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Autore: Adeia Di Elferas    23/04/2021    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Non appena il piccolo corteo era arrivato nelle immediate vicinanze della villa di Castello, immersi in un clima quasi immobile, afoso e illuminato dalla spietata luce di fine luglio, una schiera di servi si profilò davanti al portone d'ingresso.

Man mano che i cavalli si fermavano davanti alla facciata principale dell'edificio, tra i domestici alcuni andavano a occuparsi delle bestie, altri chiedevano disposizioni riguardo ai bagagli e un paio, invece, cercarono nel gruppo qualcuno che potesse essere la famosa Tigre di Forlì, appena appiedatasi, per presentarlesi.

Dando poca importanza ai due servi che le dissero i loro nomi, Caterina si voltò appena verso Troilo De Rossi, che stava smontando di sella in quel preciso momento: “Credevo che qui ad accoglierci ci sarebbe stato Francesco Fortunati.”

L'emiliano sollevò un sopracciglio e poi, senza guardarla in modo troppo diretto, rispose semplicemente: “Messer Fortunati potrà venire a farvi visita, previo permesso, quando vorrà, ma per oggi è stato deciso che fosse meglio così.”

La Sforza non ribatté, mordendosi la lingua appena prima di dire troppo. Sapeva quanto era fragile, la sua finta libertà, e anche se si trattava di una condizione illusoria e in parte ipocrita, preferiva di gran lunga quella recita alle carceri fredde e buie di Castel Sant'Angelo.

Bianca aveva appena preso in braccio Giovannino, ed entrambi osservavano rapiti il profilo della grande villa che stava loro dinnanzi. Solo quando passarono accanto a Troilo, intento a dare disposizioni a uno dei servi su come sistemare i cavalli, la ragazza staccò lo sguardo dal palazzo per dedicare un'occhiata rapida, ma intensa, all'uomo.

“Avanti...” sbuffò, gioviale, frate Lauro, mentre consegnava parte dei bagagli a un paio di domestici, rivolgendosi poi a Sforzino, che gli si era attaccato per buona parte del viaggio, parlando con lui di santi poco noti, di cui anche Bossi non sapeva quasi nulla: “Aiuta tuo fratello... Credo si sia impigliato...”

Il Riario si guardò alle spalle e vide che Ottaviano, appesantito nel fisico e scoordinato come sempre, nello scendere da cavallo era rimasto con il giubbetto incastrato tra i lacci della sella, e ora, mentre si divincolava per liberarsi, rischiava sia di rovinarsi il vestito, sia di innervosire troppo il cavallo.

“Lascialo perdere – gli consigliò Galeazzo, passando accanto a Sforzino, cedendo, cosa che gli capitava di rado, a una moto di disprezzo palese nei confronti del fratello maggiore – in fondo è lui che continua a vantarsi di essere l'unico uomo di casa... Che se la cavi da solo...”

Alla fine, tra una bestemmia e l'altra, Ottaviano fu l'ultimo dei Riario a riuscire a entrare nella nuova casa.

La villa di Castello aveva la classica patina intatta di un posto che non veniva vissuto da tempo, benché, a detta di uno dei servi, che si stava prodigando per mostrare alla sua nuova signora gli ambienti principali, almeno i domestici l'avevano abitata in tutti quei mesi, prendendosi cura delle ali nobili e riservando per loro stessi solo gli alloggi della servitù.

Caterina credeva alle loro parole, anche se solo in parte. Seppur ogni mobile e ogni tappezzeria era in stato ottimo, era chiaro ed evidente che la casa era stata rinfrescata solo di recente. Non si sarebbe sorpresa, nel sapere che suo cognato Lorenzo aveva cercato accuratamente tra i suoi tirapiedi e clienti i servi da mandare lì da lei, al solo scopo di metterle addosso occhi e orecchie a lui fedeli.

Tuttavia, man mano che le venivano mostrati saloni, disimpegni, camere da letto e la biblioteca, l'unica cosa a cui la Tigre riusciva a pensare era che in quella villa aveva vissuto anche Giovanni.

“Va bene, va bene... Basta così.” disse, a un certo punto, facendo tacere la serva che le filava dietro come una mosca, snocciolando notizie di ogni sorta su qualsiasi minuscolo dettaglio in cui si imbattevano: “Voglio stare un momento sola... Per favore, parlate con mia figlia, per i bagagli e tutto il resto.”

