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Autore: Shireith    26/04/2021    5 recensioni
A volte gli estranei si conoscono e si cambiano. E si conoscono, cambiandosi, anche il bianco e il nero, che diventano grigio.
Perché bianco e nero non sono due fazioni opposte e inconciliabili, separate da una linea netta impossibile da valicare se poi si vuole tornare indietro.
Bianco e nero s’incontrano, si mischiano, s’intrecciano l’uno all’altro in modi sempre nuovi e indissolubili; ciò che rimane è solo grigio.
E a ognuno il suo, di grigio.

Shiho, Shinichi, Jodie, Shuichi, Rei, loro il grigio ce l'hanno dentro.
Vermouth, lei l'ha perso una vita fa.
Genere: Angst, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna, Het | Personaggi: Ai Haibara/Shiho Miyano, Jodie Starling, Rei Furuya, Shinichi Kudo/Conan Edogawa, Shuichi Akai
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Assoli di grigio


  Vedere il volto di Shuichi rilassarsi dopo un tiro di sigaretta era per Jodie una sensazione piacevole.
  C’era stato un tempo in cui aveva creduto di non poter essere più testimone di un gesto tanto semplice eppure caro, un tempo in cui la speranza l’aveva dapprima cullata e poi quasi abbandonata; e un tempo, ancor più remoto, in cui c’erano soltanto loro due – nessuna altra donna, nessuna organizzazione criminale, nessuno strano veleno che al solo ripensarci le faceva esplodere la testa.
  Era tutto assurdo. Sembrava un racconto di fantascienza, o uno scherzo di pessimo gusto.
  Jodie distolse lo sguardo da una Tokyo già per metà dormiente e lo ancorò a quello di Shuichi. Si schiarì la gola. «Tua madre come sta?»
  «Bene, tutto sommato. Nemmeno una cosa così sembra averla scombussolata.»
Una cosa così.
  Nessuno dei due usava parole più dirette – era troppo assurdo. Lo era per Jodie, che aveva appreso della condizione della madre di Shuichi da poco, e lo era per Shuichi, che di tutta quella follia era al corrente già da un po’.
  Forse da un momento all’altro sarebbe impazzita, ma almeno ora sapeva perché Vermouth non sembrava invecchiata di un giorno.
  E proprio a lei, Vermouth, Jodie pensava incessantemente.
  Anche ora che vedeva il mondo da dietro le sbarre, quella donna conservava il sorriso tipico di chi ha zero preoccupazioni al mondo, come se passasse le sue giornate nella convinzione che qualcuno, o qualcosa, sarebbe corso in suo aiuto.
La morte, ecco cosa.
  L’unghia che stava torturando con i denti aveva già smesso di implorare pietà quando Shuichi intercettò i suoi pensieri.
  «Non la lasceremo morire», le disse. «Pagherà per tutto quello che ha fatto.»
  E di cose ne aveva fatte tante, Vermouth, una più sbagliata dell’altra; ed era assurdo come le sue azioni avessero ferito tante persone che ora si ritrovavano vicine – lei, Shuichi, Sherry.
  Per Jodie era difficile, quasi impossibile, accostare quel nome da criminale al volto di Ai Haibara; ancora più impossibile, poi, accostarlo a quello di una ragazza di appena diciotto anni cui si era sentita stranamente vicina, come se la conoscesse da una vita.
  «Non creerò un antidoto per farla vivere», aveva pronunciato freddamente, sostenendo lo sguardo dell’agente che aveva intimorito persino Jodie.
  Lei era rimasta a osservare l’interrogatorio al di là di un vetro, affiancata da Shuichi, James e altri agenti. Solo che quel vetro, più che un vetro, le era sembrato uno specchio proiettato sul passato.
  In Shiho aveva colto una fragilità ad altri impercettebile, tradita non dalla voce e nemmeno dagli occhi. Jodie non sapeva dire come né perché, sapeva solo che c’era, quella fragilità. Forse perché era la stessa che aveva provato lei da bambina quando il mondo le era crollato addosso, forse perché era la stessa che la contraddistingueva tuttora.
  Da bambina era poi diventata ragazza e infine donna, ma quella fragilità era sempre lì, belva famelica dormiente tenuta a bada solo dall’esperienza accumulata con l’età.
  E dunque per questo, anche se l’unica persona in grado di creare l’antidoto aveva rifiutato, Jodie capiva. Capiva, e aveva chiesto di non insistere con la ragazza – lei, che più di tutti desiderava che Vermouth marcisse in eterno.
  «Non credo, Shu», mormorò, quand’ormai le parole di Shuichi se le era già portate via il vento.

