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Autore: _Recneps    26/04/2021    0 recensioni
(Post-The Avengers)
La sua strada corre parallela i passi di un Capitano spoglio della propria gloria, avvolto da un’aurea di normalità che l’avvelena ancora di più.
Da due mesi lo vede gironzolare tra i reparti con sorrisi affabili e parole per tutti. Gli infermieri lo accolgono con occhi lucidi, i pazienti più anziani condividono preghiere e i più piccoli gioiscono imitandone le gesta con scudi di cartone.
Jorie, invece, quando incrocia per sbaglio il cammino del Soldato, avverte ceneri e macerie incastrarsi in gola. I corridoi bianchi si tingono di rosso carminio e nei suoi occhi ballano immagini di cose d’altri mondi che non avrebbe mai pensato di dover temere.
Lui saluta sempre tutti con accortezza e regala un sorriso pulito a qualsiasi sguardo incroci. A Jorie, tuttavia, non può importare di meno dell’educazione: come sempre, quel saluto rimane sospeso nell’aria, ricambiato da due occhi d’ombra incollati al pavimento e dal trascinarsi di un silenzio sempre più sfibrato.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio, Steve Rogers/Captain America
Note: Missing Moments, Movieverse | Avvertimenti: nessuno
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Note: one-shot ambientata dopo gli avvenimenti della Battaglia di New York. Un piccolo scorcio che mi ha permesso di fantasticare sull’intreccio di due vite: quella di Steve Rogers, spoglio delle sue vesti da Capitano, e di una semplice ragazza che non ha ancora smesso di combattere le macerie e il dolore di quella guerra.
Come mi capita troppo spesso, le parole mi sono letteralmente sfuggite di mano e per me sarebbe già una grande vittoria se qualche anima coraggiosa riuscisse anche solo ad arrivare fino alla fine indenne.
-Rec
 
 
Storie e macerie
 
Neve.
Jorie rilegge quella parola un centinaio di volte prima di cancellarla in un moto di frustrazione.
Per quel che le importa, quelle pagine possono rimanere bianche anche per sempre.
Che il signor Des se ne faccia una ragione: ad oggi non c’è nulla, di quel mondo là fuori, che getterebbe luce in quel suo grigiore. Rimane solo un mucchio di macerie, come quelle che quasi due mesi prima le si erano posate sulla pelle insieme a cicatrici che non le avrebbero mai permesso di dimenticare.
Nemmeno il pensiero di una soffice nevicata – motivo di così tanta gioia quando ancora era una bambina – è in grado di spazzare il fumo ancora impresso nelle sue iridi d’ambra.
Durante il loro secondo incontro, il signor Des le aveva lasciato un block notes: diceva che le sarebbe servito per annotare ciò che di bello – di quella città oltre il vetro – conservava.
Diceva anche che all’inizio non sarebbe stato facile, che poteva anche non sforzarsi e che, probabilmente, quelle immagini sarebbero riemerse in maniera naturale.
Erano passate tre settimane e Jorie non aveva fatto altro che tollerare di malgrado l’opprimente convivenza con quel taccuino. Persino di notte, sospesa in un fastidioso dormiveglia, poteva sentirne la minacciosa presenza sul comodino accanto. Ogni mattina, poi, lo fissava per minuti interi nella speranza che prendesse fuoco, come per magia.
Ad ogni seduta, il signor Des tradiva l’accenno di un sorriso amaro quando le sue dita sfogliavano pagine che ancora non avevano conosciuto inchiostro. Jorie, dal canto suo, si sentiva quasi in colpa quando due occhi comprensivi, dolci e gentili, le facevano sottilmente capire che andava bene così.
Quella sera, mentre guardava il cielo di New York rannicchiata accanto all’ampia vetrata, si era ritrovata a pensare che le sarebbe piaciuto vedere la neve. Per questo – seppur timorosa – aveva deciso di provarci.
Ora, invece, si sente solo una stupida.
Quella neve si era velocemente macchiata di un rosso carminio, lo stesso di cui si erano tinte le sue dita in un giorno di morte e distruzione. Le ceneri, poi, si erano sostituite ai gelidi fiocchi candidi.
Fissando quello scarabocchio, Jorie sente ancora i rumori dell’apocalisse e un terrore profondo le contorce le viscere. Poi scorge sottili capelli dorati incrostati di terra e sangue, labbra violacee e occhi senz’anima.
Rivede sé stessa, immersa tra le macerie, proteggere in una gabbia di carne ed ossa un piccolo corpicino.
Risente la sua voce pronunciare tra i singhiozzi un solo nome, in attesa della sua stessa fine.
Reene.
Ricorda con dolore la luce ferirle gli occhi, voci concitate e braccia forti accoglierla verso quella che tutti avrebbero chiamato la sua salvezza.
Ma di quella salvezza Jorie non avrebbe saputo che farsene: parte di sé era morta minuti – probabilmente ore – prima, quando l’addio di Reene le aveva strappato le ultime lacrime.
Dopo settimane e settimane, la rabbia è ancora accecante e Jorie si sente stupida per aver dato una possibilità a quell’inutile taccuino. Lo afferra con le mani che tremano e lo scaraventa con irruenza contro l’ampia vetrata che getta su New York, una New York che non sente più sua: la città a cui rimane pateticamente aggrappata è morta. È morta insieme a Reene, insieme a parte della sua stessa anima e ora, proprio come lei, si ritrova ancora sommersa dai resti di quella guerra, sfregiata da una ferita insanabile.
Rimane con i pugni serrati a fissare quel mondo che sente così estraneo, quel mondo che cede a insulse idolatrie per alzarsi in piedi, cieco di fronte al dolore nascosto da un’insignificante vittoria.
Quale vittoria, poi?
Lei non se ne fa nulla di quella vittoria e nemmeno di quei salvatori tanto celebrati.
La salvezza di chi?
Non di Reene.
Non di Jorie, che ha perso il senso di tutto e ora cerca disperatamente la fine.
Una fine che ha inseguito instancabilmente, senza mai riuscire ad afferrarla.
L’attrazione per un vuoto che ora la inchioda lì, tra le mura di quell’ospedale, a convivere con quello stupido taccuino.
Maledice l’oblio in cui è rimasta intrappolata e abbandona quella stanza diventata improvvisamente troppo piccola. Una manciata di secondi dopo, si pente di non aver atteso ancora qualche minuto.
La sua strada corre parallela i passi di un Capitano spoglio della propria gloria, avvolto da un’aurea di normalità che l’avvelena ancora di più.
Da due mesi lo vede gironzolare tra i reparti con sorrisi affabili e parole per tutti. Gli infermieri lo accolgono con occhi lucidi, i pazienti più anziani condividono preghiere e i più piccoli gioiscono imitandone le gesta con scudi di cartone.
Jorie, invece, quando incrocia per sbaglio il cammino del Soldato, avverte ceneri e macerie incastrarsi in gola. I corridoi bianchi si tingono di rosso carminio e nei suoi occhi ballano immagini di cose d’altri mondi che non avrebbe mai pensato di dover temere.
Lui saluta sempre tutti con accortezza e regala un sorriso pulito a qualsiasi sguardo incroci. A Jorie, tuttavia, non può importare di meno dell’educazione: come sempre, quel saluto rimane sospeso nell’aria, ricambiato da due occhi d’ombra incollati al pavimento e dal trascinarsi di un silenzio sempre più sfibrato.
 
