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Autore: time_wings    20/04/2021    4 recensioni
Il signor Pazzi si confida con un girasole, perché ritiene che abbiano molto in comune.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Vaga allusione alla depressione, ma nei limiti del rating.
 





Un fiore delicatissimo e grazioso
Che nasce troppo tardi,
In un mattino ozioso,
Circondato da matti.

 
 
Lui non conosce, non ha memoria, lui non può sapere che nel mondo in cui è nato si nascondono clacson, rumori assordanti, smog grigiastro.
A stento conosce i ratti, la linfa delle erbacce, i lembi esausti dei vestiti trasandati.
Lui non conosce altro umano che il signor Pazzi.
Ci ha vissuto, ci è cresciuto e, triste e sconsolato, guardava gli altri.
Gli altri fiori, grandi e alti, nel giardino riempito del limpido azzurro del signor Pazzi.
“Non sarebbe forse meglio?” si domanda, tentando invano di voltarsi con i girasoli, “Non sarebbe meglio se venissi estirpato? Perché, in fondo, sono nato?”
Niente da fare.
Il proprietario è un osso duro: il fiore più difficile da sradicare.

 

Io non lo so, sai, non so cosa sia più giusto fare. Non ci ho mai capito niente di questioni di erbe ed essenze, eppure qualcosa la sento.
Ed è una sofferenza immane. È un dolore che non so spiegare.
Non è altro che la lacerante consapevolezza di voler amare. E, te lo dico col cuore in mano, non c’è parte di me che non si senta divorata dal male.
Non faccio che chiedermi perché mi sia meritato di sbagliare. Non faccio che rinchiudermi in questo giardino stretto e penso solo che me ne vorrei andare.
Eppure sai che faccio?
Nonostante tutto io continuo a piantare.
Rossi, il coinquilino, non smette di dirmi che questo non è il mio posto. Mi dice di continuo che c’è stato certamente un malinteso, un incidente di percorso.
È che quando dal settimo piano finisci al primo non te lo sai spiegare.
[1]
 
Le note che ti fanno da alleate, lo sai fiore, lo sai che diventano? Improvvisamente hanno denti appuntiti e altre cento lame.
Però qui, al primo piano del palazzo, c’è questo giardino in cui mi fanno respirare.
Mi tranquillizza e non mi fa gridare.
Sono tutti entusiasti, eppure io più alzo lo sguardo al cielo, più penso che ci dev’essere per me un modo di poterlo afferrare.
È da qualche parte, ne sono sicuro, devo solo continuare a cercare.
 
Sono molto stanco, fiore, lo sono da decenni.
Anch’io, come te, sono nato in ritardo.
Un anno solo, un anno prima, e avrei visto la più unica e irripetibile festa che il mondo abbia mai fatto. Ce ne sono state solo due, riesci a crederci? Due nella storia di questa incomprensibile e disfunzionale umanità.
Due sole e io ne ho persa una per un soffio.
Mi sembra uno scherzo, una battuta, eppure è vero.
 
Sono molto stanco, fiore, io non lo so se posso affidarmi alle fotografie.
Snocciolano morti e avvallamenti, ma mi paiono così lontane da questo giardino da sembrare false. Discorsi folli che la mia dignità distrutta autorizza gli altri a protrarre.
Io mi batterò altre sette volte una mano sul petto, fiore, perché io valgo, anche se sono rotto.
Anche se, come te, sono diverso dai girasoli e quando mi volto punto all’oscurità.
Noi, fiore, siamo gli unici a poter combattere questa cecità.
 
