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Autore: arashinosora5927    01/05/2021    2 recensioni
Io prima di te, o più nel dettaglio il passato di Gokudera dalla nascita con particolare focus sul giorno in cui abbandona il castello, passando per il canon di Bakudan Bambino, esplorando i cinque anni che ha trascorso a vivere per strada prima che incontrasse Tsuna.
[accenni5927] [59 centric]
Genere: Angst, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Shonen-ai | Personaggi: Bianchi, Hayato Gokudera, Tsunayoshi Sawada
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
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L'alba era passata da un pezzo quando i raggi del sole illuminarono via Cervello destando Hayato da quello che era un sonno senza infamia e senza lode. In realtà più che la luce a svegliarlo fu il rumore assordante di un trapano e la voce scura di uomo che in dialetto ordinava ai suoi sottoposti di darsi una mossa.

Hayato sollevò piano la testa dal marciapiede, ne aveva stampata la forma sulla guancia che vi aveva appoggiato. Si stiracchiò percependo tutto il freddo che era penetrato nelle sue ossa nella notte e si ricordò un cancello arrugginito.

Guardò i bei vestiti di sartoria che ancora indossava, erano tutti impolverati. Passò le mani sulle gambe nude, lì dove i pantaloncini troppo corti non potevano proteggerlo e le trovò sporche anche esse.

Volse lo sguardo attorno e riconobbe quello che la sera prima aveva individuato come un portico, lo vide ergersi sopra delle scale che non ricordava di aver sceso e si rese conto che in realtà si era intrufolato in un cantiere.

"Chi fai ddrocu nicu?" gli domandò un operaio, stava trasportando delle travi di legno che sembravano piuttosto pesanti, ma senza difficoltà.

Hayato alzò un sopracciglio, gli ci volle un istante per rendersi conto che ce l'aveva con lui, ma non sapeva assolutamente cosa quell'uomo avesse detto.

Era multilingue, ma il dialetto Palermitano mancava alla lista e neanche impegnandosi con tutte le sue forze avrebbe saputo venirne a capo con la traduzione.

Supponendo che gli stesse dicendo di togliersi dalle palle Hayato fuggì rapidamente lontano da quel sito di costruzione e vagò per una strada malmessa dove si ergevano molteplici edifici sventrati.

Un brontolìo nello stomaco gli ricordò che non aveva fatto merenda né cenato e stando alla posizione del sole nel cielo aveva anche saltato la colazione.

Si voltò verso destra, così come soleva fare.

"Elisa..." disse fermandosi all'inizio della frase.

Non c'era nessuna Elisa che gli avrebbe portato i cornetti del suo chef personale ripieni di marmellata di aramarene. Non c'era nessuno chef personale in effetti, perché non c'era più nessun castello.

Si sarebbe dovuto sentire smarrito invece percepì un grande senso di libertà respirandolo a pieni polmoni.

Si disse che avrebbe raggiunto il centro e una volta su via Settimo avrebbe indossato la migliore espressione angelica di cui era capace per impietosire qualche donna dall'aria gentile.

Hayato non sapeva quanto fosse lontano dalla via dello shopping, ma la faccia di cazzo per chiedere ai passanti informazioni non gli mancava, sperava solo che non gli rispondessero in dialetto.

Così seguendo le direttive raggiunse la sua meta in meno di mezz'ora e puntata la preda si avvicinò sorridendo, tenendo le braccia lunghe e le mani intrecciate dietro la schiena come se fosse un bimbetto qualunque, spensierato e giocoso.

"Mi perdoni, bella signora, non è che per caso avrebbe qualche lira da prestarmi? Oggi è il mio compleanno e ho visto un bel gioco in vetrina,  me ne mancano poche per raggiungere la cifra desiderata. Mi rincresce disturbarla, ma mio padre sta lavorando duramente per permettermi di indossare questi abiti e non voglio debba preoccuparsi anche dei miei capricci."

Esattamente come previsto la povera vittima si intenerì e rimase stregata dalla proprietà di linguaggio di Hayato.

"Ma certo, piccolo. Quanto ti serve? Dillo alla zia Claudia, ti aiuto io."

La donna prese la borsa, aprì un portafoglio dall'aspetto costoso e tirò fuori una banconota con una grafica che Hayato non aveva mai visto.

