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Autore: WaterfallFromTheSky    30/04/2021    2 recensioni
Ren, ormai ventenne, è ritornato a Tokyo stabilmente; Sumire lavora nel settore della danza ed è impegnata in competizioni internazionali di ginnastica ritmica. Entrambi si sono lasciati qualche anno prima, ma nessuno dei due ha smesso di pensare all'altro...
PS: questa storia è la continua di Shin no utsukushi-sa. Non è necessario, ma ci sono alcuni riferimenti ad essa, quindi consiglio di leggere prima quella per godere appieno di questa Fic.
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Ren Amamiya/Akira Kurusu
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Aveva preso quella decisione su due piedi, ed era corsa alla stazione prima di cambiare idea. Durante il tragitto ci aveva ripensato almeno tre volte, ma alla fine era riuscita a raggiungere il Leblanc, con l’esofago annodato e il cuore che le martellava in petto. Non se ne pentiva: aveva pensato che, per fugare ogni dubbio, avrebbe dovuto provare a rivedere Ren, anche in compagnia, e vedere che effetto le faceva. Ora che ce lo aveva di fronte, e che tutti si erano defilati con una scusa o l’altra, non riusciva a smettere di sorridere, al settimo cielo.
Gli si sedette di fronte, occupando il posto di Ann, e gli rivolse un nuovo sorriso. Dal sedile promanava ancora il calore di Ann, come se la ragazza avesse voluto lasciarle un segnale per incoraggiarla in quell’impresa.
Ren era come lo ricordava, tranne che sembrava molto stanco, a giudicare dagli aloni grigi che gli contornavano le palpebre inferiori. Era il solito Ren, taciturno e posato. Le sorrise, il che la rincuorò – aveva davvero avuto paura che lui sarebbe stato distaccato? –, ma notò che passava ripetutamente le mani sui jeans.
«Tutto bene?» esordì, pur banalmente. L’importante era iniziare, no?
«Tutto bene. Tu?»
«Bene.» Un silenzio impacciato avvolse i due giovani. Sumire notò la tazza di caffè piena e disse: «Dovresti berlo, altrimenti si fredderà. Sarebbe un peccato, il caffè di Sojiro-san è così buono.»
«Uhm, sì, hai ragione.» Ren bevve meccanicamente un sorso, poi domandò di getto: «Ti va un caffè? Te lo preparo.»
«Va bene, grazie.»
Ren si precipitò dietro al bancone. Sumire lo vide indossare un grembiule, lo stesso di quando abitava nella mansarda del bar, e armeggiare con la macchina del caffè e con le tazzine. Sentì cadere qualcosa sul pavimento, e lui che bofonchiava qualcosa. Si accomodò su una delle sedie di fronte al bancone, incerta su cosa dire. Ma fu lui a parlare: «È un po’ che non preparo un caffè, quindi non garantisco che venga bene.»
«Sarà sicuramente ottimo!» Sumire lo lasciò lavorare in pace, lanciandogli occhiate quanto più discrete possibile. Era carino come lo ricordava. In quel momento, le tornò in mente il pomeriggio in cui, proprio in quel luogo, su quella sedia, lei gli si era dichiarata ed era diventata la sua ragazza. E poi una serie di baci teneri e timidi…
«Come te la passi?» Ren interruppe bruscamente i suoi ricordi nostalgici, porgendole una tazzina di caffè fumante. La ragazza arrossì, ma ringraziò e bevve un sorso. L’odore era ottimo, e il sapore anche: Sumire adorava l’amaro del caffè, che aveva il potere di schiarirle i pensieri. Il suo calore, poi, le riscaldò la gola, rinfrancandola dall’aria fresca dell’esterno.
Mentre carezzava distrattamente le volute azzurre dipinte sulla tazzina, gli raccontò in breve le novità degne di nota: il suo diploma, le gare che aveva vinto, la scuola di danza dove si allenava duramente e dove al contempo insegnava. «È un bellissimo periodo per me. Amo il mio lavoro e le mie allieve, e tra un mese avrò un’altra gara. Sto progettando il vestito, sono emozionata! La coreografia invece è già pronta, devo solo perfezionarla.»
Era partita con un tono incerto, ma si era presto sciolta nel parlare delle sue passioni. Ma non era solo quello: parlare con Ren le era sempre venuto facile. Era felice di poterlo mettere a parte di tutto ma, allo stesso tempo, pensò che era triste non averlo avuto accanto per tutto quel tempo.
Ren era rimasto dietro al bancone e l’aveva ascoltata attentamente, le mani in tasca, annuendo di tanto in tanto, sorridendo con partecipazione e porgendole perfino delle domande. Era interessato a lei, anche dopo tutto quel tempo, anche se lei lo aveva lasciato, e Sumire era sollevata, talmente tanto che quasi glielo disse. Ma si morse la lingua, perché era troppo imbarazzante.
Anche Ren la informò su ciò che lei non sapeva: il suo lavoro nel suo paese natale, la decisione di trasferirsi, l’iscrizione a scienze politiche e gli esami, il condominio in cui viveva. Sumire fu ben lieta di constatare che il ragazzo non si risparmiasse nei dettagli: le raccontò tutto, e le parve felice e spontaneo mentre lo faceva, quasi come un tempo. Le fece piacere ascoltarlo – anche perché aveva sempre adorato la sua voce, ed era un peccato che non fosse un chiacchierone –, e dimenticò tutte le sue paure, tutta la sua ansia, il disagio iniziale. Inoltre, sembrava proprio che lui avesse tutte le intenzioni di restare a Tokyo anche dopo essersi laureato; la cosa non poté che entusiasmarla.