 
Steve percorre quei corridoi come se li conoscesse a memoria e accenna sorrisi a tutti i volti ormai familiari che incontra.
Emily, l’infermiera del primo piano, che non perde mai occasione di regalargli un disegno fatto con amore dal figlio Luke.
Il signor Banks, che ritrova più spesso del dovuto a camminare avanti e indietro per la sua stanza recitando versi di poesie impolverate.
Il piccolo Yuri, che gli va incontro saltellando su gambe ancora troppo fragili mentre Steve si affretta per sollevarlo e fingere un rimprovero perennemente tradito da una risata.
Ruby, che ogni sera lo aspetta per sentirsi raccontare dei suoi bambini: due gemellini dai capelli ricci che il Soldato osserva da lontano all’uscita da scuola e che non si risparmia mai di tifare alle partite di baseball del quartiere, nascosto dalla visiera di un cappello e da un paio di occhiali da sole.
Rimasto scottato dalla distruzione che dal cielo si era riversata su un mondo fino ad allora ignaro, Steve non era riuscito a non lasciare che la propria vita s’intrecciasse con le anime di quei corridoi. Gli stessi corridoi che due mesi prima si erano riempiti di disperazione e polvere, nonostante la vittoria aleggiasse sulle macerie.
Non poteva andare avanti senza conoscere il dolore che era stato inferto, senza toccare con mano le realtà che il suo scudo avrebbe dovuto proteggere, senza che piccoli frammenti di normalità s’incastrassero nei valori che l’avrebbero portato di nuovo in battaglia.
Lo squarcio della volta newyorkese l’aveva indissolubilmente legato a quelle macerie e ora, a distanza di quasi due mesi, si rende conto di quanto quelle vite l’abbiano arricchito con la loro semplice accoglienza. Per Steve è un onore sentirsi minuscola parte di così tante esistenze, poter godere di storie di cruda realtà e  regalare briciole di sollievo con semplici gesti: un bambino che scorre le dita sul suo scudo, una madre che versa lacrime di gioia pensando agli strike dei suoi piccoli, le partite a carte con i coniugi Brooks, le braccia ricoperte dagli scarabocchi della pestifera Jessie, le pagine di un libro lette per la signora Mildred o le risate in risposta ai racconti di Vickie, terribilmente innamorata del suo infermiere.
Steve ne è profondamente grato.
La sua esistenza, spezzata a metà, ancora congelata e intrappolata in un tempo lontano, inizia a colorarsi di tanti minuscoli frammenti di vita; una sorda solitudine che comincia ad incrinarsi.
E poi c’è lei: l’inafferrabile fantasma di quei corridoi. La ragazza dei silenzi, dei passi strascicati, degli occhi vuoti e al tempo stesso consumati da una cieca rabbia. Quel saluto che non viene mai ricambiato, quelle dita sottili che si stringono a pugno, quel volto pallido privo d’espressione.
Steve abbassa sempre gli occhi quando quella muta sofferenza lo colpisce dritto allo stomaco.
 
 
Jorie guarda l’infuso ai frutti rossi gocciolare dal tavolino in legno bianco e macchiarle i pantaloni. Altri pazienti – insieme a familiari, amici o fidanzati– si voltano a guardare il pavimento del nuovo salottino macchiarsi di liquido rosa scuro. Lei impreca e si arma di fazzolettini fino ai denti.
Non chiede molto, dopotutto.
Partecipa tutti i giorni alle insulse attività obbligatorie del suo reparto, non salta mai una seduta con il signor Des, e, soprattutto, se ne sta sempre per i fatti suoi senza dar fastidio a mezz’anima.
Quindi, per quale motivo non può semplicemente godersi la sua benedettissima tisana ai frutti rossi delle otto? Perché si ritrova ad imprecare frustrata nell’unico momento della giornata in cui non avrebbe nemmeno bisogno di farlo?
Getta stizzita i tovagliolini pregni d’infuso e torna sedersi al tavolino di legno bianco.
Decide che esaurirà la sua ora a perdersi nelle venature della superficie, tisana o non tisana.
I suoi occhi percorrono annoiati i particolari dei gracili fiori che sbucano dal piccolo vaso d’arredo. Vorrebbe toccare i contorni dei petali lilla, ma si dice che probabilmente li spezzerebbe solo sfiorandoli.
Poi, il rumore di una tazza che le viene posata sotto il naso la fa trasalire.
Abbassa lentamente gli occhi e vede l’infuso ai frutti rossi. Attorno alla tazza, una mano dalla pelle diafana, le nocche screpolate e le dita sottili e lunghe. Jorie riesce a scorgere le vene bluastre correre gentili e poi nascondersi al di sotto della manica nera.
Nel silenzio, la mano si ritrae e Jorie percepisce dei passi allontanarsi. Alza lo sguardo: il Soldato senza scudo le rivolge le spalle mentre si allontana.
Ora percepisce minacciosa la presenza di quella tisana e, senza più poterne fare a meno, si alza e se ne va.
La tazza fumante rimane abbandonata sulla lucida superficie di legno bianco.
 
*
 
Otto in punto.
Jorie lascia la sua stanza avvolta da una felpa nera, le mani infilate nelle ampie tasche.
Fa un leggero cenno a Norma, l’infermiera “chioccia” che non si stanca mai di lasciarle una leggera carezza sulla spalla e un cauto sorriso.
Si dirige al solito tavolino, ma si blocca non appena vede da lontano una tazza fumante ad attenderla.
Trattiene una smorfia irritata e si guarda intorno. Non coglie nessuna stonatura in quel quadretto familiare: i soliti volti impegnati a leggere libri o sorseggiare caffè.
Si dice che è meglio non rischiare.
Si volta e torna nella sua stanza.
 
