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Autore: WaterfallFromTheSky    28/04/2021    3 recensioni
Ren, ormai ventenne, è ritornato a Tokyo stabilmente; Sumire lavora nel settore della danza ed è impegnata in competizioni internazionali di ginnastica ritmica. Entrambi si sono lasciati qualche anno prima, ma nessuno dei due ha smesso di pensare all'altro...
PS: questa storia è la continua di Shin no utsukushi-sa. Non è necessario, ma ci sono alcuni riferimenti ad essa, quindi consiglio di leggere prima quella per godere appieno di questa Fic.
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Ren Amamiya/Akira Kurusu
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Driiiin!
Vide una mano emergere da sotto le coperte, atterrando pesantemente sulla sveglia. E così rimase.
«Ooohi! Svegliati.»
Nessuna risposta. Si mise seduto e si leccò una zampetta, poi osservò la luce che raggiungeva il braccio attraverso i buchi della tapparella. Sembrava una mitragliata di luce, pensò.
«Sveglia!» ripeté.
Neanche un gemito in risposta. Lanciò un’occhiata alla sveglia e disse: «Scusa, lo faccio per il tuo bene» quindi sfoderò le unghie e lasciò quattro solchi bianchi sulla pelle chiara del suo amico. Dovette balzare via, prima di finire chissà dove a causa del violento sobbalzo di Ren. Che lo stava guardando malissimo, con i suoi occhietti assonnati e miopi.
«Sì, prego. Ora, se non ti dispiace, preparaci la colazione, grazie.»
«Subito, Sua Signoria Morgana» borbottò il ragazzo, gli occhi ancora mezzi chiusi, mentre si trascinava fuori dal letto. E proprio per questo inciampò nelle sue stesse ciabatte e rovinò sul pavimento.
«Non so se hai una vaga idea di che ore siano, ma fossi in te mi spiccerei» lo ammonì Morgana, precedendolo placidamente in cucina.
Ren si massaggiò i gomiti e scoccò un’occhiata alla sveglia. Nella penombra della sua camera, le cifre rosse spiccavano impietose.
«Porca miseria!» gemette, scattando in piedi senza pantofole e precipitandosi nel corridoio. Precedette Morgana e si affaccendò in cucina, mentre il micio si accomodava sul divano con un salto elegante e accendeva il televisore.
 
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Quando mise piede all’aria aperta, si sentì subito meglio. Aveva mal di testa, causa la luce fioca e l’aria viziata nell’aula di diritto pubblico, nella quale era rimasto rinchiuso fin troppo – quel maledetto Minamoto non se ne andava se non tratteneva gli studenti per almeno un’ora dopo le lezioni. Adesso, il calore del sole del primo pomeriggio lo accolse come un abbraccio confortante. Chiuse gli occhi e sollevò il viso, godendoselo per qualche attimo mentre piccoli sciami di studenti provati quanto lui lo superavano scendendo le scale, diretti a casa o in biblioteca o chissà dove.
Già, la biblioteca. Dovrei proprio andarci. Aveva un esame tra meno di un mese e non aveva alcuna intenzione di farsi bocciare.
«Resterai lì fino a stasera?»
La vocina stridula di Morgana lo raggiunse da sinistra. Localizzò il suo amico seduto alla base della breve scalinata del plesso di scienze politiche, gli occhi azzurri che lo investivano con la loro nitidezza. Lo raggiunse in silenzio, le mani nelle tasche della sottile giacca a vento.
«Sei piuttosto pigro oggi» lo punzecchiò Morgana, seguendolo quando Ren lo superò, diretto al cancello.
«Capita» rispose, laconico, seguendo il sentiero in cemento che passava tra le aiuole fiorite del campus. Si fermò di fronte ad una di esse: rotonda, ricoperta di un curato tappeto erboso dal quale sbucavano arbusti fitti di boccioli chiusi ermeticamente che, a fine inverno, sarebbero diventati bellissime camelie. Non vedeva l’ora di vederle nascere: non era un appassionato di fiori, ma trovava il campus fin troppo tetro, e un po’ di colore non avrebbe guastato.
Si voltò in direzione del plesso di scienze politiche: un blocco di cemento rettangolare di tre piani, perfettamente squadrato, di un matto color ardesia interrotto da file di finestre quadrate alle quali mancavano solo le sbarre. Ren sorrise tra sé e sé per quella considerazione cupa.
«Che hai da sorridere?» gli chiese Morgana.
«Nulla.»
«Che pensi di fare adesso?»
«Andrò al Diner. Studio e mangio qualcosa.» Ren distolse immediatamente lo sguardo da Morgana e riprese a camminare: un paio di ragazze lo osservavano parlottando tra loro. Non era la prima volta che qualcuno lo sorprendeva a chiacchierare con Morgana; era quasi certo che in facoltà si stesse diffondendo la voce che gli mancasse qualche rotella. La cosa non gli dispiaceva: ci era abituato, e teneva lontane le persone fastidiose.
Si affrettò a raggiungere il cancello verde militare, spalancato verso la libertà – per oggi ne aveva abbastanza di quel posto opprimente – e salutò l’anziano portinaio nel gabbiotto accanto all’uscita, che rispose con un largo sorriso sdentato.
Morgana si infilò nella sua borsa, facendosi spazio tra i blocchi per appunti, i libri e la bottiglia d’acqua ormai vuota, che fece rumore quando il gatto la calpestò inavvertitamente; Ren non protestò, anche se adesso la borsa pesava molto di più. Un giorno gli sarebbe venuta la scoliosi, ma non aveva il cuore di dirlo a Morgana.
