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Autore: Adeia Di Elferas    27/04/2021    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Il lunedì appena passato, ossia il 2 agosto 1501, re Federico aveva abdicato, a Napoli, in favore di re Luigi XII. Il francese, a mo' di risarcimento, gli aveva ceduto il ducato di Angiò, in Francia, e aveva dato ordine, intanto, ai suoi di entrare in Napoli e far capire a tutti chi deteneva ora il comando.

Tutto, dopo la fuga a Ischia dell'Aragona, sembrava semplice, per il Valentino e per i francesi. Si poteva dire che l'unica pecca, in tutto quel teatrino, era stata la reazione di Prospero Colonna, che, scomunicato e accusato di fellonia per aver preso le armi contro i cristianissimi re di Francia e Spagna, aveva trattenuto sei galee inviate a Napoli da Ferdinando il Cattolico per riportare in patria le due regine Giovanna, vedova l'una di Ferrante e l'altra di Ferdinando d'Aragona. Tutto, però, si era risolto per tempo, non andando nemmeno a offuscare l'ingresso trionfale del Borja e dell'esercito.

Cesare aveva voluto vedere in quella sfilata magniloquente una sorta di rivincita: ciò che non aveva potuto fare in Romagna, perché troppo provato dal lungo assedio e troppo poco amato dalle truppe, avrebbe fatto a Napoli.

In effetti la parata ebbe un effetto corroborante sui soldati e i napoletani, apparentemente già dimentichi del lungo governo aragonese, apparivano in festa e già intenti a ingraziarsi i nuovi padroni, nella speranza di ottenerne benefici, favori e protezione.

Fu quindi con grande soddisfazione che, dopo aver pranzato con pietanze degne di un re, Cesare si era messo, satollo e soddisfatto, steso sul letto di piume che campeggiava in mezzo alla stanza che si era scelto nel palazzo più bello di Napoli, uno di quelli presi agli Aragona.

L'uomo si era slacciato le brache e il giubbone e, gli occhi mezzi chiusi, cercava di non pensare alla calura estiva guardando il soffitto affrescato. Vinto dal caldo, alla fine si era cavato tutti gli abiti, restando nudo, a braccia e gambe larghe, supino sul copriletto ricamato.

La sua mente aveva smesso, per un po', di pensare a sua sorella Lucrecia e alla Tigre, che era riuscita a scappargli di mano non appena lui si era allontanato da Roma.

Si era addormentato, complice anche il troppo vino bevuto per festeggiare, ma si era risvegliato poco dopo perché qualcuno bussava con insistenza alla sua porta.

Con una bestemmia, che gli uscì di bocca mezza in italiano e mezza in catalano, il Borja si mise a sedere, premendosi una mano sugli occhi e chiedendo chi lo stesse cercando.

Non capì bene la risposta, ma colse senza dubbio le parole 'problema' e 'Sanseverino'. Invocando, con toni poco eleganti, tutti i Santi del Paradiso, il Duca si infilò in fretta le brache e, mentre ancora faceva il nodo ai lacci, andò all'uscio e l'aprì.

Uno dei suoi servi personali gli spiegò che era successo qualcosa di increscioso e che era coinvolto Giovan Francesco Sanseverino. Malgrado il Valentino avesse fatto qualche domanda in più, per farsi spiegare meglio, l'altro non sapeva che dirgli di preciso, dato che il fatto era appena accaduto e in pochi sapevano come stessero davvero le cose.

“Dov'è adesso Sanseverino?” chiese il Borja, puntando gli occhi in quelli del servo, che rispose balbettando, impaurito dallo sguardo freddo del suo signore.

Tornando in stanza a vestirsi in fretta, il Duca di Valentinois ragionò rapidamente su come comportarsi. Era difficile, però, fare un piano lucido non sapendo che cosa fosse successo.

Vestito di tutto punto, ma in modo disordinato, per la fretta che ci aveva messo, il figlio del papa corse fino al castello, dove, gli era stato detto, Giovan Francesco teneva in ostaggio un uomo.