Le ore volarono senza che se ne accorgessero. Fu il ritorno di Sojiro ad annunciare l’avvento della sera. Quando l’uomo tornò, loro due erano ancora al bancone, intenti a chiacchierare in modo fitto, a ridere e a scherzare tra loro quasi come se fossero ancora una coppia.
«Ehi, spero che tu non abbia fatto danni» disse Sojiro, vedendo che Ren era dietro al bancone e indossava uno dei grembiuli.
«Nessun danno! Anzi, ha preparato un ottimo caffè» intervenne Sumire per lui, ammiccando in sua direzione. Ren le sorrise, complice, e a lei venne voglia di abbracciarlo.
«Ma guardali ‘sti due» mormorò Sojiro, sorridendo furbamente. Fece arrossire entrambi.
Sumire controllò l’orario dal cellulare e divenne triste: doveva tornare a casa. Le sembrava di essere stata al bar appena un quarto d’ora.
«Ti accompagno in stazione. Anch’io devo tornare a casa» si offrì Ren, abbandonando in fretta il bancone.
Sumire accettò, gongolante, e lanciò furtive occhiate a Ren mentre metteva alla rinfusa tutte le sue cose nella borsa.
«Prima togliti il grembiule, però» fece Sojiro, ghignando allusivo.
I due uscirono nell’aria fresca della sera, ritrovandosi immersi nel silenzio della strada in cui si trovava il Leblanc. Passando sotto la luce gialla dei lampioni, si diressero alla stazione senza fretta. Quando però vi arrivarono, la linea di Sumire passò all’istante. La ragazza, a malincuore, guadagnò ancora qualche secondo, lasciando che la bolgia circostante salisse prima di lei. Si voltò verso Ren e disse: «Mi ha fatto molto piacere rivederti. E…sono felice che tu sia tornato.»
«Dovremmo…rifarlo» rispose lui, gli occhi fissi nei suoi come faceva quando…
Sumire arrossì, ma non se ne disperò. Rimase lì come una sciocca a ricambiare il suo sguardo, dimenticando di dover prendere la metropolitana.
«Se ne andrà se non ti sbrighi» disse Ren, a bassa voce. Era dispiacere quello che avvertiva nella sua voce?
Sumire si riscosse e, suo malgrado, dovette salutarlo e dargli le spalle.
«Ci vediamo presto!» esclamò, infilandosi nella metropolitana proprio un attimo prima che si chiudessero le porte. Rimase schiacciata contro il vetro, circondata dalle schiene di tre uomini, ma non le importava affatto: era troppo di buon umore per badare ad una cosa simile. Si voltò e lo vide salutarla con un sorriso. Lei ricambiò. La metropolitana partì…e Sumire fu sul punto di gridare di gioia.
 
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Ren rimase impalato per alcuni minuti dopo che Sumire era sparita dalla sua vista. Stava ancora sorridendo. Gli parve di essere tornato un adolescente preso dalla sua prima cotta. Bè, in effetti Sumire era stata la sua prima cotta seria, e ora era ritornata…
Non ci aveva più sperato. Aveva benedetto la complessità dell’esame di diritto pubblico – un motivo per gettarsi sullo studio ed evitare di soffermarsi sul resto – e si era privato anche del sonno pur di studiare. Ma lei si era rifatta viva…
Non era un sogno, era tutto vero.
«Ti sei dimenticato di me.» La voce di Morgana lo raggiunse dal basso; Ren sobbalzò nel ritrovarsi l’amico seduto accanto, l’espressione seccata.
«Scusami! Ho avuto una svista…» replicò, sinceramente rammaricato. Come aveva fatto a dimenticarsi di Morgana?
«Non ti preoccupare. So bene che non te la sei mai tolta dalla testa.» Morgana sorrise, ammiccando nella luce fredda e cupa della metropolitana, e lui si rilassò. «E ora, addio studio» commentò il micio, punzecchiandolo.
Ren pensò che non poteva proprio permetterselo però, se avesse potuto farlo, avrebbe davvero voluto passare con Sumire tutto il tempo che aveva a disposizione. Per adesso, tuttavia, doveva tornare a casa, si era fatto tardi. All’improvviso, si sentiva più sveglio ed energico che mai, come se avesse bevuto almeno cinque caffè di Sojiro. Si chinò verso Morgana e gli permise di balzare nella sua borsa, quindi tornò verso le scale per recarsi al suo binario.
«Meno male che hai ignorato quella ragazza» miagolò Morgana.
«Già. Meno male» confermò Ren, sorridendo inebetito.
 
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Si fermò davanti alla scuola di danza controllando l’indirizzo sul cellulare. Sì, era arrivato.