Il micio cominciò a chiacchierare, raccontandogli tutto ciò che aveva visto quel giorno mentre lui era a lezione: ragazze carine che lo avevano coccolato, un gatto che lo aveva importunato, una farfalla che lo aveva spaventato volandogli troppo vicino mentre era sovrappensiero, quel dannato custode che lo allontanava sempre dai suoi fiori agitando la scopa…
Ren lo ascoltò in silenzio, divertito, invidiandolo un po’ per la vita spensierata che conduceva – ma non glielo disse – mentre lasciava scorrere pigramente lo sguardo sulla gente che correva affaccendata dappertutto anche a quell’ora del pomeriggio, su un tizio travestito da Totoro che distribuiva volantini – e che lui evitò mischiandosi ad un gruppo di suoi coetanei –, un paio di piccioni che si posavano su un balcone traboccante di piante in fiore, una libreria che stava facendo degli sconti su diversi romanzi – appuntò mentalmente di passarci non appena fosse stato un po’ più libero.
Con calma, proseguì fino alla stazione per andare a Shibuya.
 
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 Ren chiuse il libro e si addossò al sedile in legno, massaggiandosi la nuca anchilosata. Spostò lo sguardo tutt’intorno, sui tavoli vicini. Il Diner era pieno, ma non affollato: giovani di ogni età si incontravano in quel locale per chiacchierare o per studiare come lui, o anche solo per leggere un buon libro in solitudine. I tavoli del Diner erano larghi abbastanza per leggere o scrivere per ore ed erano posizionati in modo da concedere sufficiente riservatezza ad ogni avventore; le sue luci, di un caldo giallo, illuminavano l’ambiente alla perfezione e non appesantivano mai la vista, le cameriere erano tutte carine e cortesi e servivano pasti e bibite ideali sia per chi aveva saltato il pranzo sia per chi aveva solo voglia di spiluccare qualcosa. Quando era alla Shujin, Ren aveva trascorso interi pomeriggi lì a studiare, da solo o con i suoi amici, e non appena si era iscritto all’università aveva ripreso quell’abitudine, a meno che non avesse necessità di ripetere ad alta voce o di consultare qualche libro alla biblioteca della facoltà. Diversamente dal passato poi, adesso c’era anche della musica di sottofondo, che rendeva l’atmosfera ancor più rilassata e accogliente.
Tentò di ignorare il brusio generale mentre sbadigliava, dimenticando di coprirsi la bocca. Poi, allontanò il bicchiere di aranciata ormai vuoto con il dorso della mano. Era ancora freddo, e rabbrividì al contatto con il vetro umido. Lanciò un’occhiata all’orologio in fondo alla sala e decise che era proprio ora di tornare a casa, altrimenti il giorno dopo avrebbe avuto un nuovo risveglio traumatico. Morgana parve leggergli nel pensiero, difatti bisbigliò dalla sua borsa: «Non credi che si sia fatto un po’ tardi? Avrei un certo languorino.»
«Sì. Andiamo» accordò lui, ammiccando alle iridi azzurre che galleggiavano nel buio all’interno della cerniera aperta. Mise via tutte le sue cose, inserendole in borsa senza far male a Morgana, e prese il cellulare con l’intento di controllare se ci fosse qualche notifica. Nulla.
Inviò un messaggio a sua madre, giusto per chiederle come stesse, poi sbadigliò di nuovo e fece per mettere l’apparecchio in tasca, ma lo contemplò ancora un po’, improvvisamente malinconico e indeciso. Solo qualche anno prima era seduto proprio a quel tavolo con…
Introdusse il cellulare nella tasca della giacca a vento, la indossò e, borsa in spalla, si diresse all’uscita senza tergiversare oltre. Morgana gli dedicò una loquace occhiata, ma capì l’antifona e non pronunciò sillaba.
 
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Entrò nella sua piccola stanza e accese la luce. Era un disastro: la scrivania era così piena di libri e quaderni che la sua superficie bianca si intravedeva soltanto – si ripromise per l’ennesima volta di sistemare quel ciarpame sulla libreria –, fogli accartocciati circondavano il cestino della spazzatura, già pieno, e l’armadio era rimasto aperto per via della fretta di quel mattino, al pari del letto sfatto. E quella pila di libri alta quasi quanto la scrivania, accanto al letto? E che ci faceva il ventilatore ancora vicino alla finestra? Ormai non serviva più…
«Dovresti mettere ordine. Questo posto è inguardabile. Per fortuna, non hai nessuna ragazza da portarci» commentò Morgana, che come sempre sembrava potergli sbirciare direttamente nella testa.
«Hai ragione» gli rispose, ignorando volutamente la frecciatina sulla ragazza. Rassegnato, decise di provvedere subito almeno in parte: chiuse l’armadio e liberò la scrivania, sistemando sulla libreria sia il materiale di studio sia i libri accatastati per terra. La pattumiera e il ventilatore avrebbero dovuto attendere ancora, tuttavia.
