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Autore: Persej Combe    18/04/2021    2 recensioni
Vieni da me, Augustine. Stasera i bambini sono con la madre. Vieni da me.
[Lubricantshipping]
Genere: Introspettivo, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Yaoi | Personaggi: Altri, Clem, Lem, Nuovo personaggio, Professor Platan
Note: Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Videogioco
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'I racconti della scogliera'
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7












   Quando Meyer aveva pensato che in quella prima notte passata con Augustine aveva avuto l’impressione fossero sempre stati amanti, non era stato per compiacersi di qualche improbabile vena poetica che poteva possibilmente nascondere in segreto nel proprio animo, ma perché non avrebbe trovato altro modo più adatto per descrivere quella sensazione che aveva provato. C’era qualcosa nell’atteggiamento di Augustine che, per quanto frivolo e malizioso fosse, gli dava davvero la strana percezione di essere amato e considerato.
   L’indomani aveva cercato di non pensarci molto, ma alla sera, un momento prima di addormentarsi, le sue domande erano riaffiorate tutte insieme prive del freno moraleggiante che, da persona ancora poco avvezza a certe dinamiche, vi aveva posto nell’istante subito dopo in cui la porta di casa si era richiusa dietro Augustine – nell’ascoltare i suoi passi lungo le scale aveva trattenuto il respiro allo stesso modo in cui, quando portava i bambini a vedere i fuochi d’artificio, restava a guardare in alto nel cielo finché persino l’ultimo crepitio lieve che echeggiava nell’aria non era più udibile alle orecchie. Era stato il capriccio di una notte e tale sarebbe rimasto: questo almeno era ciò che aveva ripetuto di continuo a sé stesso col passare delle ore. Però sopraffatto dagli impegni che si era imposto quel giorno per tenere la mente costantemente occupata non aveva avuto il tempo di cambiare le lenzuola, e adesso l’assenza di Augustine pesava col suo odore come una presenza indelebile. Erano stati distesi là insieme godendo l’uno dell’altro, e a Meyer si erano dischiusi piaceri nuovi e inaspettati, finalmente si era aperto a una persona del suo stesso genere dopo anni di negazione.
   Forse, si ritrovò a pensare, era semplicemente per questo che lui si era mostrato tanto paziente. Una volta, ricordò, mentre erano soli in Università, Augustine gli aveva chiesto scherzosamente quale fosse il suo tipo di uomo. Meyer aveva esitato nel rispondere, e precisamente in quell’indugiare egli doveva aver inteso i suoi trascorsi e il cammino tortuoso che stava ancora intraprendendo senza sapere bene la direzione in cui l’avrebbe condotto: gli aveva sorriso con uno dei suoi sorrisi compassionevoli e ingiusti. Il dormiveglia lo restituì a Meyer sempre più gigantesco e sensuale, mentre si distorceva ad aprirsi in una O rosso-sanguigna, e nelle orecchie gli pareva di udirlo mormorare questa stessa O prolungata e roca, che vibrava in fondo alla gola.
   Spalancò gli occhi di colpo per scacciare via quell’immagine, pur continuando a sentire a tratti la sua voce lamentosa ronzare in testa.
   Si domandò se anche lui avesse cercato qualcosa da lui. Per quanto lo riguardava, le cose si erano succedute in questo modo: aveva guardato Augustine, l’aveva visto accanto a sé, l’aveva sentito ricambiare le sue parole e sorridere, e poi l’aveva baciato. Questo era quanto. Tutto ciò che aveva voluto era stato un mero contatto fisico. Probabilmente, quindi, a impensierirlo adesso era il fatto che Augustine oltre al contatto fisico gli avesse riservato alla fine anche un contatto emotivo, e che da esso fosse stato colpito forse anche più intensamente – gli occhi tornarono lucidi nel ricordare il bruciore alla bocca dello stomaco nel momento in cui lo spettro di Aura era riapparso nei loro discorsi e lui gli aveva rivolto quell’espressione consolante.