*

  Una volta Ran gli aveva posto una domanda molto semplice. Gli aveva chiesto come si sarebbe comportato lui, Shinichi Kudo, se una persona che gli era cara si fosse scoperta colpevole di un omicidio.
  La sua risposta all’epoca era stata rapida, chiara come l’acqua e carica di convinzione. Aveva spiegato a Ran che non avrebbe occultato la verità, perché un delitto è un delitto e lui non tollerava l’omicidio, un gesto di cui non riusciva a comprendere nemmeno la natura. Prima, però, avrebbe fatto di tutto per dimostrare la colpevolezza di quella persona; se non ci fosse riuscito, la verità avrebbe trionfato – sempre e comunque.
  Perché Shinichi vedeva soltanto bianco e nero, due fazioni opposte e inconciliabili separate da una linea netta impossibile da valicare se poi si vuole tornare indietro.
  Bianco è purezza, giustizia, nobiltà d’animo. Bianco è chi si sveglia ogni mattina con l’intento di scovare il male che si cela in ogni angolo di mondo per sradicarlo, e non è importante se quello resiste, resiste, resiste, perché il bianco è giusto e vince sempre. Chi è bianco non vuole il nero, lo ripudia.
  Nero è peccato, crimine, immoralità. Nero è chi va a dormire ogni notte con la coscienza macchiata più del fango, e non importa se quella coscienza cerchi di sotterrarla in qualche anfratto dimenticato del tuo essere, perché quella cresce, cresce, cresce, e ti trova. Chi è nero non può toccare il bianco e perirà schiacciato dalle colpe, nel buio più totale.
  Perché bianco e nero sono due fazioni opposte e inconciliabili, separate da una linea netta impossibile da valicare se poi si vuole tornare indietro.
  Il nero è sporco e non può toccare il bianco, macchiarlo del suo errore.
  Il bianco è candido e non può bramare il nero, fiero portatore di peccati.
  Nero e bianco, come fuoco e acqua, non s’appartengono.
Eppure c’è una variabile,
c’è sempre una variabile.

  Shinichi, soldato bianco, l’aveva incontrata in una persona che il nero lo indossava come un mantello; ce l’aveva nel passato e ce l’aveva nell’anima, la più sporca e graffiata che Shinichi avesse mai conosciuto.
  Per Shinichi, Shiho era tante cose, era tanti colori.
  Era il nero con cui si era presentata a lui per la prima volta.
  Era il bianco, piccolo e fragile, che era sopravvissuto per miracolo e che la vicinanza di altro bianco aveva tirato fuori a fatica.
  Era il rosso che aveva associato a lei la prima volta, quando ancora era convinto che le sue mani fossero macchiate di sangue; il rosso che ora associava a lei per il semplice fatto che lo indossava spesso, forse perché era il suo colore preferito.
  Non sapeva dirlo, perché Shiho era tante cose e molte di queste erano a forma di punto interrogativo.
  Se mai gliel’avesse chiesto, Shinichi non sapeva dire quando sarebbe successo. Non era ora il momento di domande futili perché ora c’erano solo sguardi assenti, silenzi lunghi e scomodi, quando anche una sillaba era di troppo.
  C’era stato un litigio.
  Shinichi aveva sputato veleno, accusandola di cose che non pensava. Shiho quel veleno se l’era fatto scivolare addosso come olio, poi l’aveva ripreso e ne aveva creato dell’altro, tutto per lui.
  E se ora si ritrovavano rinchiusi in casa del professore era per causa del professore stesso che, stanco di vederli comportarsi come se avessero quattro anni, li aveva attirati alla stessa ora con l’inganno e aveva giurato che non si sarebbe arreso finché non avessero chiarito.
  «È una cosa che non riguarda solo voi», aveva detto, grave, prima di lasciarli soli.
  E Shinichi lo sapeva, lo sapeva.
  Sapeva che non c’erano in ballo solo lui e Shiho, solo il bianco e il nero.
  Ma se ripensava a tutto quello che c’era in ballo, a tutto quello che c’era stato prim’ancora che lui nascesse, era sicuro che gli sarebbe esplosa la testa.
  La raccolse tra le mani, sentendola più pesante di una montagna.
  «Mi dispiace, ho detto cose che non pensavo.»
Non potrei mai odiarti.
  Shinichi Kudo che chiedeva scusa era un avvenimento degno di nota, da segnare sul calendario. Shiho gliel’avrebbe fatto notare come battuta, se solo entrambi non fossero stati sul punto di rompersi.
  Lui sembrava portare sulle spalle il peso dell’intero mondo.
  Lei del mondo non voleva saperne più nulla, voleva solo urlare finché non gli fosse mancata la voce.
  «Sai, anch’io ti ho odiato.»
  Shinichi la guardò perplesso. «Ti ho appena detto che non pensavo quelle cose…»
  «Ed è una bugia. Come avresti potuto non odiare una come me, tu che vedi il mondo in bianco e nero?»
  Shinichi non sarebbe mai riuscito a capirla nemmeno se l’avesse studiata per mille anni. Shiho, invece, sembrava che di studiare gli altri non ne avesse bisogno: sembrava che conoscesse chiunque, come se avesse a portata di mano un quadernino pieno di informazioni e le bastasse sfogliarne le pagine.
  «Mi sbagliavo.»
  «Forse», concesse lei. «Anch’io mi sono sbagliata su di te, ma non completamente.»
  Shinichi non era sicuro se fosse un complimento o un insulto.
  Inarcò un sopracciglio. «In che senso non completamente
  La vide mordersi il labbro inferiore, come se già si fosse pentita delle parole che ancora non erano state pronunciate.
  «La prima volta che ti ho visto mi hai colpito, e proprio per questo ti ho odiato. Non capivo perché un ragazzo tanto intelligente e perspicace come te fosse riuscito a salvare tutti tranne mia sorella.»
  Fece una pausa. Shinichi sentì lo stomaco contorcersi in modi che non avrebbe creduto possibili, la consapevolezza del destino di Akemi che già minacciava di travolgerlo come un treno in corsa. Ma poi Shiho riprese a parlare e Shinichi capì che non era lei, Akemi, il soggetto della sua risposta.
  «Ti ho odiato, eppure ti ho ammirato. Mi chiedevo come fosse possibile, per qualcuno come te, credere ancora negli altri, nonostante tutti gli omicidi a cui hai assistito. Mi chiedevo come tu potessi credere che il bene trionferà in ogni caso, sempre e comunque.»
  Era per Shiho un ragionamento asciutto e lineare, ma Shinichi aveva tutta l’aria di non riuscire a seguirlo.
  «L’Organizzazione l’abbiamo sconfitta», le fece notare.
  Lei annuì.
  «E il delitto perfetto non esiste.»
  Lei annuì. «L’Organizzazione l’abbiamo sconfitta. E il delitto perfetto non esiste. Eppure, le cose non sempre vanno come vogliamo.» Osservò gli interni della casa con un sorriso velato d’amarezza. «Se così fosse, io non sarei stata Ai Haibara, tu non saresti stato Conan Edogawa, e ora non saremmo qui.»
  Shinichi rimase in silenzio, la lingua e la mente aride di parole da formulare. Ripensò al volto morente di Akemi, a quei mamma e papà che le labbra un tempo bambine di Shiho non avevano mai conosciuto. Ripensò a tutti coloro che, in un modo nell’altro, erano stati coinvolti nella lunga battaglia all’Organizzazione – a quelli che ce l’avevano fatta e quelli, invece, che non potevano testimoniarlo.
  L’Organizzazione non gli aveva portato via nessuno – solo alcuni mesi della sua vita che, in fin dei conti, nascondevano anche risvolti positivi.
  «Dimmi solo una cosa, Kudo. Una soltanto, e se risponderai sì, rivaluterò l’idea di sviluppare quell’antidoto.»
  Shinichi la invitò a continuare con un cenno del capo.
  «Se al posto di Akemi ci fosse stata Mouri, se il sangue che ti ha macchiato i vestiti fosse stato il suo, se il corpo su cui hai pianto fosse stato il suo… avresti perdonato il colpevole?»
(Avresti perdonato Gin? Oppure avresti desiderato, anche solo per un istante, che morisse, anziché limitarti a vederlo marcire in galera? Avresti desiderato infliggergli lo stesso male?)