Tirò fuori il pigiama dal cassetto dell’armadio e lo sguardo si posò inavvertitamente su una sequela di fotografie, appese al muro mediante un filo di nylon. Erano tutte le foto che aveva scattato con i suoi amici ai tempi della Shujin. Sorrise nel contemplare ancora una volta la sua figura che tentava inutilmente di afferrare il gelato che precipitava al suolo, e poi una Ann in costume che si sporgeva su Ryuji per infilargli un fiore dietro l’orecchio, e ancora le ragazze fasciate da variopinti kimono il giorno di Capodanno…
Aveva aggiunto perfino l’ultima foto, quella scattata alla loro ultima rimpatriata. A proposito, avrebbe dovuto proporre qualcosa agli altri per rivederli il prima possibile – no, meglio dopo l’esame di diritto pubblico…
Si spogliò, rabbrividendo appena per il freddo, e indossò subito il pigiama nero. Glielo aveva comprato sua madre prima che si trasferisse: per qualche motivo, a suo padre faceva pensare alla tuta del ladro Diabolik, e Ren sorrideva ogni volta che lo indossava, come in quel momento. Se solo suo padre avesse saputo che lui era stato davvero un ladro, seppur fuori dalle righe…
Lasciò gli occhiali sulla scrivania e sedette pesantemente sul letto, ove Morgana era già seduto. Controllò le notifiche per l’ultima volta, trovando solo un messaggio di risposta da parte di sua madre:
 
Tutto bene. Lì da te?
 
Ren rispose laconicamente, come lei. Aveva ereditato quel tratto caratteriale da lei: entrambi erano taciturni e diretti nel dire qualcosa, raramente parlavano più del dovuto.
Ren sorrise. Quando era tornato a casa dopo essere stato un anno in libertà vigilata a Tokyo, i primi tempi aveva evitato quanto più possibile i suoi genitori, e aveva avuto l’impressione che loro facessero altrettanto. Dopo un paio di mesi, tuttavia, sua madre aveva cominciato ad accorciare le distanze, con discrezione e pazienza. Poi si era accodato il papà. Sorprendentemente, i suoi genitori sembravano aver compreso che Ren fosse stato vittima di Shido: vedere gli ottimi voti che aveva rimediato alla Shujin, la sua condotta esemplare, e il fatto che continuasse anche a casa ad essere uno studente tra i migliori, aveva dato ulteriore prova del fatto che lui fosse un ragazzo normale e, anzi, che non meritasse affatto di essere etichettato come un delinquente e di essere ignorato dai suoi genitori. Il processo era stato lento, ma Ren aveva recuperato il rapporto con loro, cosa di cui era lieto. Avevano perfino accettato Morgana, che era stato suo complice in questo: si era finto un dolce e mansueto micio e non aveva creato il minimo problema, anzi, era riuscito a ingraziarsi i due signori e ad alleggerire l’atmosfera in casa di Ren con una serie di sapienti moine. Si era arrivati al punto che, quando era partito per Tokyo, sua madre aveva consumato un pacco intero di fazzolettini a furia di asciugarsi lacrime e naso. Quando ci pensava, ancora ne restava stupito.
Ren scosse il capo con tenerezza, poi rispose al messaggio. Tuttavia, non ripose lo smartphone sul comodino: rimase a fissare il vuoto con sguardo vacuo, poi aprì e richiuse la rubrica per tre volte. Alla quarta scorse i nomi memorizzati fino alla Y, ma poi si spazientì e spense il cellulare, che poi mollò sul comodino. Con gli occhi già mezzi chiusi, spense la luce mediante il pulsante accanto al letto e si infilò sotto le coperte, che erano gelate e lo fecero rabbrividire. Morgana gli si acciambellò nell’incavo delle gambe e gli augurò la buonanotte, risparmiandogli qualsiasi commento.

 
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Era distrutta: i muscoli le pesavano talmente tanto che faticava perfino a mettere un piede dietro l’altro per uscire dagli spogliatoi.
«Ciao, ragazze!» salutò fiaccamente, chiudendo la porta alle spalle. Si ritrovò all’aria fresca del corridoio, nettamente in contrasto con quella calda e umida dello spogliatoio; se non altro, servì a darle una svegliata.
Fu solo per un attimo: nemmeno il tempo di raggiungere la piccola hall della scuola di ballo che già aveva di nuovo le palpebre pesanti e il passo di uno zombie. Perché aveva detto a suo padre che sarebbe tornata a casa da sola?
Sbucò nella hall, strizzando appena gli occhi sotto la luce troppo forte del lampadario moderno sul soffitto. Passò accanto al bancone in lucido legno di ciliegio e salutò la gentile e attempata proprietaria. Sfilò accanto ai quadri che la ritraevano, da sola o insieme alle sue compagne, e alle teche di trofei che aveva assicurato alla sua scuola nel corso degli anni, e aprì la porta d’entrata, che in quel momento le parve pesante come il portone in pietra di un castello. Un alito di vento le penetrò nel giubbotto, facendola rabbrividire; chiuse subito la zip, per evitare di ammalarsi, e attraversò la strada sulle strisce pedonali insieme ad un trio di bambini saltellanti.
Mi sento una vecchia.
Mentre procedeva a passo lento, fece scorrere lo sguardo verso l’alto, sui grattacieli che svettavano verso il cielo, su cui brillavano finestre quasi tutte accese. Il cielo soprastante era viola scuro, prossimo al nero della notte. Sul led di una farmacia lampeggiava l’orario, in cifre verde evidenziatore: le 19:00. Se non avesse avuto bisogno di mangiare un bel pasto nutriente dei suoi dopo quegli allenamenti debilitanti, sarebbe andata a letto non appena avrebbe messo piede a casa.