   C’erano tante domande che voleva porgli. Si era anche chiesto se una volta tornati in Università si sarebbero guardati con gli stessi occhi di prima, sebbene sapesse che inevitabilmente qualcosa nel loro incontrarsi sarebbe cambiato. Avrebbero fatto finta di nulla? Gli sarebbe parso così strano da parte sua che era sempre tanto premuroso. Possibile che una persona del genere si arrogasse il diritto d’insegnare alla sua Garchomp una mossa talmente meschina come Frustrazione? Presto ogni dubbio, anche il più insensato, cominciò ad agglomerarsi in un ammasso confuso, e l’unica domanda che riuscì a distinguere in quell’intreccio caotico prima di addormentarsi fu un enorme, inesauribile: perché?
 
 
 
   Il giorno dopo Meyer si svegliò con un gran mal di testa per aver pensato troppo; se ne rimproverò mille volte di fronte allo specchio mentre si lavava il viso, e fuori dal bagno, in corridoio, il pupazzetto di Psyduck pareva fargli il verso con la grossa testa ciondolante e gli occhi sconsolati. Quando però più tardi si rese conto di starci rimuginando ancora sopra intanto che esitava davanti alla tazzina di caffè bollente, decise, anche per stare meglio con sé stesso, di andare da Augustine e parlargli.
   L’edificio dell’Università lo accolse all’arrivo coi suoi ampi portoni di legno. Prima di entrare si fermò qualche minuto a fumare sotto la tettoia e si scambiò un’occhiata distratta con un paio di studenti che erano usciti per fare lo stesso. Il vento freddo dell’inverno ormai in procinto di stabilirsi s’insinuava sotto i vestiti e aveva costretto i meno intrepidi a ripararsi dentro, così che oltre a loro intorno non c’era nessun altro. Dopo un po’ che Meyer li aveva visti rovistare nelle borse, i ragazzi si erano avvicinati tutti insieme: «Ha da accendere?» chiesero, quindi tirò fuori l’accendino dalla salopette, glielo diede, si accesero le sigarette e con un «Grazie» biascicato tra le labbra si riallontanarono dall’altra parte del pianerottolo.
   Mentre lasciava scendere il fumo in gola e riempirgli i polmoni, Meyer soffermava lo sguardo sui gradini sotto di lui, e per qualche motivo quella vista vuota e desolante gli suscitò un senso di malinconia. Si domandò se nelle stagioni successive sarebbero tornate a riempirsi come aveva visto le prime volte all’inizio dell’autunno, quando con Blaziken li aveva percorsi dapprima rassegnato, poi, sempre più attratto da Augustine, carico d’impazienza e di desiderio di rivederlo, di prestarsi alle prove. Di nuovo vide tra le sue fantasie la grande O rosso-sanguigna, si abbandonò al ricordo di quella notte. Un brivido gli accarezzò le braccia e la schiena nel riportare alla mente la sensazione di averlo sentito dentro di sé, e pensò fosse soltanto per effetto della nicotina che riuscisse a ripensare a tutto quanto in uno stato di placida calma. Sorrise e insieme arrossì nel dirsi che era stato bello; avrebbe voluto approfondire ancora quell’emozione, ma non c’era tempo. Spense la sigaretta e buttò via la cicca nel posacenere. Entrò in Università affondando le mani nelle tasche.
   Diversamente dalla situazione che versava all’esterno, partendo sin dall’atrio era come al solito un viavai di gente, di studenti ammassati di fronte alle aule in attesa di prendere posto per la lezione, di professori che dissertavano tra loro o agganciati al cellulare. Meyer diede una guardata veloce alle macchinette del caffè vicino alle scale, ma di Augustine nessuna traccia: fece rotta verso il Dipartimento, e a giudicare dall’accalcamento davanti alle porte d’ingresso, intuì già da lontano che qualcosa di singolare stava accadendo quel giorno.