*
 
Jorie non beve la sua tisana ai frutti rossi da una settimana.
Per la precisazione, Jorie si rifiuta di bere la tisana ai frutti rossi che l’attende puntuale ogni sera alle otto, abbandonata lì, al suo tavolino di fiducia ora irreparabilmente sconsacrato da quell’indesiderata intrusione.
Ormai da una settimana sorpassa la scia del suo aroma preferito fingendo imperturbabilità.
Ormai da una settimana si siede alla poltrona verde sul lato opposto del salottino e, parzialmente nascosta dallo scaffale di libri classici, fissa con astio la tazza lontana, avvertendo uno strano pizzicore tra le mani, come se il desiderio di gettarla a terra diventasse fisicamente doloroso.
Quella sera, prima di riuscire a chiudersi la porta della camera alle spalle, si sente strattonare per una manica.
«Jorie! Jorie!» esclama Yuri lasciando cadere una stampella e aggrappandosi al suo braccio con tutto il peso, «seguimi, ci servi subito!»
Non fa in tempo a ribattere che una raffica di “veloce” concitati le perforano i timpani.
«Yuri, calmati», sospira lei raccogliendo la stampella e porgendogliela, «mi spieghi che succede?»
«Non c’è tempo, abbiamo bisogno della principessa da salvare! Muoviti!»
Confusa, lo segue mentre il ragazzino saltella qualche passo davanti a lei.
Norma, fortunatamente, non è nei paraggi e Yuri può ancora sperare di non ricevere l’ennesimo ammonimento.
Un paio di svolte più tardi, il piccoletto si avvicina alla porta della camera condivisa con Kurt – lentiggini, capelli rossi lunghi fino alle spalle e prossimo alle dimissioni – per poi venirne inghiottito.
Jorie avanza senza fretta, cercando di simulare il miglior sorriso di cui è in grado e ripetendosi che sono solo bambini, che loro non meritano il suo vuoto e la sua rabbia. Tuttavia, non appena si affaccia all’ingresso, quel buon proposito viene spazzato dal suo viso con una folata di vento gelido.
«Kurt è il cattivo con le corna e io sono l’Occhio di Falco che lo distrae mentre il Capitano corre a salvarti!»
Se Jorie avesse un qualsiasi oggetto tra le mani, lo farebbe cadere con un tonfo sordo.
Invece, non accade nulla.
Se ne rimane semplicemente lì impalata, pietrificata.
I due ometti sono euforici all’idea di mettere in scena quel teatrino; Jorie, invece, avverte qualcosa di molto simile alle lacrime arpionarle gli occhi.
Ma lei non ha più lacrime, le ha esaurite sotto quelle macerie, le stesse che ora vede danzare in quella stanza d’ospedale.
Il Soldato senza scudo, seduto sul letto di Kurt, la guarda con quella che dovrebbe essere dolcezza, ma che lei sa non esser altro che semplice pena.
Si sente svuotata, di nuovo.
Immagini che non appartengono a quel presente graffiano le pareti interne del suo involucro e le iridi d’ambra si rivestono d’ombra. Ombra e rabbia.
Con quegli stessi occhi fissa il volto che l’America ama, ora vinto da un silenzio che Jorie affila come lame.
«Ragazzi, su, è ora di andare a dormire. Se Norma mi vede ancora qui siamo tutti e tre fregati. Quindi, a letto!», dice improvvisamente lui alzandosi in piedi e battendo le mani per incoraggiare i due piccoletti.
«Ma avevi promesso la battaglia! Jorie può fare da donz-»
«Ah, ah. Nessuna battaglia dopo le otto di sera, anche i supereroi devono riposare», conclude aiutando Yuri a infilarsi sotto le lenzuola.
Il Soldato si volta e schiude le labbra in procinto di dire qualcosa, ma Jorie non ha intenzione di sentire una parola.
Si volta rapida e si allontana, lasciandolo con una mano a mezz’aria e delle scuse incastrate in gola.
Scivola lungo i corridoi ancora incredula, arrabbiata e spaventosamente stanca.
Una stanchezza che diventa sempre più opprimente, giorno dopo giorno.
E fortuna che il signor Des le aveva assicurato che pian piano le cose sarebbe migliorate.
Migliorate un corno.
Si convince di non voler sprecare la sua ora di pseudo-normalità e si dirige a passo svelto verso il salottino. Punta la poltroncina verde e accoglie con gratitudine l’ombra gettata dallo scaffale di libri. Rimane rannicchiata guardando il via vai di gente e sperando che in un qualche modo possa venirne ipnotizzata: tutto pur di scacciare gli attimi di poco prima; momenti che nel viso d’altri avrebbero dipinto un’infinita tenerezza, mentre sul suo si erano calati feroci come falci.
Non si accorge nemmeno di una presenza, lì accanto. O forse sì, ma finge di esserne immune.
«Volevo solo scusarmi», tentenna una voce mortificata, «i ragazzi molte volte si lasciano prendere e nemmeno un intero esercito riusc-»
«Perché lo fai?» lo interrompe Jorie con tono asciutto. Non lo guarda, non ha intenzione di farlo. Eppure, desidera una risposta. La pretende.
Lui rimane in silenzio e poi si siede cauto di fronte a lei, costringendola a distogliere l’attenzione dai passi che riempiono i corridoi. Lei lo fissa con un velo di malinconia e occhi infestati.
Il Soldato, vestito di un semplice maglioncino celeste e un paio di jeans, la scruta in silenzio.
Jorie si rende conto che quella domanda non le basta, che prima che lui possa rovinare tutto con parole preconfezionate, ha bisogno di essere cruda, almeno un po’: «Pensi che venendo qui tutti i giorni, degnando queste persone della tua straordinaria presenza, riuscirai a cucirne le esistenze ormai frantumate? Lo fai per dovere? Per mantenere la facciata del condottiero d’America dall’animo puro? O hai semplicemente bisogno di sentirti a posto con te stesso? Di poter tornare a casa, dalla tua gloria, e cullarti nell’illusione che questa ridicola carità possa bastare a cucire ferite profonde come voragini? Indovina, tutte queste anime spezzate, così come non le hai salvate prima, non le salverai nemmeno ora.»
Jorie trema mentre occhi carichi di odio, dolore e risentimento sfigurano il volto di quello che ora appare così prepotentemente come un semplice ragazzo a sua volta tormentato. Jorie non vuole accettarlo. È così cieca, così annebbiata da un dolore che ancora la corrompe, avvelenandola.
Lui si limita a stringere le labbra in una linea, lasciando per un attimo che il suo viso si dipinga d’ombre.
Si alza lentamente, senza guardarla, ma non si allontana.
Tentenna e poi, con surreale calma, risponde: «Non conosco il tuo dolore, non so quale sia la tua storia e nemmeno cosa tu abbia sofferto. Non so cosa ti sia stato sottratto, quali fantasmi ti tormenteranno forse per sempre. Non so proprio nulla. Ed è questo ciò che odio. Vite innocenti si sono ritrovate nel bel mezzo di una battaglia che non avrebbero dovuto combattere, potendosi affidare solo sulle proprie forze per proteggere sé stesse e i propri cari. Vite che hanno resistito con le unghie e con i denti, consumate da un terrore primordiale. Sole, sperdute. Odio il pensiero di poter andare avanti, tra gli elogi di chi mi chiama salvatore, senza poter dare un minimo della mia gratitudine a chi, quel giorno, ha lottato tanto quanto me. Odio l’idea di non conoscere nulla del dolore che è stato causato, di lasciarmi scivolare addosso gli effetti collaterali di una sanguinosa vittoria. Ho bisogno di tenermi stretto questi frammenti di cruda realtà, di non dimenticare per chi e per cosa combatto: per permettere ad una madre di tornare a casa dai propri figli, ad una ragazza di continuare a inseguire il suo amore, ad un anziano di poter rimanere vicino alla moglie malata, ad un bambino di diventare astronauta. È vero, non potrò più salvare queste anime ora spezzate, ma non permetterò all’eroe che mi è stato cucito addosso di dimenticare le loro storie. Le tengo strette, queste storie, perché è per loro che combatto.»
Cala un silenzio opprimente.
Jorie fissa i libri disposti in perfetto ordine alla sua sinistra: un nodo alla gola le impedisce di incrociare gli occhi cristallini che fino a quel momento l’hanno scrutata fermi e decisi.
Trema alla ricerca dei suoi punti fermi, della rabbia cieca che fino a pochi istanti prima l’aveva resa così sicura, così letale. Ora si sente solo terribilmente vulnerabile, schiacciata da parole che non aveva previsto e che non è in grado di contrattaccare. E mentre il Soldato senza scudo se ne va, si rende conto che non esiste nulla da combattere, che non le rimane nulla di cui armarsi, se non un velo di tristezza con cui coprirsi.
Nessuna fiamma ad avvolgere quelle ceneri, solo la carezza di una docile pioggia.
 
*
 
«Giovanotto, nessuno gliel’ha mai detto che ha una voce melodiosa?»
Steve alza gli occhi dalle pagine de L’ombra del Vento e sorride quasi imbarazzato alla signora Mildred. Lei si lascia scappare un risolino vedendo l’uomo dalle grandi imprese diventare così impacciato di fronte ad un innocuo complimento.
«Sa, mi ricorda tanto il mio George, ogni notte seduto accanto al nostro Freddy per leggergli Le avventure di Tom Sawyer. Cosa farei per tornare a spiarli dallo stipite di quella porta», sospira lei guardando con tenerezza il viso di quell’angelo che le era stato mandato in un giorno di rovine. Sorride malinconica e poi continua: «Mi deve promettere una cosa, signor Steve. Quando avrà dei piccoletti pronti a distruggerle casa e a far arrabbiare sua moglie ad ogni ora, legga sempre loro una storia prima di andare a dormire. Sono sicura che li renderebbe tanto felici.»
Steve si lascia andare ad un sorriso amaro, cogliendo in quell’immagine una speranza fin troppo gracile.
Si allunga per stringere con dolcezza la mano della signora Mildred abbandonata sul lenzuolo.
«Glielo prometto.»
Torna ad appoggiarsi allo schienale della poltrona e, mentre sfoglia una pagina, la vede: ferma sulla soglia della stanza, la ragazza della tisana ai frutti rossi lo osserva quasi con aria colpevole.
Steve la osserva per un attimo in silenzio, poi si avvicina lentamente alla signora Mildred, riducendo la voce in un sussurro: «Le fa niente se per questa sera un’amica ci fa compagnia?»
«Ma che domande sciocche! Dov’è la creatura?»
Lui sorride e poi torna a guardare il fantasma dei corridoi. Le fa un cenno, invitandola a sedersi sullo sgabello accanto a lui. Lei tentenna, ma poco dopo li raggiunge.
Rimane per tutto il tempo in silenzio mentre Steve finisce di leggere il capitolo e la signora Mildred inizia lentamente a chiudere gli occhi.
Quando chiude il libro, la ragazza si alza e scompare.
 
*
 
Jorie è tornata a sedersi al tavolino di legno bianco.
Quella sera, però, così come le ultime di quella settimana, nessuna tisana ai frutti rossi ad attenderla.
Da giorni osserva vigile il Soldato senza scudo, accompagnandolo silente in quei gesti che prima faticava a riconoscere. L’ha visto ridere complice con una ragazzina di sedici anni profondamente infatuata di Red, l’infermiere; disegnare una casa sospesa tra le nuvole eseguendo gli ordini di una bambina con corti capelli corvini; ascoltare assorto i racconti delle imprese d’amore di un giovane signor Banks tutto muscoli e poca furbizia; scorrazzare sulle proprie spalle un Yuri vittima di un letale attacco di ridarella.
Jorie l’aveva affiancato curiosa, studiandolo, e non gli aveva mai rivolto la parola.
Lui, dal canto suo, aveva mostrato un profondo rispetto nei confronti di quel silenzio.
Non può essere così difficile, pensa Jorie per la decima volta di fila mentre fissa la copertina di cuoio del suo taccuino. Siede al tavolino di legno bianco da ormai venti minuti, ma una coltre di fumo ancora troppo spessa le impedisce di vedere il cielo terso.
Viene distratta da una tazza fumante che scivola lentamente sulla superficie.
Il Soldato è in piedi davanti a lei e attende.
Jorie lo scruta in silenzio, per poi lasciare che l’aroma ai frutti rossi le regali la parvenza di una nota positiva.
Allunga una mano e avvicina la tazza, un gesto che Steve Rogers accoglie come un’offerta di pace.
«Tutte le altre non le ho neanche mai sfiorate», confessa.
«Lo so.»
«Perché hai continuato?»
«Dicono che sono testardo.»
Si lascia sfuggire un sorriso nascosta dal bordo della tazza.
«Potrei accontentarmi di questa prima grande conquista, ma oggi mi sento in vena d’azzardi e penso che correrò il rischio di chiederti persino il nome, ragazza della tisana ai frutti rossi», continua lui puntandole un dito con aria scherzosa. Lei si ritrova a ringraziare le spire di fumo che ancora danzano sulla superficie dell’infuso, confidando che possano almeno parzialmente celare il timido accenno di risata che fino a poco tempo prima non avrebbe mai pensato di condividere con quel bizzarro Capitano.
«Jorie», gli concede inaspettatamente.
L’espressione del Soldato suggerisce un’autentica sorpresa.
«Bene Jorie, io sono Steve», ribatte lui allungando prontamente una mano. Lei lo guarda con un cipiglio e prima che possa rispondergli con una qualche battutina ironica, il Soldato la blocca con il cenno di due dita, come per cancellare qualcosa che aleggia nell’aria: «Dimenticati del Capitano Rogers, solo Steve.»
Lei tentenna, ritenendo che sia comunque una cosa decisamente stupida date le circostanze, ma tra un sospiro e una finta espressione esasperata si ritrova comunque a stringere quella mano.
L’espressione soddisfatta di Steve la costringe a roteare gli occhi al cielo.
«E quello cos’è?», domanda poi lui indicando il taccuino infernale.
Parole che prima di allora non aveva mai avvertito l’esigenza di pronunciare cominciano ad ammassarsi prepotentemente sulla punta della sua lingua.
Jorie ne è spaventata, ma quella nuova e strana vicinanza, accompagnata a un dolore che da tempo preme per liberarsi, la porta a cedere: «La mia via d’uscita.»
Si lascia cullare ancora qualche secondo dal calore dell’infuso e poi alza gli occhi verso lo sguardo incuriosito, ma al tempo stesso cauto, del Soldato.
Jorie sente che non riuscirà a dire più nulla per quella sera e si riscopre sollevata quando il silenzio così sorprendentemente carezzevole di quelle iridi cristalline le fa capire che va bene così, che non è costretta, che starà comunque lì con lei, fino a quando non si alzerà per tornare nella sua stanza.
 
