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Autore: Adeia Di Elferas    16/04/2021    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
Capitoli:
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“Vi prego – disse Bianca, guardando Alessandra Scali – accettateli...”

La colligiana scosse piano il capo, allontanando da sé le mani della ragazza, colme di gioielli, di cui alcuni di grande valore. In altri frangenti sarebbe stata oltraggiata nel vedere come il suo gesto di deliberata generosità e lealtà veniva in parte macchiato da quel tentativo di pagamento, ma in quel particolare caso non si sentì indignata, tutt'altro.

Sapeva quanto quei monili fossero preziosi per la giovane che glieli stava offrendo, e non solo in termini economici, ma anche affettivi. Perciò si commosso davanti a quell'estremo tentativo di dimostrare la propria riconoscenza per l'aiuto ricevuto.

“Servono molto di più a voi.” disse, a voce bassa, la vedova di Michele Marulli.

Quella mattina, dopo quasi due giorni di incertezza, la Tigre e i suoi figli – e frate Lauro – si sarebbero lasciati alle spalle il palazzo della Scali, per andare a occupare la villa di Castello, quella, secondo le stime dell'eredità, su cui Giovannino poteva avanzare più pretese.

Mentre gli altri erano indaffarati con gli ultimi dettagli per la partenza, la Riario era andata a cercare la padrone di casa per renderle quell'omaggio, e con lei, seduto in terra intento a giocare con un soldato di legno, stava proprio il piccolo Medici.

“Pensate solo a stare bene – rimarcò Alessandra, lasciando poi cadere l'occhio sul bambino e aggiungendo, con un sorriso – se ho fatto tutto questo era solo per vedervi in salvo e non sapete che sollievo, oggi, ho nel cuore, nel vedervi finalmente pronti per andare in una dimora che sia vostra e dove potrete essere al sicuro e tranquilli.”

Bianca stava per dire qualcosa, magari per offrirle almeno un piccolo anello o una collana, anche solo per far sì che si ricordasse di loro, quando la madre si presentò sulla porta: “Sono arrivati... Ci scorteranno, hanno detto, fino alla villa e si fermeranno qualche giorno...”

La figlia sapeva che alludeva ai francesi che l'avevano anche accompagnata fino a Firenze, e non poteva non notare, nelle sue parole, un misto di riconoscenza e astio per quelli che erano stati sì i suoi salvatori, ma anche i promotori della sua disfatta.

“Arriviamo...” disse la Riario, facendo un cenno al fratellino affinché l'aspettasse lì: “Devo solo sistemare queste cose e...”

La Leonessa vide cosa la ragazza teneva tra le mani, ma non disse nulla. Poteva immaginare che avesse provato a donare qualcosa alla Scali, e che questa avesse rifiutato. In fondo, la stessa Caterina, la sera prima, aveva fatto qualcosa di analogo, pregandola di accettare almeno di aver restituiti i soldi spesi per il sostentamento dei suoi tanti figli in quell'anno e mezzo. Anche in quel caso, però, Alessandra aveva opposto un rifiuto categorico.

Appena dopo che la figlia le fu passata accanto per andare a riporre i gioielli, la Sforza si rivolse alla padrona di casa: “Capisco la vostra fermezza nel non volere nulla in cambio per quello che avete fatto per noi tutti – le sussurrò – ma sappiate che non vi riterrò né inopportuna, né venale, se mai in futuro mi chiederete di saldare questo debito nei vostri confronti.”

Ben sapendo che non sarebbe servito a nulla ribadire la propria decisione di non volere nulla in cambio, né quel giorno, né mai più, Alessandra chinò appena il capo e sospirò: “Lo terrò presente.”

Giovannino, pur avendo ricevuto dalla sorella l'ordine di restare dov'era e attenderla, vedendo la madre si era tirato in piedi e le era corso incontro. Caterina, ben felice di poterlo di nuovo fare, dopo mesi e mesi di lontananza, si abbassò subito per prendere il piccolo tra le braccia.