“Si può sapere chi è costui?” chiese, non appena si trovò davanti il prigioniero.

Il diretto interessato provò a dire qualcosa, ma, nel farlo, si trovò solo a sputare un dente rotto e del sangue. Il suo volto era irriconoscibile e solo un occhio riusciva a stare aperto e scrutare il Valentino. Due soldati lo tenevano per le braccia, ma davano più l'impressione di sorreggerlo, che non di impedirgli la fuga.

Il Sanseverino, ritto accanto alla sua preda, incrociò le braccia sul petto e precisò: “Costui è Marco Bragadin, mercante veneziano.”

Cesare si accigliò, cercando di ricordarsi se quel nome avesse una qualche importanza per lui. Nel momento stesso in cui si rese conto che non era così, fece una smorfia e guardò il condottiero.

“E..?” gli chiese, rendendosi conto, intanto, di quanto fossero preziosi e fini gli abiti del prigioniero, un chiaro segno che, in caso di bisogno, sarebbe fruttato una bella somma, grazie a un buon riscatto.

“E quindi è un mio diritto esercitare su di lui una rappresaglia, in modo che la mia vendetta nei confronti di Venezia sia finalmente portata a termine.” spiegò l'uomo, con semplicità.

Il figlio del papa ci mise qualche secondo a capire. O meglio, non capì del tutto, ma intuì che quando il Sanseverino ancora militava per gli Sforza di Milano, doveva aver maturato qualche credito nei confronti di Venezia, pensando che quello fosse il modo corretto per essere ripagato.

“Non sta a voi prendere certe decisioni – lo frenò il Borja, ascoltando, distrattamente, il rumore delle onde, fuori dal castello, segno tangibile di quanto il mare e Napoli fossero legati – anche perché se si sapesse, come sta già succedendo, rischiereste di mettere in cattiva luce il re di Francia con il Doge di Venezia.”

“Non potete impedirmelo.” si ostinò Giovan Francesco: “Avete permesso al Vitelli di far quel che credeva con Ranuccio da Marciano. Questo è solo un mercante...”

“Sarà il re a decidere.” tagliò corto il Valentino, che davvero non sapeva se permettere o meno al Sanseverino di procedere con il suo progetto: “E chiederò numi anche al Cardinale di Rouen.”

Dopodiché diede ordine ufficiale di lasciare in carcere Bragadin, ma di non permettere in alcun modo al milanese di avvicinarglisi o di mandare qualcuno dei suoi uomini al castello.

“Quando avremo una risposta del re, vedremo che fare.” concluse il Duca: “Per il momento, non farete assolutamente nulla. Non voglio che questa vittoria venga macchiata per colpa di un vostro capriccio.”

 

Caterina stava cominciano ad abituarsi alla sua nuova sistemazione. La sua stanza era stata ripulita e aveva preferito non far rimontare il baldacchino del letto. Aveva sistemato i suoi pochi abiti nella cassapanca, in cui aveva scoperto restavano solo un paio di vecchie lenzuola e un giubbone un po' rovinato, che presumevo fosse appartenuto a Giovanni.

Non aveva ancora osato uscire dalla villa, se non per prendere un po' d'aria giusto ai piedi dell'edificio, sentendosi sempre addosso lo sguardo curioso e infido del servidorame.

Anche i suoi figli si stavano abituando in fretta a quella nuova sistemazione, o, almeno, così le sembrava.

Sforzino stava trovando grande diletto a controllare, sistemare e suddividere i libri che si trovavano in ordine sparso nella villa. Non si trattava, in linea di massima, di tomi dal grande valore, ma per il quattordicenne ogni titolo era una promessa di qualcosa di nuovo da imparare e, se nel mezzo trovava qualche volume a tema teologico o filosofico, la sua eccitazione saliva alle stelle, tanto che, in alcuni momenti, quasi si dimenticava di mangiare pur di continuare nel suo lavoro.