«Vado a farmi due passi. Ci vediamo più tardi» annunciò Morgana, saltando fuori dalla sua borsa. Ren annuì e, emozionato, varcò la soglia della scuola. Un profumo per ambienti agli agrumi gli accarezzò le narici non appena si richiuse la porta alle spalle; era miscelato con un vago odore di caffè, che proveniva dal bar in fondo. Ren pensò che si vedeva chiaramente che quel luogo era amministrato da una donna. Lo suggeriva l’accostamento di colori, rosso per le sedie e i tavolini del bar, color panna per le pareti e bianco lucido per i pavimenti, nonché la pulizia impeccabile, i bonsai dalle foglie smeraldine disseminati per la sala d’attesa e un originale ed elegante lampadario costituito da tante luci bianche, rotonde, che lo facevano somigliare alla testa di una medusa. Rimase a fissare il lampadario per svariati secondi, poi si decise a dare un’occhiata in giro: era arrivato in anticipo, Sumire sarebbe uscita almeno mezz’ora dopo. Si avvicinò alla vetrina con i trofei, trovando coppe di tutte le dimensioni, medaglie, ma anche premi dalla forma curiosa. Uno in particolare lo colpì: sembrava fatto d’argento ed era uno spesso cerchio al quale erano saldate due scarpe di danza classica e una stella. Le scarpe erano dipinte di rosa pallido, la stella di argento metallizzato.
Chissà se qualcuno di questi lo ha vinto Sumire?, si domandò, certo che la risposta fosse affermativa.
Abbandonò i premi per studiare le fotografie appese al muro, circondate da una sottile e lineare cornice dorata. In diverse di esse scorse Sumire. Si soffermò su una in particolare: la ragazza aveva i capelli raccolti in un perfetto chignon, la frangia aperta al centro, mentre un brillante sorriso le distendeva il volto. Il suo corpo da atleta era fasciato da un body blu elettrico a maniche lunghe, che si apriva sui fianchi e che le circondava il basso ventre con delle piccole nappe dello stesso colore. Il corpo era costellato di pietre luccicanti argentate e blu di diverse dimensioni: le prime erano disseminate in modo da formare una piccola Via Lattea accanto all’apertura dei fianchi e sui seni, le seconde invece erano sparse sul ventre. Ai piedi calzava delle semplici scarpette impreziosite da piccole pietre blu molto simili a quelle del vestito. A Ren parve bella come una fata, e pensò che dovesse essere altrettanto leggiadra. Chissà com’era migliorata nel frattempo?
Ebbe l’impulso di soffermarsi anche sulle altre fotografie – ne era piena la parete –, ma si avvicinò al bancone, dove quella che doveva essere la proprietaria, almeno a giudicare dalla descrizione sommaria che le aveva fatto Sumire al Leblanc, era impegnata a risolvere un gioco di parole crociate. I suoi occhi piccoli erano fissi su un’unica fila vuota, attraverso i piccoli occhiali squadrati.
«Mi scusi» esordì.
«Prego» replicò lei, pronta e cordiale.
«È possibile assistere agli allenamenti?»
«Ma certo! Mi segua!» La donna, che era alta e longilinea – un’ex ballerina, dedusse Ren – abbandonò il bancone facendogli cenno di seguirla. Attraversarono una porta color cioccolato, oltre la quale Ren vide altre tre porte: due di esse conducevano agli spogliatoi. Presero l’ultima, che dava su un brevissimo corridoio. Oltre quello, una vetrata immensa, che permetteva di vedere l’interno della palestra.
«Molti genitori vengono a vedere i propri figli che si allenano, soprattutto quando sono molto piccoli e possono aver bisogno di aiuto o conforto. Per questo, ho pensato a questa soluzione!» spiegò la signora, evidentemente soddisfatta della sua trovata. Ren la stava ascoltando a malapena, gli occhi fissi oltre la vetrata.
La palestra era di forma rettangolare, larghissima quasi quanto quella della Shujin, ma senza spalti. Il pavimento era di parquet lucido e in alcuni punti la luce dei fari sul soffitto si rifletteva come il sole sull’acqua. Diametralmente opposto alla vetrata, uno specchio copriva l’intera parete – probabilmente serviva agli atleti per controllare i loro movimenti. Sul lato sinistro, una donna con i capelli corti, vestita in top e leggins aderenti osservava con attenzione una giovane che danzava al centro della palestra sulle note di una melodia di pianoforte. Lo sguardo di Ren fu subito calamitato su di lei, e non avrebbe potuto essere diversamente: era meravigliosa. Se esistessero le fate, e se esse potessero ballare, lo avrebbero fatto come lei, pensò Ren.
Sumire aveva i capelli raccolti in uno stretto chignon, come tutte le volte in cui l’aveva vista danzare in passato, e indossava un semplice body da allenamento color magenta. Niente di speciale se non fosse stato per la grazia dei suoi movimenti. Ren la fissò incantato mentre volteggiava per tutta la palestra, insieme ad una palla di gomma dorata che sembrava viva come un partner senziente. Era giunto nel bel mezzo della sua esibizione e sperò che la fine non fosse vicina.
In quel momento, Sumire stava girando su sé stessa con la testa piegata leggermente di lato, mentre faceva passare la palla da una spalla all’altra, lenta come il motivo musicale che l’accompagnava. La palla giunse poi nella mano destra e la ragazza si profuse in una capriola laterale senza mani, e poi una all’indietro, la palla come incollata al suo palmo.