   Sulla soglia trovò la portinaia presa d’assalto da una schiera di ragazzi e ragazze che chiedevano delucidazioni sugli esami, e poi sugli orari e sulle lezioni non ancora concluse. «Come facciamo, noi? Come facciamo!», li sentiva lamentare. Oltrepassò il gruppo osservandosi attorno incuriosito da quel clima insolito e si accorse del passo nervoso con cui i docenti gli correvano accanto, l’incedere instabile dei tacchi delle professoresse, il chiacchiericcio degli assistenti. Si fece di lato lasciando passare un giovane distratto, poi vide due ragazzine confabulare tra di loro, e si indicavano il naso, camuffando un po’ la voce a imitare un accento straniero. Quando svoltando il corridoio si ritrovò davanti a uno degli studi e lo ritrovò vuoto, le finestre aperte ad arieggiare l’ambiente, Meyer non ebbe più bisogno di chiederne il motivo. Lesse il nome sulla targhetta della porta e subito intuì cosa dovesse essere successo. Allungò gli occhi verso l’ala opposta del Dipartimento e si chiese inevitabilmente che cosa ne pensasse Augustine, se avesse avuto qualche reazione. Affrettò l’andatura per raggiungere al più presto la sua stanza.
   Non appena gli venne dato il permesso di entrare, si schiarì rapidamente la voce e aprì la porta.
   «Augustine!» lo chiamò, precipitandosi dentro. Cercandolo con gli occhi, si accorse che assieme a lui c’era un suo assistente, e lo stava fissando con espressione interdetta mentre riordinava alcuni schedari nella libreria. Augustine si circondava sempre di assistenti graziosi, si ritrovò inavvertitamente a pensare.
   «...Professore!» si corresse, richiudendo impacciato la porta.
   Augustine però aveva l’aria di essere piuttosto concentrato sul proprio lavoro: gli rivolse a malapena un sorriso, e lo accolse nello studio esattamente allo stesso modo in cui l’aveva sempre ricevuto, calato appieno nella parte del professore alla scrivania. Lo invitò ad accomodarsi coi soliti gesti cordiali e s’interessò della salute di Blaziken.
   «Gli ha fatto fare esercizio come le avevo consigliato?» chiese, intanto che sbatacchiava le dita sulla tastiera del computer, senza mai distogliere lo sguardo dal monitor.
   Meyer si sentì un po’ spaesato da quell’indifferenza, perché si era immaginato tutto in maniera diversa. Però si accorse anche che lui, contrariamente al suo stile usuale, quella mattina indossava sotto il camice una maglia a collo alto, e sapeva perfettamente che cosa stesse nascondendo e chi avesse lasciato quei segni – ecco un’altra strana, ma bella sensazione: l’appagamento sottile del non detto.
   Ad un tratto Augustine si alzò, si avvicinò alla stampante e ritirò alcuni fogli, li mise in ordine, li spillò, poi si rivolse all’assistente: «Potresti gentilmente portare questo fascicolo al professor Beardsley da parte mia?».
   Il ragazzo lo guardò sorpreso, e anche Meyer non poté fare a meno di rimanere perplesso.
   «Ah... Professor Platan...» cominciò a dire il giovane, ma Augustine lo bloccò.
   «Se ti sbrighi fai in tempo per la pausa caffè. Offro io», insistette con voce melliflua, mettendogli il fascicoletto nelle dita.
   «La ringrazio, ma non credo sia...» riprovò l’altro, cercando con lo sguardo un segno di assenso da parte di Meyer, che gli rese la sua stessa espressione confusa. Meyer in realtà sapeva che fosse probabilmente un pretesto per rimanere da soli loro due, ma davvero non aveva idea di come sostenere una scusa tanto poco meditata. Si limitò a scrollare le spalle e a fare un cenno di solidarietà con la testa. Il ragazzo sospirò.
   «Beh, sì, forse in effetti se mi sbrigo...» fece rassegnato.
   «Grazie mille», disse Augustine con un sorriso «Ti aspetto per il caffè. Andiamo insieme. Oh, potresti per favore chiudere la porta? Grazie, grazie mille».
   Meyer sentì chiaramente l’assistente imprecare in corridoio, ma si sforzò di ignorarlo. Osservò di sottecchi Augustine e per la prima volta considerò quanto dovesse essere difficile per i nuovi assistenti ricoprire quel posto che prima era stato di Sophie. Nell’affinità che era venuta a crearsi nell’ultimo periodo e che era culminata nel rapporto dell’altro ieri notte, Augustine gli aveva raccontato di tante persone, ma di lei mai una volta.