Galeazzo, invece, era molto più interessato alle stalle e a rimettere in funzione una piccola rimessa che, a suo dire, sarebbe diventata una bellissima armeria, dove tenere il necessario per la caccia e, se la madre fosse stata d'accordo, anche qualche arma diversa per fare esercizio. In quei giorni, in più, il giovane si trascinava appresso Bernardino, interessato a tutta quella faccenda, anche se continuamente tentato di scappare e infilarsi nel bosco o cercare qualche paesello nei dintorni.

Caterina era felice di vedere che il maggiore teneva a bada il minore, ma capiva, dalla luce che attraversava spesso e volentieri gli occhi del piccolo Feo, che gli sforzi del Riario prima o poi sarebbero stati vani. Anche se lei stessa aveva già ricordato un paio di volte a Bernardino quanto fosse importante, in quel periodo, tenere un basso profilo, il ragazzino faceva orecchie da mercante e, mentre prometteva di fare il bravo, scrutava l'orizzonte, cercando già la via migliore per allontanarsi indisturbato, magari con il favore delle tenebre.

Non è che ci stesse male, in quella villa, anzi, ma sentiva sempre dentro di sé un'inquietudine, una spinta così profonda e urente da sapere che non sarebbe riuscito a starsene fermo ancora a lungo.

Bianca, invece, si stava dedicando in egual misura al fratello Giovannino – che, se non stava con la madre, stava con lei, apparentemente incapace di allontanarsi dalle due donne per lui più importanti al mondo – e alla preparazione di pozioni e rimedi per imbastire una piccola dispensa di comune accordo con la madre.

La Tigre non aveva fatto domande, quando la figlia, tra le prime misture che aveva voluto preparare, aveva scelto quella per evitare gravidanze indesiderate. Non aveva nemmeno chiesto se le fosse servita, nell'anno e mezzo che avevano passate lontana l'una dall'altra. Si era solo permessa di correggerle qualche piccolo errore di preparazione, rassicurandola sul fatto che quelle imprecisioni incidevano solo sul gusto e la digeribilità della pozione e non sulla sua efficacia.

La Riario aveva rinunciato quasi subito a farsi degli amici tra i membri della servitù. A differenza di come era successo a Ravaldino, lì al Castello – nome che la zona aveva preso dalle vicine castella, ossia un antico acquedotto romano – tutti i servi tenevano con lei e con gli altri membri della famiglia una rigida distanza che impediva di creare una qualsiasi familiarità.

Solo una certa Creobola a volte si spingeva oltre i limiti del formale, ma a Bianca piaceva poco, perché sembrava molto più istruita di quanto non ci si aspetterebbe da una serva, ma ben decisa a tenerlo nascosto. Non le sembrava nemmeno una cortigiana ridotta a cameriera, perché non era abbastanza bella per esserla. Non arrivava, secondo lei, neppure dalla strada, perché aveva modi troppo raffinati per aver trascorso la prima giovinezza in un bordello. Insomma, il suo aspetto, i suoi atteggiamenti, e la sua cultura creavano un insieme che la confondeva e non la metteva in alcun modo a suo agio.

L'unico che sembrava del tutto disinteressato e avulso da ciò che lo circondava era Ottaviano. La madre lo stava tenendo d'occhio, per quanto possibile.

La donna si rendeva conto che il suo primogenito aveva ormai ventidue anni, un'età in cui qualsiasi altro giovane uomo aveva già impegni, responsabilità e spesso famiglia. Avrebbe dovuto, forse, cercargli un'occupazione, magari presso qualche esercito, o una corte amica. Non aveva, però, nessun contatto sicuro con nessun condottiero, né conosceva corti che potesse definire realmente amiche. In più, e se ne vergognava profondamente, pur non potendo cambiare la realtà dei fatti, non se la sarebbe mai sentita di consigliare Ottaviano a qualcuno, né come assistente, né come manovale, tanto meno come collaboratore stretto.

Avrebbe, forse, potuto cercargli un posto nella Chiesa, implorando l'aiuto di Raffaele Sansoni Riario, che già aveva sistemato Cesare, ma anche quella via le sembrava impraticabile.