  L’espressione che s’impossessò di Shinichi fu così carica di stupore che si dimenticò di rispondere – ma né a lui né a Shiho servivano risposte, laddove il silenzio e i gesti avevano già parlato per lui.
(Perché per me è stato così, Kudo.
Avrei voluto che morisse, Gin.
Forse una parte di me lo vuole ancora.)

  E allora Shinichi aveva capito che Shiho era, soprattutto, il grigio che si era impossessato della sua vita e della sua morale ancor prima che se ne rendesse conto.
  Perché bianco e nero non sono due fazioni opposte e inconciliabili, separate da una linea netta impossibile da valicare se poi si vuole tornare indietro.
  Bianco e nero sono due facce della stessa medaglia, opposti ma spaventosamente simili, e l’esistenza del bianco più puro e del nero più sporco è concettuale. In natura, bianco e nero non esistono ma coesistono in sfumature grigiastre di tante cose.
  A volte il bianco ne ha abbastanza e brama il nero.
  A volte il nero ne ha abbastanza e brama il bianco.
  Shinichi non era un assassino e non lo sarebbe mai diventato, lui l’istinto omicida non lo comprendeva neanche. Sapeva, però, che la sua morale non era più bianca, non era nemmeno nera, era solo grigia.
  E sapeva che quel grigio sarebbe diventato freddo come ghiaccio se qualcuno gli avesse strappato una persona preziosa come Ran.

  Non avrebbe più insistito, Shinichi.
  Non lui.

*

  Il sorriso che le si era incastrato tra le labbra era debole, il più debole che Rei le avesse mai visto sfoggiare, eppure resisteva, resisteva come l’ultima foglia d’autunno che si rifiuta di staccarsi dal suo ramo.
  «Pensavo di aver messo in conto tutto, ma questo… mi hai sorpresa, Bourbon
  Rei sapeva che Vermouth non aveva colpe nella morte dei suoi compagni, eppure nel volto sempre più pallido della donna rivedeva Hiro, rivedeva Matsuda, rivedeva Date, rivedeva Hagiwara – rivedeva tutto quello che avrebbe potuto essere, e che non era mai stato.
  Non disse nulla, non ci riuscì.
  Le diede le spalle e se ne andò con la testa in fiamme e il cuore spaccato a metà, e poi ancora a metà – tante erano le parti quante erano le persone che aveva perso per strada.
Meritate di marcire in eterno, tutti quanti.

*

Il mondo le si era sgretolato addosso, sfuggendo alle sue piccole ed esili mani come sabbia al vento. Aveva solo otto anni, quando tutto aveva avuto inizio.
Non aveva capito lo svolgersi dei fatti, almeno non subito. Tutto quello che ricordava era la sua casa in fiamme, le voci di tanti adulti che si miscelavano in un insieme confuso, infine un uomo che le rivolgeva la parola e le poneva una domanda.
«Come ti chiami?»
«Jodie. Jodie Starling.»
E poi di nuovo tutto tornava confuso, come una pellicola a cui sono stati tolti i pezzi. C’erano solo altre voci e volti estranei, finché un uomo stanco con le occhiaie che diceva di chiamarsi James non le si presentò davanti in una stanza in cui c’erano solo loro due. Jodie non sapeva nemmeno come ci fosse arrivata.
Per tutto il tempo in cui l’uomo parlò, stette a osservare i suoi baffoni. Alla fine, quando il silenzio calò sulle loro teste come un lenzuolo, tutto quello che aveva capito era che il papà e la mamma non c’erano più.