Così, con il piccolo Medici che le si stringeva al collo, trionfale, la donna scambiò un ultimo sguardo pieno di intesa con la Scali e poi si congedò, promettendo: “Se vi farà piacere, faremo in modo di vederci di nuovo.”

Sapevano entrambe che non si sarebbe trattato di qualcosa di semplice. Fortunati aveva messo in guardia entrambe le donne sul fatto che i francesi, come il papa, congiuntamente con la Signoria, che non si fidava del tutto della Tigre, avevano chiesto di limitare i suoi spostamenti, concedendole, solo, qualche visita alle Murate – risultato ottenuto grazie alle pressioni del piovano – o in San Lorenzo, a patto che fosse accompagnata da qualcuno scelto dai suoi custodi. Così li avevano chiamati, aveva pensato Caterina, per non chiamarli di nuovo carcerieri...

“Pregherò per voi, ogni sera.” promise, di rimando, la Scali.

Dopo quel breve scambio di battute, le due donne non si dissero altro, e se la Leonessa si rimise a occuparsi dei lavori di trasloco, Alessandra preferì andarsi a sedere nel salone, da sola, in attesa che tutto quel trambusto finisse e lei restasse finalmente sola con il suo dolore ancora fresco e la consolazione della preghiera.

 

Ranuccio da Marciano era stato cosciente a sprazzi. Da quando il verrettone l'aveva colpito e lui aveva perso i sensi, era stato tutto un turbine confuso di dolore, paura e oblio.

Si era risvegliato sotto una tenda che non aveva riconosciuto, circondato da volti mai visti prima, sentendo distintamente la pronuncia d'Oltralpe rimbombare nelle orecchie. Era svenuto di nuovo, aveva riaperto gli occhi e poi era ancora una volta crollato sotto il peso della debolezza e del dolore lancinante che arrivava dalle ferite.

Aveva capito, sentendo qualche parola in un italiano stentato, che erano passati circa due giorni, da che era stato catturato. In tutta onestà, si chiedeva perché fosse ancora vivo e cosa mai il Valentino avrebbe fatto di lui, dato che gli stava prestando soccorso.

Doveva essere mattina, dalla luce che intravide, quando si risvegliò nel sentire delle voci fuori dal tendone. Non riusciva a muoversi, e aveva la sensazione che il braccio ferito fosse del tutto inerme.

Guardò, con la coda dell'occhio, non riuscendo a piegare il collo, l'ingresso del padiglione e quando vide scostarsi il tendaggio, provò un moto di paura tanto feroce da emettere un gemito strozzato, eco dell'urlo che si era spento nel suo petto, prima di raggiungere le labbra.

“Ho detto che voglio stare da solo con lui.” disse piano Vitellozzo Vitelli, facendo vibrare il naso lungo in direzione del cerusico che assisteva il ferito.

Ranuccio si accorse solo in quel momento dell'uomo che gli stava seduto accanto. La consapevolezza di non aver visto qualcuno che gli stava tanto vicino lo confuse ancora di più, facendogli addirittura dubitare di essere realmente sveglio.

Rimasto solo con lui, il Vitelli gli si avvicinò con espressione schifata. Le labbra sottili erano sollevate in una smorfia e i suoi occhi freddi lo indagavano come un architetto che osservava un edificio pericolante, chiedendosi come mai non sia ancora crollato.

“Ti ostini a non morire...” disse, come a rimarcare il disappunto espresso dal suo volto: “E nemmeno guarisci... Speravo di infilzarti sul campo, o, adesso, di vederti ristabilito e sfidarti a duello, uccidendoti come un cane, così finalmente mio fratello avrebbe avuto giustizia e invece...”

Ranuccio deglutì a fatica, la gola secca, una lacrima di paura che scivolava, contro la sua volontà tra le ciglia e poi sulla guancia.