«Sumire!»
Nel sentirsi chiamare da tergo, la ragazza si voltò. Sorrise lieta quando incrociò lo sguardo occhialuto di Futaba.
«Ciao! Freschetto stasera, eh?» esordì, e Sumire non poteva che essere più d’accordo. Le due si avviarono insieme, entrambe dirette alla stazione. Una foglia color minio finì quasi sul viso di Sumire mentre abbandonava il ramo nudo del suo albero per precipitare pigramente verso il suolo.
«Allenamenti, immagino» s’informò Futaba.
«Sì. Scusami, sono così stanca che non ho neanche la forza di parlare.»
«Oh, non è un problema! Significa che parlerò io.»
Sumire ascoltò Futaba con piacere, mentre mangiucchiava una barretta energetica – altrimenti sarebbe svenuta prima di arrivare a casa. Futaba sembrava di buon umore – aveva acquistato tre videogiochi nuovi – e questo alleggerì la stanchezza di Sumire. Quando sbadigliò, suo malgrado, Futaba commentò: «Ohi, sei proprio cotta.»
«Perdonami, Futaba! Non volevo sbadigliarti in faccia…»
«Non importa! Hai delle tonsille affascinanti.» Sumire scoppiò a ridere di cuore, e Futaba sorrise soddisfatta.
Dopo un po’, Futaba disse di punto in bianco: «Ah senti, ti ricordi quando ti invitai alla mostra di Yusuke?»
«Sì, certo. Ancora mi dispiace per non essere venuta…»
«Figurati, ci saranno sicuramente altre occasioni! Anche Makoto non è potuta venire… Comunque, più o meno da quel periodo, Ren è a Tokyo.»
Sumire si fermò all’improvviso nel bel mezzo del marciapiede, rischiando che un ragazzo le venisse addosso. La scansò per un soffio, e solo vagamente percepì la sua occhiataccia.
Futaba non si accorse che l’amica non la seguiva più, infatti stava continuando: «Si è iscritto all’università, si è trasferito qui. Vive da solo. Non è…?» Solo allora si voltò per cercare lo sguardo di Sumire, e vide che era rimasta indietro di alcuni passi, sul viso un’espressione di pura incredulità.
Sumire arrossì e raggiunse Futaba, farfugliando: «Scusami, uhm, credevo di aver visto una persona…»
Futaba sorrise come chi la sapeva lunga, facendola arrossire più di prima. «Dicevo, vive qui da solo adesso, studia a scienze politiche. Almeno una volta a settimana, in genere di mercoledì, viene a studiare al Leblanc e rimane fino alla chiusura. Per me è stata una notizia bomba! Sono strafelice! E anche…»
Futaba le disse che anche Ryuji era tornato da qualche tempo, e Ann faceva la spola tra il Giappone e gli Stati Uniti da quando si era imbarcata in un’audace relazione con Yusuke, ma Sumire la ascoltò a malapena. Aveva lo stomaco all’altezza del cuore. Ren era a Tokyo? Viveva da solo? Quindi era tornato stabilmente?
Santo Cielo! Ren…
Sorrise, incapace di trattenersi. Aveva voglia di saltellare, anche se i suoi muscoli non glielo avrebbero perdonato. Prese il cellulare dalla tasca esterna del borsone sportivo, d’impulso, e cercò il nome del ragazzo nella rubrica, ma quando lo trovò rimase con il dito sospeso sul display.
Gli stava telefonando come faceva un tempo? Sul serio?
Ma che sto facendo?
Non sapeva nemmeno se il suo numero di telefono fosse ancora lo stesso.
D’un tratto, si ritrovò addosso a Futaba, e sgranò gli occhi. La ragazza si era fermata e le si era parata di fronte, e lei non se n’era nemmeno accorta.
«S-scusami!» esclamò.
«Non mi stai ascoltando. Non vedevi nemmeno dove stavi andando. Ho pensato di doverti richiamare sulla Terra.»
«Scusa, ho la testa tra le nuvole! C-cioè, volevo dire che sono stanchissima!»
«Sì, penso siano vere entrambe le affermazioni.»
Sumire arrossì pietosamente e seguì Futaba, infilando in malo modo il cellulare nella tasca del giubbotto.
Quanto sono sciocca!
«E…come sta?» riuscì a domandare. In realtà voleva chiedere almeno un centinaio di cose a Futaba, ma cominciò da lì.
«Uh? Chi?»
«Ren-senpai. Parlavamo di lui, no?»
«Veramente stavo parlando del nuovo live action di Full Metal Alchemist.»
Sumire fu sul punto di andare a fuoco.
Futaba non si scompose, ma le rivolse un sorrisino furbetto che la indusse a distogliere lo sguardo mentre aggiungeva: «Comunque sta bene. Ren voglio dire, non certo Edward Elrich.»
«Chi?»
«Ah, lascia perdere. Ma non voglio spoilerarti nulla, quindi perché un giorno di questi non ci organizziamo per vederci?»
«Uhm, non lo so…»
«Gli allenamenti, sì, lo so. Ma ce l’avrai una domenica libera, no?»
Sumire non rispose. Scoprì di avere una voglia matta di rivedere Ren – fosse stato per lei, lo avrebbe incontrato anche in quel preciso momento –, ma come poteva farlo? E lui, ne aveva voglia?