L'unica cosa che che poteva fare, per lui, era tenerlo stretto al suo guinzaglio, impedendogli nuovi errori. Tanto per cominciare, aveva chiesto a frate Lauro di badare a lui, anche se con discrezione, facendo sì che per nessun motivo facesse del male alle serve della villa.

“Piuttosto – gli aveva detto – fate venire qui qualche ragazza di qualche postriboli di Firenze, ma fate in modo che sia pagata in modo onesto e che mio figlio non alzi le mani su di lei.”

Siccome quest'ultimo ordine a Bossi non era parso semplice da seguire, aveva per il momento preferito sviare i bisogni del flemmatico Riario seguendolo per tutto il giorno e mettendogli davanti alla porta, di notte, un garzone di stalla grande e grosso che gli impedisse di uscire per cercare compagnia senza che il frate ne venisse prima informato.

La Leonessa era in una sala, a una delle finestre che davano sull'ingresso della villa. Proprio mentre stava pensando a Ottaviano, lo vide passare, con andatura svogliata, sulla ghiaia. Sotto al sole d'agosto i suoi capelli, sempre lunghi e di nuovo curati come quando era adolescente, sembravano più chiari di quanto non fossero, e le sue spalle apparivano più curve del solito, come se il peso della luce fosse troppo, per loro.

A qualche passo di distanza, con aria scanzonata, seguiva frate Lauro, le mani allacciate dietro la schiena e le gambe che scalciavano la tonaca in modo ritmico, rendendolo quasi ridicolo, agli occhi della Sforza.

Indugiò ancora qualche istante sulla figura del frate che tallonava il Riario e poi la sua attenzione venne attratta da qualcosa di diverso, in lontananza, dove dal bosco serpeggiava fuori la strada di terra battuta che portava fino alle villa.

Si stava alzando della polvere, nella calura d'agosto. Non molta, il che lasciava pensare che stesse arrivando una sola persona a cavallo, al massimo un paio, eppure Caterina provò un fremito nel cuore che non riuscì a dominare. Allontanandosi un momento dalla finestra, dovette chiudere gli occhi e ricordare a sé stessa, con fermezza e quasi con rabbia, che non era più in Romagna, ma in Toscana, che non era in una rocca abitata da soldati, ma in una villa assieme ai suoi figli e a una nutrita servitù, che non stava aspettando l'arrivo di qualche nemico, ma, casomai, di qualche amico.

Si sentiva una sciocca a provare quella paura immotivata alla vista di un po' di polvere e si sentì ancora più piccola nel capire che, per quanto la parte razionale della sua mente la stesse rassicurando, quella irrazionale, dominata da incubi e fantasmi, continuava a sussurrarle con perfidia all'orecchio le cose peggiori.

Con il cuore ancora agitato, ma le mani più ferme, la donna si costrinse a guardare di nuovo fuori e non trattenne un sorriso di sollievo, quando riconobbe, in fondo alla via, Francesco Fortunati.

Anche da quella distanza, il suo abito scuro e il suo profilo regolare erano inconfondibili e, per la Tigre, erano la cosa più bella del mondo.

Quando l'uomo arrivò al portone, oltre a un servo che si offrì di portare nella stalla il suo cavallo, il piovano trovò anche la Leonessa a dargli il benvenuto.

“Presto, entra – gli disse lei, facendo un gesto veloce con la mano – fuori fa caldissimo... Ti porto in una delle stanze più fresche.”

Francesco la seguì in una saletta esposta a sud che, effettivamente, essendo in ombra e ben arieggiata, gli prometteva una tregua dall'afa patita durante il viaggio.

Quando furono finalmente soli, in un silenzio pressoché immobile, Caterina sentì il bisogno di abbracciare Fortunati e tuttavia, pur avendo già allargato un po' le braccia, alla fine desistette.

L'uomo si era accorto di quell'accenno, ed era già pronto ad accogliere l'abbraccio della Sforza che, però, non arrivò. Troppo avvezzo a quel genere di atteggiamenti, il piovano non vi diede troppo peso e chiese se dovesse far portare qualcosa da bere.

