Midge aveva
deciso di prendersi una pausa dal palcoscenico, dopo il frenetico
vortice di
insicurezza in cui era caduta una volta abbandonata da Shy Baldwin
sull’orlo
del suo sogno, o meglio, sulla pista dell’aeroporto in cui
l’attendeva un
magnifico areoplano che avrebbe dovuto condurla in
quell’agognato mondo cabarettistico
europeo che le era stato promesso.
Si trattava, in realtà, di una voragine interiore che Shy
aveva aperto suo
malgrado, un vuoto di cui Midge non era consapevole ma la cui tardiva
conoscenza le aveva procurato almeno tanto dolore quanto era stata in
grado di
infliggerne.
Midge
conosceva piuttosto bene il senso di sfiducia nei confronti delle altre
persone
che ora provava Shy. Anzi, la sua esperienza le aveva insegnato che
purtroppo di
solito erano le persone più care a compiere i peggiori atti
di tradimento… Eppure,
nemmeno una volta da quando Joel l’aveva lasciata aveva
pensato che sarebbe
potuto capitare a lei di sedersi dalla parte dell’imputato,
di mancare così
sensibilmente di delicatezza nei confronti di un amico a cui voleva
bene
davvero. Forse, tutto questo l’avrebbe portata a giudicare
con maggiore
clemenza gli errori commessi dal suo ex marito, scoprendosi
sorprendentemente
molto più fragile e imperfetta di quanto non si fosse mai
reputata in vita sua.
Ciò
che la
infastidiva di più era l’egoismo che
l’aveva spinta a servirsi della storia
personale di Shy per salvarsi dalla paura del fallimento. Anche se si
trattava solo
di battute, che probabilmente la gente non avrebbe preso seriamente, la
sua
mancanza di freni inibitori non aveva tenuto in alcun conto i
sentimenti di chi
sapeva perfettamente che non si trattava affatto di uno scherzo.
Per quanto potesse autoconvincersi di aver agito in buona fede, Midge
non
poteva neanche sperare di arrivare a un chiarimento con Shy: Reggie le
aveva
consigliato di non insistere, altrimenti il “suo”
Shy si sarebbe irritato e
avrebbe rovinato col suo umore l’entusiasmo di tutto il team,
quindi il
successo dell’intero tour.
Non era la prima volta che le accadeva di ferire qualcuno, a pensarci
bene.
Se con Benjamin non era stata precisamente la sua bocca a fare danni ma
la
penna vigliacca che l’aveva guidata a scrivere un addio su di
un immacolato
foglio bianco, questa volta nessuna scusa poteva reggere al fine di
mantenere
intaccata l’immagine di sé che si auto dipingeva
da quando era nata. Era o non
era Miriam Maisel la salvatrice in extremis di
qualsiasi situazione
difficile, di imprevisti o di relazioni in crisi, come quella dei suoi
genitori
o quella tra Imogene e Archie? Era o non era Midge Maisel la
mediatrice, la
sollevatrice dei cali di autostima altrui? Nel suo cuore sentiva di
volere
prima di tutto il bene di coloro che amava, persino della prima persona
che le
capitava di incrociare per strada e per la quale provava
un’istintiva simpatia.
Troppo spesso, però, da quando il suo matrimonio era andato
in pezzi, si era
dimostrata naïve e tendente a praticare
qualcosa che la vecchia Midge
non avrebbe mai fatto: fallire come tutti gli esseri umani, anche e
soprattutto
nelle piccole cose così come nei rapporti sociali
fondamentali.
E adesso,
addirittura fare shopping aveva perso il suo solito brivido. Midge
sedeva ad un
tavolino di un coloratissimo bar, in grado di attirare
l’attenzione persino di
un miope nell’estiva e serale New York City. Sedeva, dunque,
sorseggiando con
una cannuccia una banalissima limonata, mentre aspettava insieme ad
Esther che
Ethan finisse la lezione di pianoforte. Le stonature sulla tastiera si
potevano
avvertire anche da lì: un chiaro segnale che il futuro di
Ethan non sarebbe stato
nella musica. Anche il suo adorato Martini Dry era
stato sostituito da
una versione molto più sbiadita che ben si addiceva al suo
stato d’animo, ma
l’incredibile anticipo con cui si era recata dal maestro di
musica confermava
più di qualunque altra cosa il drastico cambiamento di vita
che stava
affrontando negli ultimi mesi.
A quel
punto, non le restava che sfogliare svogliatamente le pagine
dell’ultima
rivista di Vogue per ingannare l’attesa e
impartire a sua figlia le
prime lezioni in fatto di stile. Se non fosse stato per
l’interruzione di una
bambina intenzionata a fissarla con lo stesso sguardo inquietante di
suo
figlio, quando assumeva il vizio di sbucare dal nulla la mattina nella
sua
stanza senza motivi apparenti, era sicura che la piccola Esther fosse
stata catturata
dall’immagine del bellissimo tailleur rosa in copertina.