Lo smartphone squillò, togliendola dall’imbarazzo di rispondere ma facendola anche sobbalzare per la sorpresa. Era solo suo padre: era in giro da quelle parti e le chiedeva se voleva uno strappo a casa. La giovane accettò senza indugio e disse a Futaba: «Scusa, Futaba, io aspetto mio padre qui. Tu prosegui pure verso la stazione, non voglio che fai tardi.»
«Vaaa bene, allora vado. Ci vediamo!» si congedò lei, voltandosi. Compì due passi, poi si voltò di nuovo e disse: «Ah, vedi che il suo numero è sempre lo stesso!» Infine, sorrise come una bimba che ha appena compiuto una marachella di cui va fiera e si allontanò, lasciando Sumire imbarazzata, emozionata e intimorita come una mocciosa inesperta.
 
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«…e quindi mi sento morire, come quando non dipingo.»
«Il solito tragico.»
Ren non rispose, tutto intento a completare lo schema che stava preparando per memorizzare meglio il materiale di diritto pubblico. Cominciava ad essere in ritardo sulla tabella di marcia, rischiava di non essere adeguatamente pronto per l’esame. Non poteva proprio permetterselo.
Allungò una mano verso la penna rossa, che si trovava accanto al gomito di Yusuke, seduto di fronte a lui, e sottolineò tre frasi.
«È terribile, Ren. Un vuoto incolmabile. Io…morirò senza di lei.»
«Sei patetico. Non so come Lady Ann possa essersi fatta ammaliare da te.»
Ren spinse gli occhiali verso la radice del naso, scoccando solo una fugace occhiata a Yusuke, che teneva la testa tra i capelli, e a Morgana, seduto accanto a lui, che fissava i lampadari colorati del Leblanc con aria sdegnosa – non aveva preso bene la notizia della sua Lady Ann insieme a Yusuke.
«Ehi, voi tre, vorreste un caffè?» domandò Sojiro da dietro al bancone. Ren immaginò che si stesse annoiando a morte: il locale era vuoto, come i tre quarti del tempo. Fece un cenno di diniego con il capo. Morgana invece non rispose, mentre Yusuke disse: «Per carità, ho problemi a dormire. Ma grazie comunque.»
«E va bene, allora esco a fumarmi una sigaretta.» L’anziano signore si liberò del grembiule che teneva al locale, indossò la giacca e uscì, il pacchetto di sigarette già in mano.
«Mi sembra che manchi da mesi. Credo di…aver sviluppato una dipendenza» si lagnò Yusuke, sospirando affranto.
«Sei patetico» ripeté invece Morgana. Ren cancellò con la gomma la freccia che aveva appena tracciato.
«Ren, devi aiutarmi! Ti scongiuro, non so come fare!» Yusuke gli afferrò un polso, impedendogli di scrivere. Ren, stoico, tolse gli occhiali e si massaggiò le palpebre.
«Yusuke, Ann sta solo sistemando le ultime cose negli Stati Uniti prima di tornare qui definitivamente. Ci vuole del tempo per…»
«Non ce la faccio, Ren. Ogni volta che va via, sto male. Ma perché non può sistemare tutto in una volta?»
«Come poteva vendere la sua auto prima se è comparso un acquirente solo adesso? E poi i contratti che teneva in piedi…»
«Ho il cuore spezzato. Anche questo va bene per dipingere, ma quando smetto…»
«Allora dipingi a oltranza» sbraitò Morgana. Balzò sul tavolo e scattò verso la porta, che Sojiro aveva lasciato socchiusa.
«Potresti essere un po’ più delicato?» fece Ren, liberandosi il polso dalla presa ferrea di Yusuke.
«Scusa, ho esagerato! Non volevo stringerti troppo.»
«Non mi riferivo a quello…» Ren riprese a scribacchiare, ma consigliò: «Però, Morgana non ha torto. Visto che ti sei sbloccato, dipingi e non pensare all’assenza di Ann. Vedrai che tornerà presto. Il fatto che stia chiudendo tutto ciò che ha in sospeso oltremare significa che ha davvero intenzione di rimanere qui. Non mi dispererei, al tuo posto.» Anzi, potessi trovarmi io nella tua situazione
«Sì, lo so. Ma…quella donna è un raggio di sole. Appena sparisce, il buio mi affoga.»
Dovresti accendere la luce, pensò Ren, ma preferì non dirlo, concentrandosi su ciò che stava facendo – anzi, provandoci.
«Qualsiasi cosa faccia…è meravigliosa. Anche quando se ne sta solo seduta a pensare. Quando chiacchiera con sua madre al telefono, sorride in un modo…» Yusuke divenne trasognato. D’un tratto, tirò fuori dalla borsa un taccuino, dicendo: «L’ho disegnata ovviamente, la disegno di continuo, guar…»
«Yusuke, sto cercando di studiare. Per piacere» scattò Ren. Non aveva alzato la voce, ma Yusuke si intristì comunque, e lui si sentì in colpa.
«Mi dispiace, hai ragione. Ti sto importunando» disse, dimesso, mentre metteva via il taccuino.
«Senti, scusami. C’è questo esame pesante e mi ci vuole ancora molto per finire il programma. Comunque, Ann tornerà presto. Sta’ solo attento a non diventare morboso…»
«Morboso? Io? Ann dice sempre che la ignoro e che disegno troppo.»
«Allora…ignorala di meno e disegna quando dorme?»
«Lo faccio già. Ho tre quaderni di lei che dorme.»
Ren corrugò la fronte, senza parole.