  Jodie si svegliò sudata, più stanca di quando era andata a dormire, ma non di soprassalto – mai di soprassalto. Le notti in cui si svegliava di soprassalto erano lontane, perché agli incubi che rivangavano il passato c’era così abituata che ormai li viveva come parte di una routine.
  Credeva che fossero tornati più forti di prima perché l’accumularsi dello stress nelle ultime settimane aveva messo a dura prova la sua salute mentale. C’erano tante cose a cui pensare, ancora più cose da fare, ma la sua mente continuava a concentrarsi su Vermouth e Vermouth soltanto.
  L’unica nota positiva, se avesse dovuto trovarne una, era Shuichi. Non parlava molto (non più del solito, almeno), ma Jodie lo sentiva più vicino e sapeva che non era una sua impressione. Strano ma vero, in Vermouth avevano trovato un punto d’unione.
  Jodie sapeva che, anche se ora era di nuovo adulta, la madre di Shuichi era stata rimpicciolita da un farmaco che la stessa Vermouth l’aveva costretta a ingerire e voleva solo non pensarci, perché più ci pensava e più le sembrava di star dando i numeri.
  Voleva mettere le follie da parte e concentrarsi su quel che poteva capire, su quel che poteva controllare – ma qualcuno non era d’accordo.

  Ai piedi della sede provvisoria dell’FBI, ore dopo, s’imbatté nell’ultima persona che si sarebbe aspettata.
  Rei Furuya, precedentemente Tooru Amuro, rientrava in una lista ristretta di soggetti che Jodie avrebbe volentieri mandato a quel paese, e non dubitava che la cosa fosse reciproca. Ma entrambi erano troppo adulti per lasciarsi andare agli istinti primordiali.
  Si limitò dunque a salutarlo con un cenno del capo, senza nemmeno scomodare la voce, e accelerò il passo per proseguire dritto.
  «Agente Starling.»
  Si fermò di scatto, incerta se avesse appena sognato quegli ultimi due secondi. Ne ebbe la smentita quando girò il collo per guardare Rei Furuya e notò che la stava osservando in attesa di una risposta.
  «Le serve qualcosa?»
  Rei mise le mani avanti. «Voglio solo parlare», disse con un mezzo sorriso. A Jodie non piaceva, aveva il sospetto che fosse falso tanto quanto la persona che lo sfoggiava.
  Scoccò un’occhiata rapida al palazzo in cui non aveva fatto in tempo a entrare. «Ho solo cinque minuti.»
  «Perché non vuole che la figlia di Elena Miyano sviluppi l’antidoto per far vivere Vermouth?»
  La domanda fu così rapida, così inaspettata, che Jodie si trovò a sbattere le ciglia con espressione vacua, come se Rei avesse iniziato a parlare un’altra lingua.
  «Pensavo che proprio lei, tra tutti, volesse il contrario.»
  Jodie si sarebbe aspettata una provocazione da Rei Furuya, ma non le parve tale. Allacciò le braccia al seno, come a volersi difendere da un nemico invisibile. «Certo che lo voglio, ma quella ragazza è stata chiara. In ogni caso, quello che voglio io non è importante. Sono solo un agente dell’FBI, non ho il potere di mettere bocca in queste cose.»
  Lui rimase in silenzio per un attimo. «Invece ha più potere di quanto immagina. In questa faccenda, almeno.»
  Rei non aggiunse altro, Jodie non chiese altro. Presa alla sprovvista, non lo vide nemmeno quando lui la superò per entrare nel palazzo alle sue spalle.

*

  «Tutto bene, Jodie? Sei assente.»
  «Ho dormito poco.»
  James non chiese altro. Shuichi non smise di fissarla un istante.

*

  La sua vita aveva tre facce e per un po’ era stato difficile separare l’uomo dalla missione, il vero dal falso, Rei Furuya da Tooru Amuro.
  All’inizio non vedeva l’ora di portare a termine la missione solo per prendere il nome Tooru Amuro, scriverlo su un foglietto di carta e buttarlo via, ma a lungo andare la missione era diventata di più, molto di più, e forse non sarebbe riuscito più a scindere il vero dal falso, perché il falso era anche il vero.
  Bourbon non c’era più. Quella parte di Tooru Amuro era morta con la caduta dell’Organizzazione. Tooru Amuro, però, rimaneva, era il ragazzo dal sorriso splendido e perfetto che accoglieva i clienti al Poirot. In un certo senso, sia il locale sia l’agenzia di Kogoro Mouri gli erano ormai cari.
  Ed evidentemente potevano anche tornargli utili, perché proprio quando si stava chiedendo come fare per poter incontrare una certa persona senza che quella lo scuoiasse vivo per poi darlo in pasto agli avvoltoi, quella persona entrò dalla porta.
  O meglio, lei, Shinichi, Ran e i Detective Boys.
  Shinichi, quel ragazzo era incredibilmente sveglio, avrebbe fatto strada e molto presto il suo nome sarebbe stato sulla bocca di mezzo mondo.
  Ran, lei era una forza della natura, in un certo senso. Aveva una parola positiva per chiunque e sembrava sforzarsi più del necessario per accertarsi che ogni singola persona nel suo campo visivo si sentisse a proprio agio. Aveva il cuore di mille altri combinati. Lei e Shiho erano il giorno e la notte.
  Shiho, proprio lei gli interessava.
  La osservò da lontano e vide più volte Ran tentare di instaurare una conversazione, invano. La ragazza sospirò con aria arrendevole quando Shiho non stava guardando e a Rei venne da sorridere.
Una forza della natura, proprio come una bambina di sua conoscenza.
  A dissuadere Ran fu solo il caso, perché poco dopo Ayumi rientrò allarmata nel locale, seguita da Mitsuhiko e Genta, e cominciò a raccontare cose che Rei colse senza volere.
  «Lo stavano prendendo in giro!» disse a voce fin troppo alta, ignorando le buone maniere e indicando un bambino che se ne stava in disparte con gli occhi gonfi di lacrime. «Dicono che è diverso!»
  Rei ebbe un tuffo nel passato e sentì la rabbia montare in petto.
  Vide Ran e Shinichi alzarsi, ma quello che lo stupì fu vedere Shiho che raggiungeva il bambino prima di loro e lo aiutava a ripulirsi la guancia macchiata di alcune gocce di sangue.
  Ma il bambino piangeva, non smetteva di piangere. Tra le lacrime masticava parole per lo più incomprensibili, diceva che non era giusto.
  Shiho protese l’indice con il polpastrello che si era macchiato di rosso. Si sforzò di sorridere. «Sai, una persona una volta mi ha detto che, nonostante le apparenti differenze, siamo tutti fatti di carne e sangue. Nero, bianco, asiatico… come puoi vedere, ognuno di noi ha sangue che gli scorre nelle vene e quel sangue è rosso.»
  Il bambino la guardava come sconvolto. Aveva smesso di piangere.