Il ritmo cambiò: la musica divenne gradualmente più incalzante, e così i movimenti di Sumire, come se scivolasse sulle note del pentagramma. La ragazza produsse una ruota in avanti, la lanciò in alto e riprodusse un’altra ruota, riprendendo la palla al volo; un giro su sé stessa, poi sollevò la gamba, dritta come una stecca, il piede ad uncino, le mani che tenevano la palla mentre circondavano la gamba e lei girava sul proprio asse per tre volte. Lanciò di nuovo la sfera in alto, fece una capriola in avanti, tornò in piedi proprio mentre le ricadeva in mano. La musica si fermò per un lungo secondo, pieno di suspence; in quel brevissimo frangente, Sumire restò perfettamente immobile, come una scultura realizzata da uno scrupoloso artista. Poi la musica ripartì, languida, e Sumire riprese allo stesso modo. Tirò la palla in alto ancora una volta, poi fece due giri su sé stessa e accolse la palla nell’incavo delle ginocchia mentre eseguiva una nuova capriola in avanti, dalla quale si ritrovò direttamente in ginocchio con il globo dorato fermo tra le cosce. Le note si fecero acute mentre lei si alzava su una gamba sola, afferrava il piede dell’altra gamba e piroettava con la palla nella mano libera; divennero poi gradatamente gravi mentre lanciava la sfera in aria; il tempo di una piroetta e una nuova capriola, ma stavolta la palla atterrò sul dorso del piede di Sumire e, mentre lei si stendeva sul pavimento con un unico movimento, le rotolò lungo la gamba, sul ventre, sul petto, e poi sul braccio destro e nel palmo della mano. Sumire si rialzò con una capriola in avanti, la palla che le scorreva ora sulla schiena e le ritornava tra le dita. Eseguendo un mezzo giro, la ragazza scivolò in ginocchio, dolce come la melodia, lanciò la palla in verticale e la colpì con gentilezza con il dorso del piede per accoglierla con l’altra mano mentre si stendeva. Concluse torcendo il busto, in modo che il petto premesse contro il pavimento, e così finì. Sorrideva, come aveva fatto per tutta la durata della coreografia: era l’immagine della gioia, e brillava come un astro.
Ren si accorse di essersi emozionato: avvertiva un principio di commozione nel cuore. Se era stata la coreografia, la musica, o semplicemente Sumire e la sua felicità genuina non seppe dirlo, ma di una cosa era certo: era durato troppo poco.
Sumire era notevolmente migliorata dall’ultima volta che l’aveva vista. Ren non se ne intendeva di ginnastica ritmica, ma qualcosa grazie a lei l’aveva imparata, a suo tempo. I movimenti di Sumire gli parvero più aggraziati, sciolti ed elastici di prima e allo stesso tempo più precisi e ben modulati – in una parola, perfetti. La sua coreografia era scandita dalla musica, che sembrava quasi essere stata creata per lei. E l’atteggiamento: sicurezza, concentrazione, naturalezza, affiancate dall’allegria che quell’attività le suscitava. Sembrava che tutti i dubbi e i timori che affliggevano Sumire tre anni fa si fossero dileguati nel passato. Sumire aveva trovato il proprio stile e lo sfoggiava spontaneamente, come il suo sorriso dolce e lieto. Inoltre, ricordava, prima non era brava con la palla: aveva sempre preferito i nastri, ma adesso Ren era orgoglioso di vederla danzare con la palla come se l’avesse sempre usata.
Meravigliosa. Ren aveva quell’unica parola in mente, che gli fluttuava nella testa mentre la vedeva rialzarsi ansimando. Aveva posato una mano sulla vetrata e se ne accorse solo in quel momento. La nascose in tasca, imbarazzato, e arrossì vagamente quando la receptionist, di cui si era dimenticato del tutto mentre ammirava la grazia di Sumire, disse: «Pare che Yoshizawa-chan abbia un ammiratore.»
Non rispose; preferì tormentarsi un ciuffo sulla fronte con le dita.
Vide Sumire sorridere a quella che Ren dedusse essere la sua coach, che le stava dedicando un piccolo applauso. Poi, però, scoccò uno sguardo alla vetrata e i loro sguardi si incrociarono. Il cuore di Ren sobbalzò come se fosse stato trafitto da una freccia, e Sumire per poco non fece cadere la palla. Ren sorrise, senza notare i passi della receptionist che tornava all’ingresso. E sorrise ancora di più quando vide Sumire che si avvicinava alla porta saltellando sulle punte, con una deliziosa contentezza impressa in volto.
 
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«Ren!»
Aveva le palpitazioni a mille: se per l’allenamento o perché aveva Ren davanti agli occhi, difficile dirlo.
«Sumire.»
La ragazza gli di fermò di fronte, incapace di celare il suo entusiasmo. Perché avrebbe dovuto?
Ren ricambiava con un sorrisino dei suoi, incardinato nella sua solita postura con le mani in tasca. Morgana non c’era, notò.
«Che ci fai qui?» gli domandò.
«Uhm, ero di passaggio e ho pensato di fermarmi a vedere se c’eri.»
«Mi hai vista ballare? Che te ne pare?» Sumire non lo fece nemmeno rispondere che aggiunse: «No, aspetta, sono tutta sudata, sono impresentabile! Se non sei impegnato, puoi aspettarmi fuori? Faccio una doccia veloce.»
