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Autore: Corydona    28/04/2021    0 recensioni
Come in una partita a scacchi, due fazioni si ritrovano schierate l'una contro l'altra, pronte a dichiararsi una guerra che entrambe non vorrebbero. Da un lato gli Autunno, la cui potenza sembra inarrestabile, dall'altra i Primavera-Inverno, che possono contare su un'influenza senza eguali.
Una situazione di apparente stasi: apparente, perché nell'ombra i sovrani cadono e le successioni al trono sembrano più complicate del previsto. La guerra sarà dichiarata? Termineranno i regicidi? Quale delle due parti avrà la meglio?
Un'antica profezia annuncia la disfatta degli Autunno: si realizzerà? O rimarranno solo vaneggiamenti di un passato caduto nell'oblio?
Genere: Avventura, Fantasy, Mistero | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Selenia '
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Il cielo imbruniva e il sole si spegneva lontano al di là della catena dei Tumroi, nell'ovest del Ruxuna. L'aria fresca che spirava dalle montagne si insinuava nel mantello da viaggio di Luciana, che intravedeva all'inizio del lungo viale il palazzo reale della famiglia. I colori del tramonto donavano alla reggia un'atmosfera di elegante decadenza, nonostante le ostinate cure dei servitori e dei giardinieri per tenere lontana la natura ostile.

I faggi all'ingresso ombreggiavano la via percorsa dall'erede dei Lugupe, mentre lei si guardava intorno alla ricerca di un pretesto qualsiasi che ostacolasse il suo ritorno a casa. Casa.

Faticava a dare un senso a quella parola, perché non c'era luogo di Selenia in cui si sentisse tranquilla, protetta, amata. Neanche il rispetto che le veniva tributato alla corte di Defi pareggiava il suo desiderio di trovare il suo posto nel mondo. Soltanto in un momento aveva creduto che...

Sbuffò, allontanando una zanzara che le stava ronzando intorno. Neanche l'aria fresca che soffiava dai Tumroi riusciva ad allontanare quelle maledette bestiacce che lei a stento tollerava.

«Altezza, siete tornata!» esclamò un servitore, di cui lei ignorava il nome.

«Sì, riporta il cavallo alla stazione di cambio più vicina» disse sbrigativa. Poi porse le redini all'uomo attempato, che le rivolse un profondo inchino.

«Come desiderate.»

«Dove posso trovare mio padre?» gli chiese. In condizioni normali non le sarebbe importato di formalità di alcun tipo, non con la servitù, in quella situazione ancora meno.

«Nella sala del pomeriggio, prendeva il tè con la Contessa.»

Luciana annuì, trattenendosi dal sollevare lo sguardo al cielo. La Contessa, sua bisnonna materna, era un'anima che si era venduta agli dèi ancestrali per non morire mai e perseguitarla fino a quando una delle due non sarebbe finita sotto terra. Altrimenti la giovane non sapeva spiegarsi come quella donna dalle rughe profonde e lo sguardo di finto miele era sopravvissuta alla dipartita dei suoi figli e del marito, che Lavinia le aveva sempre dipinto come un uomo gentile che le aveva impartito i primi insegnamenti.

La principessa di Dzsaco trattenne un commento malevolo e salì i cinque gradini che la separavano dall'ingresso della reggia. Da lì, si voltò per guardare il viale che aveva percorso, il servitore che si allontanava con il cavallo a nolo, mentre ai lati della scalinata i giardinieri innaffiavano due giardinieri si occupavano di innaffiare le due porzioni di prato, su cui margherite dalle tinte ombrose iniziavano a chiudersi.

Aveva dimenticato il colore di quei fiori particolari, che non aveva visto in nessun altro luogo nel sud del continente. Le ricordavano l'infanzia, quando le avevano vietato di raccoglierli e di rotolare nell'erba umida, quando era stata obbligata a fare i conti con la realtà: la regina non era fertile e la sua nascita era stata una benedizione; e proprio in virtù del suo essere unica erede le sarebbe spettato il trono. E allora era iniziata la sua educazione ferrea, aveva imparato a leggere e scrivere molto presto, mentre vedeva i suoi coetanei figli della servitù giocare a rincorrersi nei cortili: li spiava dalle vetrate quando il precettore non la vedeva. Sorrideva, malignamente, quando arrivava una delle donne di servizio a riprenderli e a richiamarli ai loro piccoli doveri.