Scrollandosi finalmente di dosso tutti quanti – perfino Giovannino, che, dopo una breve protesta accettò di andare in braccio alla sorella – la Leonessa cominciò a vagare senza una metà, avendo come unica regola quella di evitare i punti della villa in cui c'era già qualcuno.

I suoi passi venivano attutiti in parte dai tappeti e in parte risuonavano sui pavimenti di cotto. Era una cosa da nulla, ma la donna sarebbe stata pronta a giurare che almeno metà dei tappeti presenti in origine fossero stati portati via, e che fossero rimasti solo quelli meno pregiati.

Aguzzando la vista, si rese conto che molte altre cose, probabilmente, erano state destinate ad altra sede. C'erano molti mobili, infatti, su cui era evidente mancasse qualche soprammobile, e la libreria, molto grossa, aveva interi ripiani vuoti, il che era molto strano, data la famiglia a cui apparteneva quella casa.

Si stava quasi perdendo, tra stanze e corridoi, quando, dopo essersi affacciata un momento nel cortile interno – che, per quanto molto diverso, le ricordò in modo struggente il cortile d'addestramento di Ravaldino, in cui aveva passato gran parte della sua vita – sentì la voce di frate Bossi che discuteva con Ottaviano. Lo stava rimproverando di essere stato scortese con uno dei soldati francesi e lo stava redarguendo sul modo in cui aveva guardato una delle serve.

“So bene quali erano i vostri costumi, in Romagna – stava dicendo frate Lauro – ma badate bene che da come ci comporteremo noi tutti, qui, dipenderà non solo la salvezza e la salute di vostra madre, ma anche quella di noi tutti, quindi pensateci bene prima di...”

La Sforza non aveva voglia di sentire altro, perciò, aprendo la prima porta che si trovò davanti, sparì in una stanza.

Gli scuri erano chiusi, anche se male, e quindi l'oscurità era quasi completa. Con passo incerto, sperando di non inciampare, la Tigre andò alla finestra da cui filtrava l'unico fascio di luce, e in pochi istanti riuscì ad aprire a dovere le imposte.

Si guardò attorno, e capì di trovarsi in una camera da letto. Era spaziosa, ma piena di polvere. Il letto praticamente non esisteva più, perché il baldacchino era stato tolto e smontato, accantonato in un angolo, come se qualcuno stesse per portarlo via, ma alla fine avesse dovuto lasciarlo là dov'era.

C'era una piccola cassapanca, un inginocchiatoio a cui erano stati appoggiati i ferri del camino e un vaso da notte. A una delle pareti era appeso uno specchio di dimensioni discrete – e la milanese si sorprese molto che suo cognato non avesse portato via anche quello – mentre per il resto c'era solo una pila di quelli che sembravano libri e quaderni, coperti da un telone.

Incuriosita da quest'ultimo reperto, la Tigre guardò sotto al lenzuolo sdrucito usato come riparo. Si trattava di volumi di poco conto, ma che, risistemati a dovere, avrebbero sicuramente acceso l'attenzione di almeno due dei suoi figli: Bianca e Sforzino, lettori voraci e appassionati.

In mezzo ai volumi, come già intravisto, trovò anche dei quaderni di pelle contenenti fogli manoscritti. Alcuni non le dicevano nulla, sembravano appunti per qualche racconto, forse, o progetti per un dipinto, o la coreografia di qualche festa. In mezzo, però, vi trovò un bozzetto che la lasciò immobile per qualche secondo.

Se non fosse stata certa che fosse impossibile, avrebbe giurato che la donna ritratta in quello schizzo fosse proprio lei, anche se più giovane.

All'improvviso, come colta da un fulmine, Caterina si ricordò di qualcosa che le aveva confidato Giovanni, quando erano marito e moglie. Le aveva parlato di un dipinto che era stato commissionato per le nozze di Lorenzo. Ci mise parecchio prima di ricordare il nome dell'artista che ne era l'autore. Nella sua mente continuava a risentire la voce di Giovanni ripetere 'Sandro', ma solo con un enorme sforzo arrivo al cognome: Botticelli.