   Proprio adesso aveva preso a fissarlo col mento poggiato nelle dita, piegato col busto sopra la scrivania, ed era così vicino.
   «Allora? Blaziken?» incalzò, esortandolo con occhi impazienti e curiosi.
   Meyer si riscosse, insicuro cominciò a mettere mano nella tasca dove teneva la Premier Ball. Mormorò sottovoce che era lì, cercando di capire nel frattempo se Augustine fosse serio o meno: egli aspettava, afferrando intanto il blocchetto e la penna, senza staccargli lo sguardo di dosso.
   Blaziken uscì fuori dalla sfera emettendo il suo verso gracchiante, una manciata di scintille incandescenti scoppiettarono attorno ai suoi polsi. Si rivolse prima a Meyer, poi esitando sollevò il becco verso Augustine.
   «Le tue piume non smettono mai d’incantarmi, Blaziken», disse lui, avvicinandosi ad accarezzargli le penne arruffate sopra la testa. Gliele allisciò dolcemente con le dita e quella piccola coccola bastò a mettere il Pokémon a suo agio.
   Meyer si accostò a loro, il passo lento, le braccia conserte. Tossicchiò.
   «Bella scusa, quella del fascicolo».
   «Guarda che non lo era affatto».
   Dopo questa risposta data tanto seriamente, Meyer pensò di non capirlo proprio, e il cambio di registro a quel tono confidenziale non faceva altro che confonderlo ancora di più. Augustine ridacchiava rigirandosi nelle dita gli artigli di Blaziken e sfiorandogli le zampe robuste: non era che un gioco anche quello. Di tanto in tanto si annotava qualcosa sul taccuino, poi tornava a osservare il Pokémon, e di nuovo ancora si immergeva nella lettura dei dati raccolti in un silenzio assorto, corrugando leggermente la fronte.
   A un certo punto allungò la mano a poggiarsi contro la spalla di Meyer, e pian piano che quel gesto da una pacca distratta si trasformava in una carezza più solida e le dita si abbassavano a sfiorargli la schiena, Meyer si scambiò uno sguardo con Blaziken. Il Pokémon non pareva infastidito da quell’iniziativa improvvisa, né egli d’altra parte lo era. Però, più lui scendeva, più diventava difficile non cedere a certi pensieri, e non poteva trattenere le sensazioni che gli rievocavano il ricordo di quella notte ancora troppo vicina. Abbassò la testa a evitare il contatto visivo con Blaziken e Augustine parve intuire il suo disagio, perché doveva essersi irrigidito tutto d’un tratto. Allora la sua carezza si era ammorbidita di un languore consolatorio, dopodiché aveva allontanato la mano.
   «Blaziken mi sembra in ottima forma», disse sorridendo, poi aggiunse: «Tu, invece, come ti senti?».
   Sollevando lo sguardo, Meyer aveva incrociato i suoi occhi.
   «Sto bene, Augustine... Professore... Uhm...».
   «Chiamami come preferisci. Se ti fa sentire più a tuo agio mantenere le distanze, puoi continuare a darmi del lei».
   Parlava così spigliatamente, come se fosse più che abituato a ritrovarsi in questo tipo di situazioni. Effettivamente pareva davvero che non avesse alcun genere di preoccupazione, e si comportava come se nulla fosse poi tanto cambiato rispetto a due giorni prima.
   «Dimmelo, se pensi che mi stia prendendo troppa confidenza».
   «No, no. Ecco... Sei gentile a preoccuparti. Ma vorrei parlarti, se non ti dispiace».
   «Hai avuto dei ripensamenti?».
   «No».
   «L’importante è questo. È qualcosa di cui possiamo parlare qui? Altrimenti possiamo andare a bere qualcosa insieme più tardi. Oggi finisco alla solita ora».