La donna, con una spina nel cuore al pensiero che anche solo un abbraccio la mettesse ancora così a disagio, gli disse di fare come preferiva e si sedette sulla poltroncina imbottita più vicina. Sapeva perché non era riuscita a seguire il proprio slancio: il contatto fisico, a maggior ragione con un uomo con cui si sentiva tanto legata, la spaventava ancora. Esattamente come quando era una ragazzina, e viveva nell'ombra della prima notte di nozze trascorsa con Girolamo Riario, già tornato a Roma in attesa di ricongiungersi con lei, Caterina temeva e schivava quel genere di vicinanza.

Ciò che Cesare Borja le aveva fatto, se ne rendeva conto ogni giorno di più, aveva scavato in lei ferite molto più profonde di quel che credeva. La cassa di risonanza, poi, che era stata la prigione di Castel Sant'Angelo, aveva amplificato migliaia di volte il suo disagio, facendola tornare indietro di anni, trasformandola, per certi versi, ancora nella bambina terrorizzata che il Duca di Milano, Galeazzo Maria Sforza, aveva venduto al nipote di papa Sisto IV.

“A Firenze stanno facendo festa da quasi due giorni...” disse a un certo punto Francesco, quasi per rompere il ghiaccio.

“E come mai?” chiese la Tigre, mentre anche l'uomo andava a sedersi, proprio dinnanzi a lei.

“Il re di Napoli ha perso il suo Stato – spiegò in fretta Fortunati, già quasi pentito di aver iniziato il loro dialogo parlando di politica internazionale – e così in città hanno iniziato a festeggiare la vittoria del re di Francia... Hanno anche dato fuoco a panni e scope, in segno di gioia...”

“Che cosa stupida...” commentò a denti stretti la milanese.

“Be', hanno anche suonato e ballato, ma...” provò a dire lui, ma venne subito interrotto.

“Non è stupido che abbiano dato fuoco a delle cose per festeggiare – puntualizzò la Sforza, massaggiandosi la fronte, come se le stesse improvvisamente venendo il mal di testa – ma che festeggino.”

“Fino a prova contraria, il re di Francia è alleato della Repubblica.” si permise di dire il piovano.

La Leonessa lo guardò per un lunghissimo istante, un istante, anzi, così lungo che per poco Fortunati non fu sul punto di chiederle se avesse qualcosa che non andava.

In realtà Caterina si stava chiedendo quanto il suo interlocutore avesse capito di tutto quello che era successo non solo in quegli ultimi giorni, ma in tutti quegli anni, compresa la sua prigionia dorata lì a Firenze, sotto lo stretto controllo dei francesi che, di fatto, si stavano permettendo di fare un lavoro di polizia in casa dei loro sedicenti alleati. Preferì non porsi altre domande, scusando le parole del piovano con il fatto che fosse appunto solo un piovano, magari più sveglio e di mondo di altri, ma pur sempre un uomo che aveva vissuto in un universo a parte, fatto di Messe, libri contabili e letture sacre.

“Hai qualche novità, riguardo a Baccino?” chiese allora la Tigre, sistemandosi meglio contro lo schienale.

“Qualcosa sì...” ammise, cauto, Fortunati.

Con il cuore che accelerava a ogni parola, Caterina lo ascoltò mentre le spiegava che era stato rintracciato, si trovava ancora a Roma, ma come prigioniero privato di non sapeva dirle bene quale possidente locale. Le fece presente che era una questione delicata, farlo liberare, sia perché non avevano grandi fondi con cui pagare un eventuale riscatto, sia perché attirare troppo l'attenzione su di lui avrebbe potuto essere fatalmente controproducente.

“Per ora nessuno si ricorda quasi più che era al tuo servizio – le spiegò il piovano, sollevando un po' un sopracciglio – ma se improvvisamente da Firenze arrivassero lettere e richieste per la sua liberazione, capisci bene anche tu complicherebbe tutto.”