Per qualche istante si soffermò a guardare il profilo che, ormai ne era certa, era stato abbozzato proprio da quel pittore, e capì cosa avesse inteso il Medici, quando le aveva detto che, in un certo senso, era come se già la conoscesse. La linea del naso e lo sguardo erano i suoi, la Tigre non poteva negarlo, erano gli stessi che vedeva quando si rifletteva in uno specchio o sulla piastra lucida di un'armatura.

Appoggiando di nuovo i fogli, lentamente, provò a chiedersi dove quel Sandro Botticelli potesse averla vista, e l'unico collegamento a lui che trovava nella sua memoria erano gli anni che aveva passato a Roma, alla corte di Sisto IV. All'epoca era letteralmente circondata da artisti, poeti e cantori, solo che non le interessavano. Era stata così occupata a imparare la dura legge della diplomazia e dei giochi di potere che tutto il loro estro per lei era stato solo un fastidioso sottofondo.

E ora si rivedeva lì, su una pagina un po' rovinata, disegnata chissà quanti anni prima, da un uomo di cui, alla fin fine, conosceva a malapena il nome...

Cercando di non pensare troppo a tutti quello che aveva vissuto in quegli anni, nel bene e nel male, Caterina andò avanti a curiosare tra i quaderni e i libri. Stava per smettere, quando riconobbe, in una pagina che si stava staccando da uno dei taccuini, una grafia che conosceva bene.

Con la bocca che si seccava un po', il cuore che batteva più forte, la donna lesse qualche parola, e fu certa di cui le avesse vergate.

Dopotutto, si disse, mentre osservava in silenzio le pagine scritte da Giovanni, il Medici aveva vissuto in quella villa. Era fatale, che avesse lasciato qualcosa di suo.

Riconosceva la poesia da cui erano tratti quei versi. Si trattava di un'opera del Magnifico. Il Popolano ne aveva portato una copia anche a Forlì, quando era andato a vivere a Ravaldino, e gliel'aveva fatta leggere.

Rimettendo tutto in ordine, con maggior cura di poco prima, la Leonessa si guardò alle spalle, verso il letto, colta da un dubbio improvviso.

Non fece in tempo a formulare del tutto la domanda nella sua testa, che la porta si aprì, lasciando entrare la voce querula di una delle serve e quella più bassa e misurata di Galeazzo, che insisteva nel dire che ci sarebbe stato tempo, per vedere tutta la casa, e che non era necessario farlo immediatamente.

Sorpresi, entrambi, nel trovarsi dinnanzi la Tigre, la donna e il ragazzo in un primo momento tacquero, poi il Riario, approfittandone per sganciarsi dall'appiccicosa domestica, si scusò, dicendo che doveva andare a sistemare le proprie cose, e si allontanò.

Dall'espressione delusa della serva, Caterina capì che la giovane doveva provare un certo interesse per Galeazzo. Lui, invece, non le era sembrato troppo rapito, anzi.

“Come ti chiami?” domandò, senza preamboli, la Sforza.

La domestica, accigliandosi solo un attimo dinnanzi al tono colloquiale usato dalla sua nuova signora, rispose: “Creobola.”

La Leonessa prese nota mentale e poi, indicando la stanza in cui si trovavano, chiese: “Sai dirmi chi occupava questa stanza, quando la villa era abitata?”

La serva sporse in fuori le labbra, indagando con gli occhi scuri la sua interlocutrice. Era il classico tipo di donna, a quanto Caterina poteva immaginare, che sapeva tutto di tutti, ma voleva fingersi ingenua e ignara di ogni cosa.

Forse fu il prolungato silenzio o la consapevolezza di trovarsi davanti a una delle donne più temute e temibili d'Italia, alla fine Creobola ammise di essere ben informata anche su un dettaglio come quello: “Se ciò che mi è stato riferito è corretto, questa era la stanza di messer Giovanni Medici, il fratello più giovane.” solo in un secondo momento, ricordandosi che stava parlando con la vedova dell'uomo che aveva appena citato, la serva aggiunse: “Che Dio l'abbia in gloria.”

“Io starò qui, allora.” decise, repentinamente, la Sforza.

“Ma vi avevamo già preparato di là, la stanza più bella...” si oppose, debolmente, l'altra.