«Sono libero. Ti aspetto» accordò Ren. Le rivolse un nuovo sorriso e le diede le spalle per tornare all’ingresso. Sumire fece un piccolo salto di gioia e tornò in palestra per salutare la sua coach, quindi si precipitò negli spogliatoi per lavarsi e cambiarsi. Si preparò in fretta e furia, piena di energie, come se l’allenamento non fosse stato affatto impegnativo. Quando fu pronta, si diede una veloce occhiata allo specchio: la coda era venuta bene, la frangia era in ordine, e per fortuna indossava la sua tuta nuova, quella nera con le cuciture fucsia, che profumava ancora di bucato. Peccato però che non avesse indumenti migliori di quella tuta…
D’un tratto le parve di essere tornata indietro nel tempo, ai giorni felici in cui Ren la attendeva fuori dalla palestra, come quel giorno. L’entusiasmo era lo stesso, l’impazienza di uscire anche, come pure la curiosità di sapere cosa pensasse della sua esibizione – l’aveva vista tutta?
«Ok, Sumire. Andiamo» si disse, dandosi due colpetti sulle guance. Agguantò i manici del borsone sportivo e uscì dall’umido spogliatoio, lo stomaco contratto di emozione. Attraversò il breve corridoio e giunse nella hall. Cercò Ren con lo sguardo e lo trovò che esaminava una delle foto in cui c’era anche lei, insieme ad altre due compagne. Ricordava bene quella gara: era stata una delle più difficili, ma proprio per questo una delle più soddisfacenti.
«Ehi» lo chiamò. Ren si voltò in sua direzione, dedicandole un sorrisetto che la emozionò. Non ci credeva, non ci credeva che era venuto a vederla, e senza avvisarla. Possibile che…?
Sarebbe un sogno.
«Lì ero in Corea. Sono arrivata terza, mentre le mie compagne prima e seconda» disse lei, indicando con un dito le altre due ragazze. Avrebbe voluto illustrargli tutte le fotografie che la proprietaria aveva appeso lì nella hall, ma temette di sembrare egocentrica. Fece quindi per proporgli di andare da qualche parte, ma lui indicò due fotografie più in là e domandò: «E qui, invece? È una coppa da primo posto?»
Sumire per poco non gli balzò al collo. «Sì! Una delle giornate più belle della mia vita! Lì è stato l’anno scorso, a Pechino.»
«Complimenti allora, anche se in ritardo.»
«Non si è mai in ritardo se si tratta di complimenti.»
«Mi sarebbe piaciuto vederti.»
Sumire rimase di sasso, ma poi una calda gioia le avvolse il cuore quando vide Ren distogliere lo sguardo e toccarsi il ciuffo sulla fronte.
Anche a me sarebbe piaciuto che mi vedessi. Come poteva dirglielo, visto che era stata lei a lasciarlo?
«Puoi…sempre vedermi adesso. Quando sei libero. Come oggi.» Fu un’impresa non balbettare.
Ren si limitò a sorriderle, bonario. E ad annuire, mandandola in visibilio.
«Ti va di fare una passeggiata?» propose lei. Aggiunse: «So che non sono vestita adeguatamente, ma…»
«Io non sono certo vestito meglio» rispose prontamente lui. Il solito galante: stava benissimo, anche se indossava soltanto una maglietta nera, un paio di jeans e una giacca a vento grigia.
«Sei sempre troppo gentile, Ren.»
«Affatto. Non sono uno che mente.» Ammiccò, e Sumire sorrise apertamente.
La ragazza salutò la proprietaria e i due uscirono. Non appena furono fuori, Ren le tolse di mano il borsone per portarlo al suo posto; la giovane non poté che apprezzare il gesto e provare nostalgia per il passato.
«Andiamo al parco Inokashira?» buttò lì Ren. «Ci andiamo con la mia moto.»
«Oh, hai una moto?»
«Un motorino, per la verità. Un regalo dei miei.»
«Che bello! Vorrei proprio fare un giro!»
Ren la condusse due isolati più in là, dove aveva parcheggiato il suo scooter. Era uno Yamaha Xenter 125 di colore blu elettrico. Mentre lui toglieva la catena, lei commentò: «Che carino.» Ren sorrise e salì per primo. Indossò il casco, che era dello stesso colore della moto, e porse l’altro, identico, a lei. Azionò il motore e tolse il cavalletto; Sumire indossò il casco a sua volta e mise il borsone a tracolla, quindi si accomodò dietro di lui.
«Non correre.»
«Andrò come un pazzo» replicò lui, ma Sumire vide che sorrideva ironico attraverso lo specchietto laterale.
Si inserì in strada e partì, dietro ad una berlina bianca. Sumire si sentiva in bilico: non era mai andata su una moto e aveva una brutta sensazione di instabilità, come se dovesse essere sbalzata via da un momento all’altro. E la velocità le sembrava eccessiva, anche se intravedeva il tachimetro da sopra la spalla di Ren e poteva constatare che non fosse così. D’istinto avvolse una mano attorno al busto di Ren per reggersi; lui la lasciò fare, impassibile. Sumire arrossì, ma non si scusò e, anzi, si sentì più sicura.