*
 
«Ti va di darmi una mano?»
Jorie alza gli occhi da L’ombra del Vento regalatole dalla signora Mildred. Il Soldato porta con sé un borsone straripante di pennelli, tempere e decorazioni, mentre stringe tra le mani degli striscioni bianchi.
«Domani è il compleanno di Yuri», continua lui incitato dallo sguardo perplesso di Jorie, «e un uccellino mi ha indicato un’abile pittrice che potrebbe aiutarmi con giusto qualche cartellone.»
Norma.
«Per scrivere “Tanti Auguri” non serve certamente essere Picasso.»
«Vero, ma non penso di essere pronto ad affrontare da solo un disegno a grandezza naturale di un velociraptor.»
Jorie scoppia a ridere senza nemmeno rendersene conto.
 
 
Sono quasi le dieci di sera e Steve è ancora in ospedale, sdraiato su un pavimento ricoperto di cartelloni e indossando una felpa macchiata di verde e rosso magenta.
Accanto a lui, piegata in una posizione decisamente più scomoda, Jorie è assorta nel portare a termine il paesaggio di una sconfinata vegetazione preistorica.
Il viso inclinato, i capelli castani raccolti in una coda bassa e le lunghe ciglia ad accarezzarle le guance punteggiate di efelidi: Steve, osservandola, considera che da quell’angolazione riuscirebbe a farne un ritratto a dir poco perfetto.
«Sai, pensavo che Norma si fosse inventata una cavolata solo per schiodarti da quel benedetto tavolino di legno bianco», esordisce lui lasciandosi ipnotizzare dalle pennellate dolci e al tempo stesso decise di Jorie, «ma a quanto pare qui abbiamo del vero talento nascosto.»
Lei sorride distrattamente, rendendo impossibile ignorare il velo di ruvida malinconia che le ricade sul viso.
Steve si rende conto solo in quel momento di aver accidentalmente smosso qualcosa di profondamente legato alla sua sofferenza, al motivo per cui era stato bersaglio del suo astio per giorni e settimane.
Si sente improvvisamente in colpa. Vorrebbe rimangiarsi tutto, regalarle una battuta sulle avventure amorose del Signor Banks e vederla ridere, ma sa che l’unica cosa che può realmente fare è offrirle un luogo sicuro e confortevole, l’ascolto con cui accogliere quelle parole e quelle confessioni che ora combattono in qualche punto della sua anima.
Si avvicina quasi impercettibilmente a lei, accartocciando maldestramente l’angolo dello striscione, fino a quando, accostandosi al suo fianco, i loro avambracci arrivano a toccarsi.
Non può comunicarle altro, se non la sua reale vicinanza.
Lei registra vigile quel gesto apparentemente casuale e Steve, mostrandosi concentrato a stendere colori e ridefinire contorni, può percepire una briciola della naturale rigidità di Jorie sciogliersi.
«Prima di quel giorno non mi sono mai separata da una tela e da un pennello per più di venti ore. Penso di esser praticamente nata con i colori tra le dita e l’inclinazione a pasticciare tutto ciò su cui posassi lo sguardo: i libri di testo di mio padre, le pareti della cucina limpidissima di mia madre, i jeans appena ricevuti dalla zia per il compleanno. Crescendo, poi, questa caotica e smisurata passione è finalmente riuscita a trovare una propria direzione, portandomi fino alle porte della New York Academy of Art.»
Jorie sospira, staccando il pennello dai fogli e mordendosi il labbro inferiore.
In maniera sorprendentemente naturale, Steve allunga due dita per accarezzarle quasi impercettibilmente il polso già accostato al suo. Lei finge di non notarlo, per poi abbassare pochi secondi le palpebre e prendere un respiro profondo: «Ogni giorno Norma mi chiede di dipingerle un paesaggio africano e ogni giorno le rivolgo il sorriso colpevole di chi è ormai abituato a deludere le aspettative degli altri. È stata lei, ventiquattro ore dopo il ricovero d’urgenza, a intrufolarsi nella mia stanza per lasciarmi i resti degli schizzi scivolati in ambulanza durante il mio trasporto in ospedale. Erano ridotti in condizioni pietose e per me era troppo doloroso anche solo sapere di averli sul comodino accanto. Norma, tuttavia, li ha sempre guardati con gli occhi di un bambino che vede la sua prima nevicata. Le sue suppliche silenti mi hanno sempre fatto una grande tenerezza, ma non ho mai ceduto: il pensiero di tornare a dipingere come se nulla fosse era troppo insopportabile.»
Gli occhi di Jorie si posano sulle dita di Steve, ancora abbandonate in una delicata carezza.
Poi alza lo sguardo su quei frammenti di cielo cristallini, quasi imbarazzata: «E non chiedermi come sia possibile, ma penso che stasera non dormirò e che forse mi scapperà la bozza di un paesaggio africano.»
Steve trattiene a stento un sorriso compiaciuto.
«Se te ne scappassero anche due conosco qualcuno che non ne sarebbe certo dispiaciuto», considera lui fingendo un tono vago.
«Ora non iniziamo con tutte queste commissioni. La priorità è Norma.»
«Mh, hai ragione.»
Steve si allunga verso la tavolozza per intingere il pennello nel blu scuro, poi afferra il polso di Jorie e tratteggia una semplice “S”: «Così ti ricorderai che sono il secondo della lista.»
La ragazza sbuffa e alza gli occhi al cielo.
«Sai, penso che il biondo sia passato di moda. Ti va di tentare una nuova tonalità?» minaccia lei alzandosi e dirigendosi verso i barattoli ancora sigillati, «pensavo al viola. Che dici?»
«Vorrei ricordarti che ti stai mettendo contro un Super soldato», ribatte lui indietreggiando.
«Correrò il rischio.»
 
