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Autore: An13Uta    24/04/2021    1 recensioni
Biografia a frammenti di Oitesch, che non aveva nessuno al mondo - o almeno, della vita che avrebbe avuto.
Genere: Angst, Hurt/Comfort, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Link, Malon, Nuovo Personaggio, Sheik, Skull Kid
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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- Questa storia fa parte della serie 'occhi d'ambra'
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Infanzia.




Quando irruppe correndo e urlando nei boschi così lontani dal regno di polvere e dura roccia su cui il mondo lo aveva abbandonato, la fumosa maledizione ingorda aggrovigliata alla sua caviglia mollò la presa.


Non se ne accorse, come non si accorse del terreno ormai soffice che gli passava sotto i piedi, che gli passava sotto la pancia, contro il quale sbatteva il mento cadendo rovinosamente, contro il quale sbucciava e scorticava le braccia e le gambe nel tentativo di trascinarsi lontano, ancora più lontano. Il ricordo di occhi grandi dai colori cangianti che lo fissavano così profondamente da strappargli l'anima lo accecava, e come un sonnambulo in preda ad un incubo primordiale scappava, scappava, scappava, senza mai fermarsi, anelando ad una via di fuga irraggiungibile in una prospettiva senza fine.


Le sue mani ancora cieche si graffiarono contro il legno di un tronco cavo all'interno del quale si era trascinato per sbaglio. Cercò di scavarvi attraverso invano, credendolo una parete di terra ruvida, finché i muscoli stremati dopo tanto raspare si rifiutarono di collaborare oltre, e finì per accartocciarsi su sé stesso, tremante di spasmi.

La bocca bloccata in un grido non aveva più una voce con cui urlare. Dovette far forza sulla mandibola per chiuderla: il secco clack di dente contro dente rimbombò tra le piante.


Per un momento senza limiti si sentì così infinitamente piccolo.


Sputò qualcosa, un suono, dalle fauci serrate. Si contorse dolorante con ogni colpo che usciva dai suoi polmoni.

Singhiozzava.

Non riusciva a ricordare l'ultima volta che si fosse messo a piangere.


Le lacrime bruciavano come acido sulla pelle.


Rimase acciambellato nel cadavere cavo e abbandonato di un albero per quelli che gli parvero anni, tremante, scosso violentemente dai suoi singulti irregolari, con gli occhi chiusi stretti, strettissimi, come se volesse schiacciarli sotto la pressione delle palpebre.

Poi, all'orecchio gli arrivò un suono sottile, una specie di tintinnio; vicino alla guancia sentì un cerchio di tepore.


Aprì gli occhi. Una sfera violacea sostenuta in aria da due paia di ali volò via.


Non aveva mai visto una fata prima.


Si fissarono a vicenda a lungo, cauti e tremolanti. Un'altra fata, gialla, gialla, gialla come il sole di mezzogiorno, spinse di nuovo la prima verso di lui. La luce scura bordata di rosso gli venne incontro con molta cautela; dopo un momento ancora di stallo allungò la mano graffiata, sanguinante, tremante, e accolse la tiepida sfera nel suo palmo martoriato.

La fissò accoccolarsi tra le sue dita ossute insieme alla sorella luminosa.


Erano calde.

Così calde.

E così morbide.


Le strinse al petto.


Erano così morbide.


Piano, molto piano, si mise a piovere; e Oitesch, che non aveva che due fate al mondo, sprofondò in un sonno senza sogni tremando ancora un poco in quel tronco cavo nelle profondità di una foresta maledetta.


 

-


 

Ci volle un poco, prima che abbandonasse il riparo del tronco caduto.


I primi passi scalzi verso l'ignoto non erano durati che pochi metri, quanto bastava per arraffare un poco di cibo – qualche fungo, alcune bacche. Aveva lo stomaco abbastanza atrofizzato da non necessitare molto di più.


Tatl, splendente più del sole, aveva sopportato la sua cautela una, due, sette volte: poi gli aveva preso il polso spigoloso e lo aveva trascinato fuori, aiutata goffamente dal suo ombroso fratello, e scalpicciando a fatica dietro a lei e Tael si era ritrovato a vagare nelle infinite viscere di una creatura vegetale più grande di quanto potesse comprendere.