Il tragitto fino al parco Inokashira fu piacevole: la sensazione di instabilità era scomparsa dopo due minuti, sostituita dall’euforia della velocità. Sumire si divertì come su una giostra: la guida di Ren era agile ma prudente, un po’ come lui. Sumire si sentì leggera dietro di lui, con il vento che le scompigliava la coda e la frangia. Allentò la presa attorno alla sua vita senza staccarsi completamente, anche se non aveva più paura. Arrivarono a destinazione troppo presto per i suoi gusti, anche se il suo orologio le diceva che ci avevano impiegato ben venti minuti.
Il cielo era prossimo al crepuscolo: l’azzurro si lasciava affiancare dal rosa e dall’arancio, intervallati da leggeri cumulonembi dorati dai bordi sfilacciati. Il sole color arancio carico proiettava i suoi raggi attraverso i tronchi sottili, spandendo lunghe ombre sul terreno e sui ragazzi. Gli alberi erano mezzi spogli, come uccelli nel periodo della muta: dai loro rami, una platea invisibile accoglieva i visitatori con un tenue cinguettio, e li accompagnava in ogni sentiero, come una guida fin troppo ciarliera. Alcuni sciami di moscerini danzarono davanti agli occhi di Sumire, ma bastò scacciarli con una mano affinché si sparpagliassero. Ai piedi degli alberi o nel bel mezzo dei sentieri, cuscini di foglie palmate o asimmetriche color fango scricchiolavano sotto le scarpe dei due ragazzi. Era un rumore che a Sumire piaceva: le ricordava le carte di caramelle accartocciate, anche se meno rumorose.
«Come sono andato?» le domandò Ren, non appena si introdussero sul primo sentiero battuto tra gli alberi.
«È stato divertente!»
«Allora, dovremmo rifarlo più spesso.»
Sumire arrossì, commossa. «Mi faresti da autista personale?»
«Perché no?»
La conversazione proseguì con un semplice sorriso.
Ren prese nuovamente il borsone di Sumire e i due passeggiarono in silenzio, l’uno di fianco all’altra. Sumire godette dello scricchiolio delle foglie sotto alle sue scarpe da ginnastica, all’ombra delle ragnate fronde fulve. Un ragazzo passò loro accanto mentre faceva jogging. Non appena fu lontano, Sumire domandò: «Hai visto la mia esibizione?»
«Sì.»
«Cosa ne pensi?»
Ren non rispose subito, lo sguardo fisso di fronte a sé. Sumire si preoccupò.
«Mi è piaciuta. Sei diventata una fuoriclasse.» Ren non si limitò a quel giudizio: si complimentò con lei per aver imparato a usare bene la palla e le disse anche che il suo atteggiamento mentre danzava era cambiato. Adesso lei era più sicura di sé, aveva trovato il suo stile, disse. E i suoi movimenti erano densi dell’esperienza e dell’impegno di quegli anni. Le disse perfino di essersi emozionato, anche se non scese nei dettagli.
Sumire apprezzò molto quelle parole, anzi, si sentì lusingata: non si aspettava che lui ricordasse tanti particolari su di lei e sulla ginnastica ritmica, al punto da esprimersi in modo così ricco nonostante fosse un profano della materia. Lo ascoltò a bocca aperta, con il cuore che le si gonfiava di commozione. Non avrebbe potuto dirle nulla di più bello.
Giunsero sulle sponde del lago: lo specchio d’acqua rifletteva i colori del cielo, e sulla sua superficie piatta galleggiavano due barche solitarie. Su una di esse, Sumire scorse un padre con due bambine, sull’altra una coppia di adolescenti. Una volta, anche lei e Ren erano stati su una di quelle barche: era stato un pomeriggio, come quel giorno.
Il sole era quasi del tutto celato dalle fronde; la sua luce morbida annaspava tra i rami e le foglie, e carezzò le figure di Ren e Sumire, che si lasciarono scaldare gentilmente mentre lanciavano occhiate distratte alle barche. Sumire sedette sullo steccato che circondava il lago, e Ren la imitò, poggiando il borsone per terra.
«Non avevi da studiare, oggi? Mi avevi detto di avere un esame importante a breve» disse Sumire.
«Sì. Ho finito prima. Sono a buon punto.»
Sumire annuì, poi si guardò le mani, giunte sulle cosce. Si strinse nel giubbotto; desiderò che Ren le attenuasse i suoi brividi con un abbraccio, come faceva un tempo.
«Mi…mi ha fatto piacere che tu sia venuto a vedermi, Ren.» La ragazza gli indirizzò un sorriso dolce.
«Anche a me. Forse, ne avevo bisogno. Guardarti è rilassante. Ogni volta che ho un esame tosto potrei…»
«Ren. Ti andrebbe se ci riprovassimo?»
Il ragazzo si interruppe, la bocca schiusa. La fissava, e Sumire non riuscì a sostenere il suo sguardo.
«Lo so che sono stata io a lasciarti. Se hai dubbi, o se semplicemente non vuoi, lo comprendo. Ma…è stato così bello trovarti alla mia scuola, e senza preavviso, come facevi prima.» Sumire gli sorrise. Si sentì sciogliere sotto il suo muto sguardo.
«Ed è così bello stare qui con te ora. Io…»
«Cos’è cambiato da allora, Sumire?»