"Lo so, amore, ma non ti preoccupare. Queste sono Euro, diventeranno presto la nostra valuta. Sono valide eh e ci compri molte più cose. Ti lascio una venti, fatti un bel regalo" disse, si allontanò lasciando Hayato attonito con una strada banconota blu tra le mani.

Hayato entrò nel primo bar che trovò sulla strada e chiese un croissant ripieno di marmellata di amarene. Il barista rise e chiamò il collega perché ridesse anche lui.

"Gigi, questo bambino crede di essere in Francia" scherzò.

"Non ce li abbiamo, vostra grazia" disse con lo stesso tono di scherno.

Hayato rimase profondamente sconvolto.

"Li avete finiti?" domandò fiducioso.

"No" ribatté immediatamente il collega.

"Non li facciamo. Ti sfido a trovare qualcuno in tutta la Sicilia."

Hayato mantenne un silenzio confuso, dietro di lui c'erano altre persone che spingevano per riuscire a vedere cosa era esposto nella vetrinetta.

"E poi l'orario della colazione è finito da un pezzo" sentì commentare una voce femminile alle sue spalle.

Hayato sentì addosso un senso di smarrimento, era cresciuto nella convinzione che nella sua patria quello fosse un piatto più che reperibile, addirittura diffuso, invece apparentemente era una cosa solo sua, anzi del suo chef personale perché a Palermo al massimo un croissant con le amarene lo poteva trovare assieme alla crema pasticcera, ma erano amarene candite e di scarsa qualità.

"Devi darti una mossa, però" lo richiamò il barista.

"Che cosa è rimasto?" domandò Hayato confuso.

"Come croissant"- disse il barista imitando l'accento francese di Hayato - "ci è rimasto solo questo ripieno di miele e noci."

Hayato ricordò le parole di Diana, lui era allergico a qualcosa, qualcosa che non sapeva come si chiamasse né dove fosse. Avrebbe voluto tanto essersi portato la cartella clinica... almeno quella.

"Va bene" disse impulsivamente, pagò con la banconota sotto i piccoli sussulti di stupore dei baristi, si fece dare il resto che badò bene a dove intascare e si mise seduto a un tavolino all'interno del bar.

Studiò attentamente il cornetto, la pasta il ripieno. Si rese conto che questa era la prima volta che mangiava qualcosa che non fosse stata attentamente supervisionata da un adulto in grado di stabile se fosse o meno sicura per il suo organismo.

Dopo qualche istante si convinse a dare il primo morso e sentendo il sapore quasi insignificante gli venne da sputare. Accolto il cibo a malapena masticato nel tovagliolo con poca assorbenza decise di fare un secondo tentativo e questa volta mandò giù il boccone.

Non era il massimo, ma a quanto pareva era questa la tendenza per le persone, questa la qualità a cui i più potevano avere accesso.

Non aveva mai capito i suoi privilegi, quelli che non mancava giorno suo padre gli rinfacciasse.

Sentì il naso pizzicare e scacciò le lacrime, non ne avrebbe versata neanche più una per quel maledetto traditore.

Finì la pasta ripiena e bevve un po' d'acqua che gli venne portata assieme a qualche biscottino, offerto da una coppia al tavolo di fronte al suo. Si rese conto che gli conveniva abituarsi a quei nuovi sapori, per nulla all'altezza del suo palato sopraffino, ma forse proprio per questo più speciali.

Uscì dal bar ringraziando più volte i baristi e la coppia e si diede nuovamente uno sguardo intorno.

Era l'inizio di un nuovo capitolo della sua vita, uno bellissimo, ne era sicuro. Senza suo padre addosso, senza Clara o Bianca sarebbe potuto divenire facilmente un assassino professionista, il futuro dei Bianchi non pesava più sulle sue spalle.

Si sentì leggero, vide spuntare le proprie ali, spezzarsi le catene e sentì di potersi librare in volo, come quegli aeroplanini di carta che non era riuscito a colpire. Non ci sarebbe stata nessuna dinamite che lo avrebbe fatto cadere al suolo.

Iniziò a riflettere, a stomaco pieno era più facile. Aveva bisogno di un mentore, qualcuno che gli mostrasse la via. Passò in rassegna tutti i nomi più importanti delle famiglie alleate o che ricordava tali e si disse che aveva solo l'imbarazzo della scelta.