Quel luogo era maestoso, della stessa maestosità decadente di una dinastia che sembrava avvicinarsi al crepuscolo. Le circostanze in cui tornava erano le peggiori che potessero esserci: come poter dire al padre non solo che Nicola era stato condannato a morte, ma anche che lei stessa avrebbe dovuto subire quella sorte se non fosse stato per le Autunno?

Si specchiò su una delle finestre lucidate e vide la sua intera figura riflessa, con la gonna strappata per scappare, il proprio viso distrutto dall'esperienza di quegli ultimi giorni, le occhiaie profonde quasi scavate sotto gli occhi, due fossati per nascondere il reale motivo per cui era tornata al palazzo. Non doveva dimostrare la sua innocenza, doveva attendere che la madre tornasse dallo Cmune per avvelenarla e poi convincere suo padre, Ettore Lugupe, a intraprendere una guerra in cui sarebbe stato ucciso.

Smise di indugiare e varcò la soglia del palazzo; nell'ampio ingresso sostavano due camerieri in livrea, che non avevano battuto ciglio nel vederla lì in quello stato.

«Tu, portami da mio padre» disse risoluta a quello che le era più vicino. «È urgente.»

Quello abbassò il capo cerimonioso, senza proferire parola, e la guidò tra i corridoi sfarzosi della reggia, illuminati dalla luce ambrata del sole. Gli arazzi, gli enormi affreschi dai colori brillanti che decoravano le pareti, quella presenza ossessiva dell'oro in ogni punto, rimarcato con ancora più forza dai raggi sbiechi che dalle vetrate filtravano senza permesso: tutto ricordava alla Lugupe le ricchezze della famiglia, priva di capacità governative, ma piena di denaro per risolvere ogni inconveniente.

Luciana arrivò al terrazzo in cui suo padre era insieme alla raggrinzita Contessa. Quella donna detestabile, con il suo abito verde scuro ricamato con pizzi e merletti, sorseggiava del tè con compostezza, rimirando le luci morenti del giorno.

Ettore Lugupe, invece, aveva il naso aquilino immerso nelle sue scartoffie. La corrispondenza dei suoi funzionari in giro per il regno, concluse la figlia tra sé e sé.

«Maestà, madama Contessa, la principessa è tornata al palazzo.»

Al sentire le parole ampollose del cameriere, entrambi si riscossero, portando i loro sguardi in quello di Luciana, che si concentrò solo sul padre, illuminato dai raggi sbiechi, la fronte aggrottata. Lui la scrutò con meraviglia, come se non credesse che lei fosse realmente lì, al loro cospetto.

Il re di Dzsaco si mosse istintivo verso la figlia, e la strinse in un abbraccio. Lei, sorpresa, non ebbe modo di reagire, perché lui subito chinò il capo verso di lei, con le mani sulle sue spalle, come se fosse ancora una bambina.

«Ci sono arrivate notizie terribili dallo Cmune, tua madre credeva che fossi morta nell'incendio di Mitreluvui!»

«No, sono viva» mormorò lei. «Devo parlarvi.»

Ettore la scrutò con attenzione, fissando i suoi occhi in quelli altrettanto scuri di Luciana. Comprese che qualcosa di grave la turbava, e le indicò di sedersi sul divanetto intrecciato di vimini, su cui mani abili avevano cucito della stoffa verde scuro, con dei cuscini imbottiti dello stesso colore lugubre che sembrava anticipare quali parole avrebbe pronunciato.

«Ragazza, non hai per niente un bell'aspetto» commentò la Contessa con una smorfia, posando la tazzina di porcellana su un piattino bianco, dopo essersi soffermata sui vestiti lacerati della giovane.

Lei evitò di rispondere alla provocazione, concentrandosi sul padre e sul modo in cui poteva convincerlo a intraprendere una guerra contro gli Autunno.