“Non mi interessa.” tagliò corto la Tigre, posando gli occhi, d'improvviso gelidi, sulla serva.

“Come desiderate.” cedette allora Creobola.

“Tu lavoravi qui, quando mio marito Giovanni ci viveva?” indagò la Leonessa, che pure immaginava già una risposta negativa.

“No – disse infatti l'altra – sono di Firenze, abitavo in città. Sono stata presa a servizio da messer Lorenzo solo qualche tempo fa.”

Caterina fece un profondo sospiro e poi, lanciandole un'ultima occhiata, che poteva essere tanto di ammonimento, quanto di curiosità, concluse: “Fai preparare questa stanza entro stasera.”

 

Bianca aveva passato buona parte della giornata a sistemare la stanza che aveva scelto per sé e a correre dietro a Giovannino, che, dopo un primo momento di smarrimento, aveva subito preso confidenza con la nuova casa.

Proprio mentre stava cercando di recuperare il fratellino che, sulle sue gambette corte da bambino di poco più di tre anni, stava tentando di sgusciare nelle cucine, la Riario incrociò Troilo De Rossi, intento a spiegare a frate Lauro alcune delle regole a cui la Sforza avrebbe dovuto sottostare durante il suo soggiorno alla villa.

L'aveva semplicemente guardato di sfuggita, mormorando una mezza scusa, e poi era passata oltre, all'inseguimento di Giovannino. L'uomo aveva ostentato altrettanta indifferenza, tuttavia, dopo che la ragazza l'aveva sorpassato, si era preso qualche istante per osservarla andare via, distraendosi a tal punto che era stato Bossi a doverlo richiamare al presente, dato che si era interrotto proprio a metà frase.

Quella sera a cena, poi, Caterina aveva insistito – su consiglio accorto proprio del frate – di avere ospiti anche i soldati che li avevano scortati fino a lì. La Tigre aveva anche offerto loro ospitalità per qualche giorno, ma tutti avevano declinato, dicendo che avrebbero avuto modo di farle visita spesso, senza importunarla anche di notte.

Solo Troilo De Rossi, dopo una breve esitazione, aveva detto che, anche se per il momento aveva un alloggio in città, avrebbe potuto avere nelle settimane a venire motivo di fermarsi in villa per un po', in modo da discutere con lei con maggior precisione i termini della sua libertà sorvegliata.

La donna aveva finto addirittura di esserne molto felice, ben sapendo che non stava a lei, in quel momento, dettare le regole.

“In una delle sale ho trovato un dipinto bellissimo – disse a un certo punto Bianca, mentre tutti gli altri erano concentrati sulla minestra calda – credo raffiguri Venere.”

Anche Bernardino aveva visto quell'opera, essendosi infilato nel salone proprio mentre la sorella osservava la tela, e, trattenendo un sorriso, commentò: “Sì, è molto bella...”

La Riario, sorvolando sull'apprezzamento fatto dal fratello minore – che sapeva essere molto più interessato alle forme nude della Dea che non al valore artistico di tutto il complesso – riprese: “Io trovo che sarebbe da valorizzare...”

“A me non sembra un granché.” borbottò Ottaviano, senza alzare lo sguardo dal proprio piatto: “E poi non è il caso, secondo me, di esporre dipinti con donne nude, in questa casa, visto che già...”

Il Riario si interruppe, lanciando una rapidissima occhiata prima alla madre e poi ai soldati che condividevano con loro il desco. Ormai era troppo tardi per rimangiarsi quello che aveva già detto, ma era ancora in tempo per non dire più nulla.

“Basta il mio nome, immagino, a gettare scandalo su questa casa, secondo te.” soffiò Caterina, decidendo che far finta di nulla non sarebbe servito a togliersi di dosso gli sguardi interrogativi dei francesi e del De Rossi: “Pensi che in Italia ancora ci sia gente che si ricorda di come ho sollevato le sottane davanti ai fratelli Orsi, giusto?”

Ottaviano deglutì rumorosamente e poi, cominciando a mettersi sulla difensiva, bevve un po' di vino e si schermì: “Non dico che...”

“Certo, tu non dici mai, ma pensi sempre.” lo zittì la Tigre.