*
 
Jorie non sa cosa aspettarsi.
Il signor Des è in silenzio da più di dieci minuti e, nascosto da quella bizzarra frangia bionda, un cipiglio indecifrabile la rende stranamente nervosa.
Il taccuino che l’ha tormentata per un mese dista solo un metro da lei, appoggiato sulle gambe accavallate dello psichiatra e aperto proprio nel mezzo.
Non si rende nemmeno conto di avere la bocca asciutta mentre attende a labbra schiuse la reazione del signor Des.
Parole.
Le aveva semplicemente chiesto di scrivere delle parole e lei, come una bambina capricciosa che per settimane si rifiuta persino di provarci, ora se ne esce con tutt’altro.
Forse si arrabbierà. Forse le dirà che il programma non sta funzionando, che le settimane rimanenti non potranno sicuramente fare miracoli e che se continuerà a non farsi aiutare si ritroverà sperduta e vulnerabile nel bel mezzo di una New York distrutta.
Il signor Des chiude il taccuino e Jorie stringe le maniche del maglione.
Lui alza il capo e si toglie con un gesto posato le piccole lenti dalla punta del naso.
Le sorride e fa un cenno col capo, soddisfatto.
Allunga un braccio e la invita a riprendersi il taccuino: «Molto più di quello che mi sarei mai aspettato, Jorie.»
Lei si morde un labbro e apre il taccuino, scorrendo le pagine fino al motivo che non le aveva concesso più di due ore di sonno la notte precedente: i tratteggi approssimati e le sfumature realizzate maldestramente con i soli polpastrelli delineano il volto di Yuri. Yuri, in un sorriso che pensava le sarebbe stato impossibile replicare, mentre stringe tra le mani il regalo di Steve.
La felicità di quei momenti l’aveva profondamente scossa, tanto da allentare la morsa di un muto dolore che da troppe settimane le impediva di scavare oltre la coltre di quel silenzio opprimente. Il timore di stringere un pennello tra le dita, di permettere a quel gesto di gettarla in una tormenta di ricordi troppo dolorosi e di riscoprire emozioni che supplicavano di poter esser liberati da una scia di colore, erano crollati di fronte alla genuina felicità di un bambino. E averla vissuta così da vicino, intrappolata tra risate che le avevano letteralmente accarezzato l’anima, le aveva concesso di tendere una mano alla Jorie di cui si era dimenticata, la Jorie della sua New York, la Jorie di Reene, la Jorie di un folle sogno che si era frantumato sotto il peso delle macerie.
Quella bozza improvvisata, sicuramente imprecisa e sporca, era nata da una forza che non si era data il tempo d’interrogare; l’aveva semplicemente accolta, si era concessa una gentilezza che da tempo sdegnava. Una gentilezza riscoperta grazie ai gesti di un Soldato che pensava di odiare, alla premura che aveva assaporato tramite semplici sorrisi e all’accortezza di silenzi confortevoli.
Si ritrova a sorridere, nonostante il dolore ancora vivo.
Il signor Des lo coglie, quel dolore, ma i suoi occhi le dicono che va bene così, che non c’è fretta, che crede profondamente in quell’inaspettato spiraglio di luce.
E per la prima volta, ci crede anche Jorie.
 
*
 
«Se non ti piace puoi tranquillamente dirlo, ma sappi che sono abbastanza permalosa.»
Steve alza un sopracciglio guardando Jorie oltre il foglio che stringe tra le mani.
Scorge uno sguardo di sfida sbucare dal bordo della tazza fumante e si chiede se tutte quelle tisane ai frutti rossi non le stiano rovinando lo stomaco.
«Non hai mai pensato di cambiare gusto?»
«Rogers, non cambi argomento.»
Steve alza una mano in segno di resa, ma non smette di guardarla.
Quel paesaggio africano ormai ce l’ha impresso negli occhi e si stupisce di come lei non riesca nemmeno a rendersene conto.
Le piacerebbe punzecchiarla ancora un po’ e tenerla sulle spine, ma l’unica cosa che riesce a fare è lasciarsi scappare una risata incredula mentre scuote la testa: «Stavo giusto per chiedertene altri dieci identici.»
 