   Meyer non poteva negare che quell’invito lo allettasse, ma la rapidità con cui gli eventi si stavano accelerando lo gettava sempre più in uno stato d’incertezza. Fino a due giorni prima non si sarebbe nemmeno sognato di proporgli un caffè – di quelli veri in caffetteria, non l’acqua sporca delle macchinette automatiche come erano abituati; ma d’altra parte erano stati a letto, e forse farsi tutti questi problemi a posteriori ormai non aveva alcun senso. Di fronte alla disinvoltura di Augustine si riconosceva un’altra volta inesperto, e questa situazione per lui nuova continuava a gettare una sequela interminabile di interrogativi, anche – probabilmente? – banali.
   L’assistente rientrò in quel mentre con un’espressione spazientita, i documenti ancora in mano. Richiuse la porta e Augustine lo guardò stupito, come fosse tornato prima del tempo, fissando i fogli che gli erano tornati indietro.
   «Professore, io ci ho provato, ma il professor Beardsley ha lasciato il suo studio stamattina, non sono riuscito a trovarlo. Pensavo lo sapesse, ne sta parlando tutto il Dipartimento».
   Augustine si riscosse, scansò Meyer di lato e raggiunse il ragazzo.
   «Sapevo dovesse andarsene a breve, ma non oggi, non ne avevo idea», disse, e Meyer notò un bagliore di sorpresa balenare di colpo nei suoi occhi, ma una sorpresa stranamente cupa. Se ne insospettì.
   «Sì, è tornato nella regione di Galar dalla Professoressa Flora», continuò il giovane «Se n’è andato un’ora fa senza preavviso».
   Il suo sguardo si fece improvvisamente inquisitivo, e Meyer intese che si stava ponendo le sue stesse domande.
   Augustine sollevò la testa dalle schede che aveva preso a sfogliare con tanta cura e passandosi una mano nei capelli si guardò attorno spaesato. Le sue labbra si erano serrate in una linea dura e asciutta, e scrutando il modo in cui le sopracciglia si piegarono subito dopo sulla sua fronte, Meyer ebbe la certezza che qualcosa effettivamente dovesse essere successo. Augustine sembrò accorgersi dell’insistenza con cui entrambi lo stavano fissando e si affrettò a trovare una risoluzione:
   «Ho capito. Non volevo farti fare tutta quella strada inutilmente, ti chiedo scusa», disse. «Vorrà dire che glieli spedirò io, in qualche modo... Sì. Sì, facciamo così».
 
 
 
   «Non penso se ne sia andato per questo».
   Meyer era rimasto a guardarlo per dei lunghi istanti quando Augustine aveva finito di parlare, ed era stato tutto ciò che si era sentito di dirgli. Si portò il boccale alle labbra e bevve un altro sorso di birra. Augustine stava in silenzio nel suo angolo del divano a rigirare lo spritz con la cannuccia. I cubetti di ghiaccio tintinnavano scorrendo contro la superficie del bicchiere, e suonavano la cantilena del bacio rubato.
   Erano andati a cena insieme: una volta usciti dal ristorante, Beardsley si era offerto di accompagnarlo alla stazione della metropolitana più vicina; prima di separarsi, Augustine gli aveva allisciato con una mano il bavero del cappotto: Non tornare a casa raffreddato, lo aveva ammonito, poi si era gettato impetuoso a baciarlo sulle labbra, ma lui l’aveva respinto.
   Meyer in parte già sapeva, in realtà, poiché in precedenza gliene aveva accennato.
   «Vedi, è che lui mi affascinava molto», ammise Augustine, per l’ennesima volta. «Era gentile e aveva un gran cuore».
   Meyer in realtà pensò a qualcos’altro che iniziasse con la stessa sillaba e che non doveva essergli passato inosservato, ricordando i lunghi pomeriggi in cui non aveva fatto altro che sciorinargli quanto fosse un bell’uomo e quanto ne fosse attratto fisicamente. Eppure Augustine pareva essere sincero, nelle sue parole non risuonava alcunché di malizioso. Ancora una volta riaffiorava quell’unione di amorevolezza e sensualità unite assieme, come che per lui non potessero essere disgiunte del tutto l’una dall’altra. Meyer lo osservava mentre ancora rimestava il drink e si sentiva così incuriosito da quella strana commistione di sentimenti: per tutta la vita non aveva fatto altro che tenerli separati, invece Augustine aveva un modo talmente diverso di ragionare e di amare, che desiderava capirlo più a fondo.