«Ren, vivo con una dea. Come potrei non…?»
«Ti spiace se ne parliamo un’altra volta? Sono davvero impegnato, e la mattina ho lezione…»
«Ho capito. Va bene, mi dispiace» concluse Yusuke, alzandosi. Indossò il giubbotto, gli augurò una buona serata e lo lasciò solo. A Ren dispiacque, ma si ripromise di dedicare più tempo a Yusuke non appena avesse potuto. Magari prima di andare a dormire avrebbe potuto telefonargli, o poteva chiedere a Ryuji di uscirci un po’ di più…
Sospirò, massaggiandosi la testa con le mani. Era stanco. Erano tre ore che studiava, poi era arrivato Yusuke e aveva dovuto ricorrere al doppio della concentrazione…
Aveva voglia di andare al jazz club. Sì, lì si sarebbe ricaricato un po’ e avrebbe potuto almeno terminare quegli schemi prima di andarsene a dormire. Il piano gli piacque, ma un velo di malinconia gli calò sul cuore non appena pensò che avrebbe voluto andarci con quella persona
Basta, me ne vado a casa, decise, spazientito. Mise via i libri e controllò il cellulare, trovando un messaggio da parte di una delle ragazze del suo corso. Si chiamava Ichiiro Haruka e gli ronzava attorno con banali scuse già da un po’.
 
Ciao! Ti va un drink dopo cena?
 
Ren sorrise, divertito. Sta passando all’attacco?
Il sorriso gli si spense per un attimo. Pensò che avrebbe proprio dovuto accettare, e al diavolo il resto – che stava aspettando, poi?
Ma aveva da studiare. Sì, aveva decisamente da studiare. Doveva trovare il modo di svegliarsi nel tragitto fino a casa. Forse, avrebbe dovuto accettare il caffè offerto da Sojiro. Bè, faceva ancora in tempo.
 
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Sumire era nella hall della scuola di danza. Era in pausa pranzo: seduta ad uno dei tavolini accanto al piccolo bar, stava gustando il suo pasto con calma. Aveva ancora un mucchio di tempo prima di cominciare la lezione – le sue allieve ci avrebbero messo almeno mezz’ora ad arrivare – per cui masticava lentamente il riso bollito con le verdure grigliate, seguendo il telegiornale dal sottile televisore sul muro. Il giornalista, un individuo pelato dagli occhi a palla, stava intervistando una piccola signora di mezza età sul supermercato dove faceva più spesso la spesa. Cominciò la pubblicità e Sumire si guardò intorno, mentre portava le bacchette piene alla bocca.
Era seduta ad uno dei sei tavolini tondi accanto al bancone del bar. Tranne il suo, tutti i tavoli erano vuoti, e il giovane barista li aveva puliti proprio poco prima che ci si sistemasse lei. Sumire lo fissò mentre il ragazzo, un giovane dalla pelle scura anche in inverno e dalla t-shirt giallo limone, sistemava delle bottigliette di succo di frutta nel frigorifero nell’angolo più interno dietro al bancone. Li toglieva da un cartone che ne conteneva sei, li contava, ne controllava la data di scadenza e l’integrità della bottiglia e, se superavano quel breve ma accurato esame, li riponeva nel frigo. Altrimenti venivano rimessi sul bancone, in disparte accanto al lavello. Sumire ammirò la solenne attenzione del giovane barista nello svolgere qualsiasi mansione, anche la più sciocca. Una volta lei si era complimentata con lui per questo; lui aveva risposto che gli atleti, di tutte le età, sono una categoria che va accudita più di qualunque altro cliente: gli sportivi escono esausti dalla sala di allenamenti e hanno bisogno di qualcosa di nutriente per riprendere le forze. È quindi fondamentale che i cibi e le bevande siano di ottima qualità. Da allora, la stima di Sumire per quel ragazzo gentile era cresciuta. Se tutti gli abitanti del Giappone avessero nutrito una passione simile per il loro lavoro, sarebbe stato un paese migliore.
La ragazza distolse lo sguardo dal barista per spostarlo sulle file di sedioline rosse imbottite accanto all’entrata, dove una giovane mamma con un paio di occhiali spessi, che la facevano somigliare comicamente ad un gufo, controllava che nella borsa della sua bambina ci fosse tutto l’occorrente prima di entrare nella sala di danza. La bambina, i cui capelli erano acconciati in un paio di corti codini laterali, se ne stava seduta lì vicino con il suo visino tranquillo, guardandosi intorno come lei. Quando incrociò il suo sguardo, sorrise, genuina, e Sumire rispose allo stesso modo. Quel simpatico contatto con la bambina si interruppe quando la mamma la prese per mano e la condusse verso gli spogliatoi, entrando insieme a lei per aiutarla a cambiarsi.  
Senza accorgersene, Sumire aveva svuotato il suo corposo bento. Lo ripose nel borsone sportivo, poi si alzò. Aveva ancora tempo prima di andare a cambiarsi, per cui si avvicinò ad una delle fotografie incorniciate al muro. Risaliva a un anno prima: ritraeva lei, con una pesante coppa dorata da primo posto tra le mani e un sorriso smagliante, che le andava da un lato all’altro della faccia. Sorrise a sua volta, rispondendo alla sé stessa radiosa della fotografia. Voltò lo sguardo sulla destra, mettendo a fuoco la vetrina dei trofei, ove si trovava anche la coppa inerente a quella vittoria. E il suo sorriso divenne triste.