*
 
Non sa perché l’ha fatto.
Pensava di essere pronta e ora si ritrova annientata tra le rovine della sua vita passata.
Seduta a gambe incrociate sul letto, guarda i fogli consunti sparsi sul lenzuolo. Gli angoli bruciati, la carta ingrigita, i tratteggi e i colori sfigurati dalla polvere ormai impressa nelle fibre.
Schizzi che l’avevano accompagnata in quel giorno di morte e distruzione, ultimi testimoni di tutto ciò che aveva terribilmente perduto.
L’ultimo sguardo su Reene: un ricordo ancora troppo doloroso per poter essere affrontato ed esorcizzato con calde lacrime.
Rimane immobile circondata da quelle spine, incapace di reagire alla pressione che avverte in mezzo al petto.
Percepisce da lontano dei colpi. Forse sono le esplosioni di quel giorno, gli scontri mortali tra le macchine, il crollo delle insegne. Le sembra di percepire persino il ronzio che l’ha perseguitata per ore intrappolata tra quelle macerie.
Le mani iniziano a fremere, ma all’improvviso la bolla si frantuma e Jorie torna a vedere i colori della sua stanza: le pareti lilla, le luci di New York che illuminano la notte oltre la vetrata, il lenzuolo bianco, il vaso di ceramica giallo sulla scrivania, il maglione rosso abbandonato sulla poltrona accanto al letto.
Ma soprattutto, si accorge della porta spalancata e di due occhi cristallini che la scrutano preoccupati mentre la bocca del Capitano si muove senza emettere suoni.
Lo guarda con occhi sgranati, incapace di interrompere quel ronzio.
Steve si avvicina con due falcate e le poggia le mani sulle spalle, scuotendola leggermente.
«Jorie!»
Un’esplosione di rumori la travolge con prepotenza e la trascina lontano da quel falso presente, un tempo senza coordinate che sembra albergare tra le pareti del suo corpo in maniera immutabile.
Si volta verso le luci di New York e accoglie con sollievo i clacson provenienti dalle strade trafficate. Torna a percepire anche il suo stesso respiro, stranamente affannato, e le conversazioni lontane che aleggiano tra i corridoi del reparto.
E infine, la voce di Steve. È a un palmo da lei, le mani a incorniciarle il viso e un velo di preoccupazione ad adombrare il suo sguardo. È confuso e spaventato, tanto quanto lei.
«Jorie, ti prego, parlami.»
Chiude gli occhi e mentre china il capo nel tentativo di ritrovare il controllo del respiro, sposta una mano sulle dita ora strette alla sua spalla con dolce fermezza.
Si concentra sulla sensazione di quel contatto, come le ha insegnato il signor Des. Non è la solita strategia: molto più spesso si ritrova a nominare ad alta voce i colori della sua stanza, fino a quando non sente di essere tornata al sicuro, nella sua realtà. Ma in quel momento, il contatto umano che le era tanto mancato riesce a fornirle un appiglio sorprendentemente più solido.
«Sto bene», mormora dopo infiniti minuti di silenzio.
Non si è nemmeno accorta che nel frattempo il materasso si è piegato sotto il peso del ginocchio di Steve, portandolo ad una vicinanza con cui Jorie deve ancora imparare a prendere le misure.
Lui, potendo nuovamente incontrare quelle iridi d’ambra, si scioglie un briciolo, avvertendo quell’improvviso stato d’allarme abbandonare le spalle, le braccia e l’espressione tesa.
Jorie abbassa lentamente la mano, lasciando libera la presa del Soldato. Ora che si rende realmente conto della situazione, percepisce una fastidiosa punta d’imbarazzo e un timore mai provato.
Si era sempre assicurata di celare con maestria quella sua vulnerabilità, schivando ogni parola che potesse innescare l’esplosione e ogni contatto che potesse ingenuamente portarla a mostrare il fianco. Detestava l’idea di suscitare la compassione altrui e odiava ancor di più il pensiero che qualcuno potesse vedere qualcosa che non apparteneva a nessun’altro, se non a lei.
Non avrebbe mai venduto la sua storia a famelici occhi incuriositi.
Ma ciò che ora sembra terrorizzarla – così piccola sotto lo sguardo del Capitano – prende la forma di una fragilità che prima di allora aveva solo sdegnato.
Non può cedere. Non può farlo. Venderebbe parte della sua solida e inscalfibile apparenza, riconoscendo ad altre mani il potere di toccare quelle ferite e scavare nelle sue paure.
E, tuttavia, quel bisogno di cui non aveva mai conosciuto il sapore reclama di essere ascoltato.
Si sofferma su quella mano che ancora non la lascia, su quel silenzio che l’avvolge con premura e trema quando si rende conto di aver trovato occhi a cui non voler nascondere la sua storia.
Le ultime resistenze vengono sbaragliate dal sussurro di due semplici parole: «Sono qui.»
A quel punto sa di non poter più fare niente, se non concedersi briciole di silenzio nel tentativo di ordinare pensieri e parole.
Steve abbassa lentamente la mano, avvicina la poltrona alle sue spalle e si siede lentamente, sfiorando con le ginocchia il bordo del materasso. Jorie sa che non vuole pressarla, che vuole concederle tutto il tempo di cui ha bisogno e restituirle lo spazio che le basta per sentirsi sicura: ancora una volta quell’inspiegabile sensibilità le ricorda quanto si era sbagliata giudicando quel bizzarro Capitano.
«Dopo tutto questo tempo ti sarai chiesto perché sono ancora qui. Cammino, respiro regolarmente, nessun osso rotto, nessuno stato di convalescenza in seguito a interventi importanti.»
Lui abbassa per un attimo lo sguardo, mostrandole quante volte si fosse effettivamente posto quella domanda senza riuscire a capire.
«Quando sono stata trasportata in ospedale ero parecchio ammaccata, ma soprattutto confusa. Non vedevo e non respiravo altro che polvere, incapace di ricordare nulla se non un buio soffocante trafitto da qualche spiraglio di luce troppo gracile. Vedevo volti che mi parlavano guardarmi dall’alto, ma non ero in grado di percepire alcuna parola, solo un fastidioso ronzio, lo stesso che mi sembrava di sentire da ore. Della prima settimana in ospedale ricordo giusto il suono dei miei parametri vitali provenire dal monitor accanto al letto. Il vero dolore arrivò solo dopo.»
Jorie chiude gli occhi, credendo per un attimo di non farcela, di essersi sbagliata.
Poi una mano stringe la sua abbandonata sul lenzuolo. Abbassa lo sguardo e si ritrova a pensare con ironia a quanto quelle dita ora sembrino uno scudo attorno alla sua fragilità.
«Lo stesso medico mi aveva riportato la notizia più volte, ma era come se non riuscissi a trattenerla più di due minuti. Continuava a scivolarmi dalle mani come sabbia. Poi, una delle prima sere in cui sono riuscita ad alzarmi dal letto, mi sono avvicinata alla finestra della mia vecchia stanza e una New York distrutta mi ha colpito dritta in mezzo al petto, bloccandomi il respiro. In quel momento non avevo più bisogno che qualcuno si presentasse con aria mesta a raccontarmi ciò che era accaduto: ricordavo tutto perfettamente. Potevo rivedere con spaventosa chiarezza lo squarcio del cielo sulla mia testa, paralizzata nel bel mezzo di un marciapiede su cui si era appena ribaltata una macchina, esplodendo. Dopo attimi di cieca confusione, mi ero ritrovata a correre a perdifiato trascinando per mano mia sorella Reene. Non sapevamo dove andare. Nelle strade governava il caos più totale e non sembrava esserci posto in cui cercare riparo. Ero terrorizzata, ma non potevo lasciare che mia sorella vedesse quella paura, così continuai a correre dicendole che avrei trovato un posto in cui nasconderci. Sotto i porticati di una via vidi all’improvviso le porte spalancate di una vecchia libreria, parzialmente nascosta dagli scontri che stavano assediando le strade principali. Pensai che potesse tenerci al sicuro, almeno fino alla fine di quell’incubo. Mi precipitai verso l’entrata. Poi l’esplosione e il crollo.»
Le sue dita stringono la mano di Steve ancora più forte e quegli occhi cristallini sono lì, fermi nei suoi, a impedirle di cadere.
«Il dolore, la paura, le immagini e i suoni di quei brevi istanti rimangono tutt’ora inaccessibili. L’unica cosa che ricordo è di aver aperto gli occhi immersa nella polvere, circondata dal buio delle macerie che probabilmente si sarebbe presto trasformate nella mia tomba. Riuscivo a muovermi giusto strisciando grazie allo spazio che alcune assi avevano creato nel bloccare la caduta dei massi, ma non vedevo comunque nulla. Urlai il nome di mia sorella in preda al panico. Nessuna risposta. Continuando a strisciare e tastando il terreno, le mie dita strinsero all’improvviso qualcosa di morbido come seta. Capii subito. La poca luce che filtrava dai massi illuminava quel poco che bastava dei capelli dorati. Chiamai di nuovo il suo nome, spostando le mani sul suo viso e riconoscendo la forma a cuore delle piccole labbra, il naso a punta e la familiare cicatrice dietro l’orecchio destro. Sollevai la sua testa per appoggiarla al mio petto e fu in quel momento che vidi il sangue. I suoi capelli erano intrisi di rosso carminio e le sue labbra non emettevano il più tenue respiro. Iniziai a singhiozzare e la strinsi a me, abbracciandola come una bambola di pezza in attesa della mia stessa fine.»
Jorie trema, ma non piange. I suoi occhi sono spenti, troppo stanchi per ospitare altre lacrime.
Steve ha gli occhi lucidi. Piega il capo fino alle loro dita intrecciate e bacia il dorso della mano di Jorie, mormorando un “mi dispiace” spezzato.
Lei lo guarda raccolto in quel gesto immenso nella sua semplicità e non può far altro che ringraziare chiunque o qualunque cosa le abbia concesso di poter condividere la sua storia con lui, lì, in quel momento.
Si sdraia lentamente, appoggiando la testa sul cuscino e guardando il viso di Steve mentre si solleva senza lasciarle la mano.
«Quando si avvicinò il giorno delle mie dimissioni, tentai di fare qualcosa che stavo covando ormai dal momento in cui aveva riappreso della morte di Reene. Il pensiero di tornare alla vita là fuori, in una New York sconosciuta che si era macchiata del sangue di mia sorella, mi gettò nel punto più basso in cui potessi arrivare. Quel dolore cieco raggiunse il culmine e mi portò ad aprire in una notte gelida le finestre della mia vecchia stanza, al ventesimo piano. Mi fermò appena in tempo un infermiere.»
Si blocca quando sente Steve mormorare un “Cristo” strozzato.
«Ad oggi sono ancora qui per completare il mio percorso con gli psicologi e gli altri professionisti del reparto di Salute Mentale. Partecipo alle sedute di gruppo con altri superstiti che sono stati irrimediabilmente segnati e trasformati dalla battaglia, frequento due volte a settimana le sedute psichiatriche e partecipo ad altre attività organizzate. Manca ancora del tempo, ma il signor Des è piuttosto ottimista ultimamente. Ovviamente dopo questa temporanea ospedalizzazione non posso pretendere di tornare come nuova e vivere come se nulla fosse una vita da zero. Temo che il percorso sarà ancora lungo, una volta là fuori. Ne ho una paura fottuta, ma va bene così.»
È rannicchiata in una posizione fetale mentre Steve le stringe ancora la mano, seduto sul bordo della poltrona e proteso sul materasso.
Vorrebbe solo chiudere gli occhi, lasciarsi scappare qualche lacrima. Forse il Soldato non è in grado di comprendere quel dolore desertico, la mancanza di un pianto che sembrerebbe così naturale, così umano. Se l’è chiesto più volte, Jorie, se Reene non si fosse portata con sé anche la sua umanità, la sua capacità di provare calore e vedere bellezza. Se n’era quasi convinta, ma pochi colori e un banale pennello le avevano dimostrato il contrario in quelle notti.
Le risate di Yuri, i libri della signora Mildred, le tisane ai frutti rossi che Steve non le fa mai mancare, l’abbraccio di Norma in cambio di un paesaggio africano, i canti a squarciagola di Vickie mentre insegna al Soldato di un altro tempo tutte le canzoni del momento, le sue mani grondanti di tempera tra i capelli biondi di Steve: Jorie non riesce a non vedere il bello di tutto questo.
E, rannicchiata tra quei ricordi dolorosi, non può non sentire la potenza di quella bellezza quando le labbra di Steve si posano sulla sua fronte, leggermente inumidite per colpa di una lacrima scappata e corsa fino al mento. Sente il suo respiro coccolarla mentre la sua mano si infila tra i capelli alla base della nuca e con il pollice le accarezza dolcemente una guancia.
Rimangono così per un tempo indefinito e Jorie si lascia cullare da quel calore fino a quando non chiude lentamente gli occhi, sentendosi finalmente al sicuro.
 
 
Quella notte Steve non torna a casa.
Norma si avvicina alla porta socchiusa della stanza di Jorie per controllare che sia tutto a posto.
Sorride quando vede due mani intrecciate e il Capitano Rogers – spoglio di tutto ciò che possa minimamente ricordare un soldato in battaglia – addormentato su una poltrona decisamente troppo scomoda.
Afferra la maniglia e chiude la porta.
 