La domanda di Ren giunse traghettata da un tono mite e sinceramente curioso. Sumire scoccò un’occhiata alla coppia sulla barca: la ragazza era seduta accanto al suo fidanzato e gli teneva la testa sulla spalla. Non ne vedeva il volto perché era troppo lontana, ma era certa che stesse sorridendo beata.
«Sono cambiata io. Prima non ero pronta ad una vera relazione. Ero piccola, ed ero tutta presa dal mio sogno. E tu vivevi lontano, non riuscivo a conciliare la mia relazione con te con il resto della mia vita. Adesso, il mio sogno è vicino. Anzi, ci sono dentro: la ginnastica ritmica è il mio lavoro e la mia vita e ho un raggiunto un livello tecnico tale da poter competere in gare internazionali. Amo la mia vita, Ren. Ma…in tutto questo, mi rendo conto che manca qualcosa. Manchi tu.»
Sumire riportò gli occhi su di lui. Li sentiva lucidi. Si accorse di avere lo stomaco contratto, di essere più tesa in quel momento che non quando si era dichiarata a lui per la prima volta.
«E adesso ci sei» continuò. «Adesso sei qui. Appena l’ho saputo…» Portò una mano sul cuore, sperando che Ren comprendesse ciò che voleva dire.
Ma Ren si limitava a tenerle gli occhi addosso, studiandola in silenzio. Il suo sguardo non era risentito o diffidente: era come quel tramonto, che li abbracciava con malinconica dolcezza.
«È un po’ tardi. Ti riporto a casa.»
Recise il contatto visivo alzandosi per primo, il borsone già in mano. Si incamminò senza attenderla, le dita intente a giocherellare con la solita ciocca sulla fronte.
Sumire raggelò. Ma fu solo per un istante; quello successivo, un nodo le bloccò la gola e una lacrima le scappò dall’angolo dell’occhio destro. La asciugò, rapida, e si affrettò a seguire Ren senza una parola.
 
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Il semaforo scattò sul rosso. Ren si fermò ad un incrocio, dietro ad un’utilitaria rossa dalla carrozzeria talmente sporca che sarebbe stato possibile disegnarci qualcosa con le dita. Quando notò le piccole nubi scure che fuoriuscivano dalle marmitte delle auto circostanti, trattenne d’istinto il respiro; preferì quindi sollevare il viso verso il cielo, intravedendo qualche stella tra le nubi invisibili e i grattacieli che torreggiavano come monti sulla popolazione di Tokyo. Riprese a respirare – tanto valeva arrendersi allo smog – e abbassò lo sguardo in direzione del suo stomaco, ove scorse le mani nivee e dalle unghie rotonde di Sumire. La ragazza si stava reggendo a lui. Ormai erano vicini a casa sua: Sumire abitava ancora con i suoi – ma stava cercando un’abitazione più vicina alla scuola di danza, gli aveva detto al Leblanc. Ren ricordava fin troppo bene come arrivare a casa sua, difatti non ebbe alcuna esitazione nell’imboccare il percorso più breve.
Chiuse meglio la cerniera della giacca a vento: cominciava ad avvertire piccoli brividi di freddo lungo la schiena. Proprio allora, il semaforo virò al verde e lui ripartì.
Lui e Sumire non spiccicavano parola da quando si erano alzati dallo steccato al parco Inokashira. Ren non si sentiva in imbarazzo per quel silenzio: ne avevano bisogno entrambi, lui per riflettere, lei per calmarsi.
Quando Sumire lo aveva lasciato tre anni prima, lui ne aveva sofferto molto, anche se aveva accettato la sua decisione senza protestare e sparendo all’istante dalla sua vita. Aveva capito ciò che lei provava allora, e ne aveva ricevuto conferma quella sera quando gli aveva parlato al parco. Era stato meglio così, ne era certo, anche se a lui la distanza non aveva mai impensierito. Ora lei gli si era dichiarata, per la seconda volta…
Si immise nella strada in cui viveva Sumire, sorpassando una serie di villette a schiera che, ad una prima occhiata, gli parvero identiche a quelle che ricordava. Rallentò, fermandosi proprio davanti al cancelletto dell’abitazione di Sumire. Spense il motore e mise il cavalletto, sfilando il casco.
Rivedere la casa di Sumire gli risvegliò una serie di ricordi di loro due davanti a quello stesso cancello grigio chiaro, che si abbracciavano o si salutavano con un bacio sotto quel lampione sempre pieno di falene. Oltre il cancello, vide il piccolo vialetto, costeggiato da due siepi perfettamente curate – dalla madre di Sumire, che ci teneva particolarmente – alte quanto la sua vita e compatte come un muretto di cemento, e poi i tre scalini che conducevano alla porta di casa, grigia come il cancello e come le tegole del tetto spiovente. Fece scorrere lo sguardo tra le finestre, tutte chiuse, e localizzò quella della camera di Sumire, al primo piano, sul lato destro della casa. Intravide le tende e si domandò se le avesse cambiate in quegli anni. Quante volte lo aveva salutato da lì quando lui arrivava in anticipo e lei si affacciava, tutta contenta?
Avvertì una vibrazione nella tasca della giacca e controllò il cellulare. Era un messaggio di Ichiiro Haruka.
 
Sei libero per una birretta?