I proiettili non m’hanno mai sconvolto, lo sai? Mai una volta m’hanno fatto tremare.
È la rassegnazione all’idea di esserne colpiti a farmi quasi accapponare la pelle.
Io sono lento a capire, lo sono sempre stato: io devo impostare i loro schemi per afferrare. Devo cambiarmi gli occhi e venire accecato dalla luce che generalmente rifuggo. Non sono mica cose che si fanno nell’arco intagliato da un secondo! Ci vuole metodo, tempo, delicatezza e adattamento al difetto di fabbrica.
Io ne ho visti tanti di sopraccigli alzati dallo sconcerto dei miei versi, dalla sorpresa delle mie parole, dalla confusione che le mie idee generavano negli altri.
Ne ho visti tanti e ne ho avuto un terrore immane.
Ma la ricompensa è vedere questo verde etereo e affatto sgranato dalla rovina del tempo.
Mi hanno detto, un tempo, che avevo bisogno di aiuto e che mi avrebbe giovato parecchio ascoltare, una buona volta. Non che non mi andasse bene, ascoltare s’intende, ma quelle erano parole meschine, sai. Tradivano un significato che riuscii ad afferrare anch’io. Mi stavano dicendo che avevo più difficoltà degli altri, che non ero alla portata della grandezza a cui puntavo.
Mi stavano dicendo che non ero all’altezza.
Tu non mi conosci, fiore, ma io sono un tipo fragile.
Non mi bastano cento parole per convincermi di un valore, ma lascia correre una leggera brezza e stai pur certo che piomberò nella forma più tenebrosa di amarezza.
Mi è bastata una negazione per pensare che forse, con un po’ di fortuna, avrei fatto meglio a togliere il disturbo, sai, a limitarmi ad andare.
Non è una storia affascinante e avrei voluto così tanto giustificare questa dipendenza innaturale dal dispiacere.
Avessi una scusa, un trauma, una storia difficile, un contesto storico, io almeno me lo potrei spiegare.
E invece io non ho niente. Invece io sono saccente e provo a combattere le luci solo quando sono spente.
Io ho pagato caro il mio prezzo, fiore.
L’ho scontato a suon di sguardi di disapprovazione, consolazioni ed il riflesso ridicolmente pietoso della delusione negli occhi di chi avevo illuso, di chi avevo preso in giro, con la promessa di valere qualcosa e di volerglielo dimostrare.
Io ho vissuto la più degradante delle umiliazioni: la perdita del diritto di parlare.
Quando hanno capito che io a questo mondo non avevo niente da dare son finito qui.
Ormai lo dovrai aver intuito, anche se sei un fiore ritardatario.
Io questo giardino non lo dirigo, non l’ho mai diretto, perché ho capito tutto in ritardo, ma l’ho fatto meglio degli altri.
Io ho visto qualcosa che nessuno ha mai visto e la sua luce accecante era troppo, davvero troppo forte per non rimanerne scottati.
Io conosco la verità su questo mondo, fiore, io so come gira e come cambia colore.
Ed è per questo motivo che non so far finta di niente, che sono un buono a nulla, pigro e inerme, davanti alla gente.
Io ho capito che puntiamo al vuoto più inconsistente.
Non c’è verso che questo mondo abbia un senso, un traguardo trasparente da tagliare con la vita. E l’affannarsi mi è sempre parsa la più lenta e subdola fatica.
E, nonostante tutto, non faccio che sentirmi immancabilmente in colpa per il peso di queste consapevolezze, perché m’hanno reso vuoto, impotente, davanti alla gente che tentavo invano di compiacere.
Ormai lo avrai intuito, fiore che gira al contrario.
Io per entrare in questo giardino ho un orario.
È rigido e stretto e mi fa urlare forte, perché sono il signor Pazzi e, come dicono tutti gli altri, non merito di essere rinchiuso in queste sbarre puzzolenti, dove mi regalano le pantofole, mi danno un gabinetto e venti pillole da inghiottire.
Io vorrei spiegar loro che è al settimo piano, che vorrei risalire, anche se non potrò vederti più.
Io lo devo dire a qualcuno, loro devono sapere che ho trovato il nesso di questo mondo sconnesso, anche se non mi reputano all’altezza.
Sono in signor Pazzi, per la miseria, come potrei farmi portavoce del pianeta? Chi metterebbe un pazzo alla guida di questa meta? È da irresponsabili.
La verità, fiore, è che il cielo si può bucare e mentre piove e le gocce sanno di sale loro lo guardano e non ci vedono niente di male.
La verità su noi pazzi è che siamo perduti perché hanno tutti paura che se si lasciassero andare anche solo per un secondo diventerebbero scarti come noi.
Perché l’unica cosa che ci separa dai piani alti è il coraggio di averlo gridato a tutti, che la pioggia sa di sale.
Però ci hanno dato un posto, un luogo segreto e unico e da qui potrò per sempre osservare la volta che avrei tanto voluto comprendere.
Ci hanno dato un posto per la fine.
E l’ho accolto a braccia aperte perché a nessuno, all’esterno, è mai concesso di morire.

Quindi anche se in fondo temo la notte, perché un peso assolutamente insostenibile mi si posa sul petto e non mi fa respirare, io ti auguro, anche se non ti fa piacere, fiore,
ti auguro con tutto il cuore di non riuscire a girarti mai verso il sole.




[1] Primo di una serie di riferimenti al racconto "Sette piani" di Dino Buzzati. 
Cielo, devo dire un paio di cose.
Sì, lo so che i girasoli non si girano tutti verso il sole.
Se non avete mai letto "sette piani" a parte fatelo perché è un racconto lungo penso una decina di pagine ma ti prende la testa, te la apre e ti lascia lì a chiederti su che piano t'hanno messo e se ti saprai mai orientare. Comunque anche se non l'avete letto non cambia niente, perché io quando e se cito qualcosa quando scrivo mi assicuro di ribaltarla nella maniera più stupida possibile. Credo sia l'idea di non voler neanche provare ad accostarmi al genio di chi l'ha pensata, quindi me ne allontano a più infinito.
Questa cosa è stata scritta un anno e tre mesi fa e la verità è che ci tengo come poche cose al mondo, perché non è perfetta neanche un po', ma l'ho scritta con una delusione e una vuotezza inspiegabili e, a distanza di un anno, vedere che quel giorno, tra tante cose, ho pensato che parlare a un fiore fosse la migliore, mi ricorda che possiamo sempre tirare fuori qualcosa dal niente. Il motivo per cui è qui adesso è la speranza che, con tutti quegli "io", possa aiutare qualcuno di inadeguato a non credere di essere solo e da buttare e, motivo decisamente più egoista, perché questa storia sono stata sul punto di leggerla almeno tre persone e, proprio un attimo prima di riuscirci, è successo qualcosa che gliel'ha impedito. Volevo solo spezzare la maledizione.
In realtà il finale è ispirato a Cleopatra dei The Lumineers, nello specifico ai versi "it's a bed and a bathroom / and a place for the end".
Grazie per esservi fermati e per aver letto.

El.
   
 
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