*
 
 «Ma è terribile»
Steve non trattiene un’espressione disgustata mentre restituisce l’infuso a Jorie.
«Tu sì che hai dei pessimi gusti, lasciatelo dire.»
Gusti o non gusti, non toccherà mai più una tisana ai frutti rossi in tutta la sua vita.
Quella sera ci sono loro due nel salottino, un divanetto voltato verso l’ampia vetrata e due scaffali di libri a nasconderli dagli sguardi di infermieri incuriositi. Le gocce di pioggia tratteggiano ombre scure sui loro volti, disegnando lacrime nere ben lontane dalla spensieratezza di quei momenti.
«Fuori di qui ti offrirò il frappuccino migliore di tutta New York e abbandonerei le tue insipide tisane per il resto dei tuoi giorni.»
«Steve, so che per te il frappuccino potrebbe ancora essere una scoperta febbricitante», inizia lei con tono canzonatorio mentre lascia la tazza sulla mensola della libreria e riprende la matita in mano, «ma io ci sono cresciuta a cupcake e frappuccini al caramello.»
Lui, di tutta risposta, le dà una leggera gomitata e una linea decisamente stonata compare sul volto che stava iniziando a prendere forma sul blocco da disegno.
Jorie alza gli occhi al soffitto mormorando imprecazioni che non fanno altro che incoraggiare l’ilarità di Steve.
«Mi chiedo quando il resto della combriccola verrà a prenderti per le orecchie concedendomi la pace che merito», rimbecca di nuovo lei con finto tono esasperato, «pagherei qualsiasi cosa per vedere quell’enorme tizio verde trascinarti per i corridoi e riportarti al dovere, Capitano.»
Steve solleva appena l’angolo delle labbra, tradendo un accenno di amarezza.
Guarda Jorie di sottecchi: sa che l’ha fatto per un motivo. Una battuta che non nasce dal caso, ma dal bisogno di sapere, di capire quando se ne andrà, quando quelle serate insieme diminuiranno fino ad esaurirsi completamente.
Steve lo sa fin troppo bene e avverte anche in lei una muta consapevolezza.
«Sì, penso di essermi preso una vacanza immeritata e decisamente troppo lunga.»
«Devi essere proprio fulminato per divertirti a passare il tempo libero in un ospedale.»
Lui sorride scuotendo la testa. Si guardano per secondi che sembrano infiniti: entrambi sanno ed entrambi vogliono risparmiarsi saluti e silenzi scomodi.
«Tra una missione e l’altra tornerò a New York solo per punzecchiarti, ma sappi che se ti troverò a gestire una tisaneria me la filerò di nuovo in ospedale.»
Jorie scoppia a ridere, così come le è capitato decisamente troppo spesso in quelle ultime settimane.
«Ok, più plausibile vederti su qualche cartellone pubblicitario e scoprire di essermi perso un bel po’ di brillanti mostre d’arte che in un qualche modo dovrò farmi perdonare», considera lui per poi beccarsi uno sguardo decisamente scettico.
«Penso che questo sarà l’ultimo dei tuo problemi, Steve», assicura Jorie cercando ancora di cancellare l’indesiderata sbavatura dal suo disegno, «non avrai nessuna esposizione da recuperare.»
«Ma continuerai a dipingere, no?»
Lei sospira, spostandosi una ciocca castana dietro l’orecchio.
«Sì, alle due di notte, aspettando la sveglia per un lavoro che ancora non conosco e per abbellire le umili pareti di un appartamento che temo avrà bisogno di una ristrutturazione. Non di certo per una New York che potrebbe farsene poco e niente.»
Steve la vede bloccarsi un attimo prima di ricominciare a tratteggiare sul foglio. Si perde per minuti che lui non è in grado di spezzare. Vorrebbe dirle qualcosa, ma pensa che qualsiasi parola potrebbe risultare fuori luogo. Forse potrebbe semplicemente avvicinarsi e invitarla a poggiare la testa sulla sua spalla, ma certi timori a cui non ha ancora voluto dar voce lo frenano.
«Sognavo di aprire una scuola di pittura prima del disastro.»
Lui alza di scatto lo sguardo, puntandolo sul profilo di Jorie.
«Quando completai il master alla New York Academy of Art io e mia sorella Reene rimanemmo sole. Non avevamo molti soldi e, nonostante in lei stesse sbocciando un talento da togliere il fiato, non potevo pagarle alcuna lezione o l’iscrizione ad un qualche istituto privato. In più, per mantenere entrambe, iniziai a lavorare di giorno in un negozio d’abbigliamento e di notte in un pub, privandomi di tutto il tempo per poterla seguire da vicino. Da lì nacque quell’idea folle. Se avessi messo da parte abbastanza, sarei riuscita ad aprire una piccola scuola per ragazzi appassionati. L’avrei fatto principalmente per Reene, ma al tempo stesso sarei riuscita a lavorare della mia passione e a dare un’opportunità a qualche altro mezzo scapestrato innamorato dell’arte.»
«Jorie ma è perfetto!» esclama Steve allargando le braccia e avvicinandosi entusiasta, «puoi ancora farlo, perché cambiare piani?»
«Steve, ho perso tutto e devo ricostruire la mia vita da zero. Non ho né le risorse né il tempo per poter inseguire uno stupido sogno», ribatte lei chiudendo il blocco e passandosi una mano tra i capelli. Il palmo premuto sulla fronte leggermente inclinata. «Semplicemente non posso, nonostante gliel’avessi promesso. E cazzo, questa promessa brucia ogni giorno sempre di più.»
Si lascia andare in un sospiro esausto, per poi voltarsi titubante verso Steve. Lo guarda fisso negli occhi: «E se in questo modo la stessi tradendo? Se la stessi lasciando andare? Se mi stessi scordando dei suoi sogni? Della sua felicità?»
Le sue labbra tremano e nonostante gli occhi lucidi, Steve sa che non piangerà. Senza neanche pensarci l’abbraccia, percependo solo in quel momento quanto sia piccola e fragile.
«Non devi neanche minimamente pensarlo. Lei sarà sempre parte di te e questa è una certezza che nessuno potrà mai levarti.»
«L’ho lasciata indietro, Steve. Io sono qui, senza più nulla da dare. Ho solo la prospettiva di una vita di cui non potrò essere altro che cenere. E lei? Aveva solo tredici anni, un mondo da vedere e una vita da rendere bellissima. Quel dono di cui mi ero presa la responsabilità, e ora? Lo getto nel nulla, insieme a lei. Perché sono un fottuto mostro. La verità è che non dovevo essere io a ricevere questa seconda possibilità.»
Lui le prende il viso tra le mani e punta gli occhi dritti nei suoi, terribilmente impauriti. Colpevoli.
«No, Jorie, no. Tu hai combattuto fino all’ultimo per lei e ora hai la possibilità di continuare a onorarla. Come? Vivendo, Jorie. Vivendo. Devi uscire da questo posto cazzo, prendere in mano la tua vita e non permettere a nulla di cancellare anche il suo ricordo. Solo tu hai il potere di farle vivere ciò che merita attraverso il tuo amore, il tuo coraggio, la tua arte. Non arrenderti Jorie, ti prego. Lei farebbe di tutto per abbattere le mura di questo ospedale e vederti là fuori, di nuovo innamorata della tua New York.»
É terrorizzato mentre cerca di imprimerle quelle parole con l’affetto incomprensibile e smisurato che è sbocciato senza nemmeno rendersene conto.
Lei trema e chiude gli occhi con forza, come se stesse cercando di resistere a qualcosa che ormai non ha più le forze di combattere. Poi scivola dalla sua presa, ma solo per avvicinarsi di più e nascondersi tra le sue braccia.
Jorie aveva imparato a non temere la sua vicinanza, a lasciare che Steve sfiorasse e poi toccasse il suo dolore con cautela, ma non si era mai data la possibilità di cercarlo, di mostrare quanto avesse bisogno di quel contatto, del suo silenzio, della sua premura.
Quel gesto, così inaspettatamente naturale, gli blocca per un attimo il respiro.
«Mi manca da morire, Steve. Da morire.»
Lui la stringe più forte quando quelle parole si riversano spezzate, strozzate. La sente accoccolarsi al suo petto e decide che non la lascerà fino a che il suo respiro non sarà tornato regolare, fino a quando, una volta nella sua stanza, non la sentirà dormire beatamente, libera da incubi e tormenti.
 