«Posso… posso tornare qui, se litigo ancora con quei bambini?»
«No, non accettiamo i bambini che fanno a botte» gli aveva risposto la donna, e Rei non se l’era aspettato. Ma poi, sorridente, quella aveva aggiunto: «Ma se dovesse ricapitarti di farti male mentre cerchi di riconciliarti con quei bambini, ci penserò io a metterci un cerotto.»
Era un’estranea, per lui, la dottoressa Elena Miyano, ma si era subito affezionato a lei. Probabilmente era dovuto alle gentili parole che gli aveva rivolto, o al fatto che, come lui, anche lei avesse origini straniere, fattore che l’aveva portato a sentirsi meno solo.
Rei era piccolo, ma già alcune volte gli era capitato che dei bambini a scuola si prendessero gioco di lui per via dei suoi capelli così tanto chiari da sembrare platino, più che biondo. I capelli della dottoressa Miyano erano di un colore molto simile – e poi lei era bellissima.
Anche lui lo era – parole di Akemi, non sue!
Perché sì, quella bambina era tornata. La prima volta, l’aveva afferrato per un braccio e, senza ascoltare le sue proteste, l’aveva guidato da sua madre affinché lei lo curasse. Appena qualche giorno dopo, eccola rispuntare: l’aveva visto giocare da solo con un pallone e, come se nulla fosse, si era autoinvitata a unirsi al divertimento – a Rei non era dispiaciuto.
Sollevò il mento e osservò il cielo azzurrissimo punteggiato da qualche sporadica nuvola; era il giorno perfetto per giocare.
Sospirò, un po’ triste, e ripensò nuovamente ad Akemi. Chissà se…
«Rei!»
Ebbe un tuffo al cuore. «Akemi?» disse stupito, osservandola compiere ulteriori passi nella sua direzione. «Cosa ci fai qui?»
«Mamma e papà sono impegnati, mi stavo annoiando.» Adocchiò il pallone di Rei abbandonato in un angolo e il suo sorriso si fece ancora più largo. «Ti va di giocare?»
Rei non se lo fece ripetere due volte.

  Ran batté le mani e sfoggiò un sorriso a trentadue denti. «E gelato per tutti sia!»

«Hhm, che buono!»
Akemi avrebbe potuto mangiarne cento di gelati e sarebbe stato come assaggiarne uno per la prima volta. Lo degustò con aria soddisfatta, poi osservò il suo piccolo compagno di giochi. Sembrava triste.
«Non ti piace?»
«Uh?» Lui spostò gli occhi in basso, sul suo gelato ancora immacolato. «Ah, no… Mi piace, solo che…»
«Dai, sbrigati, o si scioglierà!»
Rei fece come gli era stato detto e, imitandola, iniziò a pregustare il suo gelato. Continuò però a guardarla di nascosto, trovando adorabile il modo allegro con cui Akemi dondolava le gambe che ancora non raggiungevano terra.
«Anche oggi lavorano, i tuoi?»
Doveva essere così, no? Altrimenti perché Akemi passava tutti i pomeriggi con lui?
«No», negò tuttavia lei, cogliendolo di sorpresa, «è che giocare con te mi piace!» Rei distolse lo sguardo, rosso in viso. «Non mi piace stare sola», proseguì Akemi, ignara della sua reazione, «anche se tra un po’ non lo sarò più.»
«E perché no?»
«Mia mamma è incinta.»
Rei spalancò gli occhi. «Avrai un fratello?»
«Una sorella. Mamma dice che è una femmina.»
«E come fa tua mamma a saperlo?» domandò un ingenuo Rei che, pur ignorando, per ovvi motivi, le dinamiche della creazione, non poté che rimanere stupito da quella dichiarazione. «Nessuno può decidere se sarà maschio o femmina…»
«È vero», disse Akemi – era stata Elena ad assicurarle che non si poteva e lei si fidava. «Però mamma dice che è così, se lo sente. Ho sempre voluto una sorella!» esclamò tutta contenta. «Chissà se avrà i capelli belli come i tuoi e della mamma!»