“Io credo che, anche se il tema è pagano – si intromise Sforzino, sorprendendo un po' tutti, dato che di rado prendeva la parola in modo così improvviso e senza essere interpellato – sarebbe una buona cosa usare quel dipinto per abbellire un po' questa villa. Ha un che di spoglio...”

Bianca, che aveva tenuto d'occhio per tutto quel tempo le reazioni di Troilo De Rossi, per capire cosa ne pensasse lui, della sua chiacchierata madre, abbastanza confortata nel vedere che l'uomo appariva abbastanza disinteressato a quella conversazione, si schiarì la voce e annuì: “Credo anche io che sarebbe una buona cosa...”

“Ho visto che in una delle rimesse c'è qualche arma...” soppesò piano Galeazzo, accodandosi a quelle chiacchiere riguardanti le suppellettili della casa: “Nulla di che... Però ci sono un paio di spade che con una buona lucidata e un po' di affilatura potranno essere ancora usate...”

La Leonessa fece un cenno d'assenso, ma non disse nulla. Preferiva non parlare troppo, finché i francesi erano ancora sotto al suo tetto. E non gradiva molto nemmeno l'andirivieni di servi che ronzavano attorno alla tavola, con le orecchie tese come non mai, intenti, di certo, a cogliere qualche informazione da passare il prima possibile a Lorenzo.

Si restò per tutta la cena sullo stesso argomento, e i figli della Sforza elencarono, quasi a turno, ciò che li aveva colpiti di quella casa e ciò che, secondo loro, mancava. Frate Lauro si lamentò solo della scomodità dell'inginocchiatoio che aveva trovato nella camera a lui assegnata, ma aveva sorriso subito dicendo che se ne sarebbe servito solo lo stretto necessario.

Finito di cenare, la Tigre riuscì, con un certo sollievo, a far uscire di casa abbastanza in fretta tutti i soldati. L'unico che sembrava tergiversare era il De Rossi. Dopo quasi mezz'ora di convenevoli, però, Caterina riuscì a convincere anche lui che l'ora di andare fosse giunta.

“Passerò nei prossimi giorni – si congedò l'uomo, lanciando un'occhiata furtiva a Bianca, che era alle spalle della madre – così discuteremo delle ultime cose...”

“Quando volete.” concesse la donna.

“Quando sarà permesso a messer Fortunati di venire qui?” domandò la Riario, inserendosi appena prima che l'uomo si voltasse per andarsene.

L'emiliano sollevò un sopracciglio, mentre approfittava di quella scusa valida per parlare con la giovane e guardarla direttamente in viso: “Credo che lo potrà fare a breve. Essendo uno dei confessori di Madonna Sforza, gli verrà concesso di entrare in questa casa come fosse uno di famiglia...”

Bianca chinò il capo in segno di riconoscenza, e anche per nascondere un po' il rossore che le stava salendo dal collo fino alle guance. Sua madre non si era accorta di quella reazione involontaria, troppo concentrata su ciò che Troilo aveva detto.

“Oltre a lui che altri avrà il permesso di venire qui?” chiese.

Il De Rossi, distratto, sbatté le palpebre un paio di volte e poi rispose: “Parleremo anche di questo, quando tornerò qui.”

“Speriamo lo facciate presto, allora.” si intromise di nuovo Bianca, senza riuscire a trattenersi.

“Sarà così.” assicurò lui e poi, con un inchino un po' rigido, si congedò tanto dalla madre quanto dalla figlia.

La Leonessa osservò per qualche istante la Riario, che era rimasta con le mani intrecciate l'una all'altra e gli occhi blu puntato laddove fino a poco prima c'era stato il De Rossi. Per la seconda volta nell'arco della stessa giornata, la donna ebbe una strana sensazione. Stava, anzi, quasi per dire qualcosa alla figlia, senonché fu lei a parlare per prima.

“Adesso che siamo in casa da soli – fece Bianca, mentre un servo le passava accanto, quasi a smentirla – vorrei restituirti una cosa.”

“Se si tratta dei gioielli non è...” iniziò a dire la madre, ma la ragazza la interruppe, chiedendo di seguirla.