Per lui che veniva dalla desolazione assoluta del canyon, i boschi furono come scoprire la luce del sole dopo una vita incatenata nel fondo del pozzo.


Scoprì l'acqua. Scoprì piogge e acquazzoni e ruscelli che si prosciugano nel caldo, e laghi e fonti tiepide e fiumi in cui nuotare senza essere uccisi dalla corrente feroce. Scoprì falde acquifere in un momento di pazza intrepidità, quando si infilò in un buco per vedere dove andava.

Scoprì le radici, la corteccia, le strade nascoste dei rami, il legno – quello vero, forte e spesso, con cui nascevano gli strumenti canterini che non aveva mai avuto e di cui all'improvviso sentiva un bisogno primordiale, spinto, forse, dalla loquacità silvestre attorno a lui.


Non vi era un momento in cui una qualche voce non si facesse spazio nell'aria senza vento, non vi era un ciuffo d'erba che crescesse in silenzio; tutto fremeva dal desiderio di parlare, di testimoniare la propria vita, di esistere attraverso bisbigli senza prospettiva, lontani e vicini allo stesso tempo.


A volte cantavano.


Presto prese a cantare anche lui.


Dopo innumerevoli catorci di flauti, prese ad accompagnarli suonando.


Forse gli alberi lo sentirono, forse lo presero sotto la loro unanime ala frondosa; forse solo percepirono le due fate che gli aleggiavano intorno da quel giorno fatidico; fatto sta che non si perse mai, e non diventò mai parte di essi.


Visse tra i loro alti corpi, nella loro atmosfera dalle tinte smeraldine, esplorando affranti che nessuno se non i bimbi perduti avevano mai visto prima; ma la sua pelle non divenne corteccia, e non perse mai il ricordo degli occhi cangianti intrappolati nella torre che si protendeva al cielo – anche se si attenuò con la distanza, con la mancanza della voce senza suono a chiamarlo insistente, scivolando in turbinii di incubi confusi che si dissipavano come nebbia leggera al suo risveglio.


Nei boschi imparò a sorridere. Sorrideva male, tutto storto, tutto accartocciato, tutto tremante, battendo i denti; ma nessuno glielo avrebbe potuto rimproverare, perché non aveva mai sorriso prima.

Nei boschi imparò a parlare, a capire le parole. E sobbalzava ad ogni sillaba, e si agitava ad ogni frase; ma comprendeva tutto quello che diceva, inclusa la maledizione che gli avevano messo in bocca appena nato.

Nei boschi scoprì che c'era qualcuno.


Credette fosse un'altra fata, per un momento. Ce n'erano tante.


Poi notò gli occhi.


Si irrigidì all'istante come si era irrigidito davanti alla volpe dalle fattezze umane. Dall'alto del suo ceppo indurì le dita come artigli e inarcò la schiena tremante, occhi spalancati: la criniera rossiccia fremette come le foglie dei boschi davanti alla presenza di un intruso.


Il bambino si bloccò a sua volta, impaurito.


Aveva occhi chiari come non ne aveva mai visti.

Chiari e brillanti.

Li fissava, e le ossa gli tremavano quasi stessero per scappargli dalla pelle.


Erano occhi blu.


Erano occhi blu, blu, blu.


Blu come non ne aveva mai visti.


Per un momento, guardando fisso quelle iridi, non si accorse che stava suonando per lui.

Faceva un suono buffo, il suo flauto – e aveva una forma tanto strana! Ma la melodia, la melodia... Suonava la canzone dei boschi, e con lui le fronde mormoravano il loro inno senza voce.


Scese piano, ancora tremante, dal suo alto ceppo tagliato, continuando a guardare fisso in quegli occhi blu, blu, blu. Forse gli si avvicinò troppo con il suo passo claudicante, forse non era bene che i loro nasi quasi si toccassero così: ma non lo sapeva, non lo poteva sapere, e non gliene sarebbe potuto importare di meno quando aprì le sue labbra scure e rotte e segnate in un sorriso largo, estatico, e lo guardò negli occhi impossibili a lungo senza dir nulla, scosso da brividi la fonte dei quali non riusciva ad identificare.