La Leonessa comprendeva alla perfezione cosa Francesco intendesse. Finché Baccino era un prigioniero come altri, era relativamente al sicuro, per quanto alla mercé di chi l'aveva messo in cella. Se l'avesse fatto ricollegare a lei in modo così netto, soprattutto se avesse lasciato intendere quanto le premeva saperlo libero, il papa avrebbe di certo fiutato la cosa e avrebbe sfruttato il cremonese a suo vantaggio.

“Muoviamoci con calma – convenne quindi la donna – solo... Mi piacerebbe sapere se sta bene.”

“Da quello che mi hanno riferito – la rassicurò l'altro – dovrebbe essere relativamente in salute.”

Quella valutazione non la fece stare né meglio né peggio. Anche lei aveva provato a essere in catene, non solo a Castel Sant'Angelo, e sapeva bene quanto fosse sempre precaria la situazione di un prigioniero, per bene che fosse trattato.

“Quando sarà libero, comunque – riprese, più lentamente, l'uomo – credo che sarà bene trovargli una collocazione a Roma, almeno per i primi tempi...”

Francesco se vergognava profondamente della motivazione principale che l'aveva spinto a fare quella precisazione. Anche se da un lato davvero credeva che fosse più prudente non far correre subito Baccino a Firenze, dato che così facendo avrebbe attirato troppo l'attenzione dei Borja, dall'altro voleva semplicemente che il cremonese stesse lontano da Caterina.

La Tigre aveva deglutito un paio di volte. Era evidente che invece lei avrebbe preferito sapere Baccino già sulla via per la villa di Castello. Non solo le mancava la sua presenza, una presenza che era stata molto importante, per lei, durante il periodo dell'assedio e poi, in un certo senso, anche durante la sua prigionia, ma si disperava anche nel sapere un uomo che le era stato così fedele ancora in pericolo per colpa sua. Per molti altri non aveva potuto fare assolutamente nulla, ma per lui la possibilità c'era ancora, e andava sfruttata.

“Hai ragione...” sospirò alla fine, cedendo al discorso sensato del piovano e al suo sguardo fermo, che non la voleva lasciare, quasi che quella fissità bastasse a convincerla della bontà della sua proposta: “Appena sarà possibile, voglio chiedere anche al Cardinale Sansoni Riario di aiutarci a trovargli un lavoro presso qualche prelato o qualche altro romano che sia fidato e che lo tratti bene, e poi, quando saremo più tranquilli, vedrò di... Di farlo... Tornare da me.”

La scelta delle ultime parole era stata molto oculata e precisa, da parte della Sforza, e Fortunati se n'era accorto. Era quasi come se la sua interlocutrice avesse voluto rimetterlo al suo posto, senza dirgli apertamente di aver colto in lui una vaga insofferenza di natura personale all'idea che il cremonese, prima o poi, sarebbe giunto a Firenze.

“Ci sono altre novità?” domandò allora, quasi bruscamente, Caterina.

L'uomo scosse il capo, ma poi le snocciolò in fretta le ultime chiacchiere – perché tali erano – che riguardavano i fratelli di lei. Sentito, però, che tutti stavano più o meno bene e che Alessandro probabilmente era ancora in Germania, la donna parve perdere interesse per quel genere di discorso.

“Adesso che Napoli è caduta – soffiò, con un filo di voce, non appena Francesco non ebbe più nulla da dire – chissà dove si dirigerà il figlio del papa...”

Fortunati accavallò silenziosamente le gambe, tornando a fissarla. Il bel profilo della Leonessa era quasi diafano, in quella luce soffusa, e la sua intera figura aveva un che di precario. Forse era solo suggestione, ma al piovano sembrava una donna completamente diversa da quella che aveva imparato a conoscere e amare in Romagna.

Anche il modo in cui si era espressa... La Caterina che aveva conosciuto lui non avrebbe avuto dubbi di sorta, o, se proprio ne avesse avuto qualcuno, avrebbe elencato le possibili prossime mosse strategiche del Valentino.