Se solo ci fossi stato anche tu…
Aveva pensato a Ren quel giorno. Aveva pensato a Ren ogni volta che aveva vinto, desiderando che fosse sugli spalti a vederla, ovunque gareggiasse. Era stato presente ad una sola gara. Ma non era stata colpa sua.
Sumire chiuse il pugno e lo portò al petto, mentre i ricordi venivano a galla, risalendo dal buio in cui li aveva rinchiusi.
Ricordava ancora l’ultima volta che aveva visto Ren. Era una domenica di giugno di circa tre anni prima, una di quelle mattine così soleggiate e fresche che non si può non essere allegri. Ma, quel giorno, Sumire non era affatto allegra. E neanche Ren, perché non era uno stupido, e perché sapeva leggere l’espressione nei suoi occhi, anche quelle che tentava di celare. Quel giorno, lui era venuto a trovarla a Tokyo. Erano andati al parco, avevano pranzato fuori, poi erano perfino andati a fare una passeggiata sulla spiaggia. Erano stati mano nella mano tutto il tempo, ma non erano mai stati più distanti. Alla fine della giornata, Sumire aveva accompagnato Ren in stazione ed era stata sincera.
«Mi dispiace, Ren. Io non sono in grado di portare avanti la nostra relazione in questo modo. Ci vediamo pochissimo, non riusciamo a entrare nella vita dell’altro…e io ho bisogno di serenità se voglio dare il meglio negli allenamenti e vederne i frutti durante le gare. Io…non ce la faccio più. È meglio se la chiudiamo qui. Mi dispiace.»
Così gli aveva detto, con le mani giunte al petto affinchè non tremassero, come invece stava facendo la sua voce. Ren non aveva fatto scenate: non l’aveva pregata, non aveva cercato di convincerla a cambiare idea, non si era arrabbiato, nulla. Aveva capito già da tempo che sarebbe finita così, le disse, ed era andato via augurandole il meglio, lasciandola libera di perseguire la sua decisione senza renderle le cose più difficili. Sumire lo aveva apprezzato, e aveva ammirato Ren più di prima. Aveva pianto con la faccia sotto al cuscino per tutta la serata, e per tutte le sere per l’intera settimana, ma non era mai tornata sui suoi passi. E nemmeno Ren.
Adesso, però, lui era a Tokyo. Lei non aveva idea se ci sarebbe rimasto stabilmente dopo l’università…e a dire il vero non sapeva nemmeno se avesse ancora voglia di rivederla. Futaba l’aveva invitata alla mostra di Yusuke, e le aveva proposto di rivedersi tutti insieme anche quando l’aveva incontrata per strada la settimana scorsa, ma…
Si potrà recuperare quello che abbiamo perso? Lui…vorrà?
Si accorse di essere in apnea quando le mancò il fiato. Si obbligò a rilassare le spalle e prese il cellulare dalla tasca del giubbotto. Aveva mille dubbi, ma esitare non serviva mai a niente, e lo aveva imparato anni fa proprio grazie a Ren. Cercò il suo numero nella rubrica per mandargli un messaggio, ma restò di nuovo paralizzata, come ogni volta che era sul punto di farlo.
Forse dovrei lasciarlo in pace. Sarà andato avanti. Magari, starà frequentando qualche compagna di facoltà…
La loro storia era chiusa da alcuni anni, e proprio per volere suo: aveva senso ricominciare con qualcuno che aveva lasciato lei?
Non so se ha senso, ma forse non sono pronta a scoprirlo se ho ancora tanti dubbi. Ripose il cellulare nel giubbotto e si accinse ad avviarsi verso lo spogliatoio, ma rivolse una nuova occhiata alla fotografia sul muro. Il sorriso radioso della sé stessa vincitrice la contagiò, risollevandole il morale e infondendole la stessa grinta che l’aveva animata quel giorno.
 
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«…invece di dipingere! Io voglio parlare e lui mi chiede di non deconcentrarlo! Certo, me lo chiede gentilmente, però che diamine!»
Ren annuì, gli occhi puntati su quel mattone di libro, nel tentativo di sottolineare le parti più importanti di quel capitolo interminabile. Aveva un sonno pazzesco: si era svegliato presto quella mattina per ripetere qualcosa prima di andare a lezione, e adesso sentiva le palpebre pesanti. Inviò una lieve occhiata alla tazzina di caffè vuota che Sojiro gli aveva preparato solo qualche minuto prima; sul fondo scorse un vago sorriso nero, che pareva compatirlo. Tornò sul libro, anche se tra poco le parole avrebbero cominciato a danzargli davanti agli occhi.
«Sojiro, potresti accendere le luci?» domandò. L’anziano, che stava asciugando alcuni piatti appena lavati, replicò scontroso: «Ma è ancora giorno! Non guadagno così tanto da poter sperperare il denaro. Se non ci vedi, prova a studiare da qualche altra parte, ti pare?»
«E dai, Sojiro, anche io non vedo niente. Ha senso risparmiare la luce e pagare l’oculista?» intervenne Futaba, due tavoli più in là, mentre leggeva un manga.
Sojiro borbottò qualcosa e accese solo le luci sospese sui due tavoli occupati da loro.
«Ah, molto meglio, in effetti» disse Ann, seduta di fronte a Ren. Non aveva ancora terminato il suo succo di frutta. Portò le labbra lucide di rossetto alla cannuccia a strisce rosa e tirò un sorso, per poi tornare a sfogarsi.