Il bambino lo fissò in quelle sue iridi d'arancia che non parevano vere.


Gli sorrise piano, con la sua bocca rosa e timida e rotta dalle mille cadute dai rami degli alberi.


Sentì il cuore saltargli in gola.


Gli piantò in mano un gioiello, un tesoro di fondo di bottiglia che aveva trovato sperduto tra le felci e l'edera; fece in modo che i suoi palmi ancora lisci vi si stringessero attorno.

Aprì la bocca: non riuscì a farne uscir alcuna parola.


Rise solo la sua risata storta e spasmodica, accartocciandosi come una marionetta il cui burattinaio è attraversato da un brivido, e poi corse via come colto da un'invincibile imbarazzo, dalla voglia di far guai, sparendo tra le fronde, Oitesch che al mondo non aveva che due fate e il pensiero di un bambino dagli occhi blu, blu, blu.


 

-



Quei begli occhi blu tornarono, e tornarono, e tornarono.
 

Tornarono sempre e più volte, a giocare, a saltare nei fiumi, anche solo a salutarlo – la loro vista era motivo di feste e celebrazioni pazze e scatenate, di salti e risa stridule, di musiche suonate da un flauto fatto male.

Suonava con lui e lo guardava, divertito, lo guardava dimenarsi pazzamente per l'euforia di aver puntato su di sé quel bel sorriso rosa e pallido.


Ogni volta che tornava faceva in modo di avere qualcosa, qualsiasi cosa da dargli. Per ringraziarlo della sua presenza, della sua esistenza, lo ricopriva come poteva di doni e pensieri tale e quale ad un cavalier cortese che omaggi una fanciulla – a volte cibo, bacche, funghi; a volte tesori luccicanti, pietruzze attraverso cui passava il Sole, piccole cose senza più padrone; una volta gli portò fiori, e vide la sua espressione colorarsi in un modo tanto strano che gli fece vibrare le costole di piacere.


Non riuscivano a parlarsi, per quanto tentassero. Aprivano la bocca, ma non ne usciva che aria e qualche suono sparuto che doveva essere una risata: per loro dialogavano tintinnando tra di loro le tre fate.


Solo lui rideva: quei begli occhi blu non sembravano saper fare alcun suono.


Andava bene.

Andava bene.

Avrebbe riso per tutti e due, e sarebbe andato bene.


Quei begli occhi blu tornarono, un giorno, tornarono a mani piene, con un sorriso grande, grande, grande.


Che tesori hai trovato per noi tre?, i polmoni gli spinsero nella gola.

Che cosa ci hai portato oggi per giocare?, la gola gli spinse contro i denti.


Fece un suono emozionato che non rassomigliava per nulla a delle parole.


Il bambino sorrise con il suo bel sorriso pallido e alzò i palmi.

Fissò dall'alto del suo ceppo il viso cavo d'osso di corteccia, con le sue corna ricurve, con i suoi denti malmessi; fissò la faccia una volta offertagli dalla volpe in fattezze umane, la faccia che il tempo, il fato, aveva riesumato dai disegni della sua pelle morta perché destinato a lui, a lui, solo a lui, e al suo destino non poteva sottrarsi.

Si calò fremente e claudicò fino a quei begli occhi blu. Da quelle mani pallide, avvezze già a tenere spade e graffiarsi contro mostri, prese tremando appena il suo nuovo vero volto.


Lo tenne; lo soppesò tra le mani. Fulmineo, nella sua mente, si chiese perché non l'avesse afferrato la prima volta che lo aveva visto.

Lo pose sul suo viso.


Non sentì nulla.

Solo il legno contro la pelle.


Piegò la testa a destra, poi a sinistra. La scosse forte, sbattendo i denti per simulare il fracasso di ossa che sbattono l'una contro l'altra.


Il bambino rise.


Rise!


Ed era un suono bellissimo, bellissimo, bellissimo, e prese ad agitarsi tutto come uno scheletro rianimato in vena di marachelle, e lui rise, rise, rise! Rise e rise e rise e sentì che era per quella risata che era nato, era per quella risata che era in vita, lo sentiva nelle ossa mentre gli fremevano forte, fortissimo contro la parete di carne!