E invece, anche quando parlò di nuovo, la sua voce era impregnata di incertezza e confusione: “Io spero... Io spero che non voglia andare oltre. Anche se... Non si può dire che la campagna militare possa finire così... Spero solo che non vada oltre...”

Era inconfessabile, o, almeno, alla Tigre così pareva, la paura che la stava attanagliando. Se n'era discusso a lungo, lei stessa aveva sostenuto per parecchio tempo che, presa Napoli, il Borja avrebbe fatto in modo di far fare manovra all'esercito francese e tornare a puntare a nord, verso la Toscana, o meglio, verso la Repubblica.

Non era abbastanza addentro agli ultimi risvolti della politica internazionale, però, per sapere se quella sua vecchia valutazione fosse ancora attendibile, e la sua mente si rifiutava di assorbire a sufficienza nuove informazioni che le sarebbero state utili per provare ad anticipare le mosse strategiche del Duca di Valentinois.

L'unica cosa di cui era certa è che se per caso Cesare fosse arrivato a Firenze in armi, per lei sarebbe stata davvero la fine.

Fortunati non poteva immaginare che cosa si stesse agitando nell'animo della donna, ma vide benissimo il suo volto sbiancare e i suoi occhi farsi ancora più confusi e spersi. Qualsiasi cosa le stesse attraversando la testa, pensò, doveva essere terribile.

Così, sospinto da uno slancio improvviso, il piovano disse, con una certezza che in realtà non possedeva: “Dopo Napoli, dicono che il figlio del papa tornerà a Roma. Sua sorella dovrebbe sposarsi nel giro di qualche mese...”

Abbandonando a fatica le immagini tremende che la sua mente le stava riproponendo, risalenti a quando il Valentino l'aveva catturata, in una fredda notte di gennaio, e ne aveva poi fatto quello che voleva per interminabili giorni, la Sforza aggrottò la fronte.

Si era completamente scordata del fatto che Lucrecia Borja fosse rimasta vedova, le avevano riferito, l'anno prima. In ogni caso, trovava ugualmente sorprendente che stesse per risposarsi, non perché i matrimoni delle giovani vedove fossero infrequenti, ma perché trovava assurdo che qualcuno, in Italia, fosse ancora disposto a imparentarsi con Alessandro VI e, soprattutto, con suo figlio.

“Chi sposerà?” chiese, attonita.

“Alfonso, il figlio dell'Este di Ferrara.” rispose Francesco.

Nell'udire il nome del vedovo di sua sorella Anna Maria, Caterina avvertì una sensazione amara in bocca. Nella sua testa, quell'uomo restava il maggior responsabile della morte di sua sorella, che fosse così o meno.

Con un moto irrefrenabile di stizza, la donna commentò: “Forse il papa ha finalmente trovato un diavolo giusto per sua figlia.”

Fortunati attese una spiegazione più esaustiva, ma, siccome non arrivò, provò a cambiare discorso, dicendo: “I tuoi custodi mi hanno dato il permesso di restare qualche giorno, senza dover tornare in città... Posso fermarmi qui per la notte?”

Caterina annuì subito e poi si sforzò di sorridere: “Se resterai qualche giorno, voglio provare a sottoporti una sfida degna di pochi.”

“Ossia?” chiese lui, un po' preoccupato, malgrado il tono apparentemente scherzoso della Leonessa.

“Ieri ho cercato di far leggere mio figlio Bernardino, ed è stato un disastro.” fece lei, alzandosi dalla poltrona: “Te la sentiresti di provare a rinfrescargli un po' la memoria? Quando eravamo a Ravaldino non era certo un letterato, ma almeno riusciva a leggere una riga intera senza fermarsi...”

'Fossero queste, le vere sfide', pensò tra sé l'uomo, ma, rincuorato dalla volontà evidente della Sforza di portare la propria vita sulla strada più piana e normale possibile, decise di andarle incontro, accettando di buon grado: “Farò quello che posso.”

“Sapevo di poter contare sul tuo aiuto.” annuì lei, andando alla porta.

Francesco, che la seguiva a stretto giro, le fece eco: “Potrai farlo sempre.”

   
 
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