 
«Ecco a te. Ti ringrazio.» Sumire gli stava cedendo il casco. Era smontata dalla moto.
Ren lo prese, mettendo via il telefono. Sumire teneva lo sguardo basso. Aveva gli occhi lucidi e l’espressione mortificata. Gli si strinse il cuore.
Sono una persona orribile.
Sumire aveva quel potere, e non solo su di lui, sospettava Ren: il modo delicato con cui si imbronciava sarebbe stato capace di far pentire il peggiore dei criminali.
«È troppo tardi, immagino. Lo capisco» disse, stringendo le mani attorno al manico del borsone, che portava a tracolla. Alla fine, si decise a guardarlo. «Va bene così. Me lo merito. Spero che potremo restare amici e che…»
«Non potremmo mai essere amici, noi» sparò Ren. E si sentì ancora più orribile: se l’avesse pugnalata fissandola negli occhi, avrebbe avuto un’espressione meno ferita che in quel momento.
«Capisco» mormorò, distogliendo di nuovo lo sguardo. Si inchinò appena, dicendo: «Grazie per avermi accompagnata a casa. Allora, addio.»
«Ma che addio» fece Ren, mollando entrambi i caschi sulla moto. Non resistette più: smontò, la prese per le spalle per raddrizzarla e si chinò fino a premere le labbra sulle sue.
Il cuore di Ren cantò: si sentì leggero come un palloncino mentre saggiava la morbidezza della bocca di Sumire, piccola e delicata come un bocciolo di lillà. Ma non gli bastò: investì quelle labbra con una lenta cascata di baci, anche se lei se ne restava impacciata e forse confusa tra le sue mani, anche quando schiuse la bocca senza ricambiare – ma senza respingerlo. Finché non sentì le ginocchia molli e pensò che fosse più prudente fermarsi.
Fu così che si ritrovò addosso gli occhi enormi di Sumire, che lo colpivano come la luce di un fanale in una strada senza lampioni. Trattenne un sorriso divertito – o isterico – e la trovò bellissima, come l’aveva sempre trovata dal primo momento che aveva posato gli occhi su di lei. Si accorse che le stava stringendo le spalle troppo forte, quindi allentò la presa, pur senza lasciandola andare.
«Ren…non ti capisco» boccheggiò lei.
Ren non poté fare a meno di sorridere. «Colpa mia. Perdonami.»
«Volevi…farmela pagare un po’. Vero?»
«Già. Scusami.»
«Almeno, smetti di sorridere in quel modo, se vuoi che ti creda.» Per tutta risposta, il sorriso di Ren si allargò; era in brodo di giuggiole – non si sforzò nemmeno di camuffarlo. Smise solo perché Sumire gli saltò al collo e riprese da dove lui si era interrotto, travolgendolo in un vortice di baci di petali che gli fece perdere la cognizione del tempo, del luogo e di sé stesso.
Quando si staccarono, a malincuore, Ren si accorse che aveva avviluppato la ragazza in un abbraccio, e che lei aveva affondato le mani nei suoi capelli. Si sorrisero per qualche secondo, come i ragazzini che erano stati. Ren si sentì tra le stelle.
«Domani…verrai?» sussurrò lei. Ren dovette ricorrere a tutta la sua forza di volontà per non gettarsi insieme a lei in un nuovo turbine di baci.
«Tutti i giorni» soffiò.
«Ma devi studiare…»
«C’è la notte, e la pausa pranzo…e altri momenti.»
Sumire sorrise, raggiante, e Ren pensò che sarebbe andato a vederla per tutta la vita, dovunque, anche in capo al mondo.
«Magari, domani verrò io da te. Vorrei vedere dove vivi. Ti farebbe piacere?»
Tutto quello che vuoi, pensò Ren, ma replicò semplicemente annuendo.
«Bene. Allora…a domani?»
«A domani.» Sumire gli impresse un nuovo bacio sulle labbra e si staccò lentamente da lui. Ren mantenne il contatto visivo con lei mentre si allontanava, si dirigeva al cancello, cercava le chiavi nel borsone e lo apriva; e anche quando lo chiuse e si avviò lungo il vialetto, voltandosi ad ogni passo per sorridergli, e quando aprì la porta di casa e gli inviò un bacio volante con la mano. E anche quando, infine, chiuse la porta con deliberata lentezza.
Ren rimase a fissare la porta chiusa sorridendo come un ebete per un tempo indefinito. Era impaziente che giungesse l’indomani. Si costrinse a tornare alla moto, quindi mise il casco di Sumire nel bauletto posteriore della moto e indossò di nuovo il suo.
«Ti sei dimenticato di me un’altra volta.» La voce di Morgana, stizzita, lo raggiunse da tergo. Ren gli sorrise con un’espressione di scuse. Il micio balzò sulla moto, tra i suoi piedi, mentre lui diceva: «Ottimo tempismo. Non avrei saputo dove venirti a cercare.»
Morgana occhieggiò nel buio. «Io sì, invece. Sapevo benissimo che ti avrei trovato qui.»
Ren arrossì, certo che Morgana avesse seguito la scena dall’inizio alla fine. Poi, però, si limitò a sorridere e ad accendere il motore.






NDA: il titolo significa "Il giusto tempo"
  
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