*
 
Yuri è aggrappato alla felpa di Steve e non ha ancora smesso di inondarlo di domande mentre Norma cerca di infilarlo a letto invano. La crocchia in cui sono raccolti i capelli neri penzola leggermente di lato mentre sbuffa esausta. Jorie ride tra sé e sé, pensando che Yuri potrebbe tranquillamente portare all’esaurimento un’intera equipe di infermieri.
«Ma se quando torni io non sono più qui come fai a trovarmi?» domanda il piccoletto passandosi la manica del pigiama sotto il naso.
«Stai parlando con Capitan America», sospira Norma poggiando entrambe le mani sui fianchi e inclinando leggermente il viso dalla pelle color ebano, «direi che possiamo dargli un pizzico di fiducia.»
Steve gli posa le mani sulle spalle ossute: «Tornato a New York sarai in forma talmente smagliante che potrò portarti a Central Park e farti provare il mio scudo. Ma nel frattempo devi fare tutto quello che dicono i medici e smetterla di fare i capricci prima di andare a riabilitazione. Ci stai?»
Gli occhi color nocciola di Yuri iniziano a brillare alla parola “scudo”.
Una raffica di “sì” inizia a vorticare per la stanza tra le risate di Steve e Jorie.
Poi il Capitano gli dà un bacio sulla fronte e si allontana scompigliandogli i capelli.
Norma accoglie l’abbraccio di Steve e mormora un “grazie” mentre gli lascia una carezza materna sulla guancia.
Pochi attimi dopo Jorie si ritrova a camminare accanto al Soldato verso l’uscita.
«Promettimi che nel frattempo proverai altri gusti di tisana.»
«Sissignore.»
«E che mi dipingerai qualcosa, qualsiasi cosa.»
«Sissignore.»
«E che scriverai almeno una parola sul tuo taccuino.»
«Mh.»
Si volta con sguardo intimidatorio mentre continuano a camminare.
«Sissignore.»
«E che quando mi presenterò alla tua porta con due frappuccini enormi non farai mezza storia.»
«Tisana no?»
«Scordatelo.»
Si bloccano entrambi, contemporaneamente. Guardano la porta girevole che getta sulla strada trafficata, ma i clacson dei taxi li raggiungono senza sfiorarli realmente.
«Nessun saluto strappalacrime soldato.»
Lui si volta a guardarla con un sorriso sornione: «E che bisogno c’è? In men che non si dica invaderò il tuo appartamento per buttarti giù dal letto e trascinarti a fare jogging fino a che non stramazzerai a terra.»
Lei incrocia le braccia trattenendo una risata e dipingendo al suo posto una maschera di sfida: «Farò perdere le mie tracce brillantemente per sfuggire a questa sciagura.»
Steve la lascia bollire nella sua convinzione regalandole un’espressione che sembra già sapere tutto.
Allarga le braccia iniziando a indietreggiare: «Lo sai già, sono un tipo testardo. E in più sono Capitan America. Potrai anche fuggirtene in Alaska: busserò al tuo igloo alle otto in punto. Jogging sulla neve?», le fa un occhiolino da lontano, «non vedo l’ora!»
 
*
 
Cinque mesi dopo
 
È domenica mattina e Jorie sorseggia distrattamente il caffè mentre segna sul calendario l’appuntamento con la dottoressa Monroe: martedì ore 19.00
È stata dimessa dall’ospedale da ormai quattro mesi e ora vede settimanalmente la sua nuova psicoterapeuta in uno studio privato. Ad ogni modo, nel cassetto accanto al letto tiene ancora il taccuino del signor Des: tra le pagine qualche schizzo ad acquarello e una manciata di parole. Le ultime due settimane del suo soggiorno in ospedale si erano rivelate a dir poco sorprendenti e il signor Des ne era rimasto sinceramente colpito.
Tra quelle immagini e quelle lettere c’è anche il nome di Steve. Dopotutto è stato anche merito suo se Jorie si è aperta alla bellezza di quel mondo che credeva ormai sepolto dalle macerie.
Erano passate settimane prima che riuscisse a prendere effettivamente le misure con la sua nuova vita: un monolocale poco spazioso, un pianerottolo tenuto costantemente in ostaggio dal passeggino gemellare dei coniugi Garcia, i doppi turni a lavoro e la finestra della piccola cucina che getta direttamente sull’appartamento dell’edificio opposto – un teenager in piena fase di ribellione e le sessioni indesiderate di musica punk alle undici di sera.
Jorie, comunque, non può lamentarsi. Sì, è vero, le è capitato più volte di calpestare accidentalmente qualche tela lasciata accanto al frigorifero o abbandonata pericolosamente ai piedi del letto, ma tutto sommato si regge in piedi e ha imparato a convivere con la malinconia che le aleggia in fondo al petto. Qualche volta la sente stringere più forte e finisce per addormentarsi alle cinque della mattina, ma le sedute di psicoterapia e i farmaci la aiutano.
È anche tornata ad amare i colori di New York: il giallo dei taxi quando si affretta per raggiungere il negozio d’abbigliamento in cui lavora; il blu cobalto della libreria sul lato opposto della strada, quella in cui si rifugia ogni domenica mattina; il verde di Central Park e il rosso dei palloncini che i bambini si lasciano scappare mentre corrono per mano con papà; il lilla della tazza da cui sorseggia il frappuccino del sabato pomeriggio, preparatogli dal ragazzo che le ha scritto il numero su un fazzolettino.
Lasciandosi graffiare il viso dai raggi del sole, Jorie si ritrova a pensare che anche la possibilità di cullarsi pochi minuti in quel calore mattutino ha un valore inestimabile.
Ha imparato ad apprezzare la bellezza delle piccole cose e vorrebbe almeno avere l’occasione di ringraziare la persona che l’ha convinta a farsi insegnare. Probabilmente non accadrà molto presto, forse mai. La verità è che si sente terribilmente in debito, ma sa anche che lui la pregherebbe di non ringraziarlo. Le direbbe che è orgoglioso di lei, che ha fatto tutto da sola, che ha dimostrato a sé stessa il coraggio che lui aveva intravisto fin dal primo giorno.  
Si riscuote lasciando la tazza di caffè ancora mezza piena nel lavandino e s’infila velocemente una giacca di jeans, pronta a perdersi tra gli scaffali della libreria blu cobalto.
Apre la porta del suo appartamento e prima di dirigersi verso le scale, nota un cartoncino color panna ai suoi piedi. Lo prende in mano: L’angolo tra Colombus Avenue e West 81st Street.
Lo rilegge altre cinque volte, ma nessun campanellino arriva a soccorrerla.
Forse non è nemmeno indirizzato a lei.
Ma l’hanno lasciato qui, sulla soglia del mio appartamento.
Lo rigira tra le dita e lo picchietta sul palmo della mano, indecisa.
Sospira e rimanda al pomeriggio l’appuntamento fisso con la sua libreria color cobalto.
 
Arriva all’incrocio segnato dall’indirizzo.
Si guarda intorno confusa, vedendo davanti a sé solo i primi accenni di un immenso Central Park. Non pensa di riconoscere alcun volto familiare, così si volta. Dall’altra parte della strada, proprio di fronte a lei, trova un’insegna elegante, formata da semplici lettere color avorio stazionate sulla sommità di un locale che sembrerebbe deserto. Si avvicina ipnotizzata da quelle parole, incapace di comprendere come sia possibile.
Ha il cuore incastrato in gola e la testa è solo un turbinio di pensieri che non hanno la minima consistenza.
Si ritrova al cospetto di una porta a vetro a doppia anta e all’interno è in grado di scorgere dei cavalletti, dei tavoli bianchi su cui è disposto un numero spropositato di tele, tante piccole sedie sparse per l’intero locale e scatoloni pieni di materiale da pittura. Non c’è nessuno all’interno, un luogo ancora vergine che attende di prendere vita.
Jorie inizia a tremare, incapace di reagire in altro modo.
Torna a guardare le parole dell’insegna: Reene Art Studio.
È terribilmente confusa, persa.
Poi lo vede, nel riflesso della vetrata.
È alle sue spalle, indossa un cappello dalla visiera bassa ma l’esplosione nel petto di Jorie basta per riconoscerlo senza un secondo pensiero.
È stato lui.
E dentro di lei è il caos totale: una miscela letale di emozioni, ricordi, dolori, incredulità.
Non sa come gestire quel tripudio di sensazioni, pensa che potrebbe addirittura svenire.
Quella davanti a sé è una piccola scuola di pittura, uno studio che porta il nome di Reene e ne conserva l’essenza con tutto ciò che lei, in primis, avrebbe desiderato.
Jorie è ancora immobile davanti al sogno che non pensava sarebbe mai riuscita ad afferrare. Le braccia corrono abbandonate lungo i fianchi e poi avverte uno spostamento d’aria accanto sé.
Pochi istanti dopo delle dita familiari – il tocco che le era mancato così tanto – si intrecciano silenziose alle sue.
Si guardano attraverso il riflesso della vetrata a pochi passi da loro.
Per la prima volta Jorie lascia cadere una lacrima. Le solca il viso per poi scomparire nelle trame delle sue labbra, le stesse labbra che si aprono in un sorriso che non pensava sarebbe mai più riuscita ad ospitare tra le pieghe del suo viso. Quella gioia pura, così forte nella sua semplicità. Qualcosa che non riesce a trattenere, così come le lacrime, finalmente libere di scorrere, libere di esorcizzare delle paure che in quel momento, grazie al suo Soldato, sono state messe a tacere.
È riuscito a regalarle quelle lacrime, quella felicità, la possibilità di mantenere la sua promessa, il futuro che Reene avrebbe meritato, il sogno che Jorie aveva rincorso con fatica.
Lui le stringe la mano e le accarezza il dorso con la solita dolcezza, la stessa premura con cui ha accolto la sua storia, pulendola delle macerie e gettandovi la luce.
Una luce di cui ora Jorie non può più fare a meno.
 
 
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Citazioni:
  • L’ombra del vento, Carlos Ruiz Zafòn.
  • Le avventure di Tom Sawyer, Mark Twain.
   
 
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