Vitellozzo armeggiò un momento con una scarsella che portava al fianco e ne estrasse un barattolino anonimo. Lo stappò, con lentezza, senza più guardare il nemico, e poi, con la cura di un cuoco di corte che dà il tocco finale al piatto di portata, cominciò a cospargere le bende che coprivano le ferite di Ranuccio.

Questi non riusciva a muoversi, né a gridare. L'odore aspro che arrivava dalla polvere gli aveva fatto capire che cosa il Vitelli stesse facendo, ma era del tutto impotente davanti alla sua azione.

“Non è così che avrei voluto vederti morire.” disse Vitellozzo, con un sospiro greve: “Troppo semplice, troppo comodo... Fin troppo dignitoso... Ma se non approfitto di questa occasione, rischio di non averne altre.” concluse.

Ranuccio schiuse le labbra, che tremavano, e lo fissò come se volesse chiedergli che cosa stesse accadendo. Dovevano essere passati sì e no dieci minuti, e l'uomo cominciava a sentirsi intorpidito.

Stava perdendo di nuovo conoscenza, e non voleva...

“Adesso ti addormenterai – spiegò calmo il Vitelli – respirerai sempre più lentamente e alla fine non respirerai proprio più.”

Ranuccio cominciava ad avere la vista offuscata, ma non voleva cedere. Si sentiva immobile come una statua, alla mercé dell'uomo che gli stava accanto, ma non voleva arrendersi...

“O almeno...” sbuffò Vitellozzo: “Così mi ha detto chi mi ha venduto questa polvere... Non mi ha saputo dire se tutto questo processo sarebbe stato doloroso oppure no, ma credo che non me lo potrai dire nemmeno tu...”

Mentre diceva così, Ranuccio sentì dei crampi salire dallo stomaco fino alla gola. La vista si spense una volta per tutte e il suo respiro, tra un rantolo e una contrazione, si affievolì poco per volta fino a cessare.

Il Vitelli rimase a fissarlo per qualche minuto ancora. Per paura di potersi contaminare, non lo toccò, fidandosi del suo pallore cadaverico e dell'immobilità del suo torace.

Per nulla rasserenato dall'aver compiuto la vendetta tanto rincorsa, il condottiero raddrizzò un po' le spalle e poi, uscendo dal tendone, si indirizzò al cerusico, mormorando: “Messer Ranuccio si è addormentato e, misericordiosamente, è morto.”

 

Bianca aveva sistemato con cura i gioielli in una poco appariscente scarsella, e, legato assieme con un laccetto di cuoio, aveva messo nel borsone da viaggio anche il ricettario della madre.

“Ci penso io...” disse, abbastanza cordiale, frate Lauro che, da quando aveva capito, qualche giorno prima, che anche lui sarebbe stato portato alla villa di Castello, poteva descriversi come felice e soddisfatto per la sicurezza raggiunta.

La ragazza, comunque, che trovava sempre qualcosa di mellifluo nel sorriso del milanese, seguì con lo sguardo le sue mani secche che sistemavano il borsone sul fianco del cavallo.

“Quando siete pronti, sarebbe meglio andare...” disse una voce alle spalle della Riario.

La giovane, accigliandosi un po' nel sentire un accento che ricordava vagamente quello romagnolo, si voltò per vedere chi avesse parlato.

Troilo, che aveva insistito per essere tra coloro che avrebbero accompagnato la Sforza nella sua nuova dimora, rimase un attimo interdetto, nel vedere il volto di Bianca. Distratto e accecato dal sole, aveva creduto di parlare con la Tigre, ma era ovvio, ora che poteva scorgerne il viso, che si trattava di qualcun altro, probabilmente della figlia.

Dal canto suo, la ragazza era rimasta immobile a fissarlo. Cercava di decifrarne l'età, dicendosi che, probabilmente, vista la ruga che rendeva il suo sguardo pensoso e la profondità del suo sguardo, doveva avere almeno una quarantina d'anni, anche se tutto il complesso lasciava pensare a un uomo molto più giovane.

