua laurea in filosofia. Sono io il coglione che rimarrà qui con lei».
«Forse potevi pensarci prima, Leonardo» commenta Paola, alzando il capo con aria fiera, sebbene abbia gli occhi arrossati come la tintura di fuoco che le incendia i capelli. «Pensi che siamo tutti stupidi, qui? Me l’ha detto, Finn, che l’avevi lasciata».
«E tu cos’hai fatto per aiutarla?» risponde Leo, calmo. «Chi cazzo eri per lei, a stento vi salutavate».
«Calm down, Leo» sussurra Finn, asciugandosi gli occhi con la manica della camicia. «Vorrei parlarti, se posso».
Leonardo annuisce, mentre con Finn s’appartano fuori dalla chiesa, per strada.
«Forse non te lo ricordi, ma ti devo un favore» commenta il Barbarossa, calmo. «Because I’m still in love with her».
Leo alza il viso, pronto a ricevere il colpo, che non arriva.
«Non è colpa mia» sussurra. «Se lei se n’è andata».
«E adesso a me chi parlerà più di lei?» sussurra Finn, guardandosi le scarpe. «La dovremo dimenticare?».
Lo guarda in viso, e Leo non ha il coraggio di replicare che, lui, Alice l’ha già dimenticata quando le ha detto addio per la prima volta.
Finn sembra coglierne i pensieri con uno sguardo, perché secca e dura è la smorfia che ne distorce i lineamenti. E secco, duro, insensato – sensato – è quel pugno che spacca il labbro di Leonardo.
 
***
 
L’hanno messa in una tomba bianca, così poco colorata che non sembra la sua, e le hanno lasciato su una fotografia e uno dei suoi schizzi superstiti alla strage che ne aveva fatto, lanciandoli in Arno con rabbia insensata.
Leo sorride a quella foto, sperando che Alice gli sorrida di rimando, come il primo giorno in cui si sono visti.
«Ciao Ali» le sussurra, chinandosi sul terreno. «Oggi ti ho portato un regalo, insieme ai fiori».
Le ha portato i fiori per il loro mesiversario ogni volta, per tutta la durata della triennale e della magistrale, sperando che lei sorridesse in quell’istantanea dov’era in posa nell’ovale di un ritratto. Ma a cosa era servito, ad Alice, leggere Montale, leggere Coelho, se poi era morta da sola e senza nessuno a dirle di non farlo?
Finn è sparito l’anno della laurea, le ha raccontato chissà qualche tempo prima, ha detto di non volerci più avere più a che fare con questa città di merda: non c’è più nessuno disposto a parlargli di te, come se tu ci fossi ancora e noi non ti avessimo superata.
Leonardo tira fuori un volume dalla borsa, posandolo con un mazzo di rose bianche – che le facciano rosse! – davanti alla tomba.
«La mia tesi di laurea» spiega, sfiorando la rilegatura blu. «So che avresti apprezzato».
Alice, dalla foto, legge il titolo e sorride (il biglietto con su scritto, ti amo ancora, lo ignora con sdegno).
Il teorema di Turing e l’esistenza della decidibilità: un contro-argomento.
 
E non c'è più nessuno
Che mi parli ancora un po' di lei, ancora un po' di lei
(Ivan Graziani, Firenze – Canzone triste)


1Montale, Tuo fratello morì giovane
2Coelho, Veronika decide di morire
3Qualche anno fa hanno davvero trovato un delfino in Arno

Eccomi qui. Spero che questa storia vi sia piaciuta e, se siete passati dal mio profilo e non ho ancora risposto alle recensioni, mi scuso, ma per me è un periodo complicato da morire.
Non so se ci siano spiegazioni da dare, la storia è volutamente complicata e fumosa, ma mi farebbe piacere sapere come l'avete intesa voi.
Un bacio,
Gaia
 
   
 
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