   «Possibile che te ne fossi innamorato?».
   «Oh, no, no. Non cercavo quel tipo di relazione. Non saprei come spiegarti. Per una persona che ha condiviso la maggior parte della sua vita sempre con la stessa persona è difficile da comprendere».
   Meyer era piuttosto scettico su questo punto, magari anche piuttosto presuntuoso. Avrebbe potuto insistere e domandargli che almeno facesse un tentativo, ma, forse per imbarazzo, pensò di prenderla alla larga.
   «È solo che, tutta questa storia per un bacio...».
   «Oh Meyer, non si tratta di una questione sentimentale. Se capisci cosa intendo».
   L’intonazione seria e stizzita con cui l’aveva detto lo riportò immediatamente coi piedi per terra, lontano da certe riflessioni ideali e romantiche. Le preoccupazioni di Augustine erano molto più concrete di quanto avesse pensato.
   «Certo che lo capisco», continuò, e la sua voce si fece di colpo più grave. «Solo che, davvero, non penso se ne sia andato per questo. So che la Professoressa Flora è molto rinomata nella regione di Galar...».
   «Non avrei nemmeno dovuto baciarti lì, l’altro giorno», lo sentì aggiungere, che non stava ascoltando una parola di quel che gli stava dicendo.
   «Ho fatto anch’io la mia parte», replicò, e si sorprese della sottile fierezza con cui gli era venuto di ribadirlo. «Ma quanto a quella sera, non eravate sul posto di lavoro... Era un’uscita fuori insieme, no? Perciò...».
   Tuttavia, proprio mentre parlava, all’improvviso Meyer fu colto da un dubbio, un’intuizione maligna, e guardò Augustine stordito da quella congettura che si faceva sempre più definita nei suoi pensieri.
   «Voglio dire, quando quella sera l’hai baciato e ti ha detto di no... Non sei andato oltre, vero?».
   Augustine si riscosse di colpo e lo fissò risentito.
   «Vorresti forse insinuare che io...!» articolò, ma notando la saldezza con cui lo stava fronteggiando si zittì, nascose il viso nelle mani e sospirò.
   Meyer restò con le dita che esitavano gravose attorcigliate al manico del boccale senza trovare che cosa dire e distolse lo sguardo. Augustine tornò a ridistendersi contro lo schienale del divano lasciando cadere le braccia sulle gambe. Scrollò le spalle rassegnato, e tuttavia pareva consapevole di quel che aveva potuto lasciare intendere.
   «Avevo rotto da poco con...» non disse il suo nome, ma Meyer sapeva che si stava riferendo a lei «Mi piaceva così tanto, fin da quando è arrivato. È vero che ho provato ad avvicinarlo a me. Ma sono stato attento. Quel giorno in cui mi sono accorto che ci stavi guardando e che avevi capito tutto, ho avuto paura. Perché nel frattempo si sono diffuse certe voci, su di me e sui miei assistenti, sul fatto che li cambi tanto spesso, e per un attimo ho pensato... Ma con lui sono stato attento, sono stato attento...».
   Non l’aveva mai visto così inquieto. Era tanto diverso dall’immagine che ne aveva sempre avuto dietro la scrivania, con quei gesti ampi a comunicare apertura e serenità; invece ora appariva talmente meschino, tutto chiuso in sé stesso, mentre si tormentava un’unghia col pollice, tenendo il capo chino a guardarsi le ginocchia.
   Augustine disse qualcosa di strano, ma Meyer ebbe come l’impressione di esserselo aspettato:
   «Ti sei mai sentito schiacciato dalla tua stessa apparenza?».