Un po' in soggezione iniziò a chiedere indicazioni per la villa dei Cimmino, loro sicuramente avrebbero compreso il suo potenziale, il boss si sperticava sempre in calorosi complimenti dopo ogni sua esibizione.

Comprese che la gente aveva paura di quel cognome quando solo a nominarlo le persone urlavano e scappavano. Si chiedeva sinceramente cosa sarebbe successo utilizzando il suo di cognome.

Alla quarta persona che strillò solo alla menzione Hayato assunse un atteggiamento spavaldo e dispotico.

"Sono un Bianchi" - disse - "portami da loro e non ti succederà niente di male."

Tremò solo a sentirsi parlare, era spaventoso. Suo padre lo aveva visto esprimersi e disgraziatamente doveva aver introiettato non solo la modalità, ma anche l'aura.

Comunque grazie al terrore impresso negli occhi di quel malcapitato passante riuscì a raggiungere la residenza dei Cimmino.

Ad aprirgli la porta c'erano tre uomini, uno di questi aveva una benda sull'occhio sinistro, simbolo di un'antica ferita d'onore, un altro aveva un taglio che andava dal mento all'area sotto all'occhio sinistro, stavano uno di fronte all'altro sullo stipite della porta, il terzo aveva gli occhiali da sole e una pistola ben piazzata pronta a sparargli contro in qualsiasi momento.

"Che vuoi?" domandò quello con la benda sull'occhio.

Hayato intravide dietro gli uomini seduto su una poltrona uno dei più fidati sottoposti del boss.

"Pasquale!" chiamò certo che l'uomo lo avrebbe riconosciuto.

"È roba tua?" domandò quello col taglio sulla guancia girandosi verso l'uomo.

Pasquale si alzò in piedi mantenendo la sua grossa pancia e si trascinò all'entrata.

"Non l'ho mai visto" disse dopo aver scrutato attentamente Hayato.

Il bambino stava per ribattere, ma fu fermato dall'uomo con la pistola che gliela puntò alla fronte.

"Identificati" disse.

"Perdonate" mormorò Hayato facendo un gesto con le mani che sapeva significare rispetto per la famiglia.

L'uomo abbassò subito la pistola.

"Sono Hayato Bianchi, chiedo umilmente di unirmi alla vostra famiglia. Voglio essere un sicario" disse il piccolo.

L'uomo che rispondeva al nome di Pasquale assunse un'aria pensosa, gli uomini accanto a lui gli rivolsero uno sguardo.

"Alfonso è così disperato che ci manda l'erede?" commentò quello con la benda sull'occhio ridendo sguaiatamente.

"Ma tu sai chi è? Mi ricordo la femmina, tiene pure un maschio?" domandò quello con la pistola in mano.

Pasquale sembrò colto da un'illuminazione.

"Ho capito, quello che suona sei tu" disse.

Gli occhi di Hayato brillarono, il piccolo accennò un inchino.

"Signor Pasquale, perdonate la mia insolenza se vi chiamo per nome, voi apprezzate tanto le mie composizioni, ho pensato che possiate comprendere il mio potenziale."

L'uomo con il taglio sotto la guancia iniziò a ridere.

"Certo, come no... il potenziale tiene lui."

Pasquale annuì.

"Molto potenziale tieni, come pianista però. Continua a studiare che poi ti vengo a vedere a teatro, va bene?" disse, senza permettere ad Hayato di ribattere rientrò nell'abitazione.

"Ma signor Pasquale.." cercò di insistere Hayato.

L'uomo con la pistola gli si avvicinò, la ripose nel fodero e lo guardò dritto negli occhi.

"Non hai sentito? Qui non ci servono femminucce che sanno solo suonare il piano, torna da paparino."

Hayato si vide chiudere la porta in faccia, letteralmente oltre che metaforicamente, cercò di dire che aveva delle tecniche efficaci e innovative, ma nessuno lo ascoltò.

Sospirò, i Cimmino erano solo i primi di una lunga lista di famiglie a cui avrebbe fatto domanda.

Senza indugiare ricercò i Mineo, Lorenzo, il boss era un amico fidato di suo padre il che faceva di lui un potenziale stronzo, ma anche un potenziale mentore.