«Io non ero più al palazzo dei Lotnevi quando è scoppiato l'incendio» disse, mentre il sovrano di Dzsaco prendeva posto abbandonando la corrispondenza sul tavolino in vetro. «Melissa Autunno mi ha portata via da lì prima.»

«Ah-ah! Ci sono lei e quella serpe di sua sorella dietro a tutti questi impicci!» esclamò la Contessa, con la sua voce roca.

La principessa le rivolse un'occhiata lunga e silenziosa, carica di odio. Detestava essere interrotta, detestava ancora di più che fosse quella donna spregevole a farlo, mentre lei cercava di formulare un discorso compiuto per arrivare a convincere il padre a intraprendere quella guerra.

«Immagino che ora le Autunno vogliano qualcosa in cambio per il loro disturbo» continuò a dire l'anziana nobile, con gli occhi smeraldini che guizzavano intorno, posandosi spesso su quelli dell'unica erede del casato Lugupe.

«Non voglio dire una parola di più davanti a lei» disse Luciana, ferma. Non poteva permettere che la vetusta parente la intralciasse. Aveva ragione Melissa, bisognava ringiovanire i ruoli di potere su Selenia: le vecchie streghe come la Contessa non dovevano più criticare chi come lei faceva del proprio meglio per il casato e per il regno.

«Vi prego entrambe di fermarvi qui» disse Ettore, atono. La sua era una richiesta nella forma, ma le donne sapevano che l'espressione gentile intendeva camuffare un ordine. Il sovrano guardò la figlia, incitandola a proseguire.

Lei chinò il capo, ubbidiente: si sarebbe sforzata nel comportarsi come se la megera non fosse lì insieme a loro, e provò a farlo guardando solo il padre. «Mi ha proposto un accordo.»

Raccontò dell'espediente della finta guerra, con cui i Lugupe avrebbero acquisito maggiore credibilità, ma che invece era utile alle Autunno per prendere tempo e far credere che la loro offensiva si fosse arrestata. Luciana avrebbe fatto a meno di rivelare quell'ultimo dettaglio, ma era convinta che altrimenti la vecchiaccia l'avrebbe tartassata con altre ipotesi disgustose sull'alleanza tra lei e Melissa. Alleanza realmente esistente, ma di cui nessuno avrebbe dovuto sapere nulla all'infuori delle dirette interessate.

Il re di Dzsaco osservava la figlia mentre la ascoltava, meditando su come fosse più opportuno agire. «Non abbiamo un esercito così efficiente» commentò. «Potrebbero volerci mesi per organizzarne uno che riesca a tenere testa a quello degli Autunno. Nel frattempo Tancredi potrebbe aver già preparato il suo.»

Luciana si meravigliò, a quelle parole. «Anche Tancredi lo sta facendo?»

Lui annuì. «Me ne ha accennato, ma gli ho spiegato che noi non siamo preparati. Abbiamo bisogno di tempo. Se gli Autunno vogliono essere credibili, devono essere loro ad attaccarci, perché altrimenti io non avrei alcuna scusa con il Defi, visto che ho promesso la mia alleanza allo scoppiare della guerra.»

«Questo non toglie che ci distruggerebbero in meno di un giorno» bofonchò la Contessa, versandosi altro tè nella minuscola tazzina. Le mani ossute si strinsero attorno alla porcellana che portò alla bocca, ignorando lo sguardo di biasimo di Ettore. «Mio caro» aggiunse «la tua unica abile mossa politica è stata sposare mia nipote. I vostri maestri militari sono delle bamboccione che non riescono a reggere in mano una spada. Ah, ai miei tempi...»

«Qualche giorno fa ho spiato una conversazione, in una locanda dello Cmune» inventò Luciana, solo per il gusto di interrompere le chiacchiere nostalgiche della donna; ma ideò subito un pretesto per seguire le indicazioni di Melissa. «Due uomini parlavano di bande di mercenari nel Pogudfo, che sono molto abili e preparate ad affrontare una guerra. Qualcuno potrebbe andare lì e assoldarne qualcuna, in modo che si mischino al nostro esercito e ci aiutino a rendere più credibile l'idea per cui ci salveremmo diffondendo la convinzione che il nostro popolo è con noi e lotta per la propria terra.»