   Uscirono dal pub costeggiando i tavoli degli altri clienti, accompagnati dal chiacchiericcio confuso che si disperdeva man mano che si addentravano nel corridoio verso le porte. Fuori cominciava ad alzarsi il vento freddo della sera, lungo le strade erano già accesi i lampioni. Avevano attraversato il parcheggio passeggiando in silenzio uno accanto all’altro senza guardarsi mai una volta.
   Meyer aveva già indossato il casco e stava prendendo posto sulla moto quando Augustine posò una mano a bloccargli il braccio prima che partisse.
   «So che dopo un discorso del genere non sarebbe il caso. Ma ti andrebbe... Ti andrebbe se ti invitassi a cena stasera?».
   Meyer fu colto alla sprovvista. Tirò su la visiera, ma pur rivolgendogli lo sguardo continuò a esitare. Si chiese se fosse il caso, se addentrarsi oltre, ancora una volta, lo avrebbe mantenuto saldo nelle proprie intenzioni. Ecco che le preoccupazioni della notte prima tornavano ad assillarlo: si rese conto soltanto ora di non essere minimamente riuscito a confessargliene una, quel pomeriggio. Da una parte la cosa lo allettava, ma non poteva reprimere la sensazione di fastidio che aveva provato poco prima nei suoi confronti. Però, anche così, però...
   «Se hai altri programmi, non voglio disturbarti. O i bambini, magari...».
   «No, no, i bambini sono ancora da Aura. Stasera sono solo».
   Gli occhi di Augustine si rischiararono di un bagliore sottile. Lo guardava quasi a supplicarlo, sforzandosi al contempo di non darlo troppo a vedere. Meyer sapeva di stare sbagliando, mentre ripensava alla sua figura piccola rannicchiata sul divano del pub e si convinceva che forse stasera fosse lui ad avere bisogno del calore disinteressato del sesso, come era stato per lui l’ultima volta. Nella mente guizzò, soltanto per un attimo, il dubbio se ieri l’altro non gli avesse fatto questa stessa impressione, se Augustine cioè non l’avesse percepito in quel momento in cui gli si era riversato addosso con quella richiesta improvvisa minuscolo e disperato come lo vedeva lui ora.
   «D’accordo», gli disse quindi.
   Augustine lo ringraziò. Gli diede l’indirizzo di casa, e mentre si allontanava, Meyer ebbe l’impressione che tra le labbra, in tono basso e malconcio, canticchiasse: «J’ai baisé ta bouche Jokkanaan, J’ai baisé ta bouche...».



 
 
~ ~ ~



Ciao a tutt*, come state?
Per quanto riguarda l'aggiornamento di oggi non ho molto da dire, se non che mi rendo conto che Augustine non ne esca affatto bene. Spero comunque che il capitolo non vi sia dispiaciuto troppo.
Pubblico questo pezzo alla fine della mia prima settimana di lezione in presenza in università dopo quasi un anno e mezzo di sospensione/didattica a distanza, e mi mette un po' di nostalgia pensare a quando l'avevo iniziato a scrivere prima che succedesse tutto.
Il collega di Augustine, lo stesso che avevamo visto nella quarta conchiglia, prende il nome da un artista inglese attivo sul finire dell'Ottocento: Aubrey Beardsley. Sebbene condividano il dettaglio del naso importante rimane più un prestanome che un prestavolto. Beardsley era molto vicino all'ambiente di Oscar Wilde e ha illustrato la sua
Salomè, da cui viene la citazione con cui si chiude il capitolo e che è anche il titolo di una delle tavole più note (in link nella versione del 1892). Ho pensato che il carattere erotico di molte illustrazioni di questo artista potesse coincidere bene con l'ossessione di Augustine. Quando hanno annunciato la regione di Galar sono stata molto contenta di poter dare a questo personaggio un minimo di contesto in più.
Chiudo con i ringraziamenti che mi erano rimasti in sospeso a Gella per aver messo la storia tra le seguite e a Barbra e Afaneia per i loro commenti alle conchiglie precedenti! Come sempre grazie di cuore anche a chi passa a leggere in silenzio e a chiunque dia anche solo una sbirciata 

Un abbraccio e alla prossima,
Persej

 
  
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