Caterina, resa anche più docile dalla lunga prigionia e più avvezza a seguire gli ordini altrui, da che si trovava sotto la protezione francese, l'assecondò, arrivando con lei in una stanza di modeste dimensioni, ma con un grande letto a baldacchino nel mezzo, delle grandi finestre e un mobile molto elegante su cui erano già stati sistemati i pochi averi della Riario.

“Questo...” disse Bianca, porgendole un volumetto che la Tigre conosceva bene: “Adesso potrai darlo tu a Giovannino, quando sarà il momento.”

La Leonessa strinse tra le mani il suo ricettario. Le sembrava trascorsa una vita intera, da quando l'aveva potuto toccare l'ultima volta. Lo sfogliò in silenzio per qualche minuto, felice di trovarlo in ottime condizioni, senza nemmeno una pagina sgualcita.

“No, tienilo tu.” disse, chiudendolo e porgendolo di nuovo alla figlia.

La giovane, però, scosse il capo e insistette: “Hai deciso da tempo che un giorno sarà di Giovannino, ed è giusto che sia tu a darglielo, quando verrà il momento.”

“Ne hai almeno fatta una copia, per te?” si informò la Sforza.

La figlia inclinò un po' il capo e ammise: “Ho copiato le ricette che ritenevo potessero servirmi di più...”

“Bene...” sospirò Caterina, accarezzando la copertina, ricordando come quello stesso quaderno di pelle fosse passato anche per le mani del suo Giacomo e di Giovanni: “Ma con il tempo mi farebbe piacere che le copiassi tutte.”

“Non c'è fretta.” sorrise Bianca.

Sollevando gli occhi verdi, come sorpresa da una simile verità, la Leonessa si lasciò scappare un sorriso e convenne, avvertendo un profondo calore nel petto: “Hai ragione... Adesso il tempo c'è.”

“Magari appena ci saremo sistemati meglio qui – propose la ragazza, stringendosi un po' nelle spalle – potremmo cominciare a creare una piccola dispensa con gli ingredienti dei principali rimedi che ci sono nel ricettario.”

“Sì.” accettò subito la madre: “E poi potrei provare a mettermi in contatto con alcuni degli alchimisti con cui scambiavo lettere per...”

La frase si interruppe a metà, perché nel frattempo Giovannino, con Galeazzo alle spalle, intento a cercare di fermarlo, era arrivato fin nella stanza di Bianca, la cui porta, in effetti, era aperta, e si era aggrappato alle gonne della madre.

“Una cosa per volta...” sorrise la donna, prendendo il piccolo in braccio e passando lo sguardo sulla figlia e poi anche su Galeazzo, rendendosi conto, in quell'istante come non mai, di quanto fosse meraviglioso essere riuscita a uscire viva da Castel Sant'Angelo: “Per stasera va bene così: da domani penseremo a tutto il resto.”

Il Riario, essendo arrivato da poco, non sapeva di cosa le due donne stessero parlando, ma colse una certa serenità – un tratto che non aveva mai visto nella Tigre – sul volto della Sforza, e tanto gli bastò per sussurrare: “Sì, domani penseremo a tutto il resto.”

Anche Bianca, scoprendo l'inattesa distensione del volto della madre, sorrise e sussurrò: “Adesso la tempesta è passata.”

“Lo spero con tutta me stessa.” le fece eco la Leonessa, dando poi un breve bacio sulla guancia a Giovannino che, rigido tra le sue braccia, la osservava in silenzio con i suoi occhi d'un verde tanto scuro da sembrare pece.

In quel momento, pensò Caterina, Roma non era che un sassolino in mezzo alla sabbia, per lei, e Cesare Borja era un'entità pressoché astratta, persa nel tempo e nella nebbia. La guerra, il suo passato, il dolore che aveva provato, la fame, la sete, il freddo tremendo con cui aveva lottato fin quasi allo stremo... Tutto non esisteva. Adesso c'erano solo lei e i suoi figli, tutti sani, tutti salvi, perfino Cesare, che era ripartito per seguire la sua carriera da ecclesiasta.

In quell'istante – e questa consapevolezza le fece provare quasi una vertigine – per lei non esistevano nemmeno più Imola, Forlì e Milano. C'era solo quella villa, con le sue stanze da risistemare, e i suoi figli: tutto il resto poteva aspettare.

   
 
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