«L'idea della ragazza è buona» commentò la Contessa, attirandosi un'occhiata meravigliata della bisnipote. Le rughe attorno agli occhi si infittirono, mentre quella bocca grinzosa si piegava in un sorriso strano. Forse credeva davvero che Luciana avesse esposto un piano non da buttare via. «Potrebbe aver ereditato l'intelligenza della nostra famiglia, anche se l'ha nascosta per molto tempo. Be', meglio tardi che mai.»

La giovane si trattenne dal roteare gli occhi, ma la smorfia sul suo viso faceva trapelare il fastidio.
Ettore teneva le mani sul tavolino, immerso nelle sue riflessioni, con le punte delle dita unite, con lo sguardo puntato sulle sue carte, che non guardava realmente.

«Padre?» si azzardò a dire Luciana. «Cosa ne pensate?»

Lui sospirò, posando gli occhi in quelli altrettanto scuri della figlia. «Io e la Contessa stavamo giusto preparando un piano di rilancio economico per lo Dzsaco, in modo da non essere dipendenti dagli altri regni, ma ci vorrà del tempo perché possa dare i suoi frutti. Se vinciamo uno scontro con gli Autunno, il popolo si lascerà guidare da noi, ci crederà quando daremo delle istruzioni che potrebbero non capire... e penserebbero che lo facciamo per il loro futuro, proprio come è, ma senza insinuare che abbiamo l'intenzione di arricchirci alle loro spalle.»

«La nostra famiglia è già ricca abbastanza, mio caro. Dei soldi di quella gente non ci facciamo proprio nulla.» La Contessa posò la tazzina vuota sul piattino, come se non le pesasse di aver pronunciato la verità senza il minimo tatto. «Ora i soldi ci devono servire per pagare dei mercenari bene addestrati che possano servire al nostro scopo. Ragazza, tu hai i contatti con le Autunno, puoi farti dire dove trovare chi fa al caso nostro. Suggerisco che sia tu a partire.»

Ettore scosse la testa. «Vorrei che Lavinia possa vedere che è qui e che sta bene, in modo che non...»

«Lavinia è davvero cocciuta ed è voluta partire lo stesso con qualche uomo di scorta e solo una delle sue cameriere personali. Una mossa poco intelligente: avrebbe dovuto mandare te, ma era così preoccupata che i Lupfo-Evoco facessero davvero quello che hanno fatto che inizio a temere che abbia proprio perso il lume della ragione...»

Luciana strinse i pugni fino a conficcarsi le unghie nella carne per trattenere il disappunto. Non le bastava prendere di mira lei, ora voleva anche criticare le azioni di sua madre? Non doveva osare. Sperò che Melissa le desse qualche consiglio su come potersi sbarazzare della Contessa, in modo che smettesse di infilare quel suo naso affilato in tutte le faccende del regno.

Si morse la lingua, nel timore che il suo autocontrollo potesse venir meno e ripensò all'ultima parte del suo accordo con la principessa di Ruxuna: gli zaffiri delle loro miniere al nord. Preferì tacere, non solo per evitare i commenti spiacevoli della donna, ma perché non era necessario metterne al corrente il padre.

«Avete ragione, non avrei dovuto lasciarla partire» disse il re, mestamente. «È stato un mio errore, di cui vorrei non parlare più. Ormai quelle scelte appartengono al passato: confido che Lavinia torni presto qui, in modo che quando il guaritore arriverà, possa mettersi subito all'opera dal momento che il suo male è curabile.»

«Posso partire lo stesso» propose la principessa, cogliendo subito l'occasione che le si presentava. «Aspetto il suo ritorno e nel frattempo chiedo consiglio a Melissa, così sarò preparata a come agire nel Pogudfo.»

«Sì, questa è la cosa migliore» stabilì Ettore, chiudendo il discorso. Si chinò di nuovo sulle sue carte, dopo aver congedato sia la figlia sia l'anziana parente della regina.

   
 
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