Direi di sì, gli scappò, osservandola di soppiatto.
  Shiho si teneva lontana dalle risate dei bambini e di Ran. Quando la vide allontanarsi dal resto del gruppo, pensò che si sentisse di troppo; la immaginò già sorpassarlo come se nemmeno esistesse (non avevano esattamente il migliore dei rapporti, considerato che una volta aveva tentato di farla saltare in aria). Invece, si fermò proprio , a due passi da lui.
  «Senti un po’», esordì tutto d’un fiato, «cosa vuoi da me?»
  La schiettezza delle sue parole stupì Rei – era davvero tanto diversa da Akemi, quella ragazza.
  «Perché dovrei voler qualcosa?»
  «Continuavi a fissarmi.»
  «Magari fissavo Shinichi Kudo, il famoso detective. Oppure Ran.»
  Il suo sorriso non le piaceva. Inarcò un sopracciglio, squadrandolo ancora più attentamente. «Non fare il finto tonto con me, non attacca. Mi stai forse tenendo d’occhio per conto di qualcuno?»
  Rei capì subito a chi quel qualcuno fosse riferito, soprattutto perché Shiho calcò la parola con particolare enfasi. Se ne stupì. Si era aspettato che fosse diffidente, ma non così tanto. Dati i loro trascorsi, decretò che non poteva biasimarla.
  La fissò dritta negli occhi, che lei assottigliò, e solo in quel momento si rese conto di quanto fossero simili a quelli di Elena. Solo che, mentre quelli della dottoressa Miyano l’avevano accolto con calore, rassicurandolo quando ce n’era stato bisogno, quelli di Shiho non erano altrettanto benevoli nei suoi confronti.
  Rei scrollò le spalle. «No, puoi stare tranquilla, nessuno ti sta tenendo d’occhio. Non noi, almeno.»
  Shiho colse un’allusione all’FBI. Da quello che sapeva, Rei Furuya non era in buoni rapporti con i federali americani.
  «Perché pensi che qualcuno ti tenga gli occhi addosso? Sei pulita, dovresti saperlo. Se persino io sono ancora in libertà, tu non hai nulla di che preoccuparti, non credi?»
  «Tu eri un infiltrato», gli fece notare, abbassando il tono di voce in un gesto istintivo. «Hai aiutato a smantellare l’organizzazione criminale più pericolosa del Giappone.»
  La voce di Rei si ridusse a un sussurro. «Non sempre i mezzi che ho usato erano leciti.»
Ho ucciso, per farlo.
  Cadde il silenzio.
  Si fissarono senza mai distogliere lo sguardo, una tensione tale da essere quasi palpabile. Poi Rei scrollò nuovamente le spalle e sospirò, sfoggiando un sorriso che a Shiho parve molto poco sentito.
  «Non mi piace rivangare il passato, preferisco concentrarmi sul presente. Non penso di essere l’unico» – accorciò ulteriormente le distanze, cogliendola di sorpresa – «se capisci cosa intendo.» Indicò, con un lieve cenno del capo, un punto alle sue spalle, e Shiho lo seguì con lo sguardo. Osservò Shinichi esibire una faccia annoiata mentre Sonoko ridacchiava – come facevano un tempo, prima che arrivasse lei. Non si era nemmeno accorta, in quei minuti in cui aveva parlato con Rei, che era sopraggiunta Sonoko.
  Tornò a guardare Rei e quel barlume di simpatia in più che le era sembrato di provare poco prima era svanito. «Cosa stai cercando di dirmi, che sono di troppo?»
  Lui scosse il capo. «No, affatto. Anzi, la tua vita ormai è qui, come lo è anche la mia. Scusa se te la sei presa tanto», disse, anche se le sue non sembravano affatto delle scuse.
  Shiho decise che ne aveva abbastanza.
  Si allontanò appena dal bancone e, riallineatasi, allacciò le braccia al seno. Gli rivolse due occhi non ostili, non minacciosi, solo seri. «Basta convenevoli», sentenziò spiccia. «Che cosa vuoi da me?»
  «Incontriamoci, più tardi», disse Rei tranquillo, e indicò un foglietto sul bancone che Shiho non aveva idea di come e quando fosse finito lì.
  Questo pensiero lo razionalizzò solo in un secondo momento, quando Rei era già uscito dal Café Poirot. La sua offerta – invito? – l’aveva spiazzata e Shiho non ebbe il tempo di fermarlo, di chiedergli che diavolo volesse da lei.
  Lo osservò allontanarsi di spalle. Quando fu sparito alla vista, agguantò il foglietto e lo svolse per leggerne il contenuto.