Aveva i capelli biondi, tendenti al rosso, e la barba un po' lunga, folta e ordinata. Una delle cose, però, che colpì di più l'attenzione della Riario, fu il suo fisico slanciato e le gambe lunghe e snelle.

“Perdonatemi...” fece il De Rossi, schiarendosi la voce, mentre alle sue spalle due soldati francesi borbottavano tra loro nella loro lingua: “Credevo che foste...”

“Mia madre è ancora in casa, ma sta arrivando.” si affrettò a dire la Riario, sentendo le guance che si colorivano un po'.

Troilo fece un breve sorriso di circostanza, messo in difficoltà da quella presenza inattesa. Sapeva che la Leonessa aveva una figlia, e in effetti sapeva anche che doveva avere ormai una discreta età, eppure nella sua testa l'aveva etichettata automaticamente come una bambina, forse perché la Sforza, malgrado i capelli bianchi, appariva più giovane dei suoi trentotto anni.

C'erano delle indubbie differenze, tra madre e figlia, tuttavia le somiglianze erano notevoli. Per prima cosa, la giovane era un po' più bassa della milanese. Aveva lo stesso profilo, eppure c'era qualcosa di più dolce, nel suo aspetto, qualcosa che andava a mitigare la prorompente fisicità che, anche sotto il modesto abito che indossava, era ben intuibile.

Dando un'ultima occhiata agli occhi blu scuro della figlia della Tigre, Troilo si scusò di nuovo e si forzò a occuparsi d'altro, tornando a coordinare i suoi uomini, affinché fossero tutti pronti a mettersi in strada non appena Caterina fosse uscita dal palazzo degli Scali.

Bianca, intanto, si era messa a parlare con Galeazzo, che l'aveva appena raggiunta, dissimulando l'interesse che nutriva per quel condottiero che stava dando ordini agli altri uomini di scorta. Anche ora che le dava le spalle, non poteva non apprezzarne la schiena dritta e la notevole altezza, e quando il suo sguardo si spingeva anche oltre quello che sarebbe stato ritenuto il limite del pudore che ci si aspettava da una donna nelle sue condizioni – sposata, ma a un giovane che aveva incontrato solo quando era ancora bambino – ciò che intravvedeva le piaceva altrettanto.

Parimenti, con discrezione, fingendo di essere intento a controllare meglio i cavalli, il De Rossi occhieggiava verso di lei, indugiando più del dovuto sulle sue forme, sorpreso nel trovare così attraente una donna tanto giovane. Da sempre, infatti, aveva apprezzato di più le sue coetanee, trovandosi, già dopo i trent'anni, a provare scarso interesse per le ragazze più giovani.

La Sforza uscì poco dopo dal palazzo, con il figlio più piccolo al collo e, dopo aver scelto un cavallo docile, diede ordine di partire. Troilo, davanti all'autorevolezza innata che la Leonessa riusciva ad avere, poté solo ratificare la disposizione data con un cenno del capo.

Il tragitto da percorrere non era molto lungo, ma, per qualche motivo, tutti sembravano non avere fretta. Il De Rossi, poi, non si faceva scrupolo di rallentare il passo del suo cavallo per poter voltarsi verso la coda del piccolo corteo, pretendendo di controllare che fosse tutto a posto. In realtà i suoi occhi cercavano solo la testa di capelli biondi, lunghi e sciolti della figlia della Tigre.

Doveva ammettere che in certe espressioni che le vedeva fare, sembrava ancora una ragazzina, e questo lo faceva quasi vergognare per i suoi pensieri. Però, mentre già all'orizzonte si vedeva il bosco che celava in parte il profilo ordinato e superbo della villa di Castello, il De Rossi si disse, risoluto, che Bianca Riario non era, di fatto, una ragazzina: doveva avere vent'anni, più o meno, un'età in cui la maggior parte delle donne era sposata e con figli.