«Stavo dicendo, non so cosa fare. È una persona impossibile. Sapevo che era particolare, ma non pensavo così tanto!»
«Se lo sapevi, non dovresti lamentarti» bofonchiò Morgana, seduto accanto a lei. Le dava le spalle.
Ann lo ignorò. «Per carità, non è che mi ignora del tutto, e poi mi dice un sacco di cose poetiche, ma…»
«Ora basta.» Ren, spazientito, tolse gli occhiali e li abbandonò sul libro, investendo Ann con tutta la sua irritazione. «Sto cercando disperatamente di studiare. Ho un esame la settimana prossima…» disse, indicando il mattone di pagine con una mano. «…e sto facendo le ore piccole per riuscirci. Ma è inutile se tu e Yusuke venite qui e non mi fate capire niente. Vi ascolto volentieri e lo sapete, ma potreste aspettare a dopo l’esame?»
«Ah, eccone un altro! A quanto pare, deconcentro tutti, io!» si stizzì Ann, incrociando le braccia al petto. Così facendo, gonfiò il seno, e il cuore sulla sua maglietta si allargò come un palloncino. Subito dopo, però, riportò gli occhi su di lui, spalancandoli. «Hai detto “tu e Yusuke”? Anche Yusuke è venuto qui? Quando?»
«Mentre eri negli Stati Uniti per vendere l’auto. Era esaurito perché non c’eri» replicò l’amico, stancamente.
«Davvero?» Ann aveva rimosso la mite sfuriata di Ren: i suoi occhi erano luminosi come un oceano sotto ad un sole splendente. Morgana, invece, aveva abbassato le orecchie.
«Sì, davvero. Quindi porta pazienza, lo sappiamo com’è fatto» replicò Ren, inforcando di nuovo gli occhiali.
«Non basterebbe che ti spogliassi per attirare la sua attenzione?» la punzecchiò Futaba, dalla sua postazione in fondo.
«Che suggerimenti sono questi?! Spero che tu non lo faccia con quel Daichi» intervenne Sojiro, rigido.
«C-c-c-che dic-ci?»
«Ah, magari. Se mi spoglio, mi dipinge. E anche se non mi spoglio. Dovrei attendere che gli venga qualche crampo alle mani?»
«Spezzagliele quelle mani. Oppure nascondigli i pennelli» suggerì Sojiro, spicciolo, suscitando una risata generale che alleggerì i nervi persino a Ren.
«Perle di saggezza da un veterano.»
«Scherza di meno e studia di più, tu.»
«Ci provo, ma fammi un altro caffè, per piacere.»
«Arriva subito.» Sojiro armeggiò dietro al bancone e Ren pregustò il nuovo caffè, soprattutto quando il suo odore si espanse per tutto il locale.
«Tranquillo, Ren. Sei intelligente, passerai questo esame» lo rassicurò Ann, inaspettatamente.
«Non è solo questione di intelligenza. Ma grazie della fiducia.»
«Bè, sei il leader, no? Sappiamo dove puoi arrivare.» Ann ammiccò in sua direzione, e Ren non poté far altro che sorriderle, lusingato.
«Il signorino è servito.» Sojiro posò la tazzina sul tavolo, sorridendo a suo modo, e Ren lo ringraziò con un cenno del capo. Fece per prendere la tazzina di caffè caldo quando udì il tipico tintinnio della campanella sulla porta del Leblanc. I suoi occhi, come quelli di tutti i presenti, finirono su…
«Buon pomeriggio a tutti!»
Quella voce. Quei capelli rossi fermati da quel fiocco cremisi. E quel sorriso così dolce, e quello sguardo così puro…
Gli si fermò il cuore.
«Sumire! Che bello rivederti! Come stai?» Ann fu la prima a reagire, affabile, e Ren gliene fu davvero grato. Lui non riusciva a muovere un solo muscolo, né a pensare.
«Ann! Sto bene! Ho saputo che sei tornata qui, è una bella notizia!»
«Eh già! Un po’ improvviso, ma non credo che mi sposterò di nuovo, almeno non per adesso.»
Gli occhi di Sumire tornarono in quelli Ren mentre gli sorrideva di nuovo. Avrebbe voluto dirle qualcosa, qualsiasi cosa, ma le parole gli si erano bloccate in gola. Non riusciva nemmeno a salutarla. Cos’era quell’improvvisa paralisi? Stava per venirgli un ictus?
Sojiro emise un verso a metà tra un grugnito e una risata e fece: «Bè, vado a comprarmi le sigarette.»
«Io mi sono ricordata di un impegno! Ren, in bocca al lupo per l’esame! E Sumire, ci vediamo presto, assolutamente!» disse invece Ann, il giubbotto su un braccio e la borsa appesa all’altro.
«Ti accompagno all’impegno, qualunque cosa sia!» scattò Futaba, raggiungendo l’amica.
«Io me ne vado a dormire» annunciò invece un mogio Morgana, dirigendosi verso quella che un tempo era la mansarda sua e di Ren, mentre le ragazze e Sojiro si dileguavano oltre la porta del Leblanc.
Ren avrebbe voluto fermarli tutti, ma al contempo apprezzò la loro iniziativa. Riuscì solo a schiarirsi la gola mentre chiudeva il libro con un tonfo, e cercò di trattenere un sorriso che, ne era certo, sarebbe stato veramente idiota.

 
  
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