*

  «Davvero non sai dove siamo?»
  «Dovrei?»
  Rei scosse la testa: no, in effetti non doveva. Si era aspettato che Shiho fosse all’oscuro e probabilmente era meglio così. Se avesse saputo anche solo un decimo di quello che sapeva lui, dubitava che si sarebbe presentata.
  Decise che non c’era motivo di tergiversare.
  «Lo stabile è abbandonato, ma prima era una clinica. La stessa in cui lavoravano i tuoi genitori.»
  Subito la vide incrociare le braccia e stringersi nelle spalle, come a volersi schermire da qualcosa – una sorta di meccanismo di difesa che mise in atto senza nemmeno rendersene conto.
  «Sapevi che i tuoi lavoravano in una clinica, prima di accettare l’offerta dell’Organizzazione?»
  «Sì, me ne aveva parlato mia sorella. Non so molto dei miei genitori, ero piccola quando sono morti. Molte delle cose che gli appartenevano sono andate distrutte e non ho mai trovato qualcuno che mi parlasse di loro.»
  Shiho lo osservò in tralice, assottigliando lo sguardo come a volergli entrare nella testa per studiarlo. «Ma tu come lo sai? So che hai indagato su di me, ma…»
  «Conoscevo Akemi.»
  Shiho sgranò gli occhi e socchiuse la bocca in un’espressione di genuino stupore. Non si sarebbe aspettata di udire quel nome pronunciato dalle labbra di Rei, le ci volle qualche attimo per riprendersi.
  «Non… non mi ha mai detto niente», rivelò, tornando con la memoria a quei giorni passati che valevano la pena di essere rivissuti per la sola presenza di Akemi.
  Perché sua sorella le aveva nascosto che conosceva Bourbon? Per proteggerla?
  «Aspettami!»
  Due bambini spuntarono alle loro spalle e li superarono correndo, senza nemmeno fermarsi a guardarli. Il più lento dei due sembrava più piccolo e faticava a tenere il passo con l’altro.
  Rei sorrise mentre li osservava allontanarsi e per un attimo gli sembrò di essere catapultato nel passato, a quei momenti spensierati della sua infanzia quando i coniugi Miyano non avevano ancora accettato l’offerta di lavoro che avrebbe rovinato la loro vita e quella delle loro stesse figlie. Si chiese se il parco giochi dove si ritrovavano lui e Akemi fosse ancora in piedi e se quei due bambini si stessero dirigendo proprio lì.
  «Mi sarebbe piaciuto incontrare Akemi mentre ero infiltrato nell’Organizzazione, ma non potevo.» Sospirò, accompagnando il gesto con una scrollata di spalle, e sul suo viso si modellò un sorriso amaro – era un’amarezza che nemmeno Shiho poteva comprendere a pieno. In realtà, al momento riusciva a stento a seguire i suoi discorsi. Sembrava che, più che a lei, Rei stesse parlando a se stesso.
  «Non volevo», si corresse. «Se ci fossimo rivisti mi avrebbe sicuramente riconosciuto, e io non potevo permettermelo. Per tutti dovevo essere Tooru Amuro, non Rei Furuya, o la mia copertura sarebbe saltata. È una cosa che tu potrai capire molto bene.»
  Fece per proseguire, ma parve cambiare idea a metà. Invece, fece cenno a Shiho di seguirlo. Mentre camminavano, i ricordi della sua infanzia gli si ripresentarono nella mente in ordine casuale.
  Svoltarono un angolo e Rei allargò le labbra in un sorriso: il parco giochi dei suoi anni più spensierati era ancora lì. C’erano anche i bambini di poco prima, coinvolti in una lite per decidere chi dovesse spingere chi sull’unica altalena libera.
  «Io e Akemi ci siamo conosciuti da bambini. Proprio qui.»
  Shiho lo fissò come se volesse scavargli nella mente. Ignorando il peso del suo sguardo che gravava su di lui, Rei riprese a camminare per il parco giochi senza una meta precisa e lei gli fu subito dietro.
  «Da bambino mi prendevano in giro per via dei miei capelli chiari e del mio aspetto non del tutto giapponese.»
  Shiho sospirò. «Per quanto mi faccia piacere sentirti parlare del tuo triste passato» – Rei non poté non cogliere l’ironia – «non capisco cosa c’entri questo con me.» Deglutì. «O con Akemi.»
  «Nonostante le apparenti diversità, siamo tutti fatti di carne e sangue. Nero, bianco, asiatico… non è importante, perché ognuno di noi ha sangue che gli scorre nelle vene e quel sangue è rosso.»
  Shiho arrestò il passo. Rei se ne rese subito conto e la imitò, fermandosi poco più avanti. Si volse solo per cercare il suo sguardo, senza meravigliarsi della confusione che vi lesse quando lo trovò.
  «Te le ha dette tua madre, quelle parole?»
  Shiho ci mise un attimo per controbattere e, quando lo fece, tutto quello che le uscì fu un . In verità, le aveva ascoltate in una delle cassette che Elena le aveva lasciato, ma questo dettaglio preferì tenerlo per sé.
  «Le ha dette anche a me. Quando l’ho incontrata per la prima volta, per essere precisi. Alcuni bambini, proprio in questo parco giochi, mi stavano prendendo in giro per via del mio aspetto e io ci ho fatto a botte. Ero ferito, ma non ci ho fatto molto caso. Una bambina, però, sì.»
  Shiho anticipò quella che stava per dire.
  «Tua sorella.»
  Lo anticipò, ma ebbe un tuffo al cuore quando ne ebbe la conferma.
  Le piaceva che si parlasse bene di sua sorella. Il suo ricordo, però, era ancora una ferita aperta che forse mai si sarebbe rimarginata, e riviverlo nei racconti di un ex membro dell’Organizzazione le sortiva uno strano effetto.
  Aveva giurato che non si sarebbe mai fidata di nessuno di loro, infiltrati o meno che fossero. Si era fidata di Dai Moroboshi e se n’era pentita.
  Si strinse nelle spalle senza nemmeno rendersene conto. «Conoscevi mia madre. E conoscevi mia sorella. Ma non conosci me. Quindi, che cosa ti serve? Perché mi hai portata qui, anziché dirmi tutto questo stamattina al Poirot
  Lo vide estrarre da una tasca un oggetto molto piccolo. «Voglio darti questo.»
  Protese un braccio in avanti e glielo porse. Era una chiavetta USB.
  Shiho sgranò gli occhi quando un’intuizione s’impossessò di lei. «Sono…?»
  «I dati del veleno a cui stavano lavorando i tuoi genitori? No. Ma posso farteli avere quando vuoi, se cambi idea su quell’antidoto.»
  Shiho affilò lo sguardo come un coltello. «Quindi era tutta una messa in scena. Fai finta di interessarti a me, mi parli di Akemi per addolcirmi, ma è solo l’antidoto che vuoi.»
  Rei non si fece scalfire dalle sue accuse. Si limitò a scuotere il capo. «Voglio che Vermouth paghi, ma non ho conti in sospeso con lei. Tu, invece, sì.»
  «Ora guarda caso ti interessa che io faccia i conti col mio passato?»
  «Eppure è così.»
  «Perché dovrei crederti?»
  «Perché so come ci si sente – a perdere tutto e tutti, a non avere più niente. Io ho perso i miei compagni. Ho perso il mio amico più caro. E se potessi far pagare i responsabili, lo farei.»
Solo che il responsabile della morte di Hiro sono io.
  «Pensaci, Shiho. E leggi cosa contiene quella chiavetta, prima di buttarla via.»