Si agitò e batté i denti più forte che poté, per farlo ridere ancora, e lo rincorse tutt'attorno la loro piccola radura mentre le tre fate faticavano per star loro dietro e quella voce pallida e rosa e blu e gialla saltellava allegra, allegra, allegra, a causa sua – sua! Gli si stagliò davanti con fare maligno e decrepito, imitando uno Stalfosso assetato di violenza, e dopo uno scambio di finte gli saltò contro nel momento in cui anche lui gli veniva addosso. Si scontrarono e caderono a terra come fantocci lanciati l'uno contro l'altro, e fecero finta di azzuffarsi, rotolandosi come pazzi nel terriccio finché le loro tuniche non furono lerce quasi da far paura, e ancora quella voce, quella bella voce rideva! Rideva! Rideva! Si aggrappò alle spalle coperte di verde e strinse, strinse, strinse, grato, così grato, così grato di poter esistere vicino a quei begli occhi blu, a quel bambino rosa e giallo e verde.


Braccia pallide lo strinsero di rimando, e sentì il sangue come lava nelle vene.


Le fate tintinnarono. Sembrava ridessero.

Ringraziò la sua gentilezza con una gemma blu, blu, blu, che pure non valeva abbastanza per esprimere le parole che non gli uscivano dalla bocca.


Il bambino lo strinse ancora.

Lo rinchiuse tra le sue braccia ossute senza pensare. Si tennero per un istante, un istante ancora; e poi quei begli occhi blu se ne andarono, sparirono, con il bel viso pallido su cui li aveva visti, con il bambino a cui appartenevano che gli sorrideva sotto il tintinnio azzurro della sua fata.


Fissò la sua dipartita fino a che i boschi non lo inghiottirono completamente. Poi Oitesch, che al mondo non aveva che tre amici e un nuovo viso, scappò via di nuovo nelle budella della foresta alla ricerca di un tesoro, un tesoro degno di quel regalo così bello.


 

-



Non tornava.

Non tornava.

Non tornava.


Passò del tempo. Quanto tempo? Non lo sapeva. Nei boschi non c'era tempo.


Non tornava.

Non tornava.

Non tornava.


Non aveva trovato quel tesoro. Quel tesoro degno. Ne aveva trovati altri, però, altri più piccoli, ma sempre tesori. Non andavano bene? Non sarebbero bastati?


Non tornava.

Non tornava.

Non tornava.


Qualcosa cercava di entrare. Qualcosa cercava di entrare nella foresta e piegarla. Gli alberi danzavano intorno ai mostri finché non si consumavano. Rubò loro le spade per difendersi. Nel puro caso lo trovassero. Lo trovarono.


Non tornava.

Non tornava.

Non tornava.


Crebbe senza accorgersene. Crebbe come un alberello decrepito, storto. Si ingobbì, le gambe si arcuarono, le braccia si coprirono di cicatrici. La pelle si tese sulle ossa. I capelli si aggrovigliarono. Non riusciva a smettere di tremare. Per quanto Tatl e Tael lo scaldassero, non riusciva a smettere di tremare.


Non tornava.

Non tornava.

Non tornava.


Aveva fatto qualcosa di sbagliato? Gli era successo qualcosa? Era morto? Lo aveva abbandonato? Non poteva averlo abbandonato. Era morto? Aveva fatto qualcosa di male? Qualcosa che non doveva fare? Lo aveva abbandonato? Non poteva averlo abbandonato. Perché non tornava? Stava bene? Era morto? Quanto tempo era passato? Perché non tornava? Perché? Era morto? Morto?


Non tornava.

Non tornava.

Non tornava.


Non tornava, e forse, morto o arrabbiato o annoiato dalla sua presenza, non sarebbe mai tornato; e Oitesch, che al mondo non aveva che due fate ed un viso fasullo a cui aggrapparsi, aspettò paralizzato in un orrendo terrore agonizzante per sette anni bui, incapace di fermare il tremore impazzito che dominava ogni secondo della sua vita, annaspando anche solo per respirare, tormentato da incubi vividi di occhi non blu, ma cangianti, antichi, crudeli.



N.A. speriamo riesca a finirla questa qui

   
 
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