Soddisfazione, questa,
non da poco per una madre come lei.
“Ti
sei
persa, per caso?” Midge rispose allo sguardo della bambina
con un’espressione
dolce e divertita al tempo stesso. Sistemò Esther nel suo
passeggino e guardò
l’orologio che aveva al polso: mancavano ancora dieci minuti
alla fine di quel
supplizio acustico che proveniva dal primo piano
dell’appartamento di fronte al
bar.
La bambina
non disse nulla, ma si limitò a scrollare le spalle. Pe un
breve istante Midge
ebbe l’impressione che quel viso non le fosse del tutto
estraneo, anzi, quella
scrollata di spalle aveva un’aria vagamente familiare. Midge
si sforzò di
ricordare, ricollegando mille volti di gente conosciuta con quello
della
ragazzina bionda che aveva davanti. Doveva avere, su per
giù, la stessa età di
suo figlio Ethan, ma presto Midge si arrese
all’insolubilità dell’enigma e
pensò
che fosse più produttivo avviare una conversazione con lei.
“Se
hai
perso la voce, forse un bicchiere di limonata potrebbe aiutarti a
fartela
tornare. Vuoi che te ne ordini un po'?” Adesso, il tono della
voce di Midge era
diventato ancora più affabile e si poneva in netto contrasto
con l’assoluto
mutismo della ragazzina, la quale sembrava studiare il suo viso come se
anche
lei cercasse di ricordarsi dove avesse potuto incontrare una signora
così
affascinante. Midge ordinò altre due limonate e
invitò la piccola a sedersi
accanto a lei, con un semplice gesto della mano.
“Sai,
di
solito le bambine non girano da sole a quest’ora. I tuoi
genitori saranno in
ansia per te.”
Dopo un
breve sorso di limonata, la bambina pronunciò un laconico
“Può darsi”, gettando
di tanto in tanto un’occhiata all’angolo della
strada, quasi si aspettasse di
vedere qualcuno sbucare da lì dietro. Evidentemente era
fuggita di casa e la
stavano cercando, ma la bambina non aveva intenzione di farsi trovare
tanto
facilmente.
“Questa
è
mia figlia Esther e io mi chiamo Miriam. Midge se preferisci. Tu,
invece, come
ti chiami?”
“Kitty.
Comunque, grazie per questa…” e indicò
il bicchiere mezzo vuoto, “E’ stata
molto utile”.
Midge si
accigliò leggermente, “Mi sa tanto che tu abbia
fatto una bella corsa per
arrivare fin qui, ma ovviamente non mi spiegherai il perché,
vero?”
Kitty,
infatti, scosse la testa.
“Non
ti ho
sentita arrivare per via di questo…” e
alzò una mano in aria, riferendosi al
baccano assordante prodotto dalle manine poco sincronizzate di Ethan.
Kitty
annuì, dimostrando di essere piuttosto sveglia per la sua
età.
Quando
calò
giù il silenzio, entrambe tirarono un sospiro di sollievo e
si rivolsero uno
sguardo complice. Tuttavia, proprio in quel momento Esther
iniziò a
piagnucolare per richiamare su di sé l’attenzione
di sua madre. Così, Midge
dovette alzarsi e prendere in braccio sua figlia per calmarla un po'.
Mentre era di spalle, Kitty si strinse alla sua gonna di tulle color
cipria,
lasciando intuire a Midge che il gioco del nascondino era finito e che
ora la
piccola aveva paura del rimprovero dei suoi genitori, o di chiunque la
stesse
cercando.
Quando si
voltò, Midge vide una bellissima ragazza, bionda come Kitty,
correre
freneticamente verso la loro direzione. Una volta raggiunto il
tavolino, la
giovane si inginocchiò all’altezza di Kitty e
l’abbracciò intensamente, come se
non volesse lasciarla più. Dopo qualche minuto, si
rialzò cercando di ripulirsi
le gambe e la gonna dallo sporco della strada. Era molto provata e con
gli
occhi lucidi guardò Midge, “Grazie per averla
fermata, altrimenti chissà dove
sarebbe ora!”
“Si
figuri!
Kitty si è già pentita e mi stava appena
comunicando dove avrei dovuto
accompagnarla, giusto?” Fece l’occhiolino alla
bambina, la quale non riuscì a
non nascondere un piccolo sorriso pieno di riconoscenza.
Ethan
andò
loro incontro con un’espressione scocciata e gli spartiti
nella cartella sotto
il braccio, “Mamma, possiamo andarcene, per favore?
Papà mi ha promesso che
avremmo mangiato la pizza oggi!”.
Midge gli
accarezzò i capelli, “Credimi, amore, anche noi
non vedevamo l’ora di
andarcene! Prima, però, dovresti presentarti a queste due
signorine, altrimenti
che razza di gentleman saresti?”
Ethan si
sforzò di tendere la mano a Kitty, “Io sono Ethan.
Adesso possiamo andare?”