“Conoscete gli uomini che ci stanno facendo da scorta..?” chiese Bianca, in un momento in cui riuscì ad affiancare la madre, mentre la breve colonna scartava appena verso destra, per inoltrarsi nella vegetazione e arrivare per la via più diretta alla villa.

Caterina, che stava guardando rapita tutto il verde che li circondava, chiedendosi se quel boschetto fosse a suo uso e consumo e se le avessero permesso, magari, di avventurarsi in qualche battuta di caccia solitaria, la ascoltò con un orecchio solo, rispondendo: “Più o meno...”

La Riario, cercando di fare la vaga, le chiese se ne conoscesse anche i nomi e la Tigre, senza dar troppo peso alla curiosità della figlia, le snocciolò quelli che conosceva e poi, indicando la chioma rossiccia che stava in testa alla colonna, concluse: “E quello è Troilo De Rossi, quello del parmense... Noi Sforza avevamo preso le loro terre, ma adesso lui e suo padre le hanno in parte riconquistate... Dopo la caduta di mio zio Ludovico, i francesi hanno fatto quello che volevano del parmense...”

Bianca annuì appena, facendo tesoro di quelle informazioni e spiegandosi di colpo l'accento dell'uomo, così simile a quello romagnolo, eppure in parte diverso.

“E quanti anni ha?” chiese, senza pensarci.

La Leonessa a quel punto smise di prestare attenzione al profilo intricato del bosco e guardò la figlia, perplessa. Siccome, però, la Riario ostentava un'aria tranquilla che non destava alcun sospetto, la madre prese quella domanda come una mera curiosità.

“Non vorrei sbagliarmi, ma, da quello che mi è stato detto, deve avere la mia età, o forse un anno in più...” soppesò la donna, ma poi, l'avvicinarsi dalla villa, spostò il suo interesse altrove.

Bianca aveva sentito come un blocco di ghiaccio scenderle nello stomaco. Anche se l'aveva sospettato, avere una conferma così precisa dei suoi dubbi sull'età di quell'uomo la stava mettendo a disagio. Aveva sempre visto con orrore i matrimoni in cui il marito era tanto più vecchio della moglie, e l'infelice sposalizio dei suoi genitori ne era stato un esempio fulgido.

“Questi uomini resteranno con noi qualche giorno o ci lasceranno da soli..?” domandò la ragazza, cercando di farsi sentire oltre le parole dei francesi, che si stavano dicendo l'un l'altro quanto ormai fossero vicini alla villa.

Caterina interpretò male quel quesito, e, con un sospiro, ammise: “Temo che vorranno restare con noi per un po', almeno all'inizio. Mi hanno tolto le catene, ma non sono ancora libera...”

La Riario annuì e dovette trattenere un sorriso, per non sembrare felice delle sventure della madre.

Sarebbe stato troppo complicato, in quel momento, spiegarle la sensazione di gioia che stava provando, nel sapere che, forse, avrebbe avuto un po' di tempo per capire meglio se quello che le mordeva l'anima era un desiderio sincero o solo un'illusione.

 

Giovan Francesco Sanseverino ascoltava in silenzio Giampaolo Baglioni e Vitellozzo Vitelli litigare. Li detestava profondamente entrambi, e se, in quel preciso momento, nel pavimento di cotto sotto ai loro piedi si fosse aperta all'improvviso una voragine facendoli sparire per sempre, non se ne sarebbe sentito minimamente rattristato.

Stavano aspettando l'arrivo del Borja, affinché dirimesse – se ne era capace – la loro disputa. Il motivo del contenzioso era semplice: il Baglioni, sotto la cui tutela era stato messo, un paio di giorni prima, il prigioniero Ranuccio da Marciano, accusava il Vitelli di averlo ucciso avvelenandone le ferite.