*

  Nella pennetta USB che gli aveva dato Rei c’erano documenti confusi appartenuti a sua madre. Come li avesse ottenuti, Shiho non ne aveva idea. Gliel’avrebbe sicuramente chiesto.
  Prima però ne avrebbe letto il contenuto.

*

7:42 di lunedì 17 febbraio.
Stavo registrando la cassetta per il diciannovesimo compleanno di Shiho, ma ho deciso di cancellarla: stavo dicendo troppo.
Voglio che a Shiho rimangano ricordi felici, per quanto possibile, e non i deliri sconnessi di sua madre. Non i suoi rimpianti, non le sue colpe.
Questo veleno non volevo crearlo. Io e Atsushi non volevamo questo.
Stiamo cercando di tergiversare il più possibile, ma quelli dell’Organizzazione sono troppo svegli. Pisco è sempre più insistente e presto o tardi il veleno sarà finito.
Io e Atsushi non abbiamo mai voluto questo, ma non è importante. Non è importante sperare che venga cancellato dalla faccia della Terra, perché so che non succederà.
So che, comunque andrà a finire, questo veleno porterà solo sciagure.

  Shiho aveva gli occhi pesanti di lacrime e lo stomaco aggrovigliato in una morsa che pareva volesse strozzarla.

*

  Prima Rei Furuya, ora Shiho Miyano – Jodie si chiedeva quando stalkerarla fosse diventato un hobby tanto popolare tra quelli che erano stati membri dell’Organizzazione e l’avevano tradita.
  Guardò Shiho, ancora incerta se avesse sognato o meno gli ultimi stralci di conversazione. «Che cosa ti ha fatto cambiare idea?» domandò.
  O meglio, chi. Sicuramente non era stato Shuichi. Forse cool guy – aveva dieci anni in più di prima, ma non avrebbe mai smesso di chiamarlo così.
  Shiho si limitò ad alzare le spalle. «È una lunga storia. Diciamo solo che ho iniziato a vedere la cosa da un’altra prospettiva.»
  «Sarebbe?»
  «Creerò quell’antidoto, ma in cambio voglio che, una volta terminato, i dati delle ricerche dei miei genitori vengano distrutti. Loro non hanno mai voluto tutto questo.»
  Jodie esitò.
  Se chiudeva gli occhi vedeva solo fuoco.
  Se aguzzava l’udito sentiva solo urla.
  Esitò ancora – e poi:
  «Nessuno l’ha mai voluto.»

*

  Shiho fece ritorno a casa sentendosi un po’ più leggera – l’agente Jodie le aveva promesso che lei e L’FBI avrebbero fatto il possibile per esaudire la sua richiesta.
  Come tutte le sere cenò con il professore, e con loro c’era anche Shinichi.
  Shinichi, che sapeva. Shinichi, che però rispettava il suo silenzio.
  Fu una bella cena.

*

  Quando Jodie lo raggiunse, James ebbe l’impressione che qualcosa fosse cambiato, ma non azzardò nulla. Come molte sere da quando la mole di lavoro era aumentata, cenavano insieme, in ufficio, e benché la cosa fosse partita da loro, ormai era diventata un’abitudine che si unisse anche Shuichi.
  Shuichi, che aveva intuito qualcosa. Shuichi, che però non insinuava nulla.
  Fu una bella cena.

*

  Il sorriso di Vermouth era ancora lì, foglia secca d’autunno che sta per spezzarsi ma dice no. Rei si domandava cosa mai l’avrebbe sconfitta, se nemmeno la notizia della sua vita in una stanza poteva averlo fatto.
  «Tu sei come me, Bourbon. Come noi. Hai ucciso – ricordi
  La figlia di Elena Miyano, Rei aveva creduto di averla uccisa.
  La figlia di Elena Miyano, Rei però non aveva voluto ucciderla.
  Strinse i pugni. «Non sono come te, Vermouth. Ma non ho mai pensato di essere un santo.»
  Non era mai stato un soldato bianco.
  Nessuno lo era mai stato.
  E Vermouth, forse quella foglia si era staccata dal suo ramo da tempo, ma ancora s’illudeva del contrario.
  Perché bianco e nero non sono due fazioni opposte e inconciliabili, separate da una linea netta impossibile da valicare se poi si vuole tornare indietro.
  Bianco e nero s’incontrano, si mischiano, s’intrecciano l’uno all’altro in modi sempre nuovi e indissolubili; ciò che rimane è solo grigio.
  E a ognuno il suo, di grigio.
   
 
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