Con la stessa strategia riuscì a trovare la residenza e ne uscì solo con un gentilissimo.

"Torna a casa, ragazzino. Tuo padre sarà in pensiero."

Hayato si risparmiò di rispondere "col cazzo!", consapevole che suo padre era talmente in pensiero che nessuno era ancora venuto a cercarlo.

Tra un rifiuto e l'altro desiderò che suo padre gli avesse insegnato di più come essere un mafioso piuttosto che come farsi proteggere e servire da questi. Non voleva essere un boss e inoltre era fermamente convinto che il boss dovesse essere il più forte ed esposto, non quello che sguazzava nel lusso e nel piacere mentre i suoi uomini sguazzavano nel sangue.

Aveva finito la lista e il panino con prosciutto e mozzarella che stava mangiando seduto sul marciapiede era amaro quanto la consapevolezza di aver fatto male i calcoli.

Non ricordava più nomi, ma gli sovvenne un cognome che forse poteva andare.

"De Nittis."

Gli parve una piccola stella luminosa che improvvisamente sembra prendere tutto lo spazio nel cielo.

Non ricordava chi fossero né in che rapporti fossero con la sua famiglia, ma a questo punto non aveva più importanza. Non era un Bianchi, non sentiva di esserlo, non ci si era mai sentito e non lo sarebbe mai più stato. Sarebbe diventato tutto, qualsiasi cosa volessero, l'importante era perseguire il suo obiettivo, fare esperienza oltre che farsi un nome.

"Il figlio della sventola."

"Ah, la bottana?"

"Quello bastardo, il mezzo sangue."

"Metà bottana e metà stronzo."

Queste furono le parole con cui la sua richiesta fu accolta da quegli uomini che sebbene indossavano gli stessi vestiti che aveva visto per tutta la vita sembravano così diversi dagli uomini che conosceva e molto più cattivi.

Uno di loro si avvicinò con un sorriso inquietante, aveva dei denti d'oro incastonati nella bocca. Prese Hayato per il colletto della giacca e lo sollevò come se fosse un oggetto.

"Stronzetto, ascoltami bene, non sai fare assolutamente un cazzo e quelle manine che ti ritrovi non vanno bene neanche per farci le seghe. Secondo te potremmo mai affidare la vita del nostro boss a uno come te? Non esiste una sola famiglia in tutta l'Italia che ti prenderà mai e questo è perché ci servono uomini veri, non froci abituati pure a dare comandi. Gira a largo o ti faccio sparare, non me ne fotte un cazzo di chi è tuo padre."

Con queste parole l'uomo lo scagliò letteralmente fuori dalla porta, facendolo atterrare sul terreno umidiccio.

Hayato si guardò, percepì il tremore ancora in circolo e la paura che aveva solo vagamente cercato di trattenere. Lasciò andare una lacrima, ne lasciò andare due, si chiese come avrebbe fatto a pulirsi ora che non aveva neanche la possibilità di reperire un asciugamano.

Quell'uomo gli aveva detto molte cose davvero offensive, forse tra le più offensive che gli avessero mai detto. In una sola giornata aveva collezionato talmente tanti insulti da fare overdose e la sua autostima già inesistente era a pezzi.

Si alzò trascinandosi fuori dal fango, ripensò ai Rossi, che aveva scartato a prescindere memore di quanto si fosse arrabbiato il boss per l'influenza a suo parere negativa che Hayato aveva avuto sulla figlia, si convinse che era meglio non tentare ulteriormente la fortuna visto che come al solito non era dalla sua parte.

Niente era andato secondo i piani e ora che la sera iniziava a calare Hayato si trovava in compagnia della solitudine, ma senza un piatto caldo rigenerante.

Frugò in una tasca, aveva ancora circa quindici euro, poteva tranquillamente farci una cena, un altro pasto dal sapore insignificante e triste.

Sporco di fango nessuno volle farlo sedere così dovette accontentarsi dell'asporto. Si mise su un marciapiede e pianse in silenzio assaporando ogni boccone.

Si domandò dove avrebbe dormito ora che nessun letto caldo era stato sistemato per lui, comprese che il materasso per quella notte sarebbe stato proprio lo stesso marciapiede e si addormentò cullato solo dai suoi singhiozzi.
   
 
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