Il Sanseverino li guardava con sufficienza, ben sapendo che a Giampaolo, in realtà, non sarebbe importato nulla di Ranuccio, se non fosse stato che, con la sua morte, era sfumata anche la possibilità di guadagnare una bella somma con il riscatto. Allo stesso tempo, Ranuccio si discolpava inutilmente da una colpa che gli era stata così facilmente addossata da rendere ridicolo ogni tentativo di passare per innocente.

Premendosi la punta delle dita sugli occhi, Giovan Francesco sperò che i due condottieri perdessero di colpo la voce, o che arrivasse il Valentino. Nel frattempo, come se non riuscisse a dominare la propria mente, continuava a rivedere lo scempio che i soldati del Borja avevano fatto di Capua.

A quei barbari non era bastato arraffare circa trecentomila ducati, tra moneta sonante e refurtiva di ogni tipo: si erano accaniti anche sulla popolazione, in particolar modo sulle bambine.

Il Sanseverino, quando aveva capito cosa stesse accadendo, aveva fatto del suo meglio per evitare che quelle brutalità andassero oltre. Pur essendo un uomo di mondo e pur avendo passato buona parte dei suoi cinquantun anni in battaglia, non aveva mai conosciuto uomini più brutali e crudeli dei francesi e non sopportava che anche il suo nome, un giorno, potesse essere messo in correlazione con un eccidio tanto immorale.

Così, prendendo con sé i suoi soldati, aveva radunato le bambine di Capua, strappandole, a volte, dalle mani dei loro assalitori, e poi aveva fatto lo stesso coi bambini e infine con le donne, anche anziane. Aveva chiuso tutti loro nelle chiese della città, ma, memore di quello che era successo qualche anno prima a Mordano – un episodio che nessuno, in Italia, aveva ancora scordato – aveva messo dei suoi uomini a presidiare le porte, in modo tale che a nessuno, nemmeno a qualche illustre condottiero d'Oltralpe, passasse per la testa di ripetere le oscenità accadute in Romagna.

Mentre rivedeva davanti agli occhi ancora i volti delle bambine e delle ragazzine che non era riuscito a salvare, e sentiva le grida di quelle che venivano tratte in salvo, ma opponendo resistenza, pensando, probabilmente, si essere solo state cedute da un carnefice a un altro, il Sanseverino vide, con sollievo, arrivare il Borja sulla porta.

Non appena il Duca di Valentinois arrivò nel salone, i due contendenti – il Baglioni e il Vitelli – si misero a tacere, pur continuando a guardarsi in cagnesco.

“Si può sapere perché sono dovuto venir qui di corsa?” il tono del figlio del papa era molto irritato, eppure i suoi occhi non indugiavano né sui due litiganti, né su Giovan Francesco, lì in mera qualità di testimone super partes.

L'attenzione del Valentino, infatti, era più catturata dal palazzo nobiliare in cui avevano deciso di tenere quel breve incontro. Era stato già una volta a Capua, anni prima, quando ancora portata la porpora, ma non si ricordava una città così piena di opulenza ed eleganza. Quasi gli spiaceva, ora che si rendeva conto del valore artistico ed economico di quei palazzi e delle opere pubbliche, che i francesi stessero distruggendo quasi tutto ciò su cui mettevano le mani.

In modo concitato, parlandosi uno sopra l'altro, Vitellozzo e Giampaolo esposero quanto accaduto a Ranuccio e solo dopo aver concluso il loro rocambolesco racconto, Cesare si accigliò e chiese al Sanseverino di rispiegargli tutto, ma questa volta con toni meno concitati e più oggettivi.

Mentre, ancora distratto dai ricordi dei due giorni di razzie, Giovan Francesco ubbidiva, elencando freddamente solo i dati di fatto che conosceva, il Borja tornava a distrarsi, guardando gli affreschi sul soffitto e poi, addirittura, andando a saggiare con una mano la solidità degli infissi.