Aggiunse, rivolgendosi implorante a sua madre. Midge alzò
gli occhi al cielo e
si scusò con la giovane per i modi frettolosi del figlio.
“Perdoni
la
curiosità, e anche la mancanza di discrezione,
signora…” attese che le venisse
rivelato il nome della sua nuova interlocutrice.
“Honey
Bruce. Oh, no! Honey
Harlow. Mi scordo
sempre di dover usare il mio nome da nubile ora!” Le porse la
mano e la strinse
energicamente. Bruce, eh? Possibile che Kitty fosse la figlia di Lenny
Bruce?
Sì, la somiglianza era notevole, eppure Midge si domandava
perché non fosse
riuscita a coglierla prima. Certo, sapeva che Lenny aveva una figlia,
tuttavia,
stentava a vederlo nei panni di padre, non perché non fosse
premuroso o altro,
semplicemente perché Lenny dava l’impressione di
essere totalmente indipendente
e conduceva da sempre una vita alquanto instabile per garantire la
propria
presenza in quella di una bambina. Questa scoperta l’aveva
lasciata
letteralmente senza parole…
“Mamma,
lei
si chiama Midge.” Disse Kitty, tentando di riempire un vuoto
di parole che
iniziava a diventare imbarazzante.
Midge si
risvegliò da quella specie di torpore in cui era caduta e
continuò, “Signora
Harlow, perché Kitty si è allontanata da casa?
Voglio dire, anche io una volta
tentai di fuggire da mia madre quando ero molto piccola, ma il motivo
della
fuga era molto più futile di quanto possa immaginare. Mi ero
innamorata di un
cappellino che avevo visto in una boutique del centro e non accettavo
il
rifiuto di mio padre, così andai da sola e lo acquistai con
i soldi della mia
paghetta, messi da parte per mesi!”
Kitty rise
di gusto, mentre Honey si sfregò la fronte e si sedette un
attimo, “Oggi Kitty
è tornata da me, dopo aver trascorso il weekend con
suo padre.
Evidentemente non devo esserle tanto simpatica quanto Lenny!”
Non sapeva
cosa fare o cosa dire. Era abbastanza sicura che Lenny non avesse mai
parlato a
Honey di lei e, anche se tra di loro non era accaduto nulla di
più di quanto
fosse conveniente in una comune amicizia tra uomo e donna, una parte di
lei si
sentiva inibita: in Florida avevano quasi superato il limite e poteva
ancora
sentire le farfalle nello stomaco che aveva provato sulla soglia della
stanza
del motel in cui soggiornava Lenny, persa in quei meravigliosi occhi
dolci immersi
nei suoi. Sarebbe potuto scattare un corto circuito per via
dell’elettricità
presente tra di loro in quel momento. Ciò nonostante, Midge
aveva preferito
rimandare le scintille ad un tempo diverso da nemmeno lei sapeva cosa,
sperando
possibilmente in un’occasione perfetta.
“Dov’è
ora
Lenny?” Osò chiedere timidamente, aspettandosi una
reazione quantomeno stupita
da parte di Honey.
“E’
qui a
New York. Mi pare strano che lei possa rientrare nel pubblico di Lenny,
anche
se non c’è mai limite alle stranezze della vita.
È una sua ‘amica’?” La
scrutò
attentamente, in cerca di prove estetiche che avvalorassero la sua
tesi. Non ne
trovò alcuna.
Midge
faticò
a restare in equilibrio, da una parte trascinata dalla mano di Ethan e
dall’altra con il braccio addormentato dal peso di Esther,
“Una delle sue fan
più accanite, direi. A tal proposito, sarebbe
così gentile da farmi un favore?”
Honey
assentì, facendole un cenno con la riccioluta chioma dorata.
“Gli
direbbe
che Midge Maisel lo sta cercando? Tenga...”
Rovistò nella borsetta alla ricerca
del suo taccuino e di una penna, poi affidò Esther a Honey
per poter scrivere
qualcosa appoggiandosi al tavolino del bar. Staccò un
foglietto e lo ripregò
per bene, rendendo chiaro che il messaggio era indirizzato solo e
soltanto a
Lenny.
Honey prese
il biglietto e restituì la piccolina a Midge. La sua
espressione tradiva una
certa curiosità, ma seppe trattenersi. Si congedarono in
maniera amichevolmente
sbrigativa, prendendo direzioni opposte. Entrambe, però,
sentirono l’impellente
bisogno di voltarsi per un istante, giusto il tempo di
un’ultima occhiatina che
potesse chiarire alcune cose rimaste irrisolte.
“Ma quella non era, per caso, la donna con
l’elegante abito verde che aveva
pagato la cauzione di Lenny, mentre lei moriva di caldo sul sedile
posteriore
di un taxi?” Si chiese Honey, senza sapere che Midge
scandagliava la sua
memoria per ricordare dove avesse visto prima l’ex moglie di
Lenny Bruce, con
un pizzico di invidia nel petto.