Quando il milanese ebbe concluso il suo resoconto, il Duca sporse un po' in fuori un labbro, sbuffando: “Da Ranuccio avremmo potuto ottenere una bella somma per il riscatto – e a quelle parole il Baglioni venne attraversato da un lampo di trionfo che, però, si spense subito – tuttavia era ferito molto gravemente e quindi sarebbe morto comunque. In più, voi, Giampaolo, dovevate tenerlo sotto una miglior sorveglianze, se volevate evitare problemi. E voi, Vitellozzo, avreste dovuto parlarmene apertamente: non ve l'avrei impedito. Agendo così avete solo dimostrato di non nutrire né per me, né per mio padre il papa alcun rispetto.”

Tanto il Baglioni, quanto il Vitelli erano a bocca mezza aperta, incapaci sia di ribattere per i rimproveri, sia di ringraziare per la clemenza, che, tutto sommato, il Borja stava concedendo loro.

“Mi avevate detto che avete degli impegni a L'Aquila – disse poi il Valentino, rivolgendosi a Vitellozzo – e dunque vi concedo il permesso di recarvi lì subito.”

Il condottiero, che aveva delle questioni private da risolvere in quella zona, chinò il capo, in segno di riconoscenza.

“Ma dopo andrete a Piombino, a dare man forte ai nostri. Quella città ci serve.” soggiunse Cesare, spegnendo in parte il sollievo del Vitelli.

Il comandante disse poi che il corpo di Ranuccio sarebbe stato consegnato a coloro che lo reclamavano, in modo tale che venisse sepolto a Marciano, come suo desiderio.

Mentre il Baglioni cominciava a gongolare in silenzio per lo smacco subito da Vitellozzo, il figlio del papa si rivolse a lui: “Voi andrete a Piombino già ora, invece. E parteciperete alla conquista della città: non ammetto né ritardi, né fallimenti.”

Giampaolo deglutì e fece un cenno del capo, un po' pallido in volto.

“In quanto a voi – concluse Cesare, allungando una mano in direzione del Sanseverino, per posargliela sulla spalla – verrete con me a Napoli.”

Tutti sapevano che re Federico d'Aragona era scappato, portandosi appresso buona parte dei condottieri migliori che stavano al suo servizio. Napoli era alla loro mercé e conquistarla, paradossalmente, sarebbe stato molto più semplice che non impadronirsi di Piombino.

“Quando partiremo?” domandò il Sanseverino, abbastanza felice di essere stato scelto per continuare la cavalcata verso sud, già immaginandosi l'ingresso trionfale in una Napoli abbandonata e servile.

“Ve lo saprò dire a breve.” rispose laconico Cesare e, dopo aver detto ciò, si congedò.

“Aspetta che arrivi quel suo amico...” sputò il Baglioni, non appena fu sicuro che il Duca non potesse sentirlo: “Non muove un passo senza che quel Corella gli tenga il mantello, come se il figlio del papa fosse una cortigiana...”

“La cortigiana tra i due è quel Michelotto – commentò, aspro, Vitellozzo – o credete davvero che il Duca se lo tenga così vicino giorno e notte solo perché gli fa un buon servizio in guerra?”

“Evidentemente – commentò con un mezzo ghigno Giampaolo, facendo dei gesti osceni – la spada da battaglia non è l'unica con cui se la cava bene.”

Sanseverino, in parte nauseato anche da quelle volgarità cameratesche che sembravano addirittura aver riportato il sereno tra i due condottieri, si scusò con entrambi e uscì, per prendere un po' d'aria.

Non appena fu fuori dal palazzotto, però, non sentì altro che odore di bruciato e tanfo di morte, e ovunque guardasse c'erano solo o cadaveri o soldatacci francesi intenti a ubriacarsi e spartirsi il bottino. Il caldo che preannunciava l'imminente inizio di agosto era abbacinante e il suo corpo da cinquantenne, stanco e provato dagli scontri recenti, chiedeva solo di trovare una branda all'ombra e riposare come minimo fino al giorno seguente.

 

   
 
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